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autore: Autore: Cristina Pesci

Sentimenti e adolescenti

Gli educatori e i tecnici hanno cercato di lavorare non solo sul piano della motricità, degli apprendimenti, dei comportamenti ma anche sui sentimenti dei ragazzi. Un luogo che crea occasioni più che regole, percorsi più che appuntamenti
Nasce il Centro Fandango

Fandango è una proposta educativa offerta dall’Aias (Associazione italiana assistenza agli spastici) a un gruppo di adolescenti disabili. Il suo nome, il suo progetto dinamico e variabile nel tempo, le scelte delle modalità di presa in carico degli utenti e delle loro famiglie, il continuo confronto con i referenti AUSL, la permanenza a tempo determinato degli utenti che lo animano, la presenza a 15 ore settimanali di una Pedagogista e di un medico- psicologo, l’orario degli appuntamenti e degli incontri che lo caratterizzano, hanno costruito una identità visibile nel panorama dei servizi per persone disabili di Bologna. Questa identità è stata riconosciuta da un lavoro che in otto anni ha visto alternarsi la collaborazione ricca e ripetuta con i neuropsichiatri infantili delle AUSL attraverso il rinnovato inserimento di utenti adolescenti, in uscita dalle scuole medie.

La relazione ed il coinvolgimento

L’adolescenza, l’età giovanile, nonostante la presenza di deficit spesso gravi (tali comunque da non permettere l’inserimento dei ragazzi all’interno di percorsi formativi professionali o scuole superiori) sono il cardine primario su cui si sono costruiti idee e progetti di lavoro del Centro. Attorno a questa primaria realtà legata alla età degli utenti, si sono sviluppati binari privilegiati sui quali hanno preso forma le finalità e la metodologia del Centro. Il lavoro imposta le sue basi sulla RELAZIONE e sul COINVOLGIMENTO e dipana i suoi principi verso tre direzioni:

– dimensione soggettiva dell’utente ( ciò che è, che pensa, che desidera, che racconta …)
– dimensione familiare
– dimensione relazionale
– con i coetanei
– con adulti significativi (educatori e altre figure che dall’esterno collaborano con Fandango).

La CREAZIONE di LEGAMI umani e con l’ambiente, la loro motivazione, la responsabilità che ne deriva, lo scambio tra persone interessate a conoscersi e a percorrere un tratto di strada insieme, sono l’oggetto su cui si sofferma il lavoro degli operatori (educatori e tecnici: gli ET come è spiegato nella pubblicazione "Da Nippur a Ebron", a cura del Centro Fandango).
Questo sfondo, comune a ciascuna successiva scelta operativa, necessita di un continuo confronto tra tutte le figure che vi partecipano: in gioco sono i legami tra gli utenti, con gli operatori; le relazioni degli operatori tra loro; lo scambio con le famiglie e non ultima la collaborazione con i colleghi dei servizi AUSL.
Questa precisa IDENTITA’ di intervento si è sviluppata, accresciuta, modificata nel tempo in cui Fandango ha svolto la sua attività, perché diversi nel tempo sono stati gli utenti, le famiglie, le loro reazioni, gli incontri con la quotidianità esterna, le referenze, le scelte dei servizi, gli interessi,

L’attenzione ai sentimenti

Invece di limitarsi a volere indurre nei ragazzi che accedevano al Centro prestazioni più normalizzanti sul piano della motricità, degli apprendimenti, dei comportamenti, l’attenzione degli operatori (ET) ha cominciato a rivolgersi ai sentimenti suscitati dalle disabilità per cercare di capire anche i motivi che stanno dietro alcune condotte dei ragazzi. A poco a poco le nostre idee sugli interventi da usare sono andati sempre più modificandosi e sintonizzandosi.
Il percorso ha via via reso più visibile come da parte di molti evidentemente ci si aspetti ancora, in questa fascia di età, di recuperare abilità non acquisite negli anni precedenti tipiche dell’età evolutiva (leggere, scrivere, calcolare, stare in piedi, orientarsi nello spazio e così via).

Un esercizio che non si esegue senza rete

Non dare attenzione solo a queste aspettative ha evidenziato gli effetti positivi che potevano derivare soltanto dall’interazione con persone INTERESSATE e DISPONIBILI a giocarsi in prima persona.
Questo non e un esercizio che può essere eseguito senza rete, senza un luogo, uno spazio e un tempo in cui dare parole a ciò che succedeva dentro quei legami e alle proposte che ne conseguivano.
In questa ottica le riunioni del gruppo degli operatori ha rappresentato il contenitore in cui confrontare in senso collegiale, accadimenti, informazioni, idee nuove, il significato degli interventi e delle scelte con gli utenti e le loro famiglie, i moti emotivi collegati alla complessità di tanti apporti. Sempre meno ha occupato gli intenti del gruppo di lavoro l’idea di fornire un contenitore programmato e codificato a priori, consapevoli che la scusa di recuperare competenze o migliorare autonomie ha spesso nascostamente la funzione di esentare l’operatore dalla fatica di scoprire, attraverso un lavoro di elaborazione delle proprie emozioni e dei propri meccanismi di difesa, che cosa può esso stesso aver fatto per facilitare o inibire le reazioni dei ragazzi utenti.
Attribuendo la risposta degli utenti alla presenza del deficit, alla loro storia passata, c’era il rischio di non prestare la necessaria attenzione alla situazione presente, perdendo occasioni per migliorare la qualità dei rapporti tra i ragazzi coetanei, il personale del Centro, le scoperte del mondo fuori da Fandango: in fondo rinunciare a proiettarsi in un futuro. OVVIO che tutto questo più che certezze crea incertezze, più che regole crea occasioni, più che ordine crea disordine, più che programmi e obiettivi, percorsi e appuntamenti…

(*) Psicoterapeuta

Davanti allo specchio

L’immagine più ricorrente riferita dalle persone handicappate è quella della frattura. La ferita fisica rimane un dato inevitabile; è in ogni caso un’immagine specifica che porta in sé l’idea di un corpo spezzato, rotto, oggetto di rifiuto e rivendicazione. Il corpo è percepito come luogo di sentimenti ambivalenti perché luogo della propria diversità, rappresentazione di una parte di sé che non risponde ai propri desideri, sia di ordine funzionale che relazionale."Mi risulta difficile fare un discorso sul rapporto tra me e il mio corpo, anche perché non è un rapporto fisso ma in continuo cambiamento.Posso dire che ho raggiunto un discreto grado di convivenza".
"Non è tanto il rapporto con il proprio corpo, ma piuttosto la diversità che è intrinseca al corpo, quella che può crearmi problemi".
"Il corpo è espressione di ciò che noi siamo per cui, se il corpo non rispetta ciò che c’è nella persona, si crea una sorta di schizofrenia".
"Facendo riferimento ad un mio vissuto, il discorso della divisione tra corpo e mente si può sintetizzare in questo modo: una svalutazione del corpo e forse una eccessiva valutazione delle capacità intellettive".
"Le persone con handicap possono avere possibilità intellettive e di sensibilità forse maggiori, ma bisogna stare attenti perché si rischia di fare un discorso di sopravalutazione: com’è bravo e sensibile, com’è umano, com’è dotato".
"Si rischia di fare la figura del sano tra gli handicappati: molto spesso noi handicappati privilegiamo la mente rispetto al corpo, oppure neghiamo il nostro corpo".
"In una persona con handicap strettamente fisico può aggiungersi un handicap psicologico; ad esempio un giorno una signora mi ha detto che sarei stato un bel ragazzo se non avessi avuto quei movimenti bruschi. Allora qual è il mio corpo? Quello teso o quello rilassato?"
"Prima di dire "gli altri" bisogna pensare a se stessi, a come noi handicappati ci percepiamo"
"Una cosa possibile, che non era ancora venuta fuori, è una fuga reciproca, una reazione di paura; tutti e due si vedono come diversi".

La lesione reale e quella fantasmatica

Tener conto di questi passaggi può permettere il capovolgimento dialettico di molte rappresentazioni e quindi rendere più consapevole il corpo che deve essere riparato. Occorre riconoscere la necessità di un sentimento di lutto nei confronti di ciò che è stato perso, permettendo il riconoscimento e l’accettazione, da parte del bambino, delle proprie difficoltà, riaffrontando in un certo senso gli effetti della lesione sulla propria immagine, anche in chiave simbolica: riconoscimento e accettazione del corpo leso, ferito. In definitiva permette di affrontare la contraddizione tra lesione reale e lesione fantasmatica, collegata strettamente all’immaginario di chi vive a contatto con l’handicap, indipendentemente dal ruolo che riveste.
Le esperienze percettive, motorie e affettive, così strettamente connesse, possono essere proposte attraverso il corpo piuttosto che nonostante il corpo.
Il cerchio si può allora chiudere proprio tenendo conto dello strumento di relazione che il corpo, l’immagine di sé, il movimento, rappresentano, contrapposti alla "reazione a catena" che parte dall’assimilazione di corpo e handicap in un’unica dimensione, passa attraverso il diniego dell’handicap e può arrivare alla negazione della corporeità.
Credo che l’immagine corporea, la rappresentazione di sé possa essere descritta come un mosaico che via via si completa di tasselli sempre nuovi e diversi, nell’arco di un’intera esistenza. Come spesso accade, esiste uno sfondo nel progetto che guida la scelta e l’accostamento di ogni singola tessera di quel mosaico, così come nelle aspettative di un genitore che attenda la nascita del figlio si confondono e contemporaneamente si delineano immagini ideali e fantasmi che trovano poi una collocazione nell’incontro che madre, padre e bambino hanno al momento della nascita.
Il termine "incontro" volutamente sottolinea come la nascita sia in effetti il momento in cui, per la prima volta dall’inizio della gravidanza, madre e bambino si trovano uno di fronte all’altra e la loro relazione si arricchisce di rappresentazioni che rendono reale alla madre l’immagine del proprio bambino atteso. Comprendere la violenza della delusione e il senso di fallimento ed impotenza che la donna sperimenta alla nascita di un bambino con handicap diventa punto determinante per lo sviluppo, da parte della madre, della capacità di accettare il nuovo bambino che è totalmente dipendente da lei.

Il lavoro riabilitativo

Si comprende come il sostegno di questa parte del vissuto personale possa essere fortemente amplificato in ambito riabilitativo: il contatto e lo scambio corporeo sono al tempo stesso luogo del non corrispondente, ma anche paradossalmente luogo del possibile riscatto.
In fondo penso che il lavoro riabilitativo comporta la progressiva reciproca scoperta dei possibili successi e dei possibili limiti senza che uno dei due aspetti implichi inevitabilmente l’esclusione dell’altro. Questo richiede il riconoscimento di una forte carica ambivalente che tale comunicazione porta con sé, per la famiglia, per il bambino, per l’operatore.
Credo che tener conto di questo favorisca la possibilità di un processo di autostima e di identificazione costruttiva come basi fondanti di un lavoro che comunque muove i fili di una "storia" personale, di un’identità possibile anche se spesso difficilmente immaginabile e prevedibile per la persona handicappata perché priva di consueti modelli positivi e codificati da prendere come riferimento. Costruire, da parte del bambino, la propria immagine, la propria storia, in questi termini è un po’ come dipingere il proprio autoritratto senza potersi guardare allo specchio.
La storia di molte persone handicappate, ora adulte, è fatta di tanti _stai dritto, stai su, solleva i piedi, manda giù, appoggia bene la mano.." di tante cinghie per stare in piedi legati ai tavoli di statica, di scarponi come ferri da stiro, di tutori, di docce, di busti, di cuciture sulla pelle per trovare un modo per camminare, o comunque per qualcosa che più da vicino assomigli allo stare in piedi, o almeno seduti. E’ fatto di tanti anni passati in letti di ospedali, di centri di riabilitazione in cui il sabato e la domenica si riconoscevano perché non si faceva ginnastica, non si mettevano le docce; di angoli propri veramente pochi, di nascondigli, di giochi lo stesso, ma i giochi erano anche far fare ginnastica alla bambola, fare la terapista o il dottore (si gioca lo stesso al dottore!). Difficile invece capire come gioco la paura del vuoto, del cadere e dello stare in piedi, del non tenersi stretto, dello stare sdraiati su un tavolino imbottito, del male per stare con le ginocchia distese o le braccia giù.
Questa la vita di tante persone per anni, decenni, l’unica vita vissuta e da vivere; fuori, la vita del mondo, la vita degli altri. Forse una specie di imprinting che poi rende comprensibile, anche se inutile, il rifiuto di occuparsi del proprio corpo, del suo modo di muoversi e di essere, della sua capacità di calamitare gli sguardi e di allontanarli con la stessa velocissima alternanza.

Il corpo “recintato”

La “sregolatezza” che permette alla specie umana di essere svincolata da rigide oscillazioni biologiche (estro) e sposta su piani molto più complessi il desiderio e la disponibilità alla sessualità, ha infranto un ordine naturale; ordine che in quanto tale definiva limiti e gerarchie.
La sessualità è diventata così dis-ordine, tutt’ora lo rappresenta, soprattutto per quei suoi aspetti che la svincolano da quel primario bisogno di perpetuare la specie.

Varie ipotesi si sono succedute sui significati di questa evoluzione, proprio nel tentativo di trovare motivi che rendessero ragione di questo cambiamento. Al disordine si sono sovrapposti di volta in volta conflitti più o meno mascherati, vere e proprie lotte, per ripristinare un nuovo controllo sulla sessualità.
Svincolata da leggi fisiologiche, via via superate nei loro confini non immutabili, è diventata territorio di conquiste e censure. Il dato che la sessualità simbolizza e che più di altri è terreno di poteri che si affrontano, è quello che esprime comportamenti e creatività di rapporti e relazioni, non scanditi da orologi stagionali e ormonali.
Collocata in questo sfondo, la sessualità collegata al tema della disabilità, delle differenze e della malattia, sembra ripercorrere lo stesso scenario. A riprova di quanto spesso il bisogno di ulteriori informazioni e nozioni sulla sessualità delle persone handicappate nasconda l’implicito bisogno di controllo, la genitalità si propone come l’elemento discriminante e censurante.
Controllo non solo inteso come censura, più o meno velata, ma anche come inconsapevole necessità di ordinare qualcosa di inquietante, destabilizzante, portatore di antichi fantasmi risvegliati. Si può così ripensare al percorso del mondo femminile imbrigliato da quello maschile, impegnato a regolamentare le diversità, in una sorta di parallelo col mondo delle disabilità.

La sessualità in condizioni di cattività

Silvia Vegetti Finzi spiega con grande interesse molti passaggi e ipotesi che trattano dell’evoluzione della sessualità e riporta una prima traccia di riflessioni partendo proprio dalle osservazioni di un ricercatore su alcune specie di animali in cattività, disponibili a rapporti sessuali infecondi, al di fuori dei cicli di estro, proprio sembra a causa della loro condizione di segregazione.
Le analogie con il mondo della disabilità sono forti ma immediate se si considera che molte delle richieste di intervento e di consulenza fatte dagli operatori nel campo della sessualità, partono proprio dai comportamenti "non accettabili", di carattere sessuale, messi in atto da utenti handicappati in strutture e istituzioni, in contrapposizione alle attività e alle programmazioni dei progetti educativi in corso.
Probabilmente un raffronto così esplicito tra segregazione, cattività e disabilità è ancora troppo carente di approfondimenti specifici legati alla sessualità. Troppo si contrappone agli ideali di integrazione che tanti progetti educativi perseguono e che la sessualità d’improvviso scompagina. La sessualità diventa un "sintomo" da curare, scollegato dalla storia, dai tempi e dagli spazi in cui viene messa in atto.

La genitalità come elemento di comunicazione

Le occasioni di impegno e i tempi morti, le possibili incomunicabilità, non solo causate dalla presenza di un deficit, possono provocare "l’allarme sessualità", l’emergenza inaspettata che trascina con sé operatori, utenti e spesso le famiglie.
A volte tali aspetti sono un’occasione in più per tutto l’ambiente, di evoluzione anche in questo ambito, altre volte si evidenziano per il loro carico di isolamento, di protesta, di aggressioni o autoaggressioni nei confronti di un mondo relazionale carente o comunque in difficoltà, impossibilitato ad accogliere i bisogni profondi dell’altro.
Lo scambio sessuale, la genitalità come fase evolutiva avanzata, è un formidabile elemento di comunicazione e rappresentazione simbolica.
Il piacere, lo scambio, la creatività, il gioco sono aspetti ricorrenti nelle rappresentazioni della sessualità che gli operatori esprimono durante le esercitazioni proposte nell’ambito formativo. Attraverso le immagini, le parole e le spiegazioni dei propri argomenti emergono una miriade di contenuti legati alla sessualità e provenienti dal piacere della conoscenza reciproca, ma anche da sentimento di espansione e forza connessi ad una dimensione più soggettiva.
La genitalità definisce la propria individualità, partendo anche dalla consapevolezza della differenza e complementarietà delle capacità genitali e sessuali in genere, in fondo riconoscendo il limite che tale differenza esprime. Piacere, scambio, creatività, gioco sono tutti elementi potenziali di libertà, autonomia, di evoluzione.

Il controllo della sessualità dei disabili

Ma se già nel contrapporsi dei mondi femminile e maschile questi elementi sono più spesso stati occasione di prevaricazione e di chiusure, si rischia di scorgere la medesima, negata possibilità nel bisogno di controllo della sessualità "handicappata" delle persone disabili.
Si è disposto un ordine per dare una regola ad una sessualità che si è evoluta svincolandosi dalle "regole", cioè dal ciclo estrale; tale ordine ad esempio prevede un accordo sociale che fa rientrare la procreazione dentro l’istituzione famiglia. Se anche questo percorso è impedito dalla presenza di un handicap e l’evento riproduttivo è interdetto o inopportuno, la sessualità delle persone disabili ripropone paradossalmente il primo, più primitivo dei suoi significati, quello che esprime l’arbitrio del piacere e della minacciosa e potenziale promiscuità non legalizzata.
Ciò che riemerge con forza è così quell’aspetto della sessualità che esprime, attraverso la genitalità, desiderio, comunicazione e piacere della conoscenza e che, affiancato a handicap assume improvvisamente lo stigma di immaturità, svuotata di qualsiasi apporto positivo.
Due fantasmi si combinano in un’unione troppo scottante:
– quello dell’alterità che la diversità legata all’handicap impedisce di insabbiare e che richiama il senso di morte e di finitezza dell’essere umano;
– quello dell’indeterminatezza, quale spazio privilegiato che la sessualità lascia aperto all’invenzione, all’imprevedibilità.
La sessualità invece destabilizza ciò che è istituito e l’istituzione di ogni struttura sociale ha le proprie origini nella regolamentazione della sessualità.

Un corpo "guardato a vista"

Anche la storia delle persone handicappate, così come la storia di molte soggettività simbolo di differenza (la storia delle donne, di etnie diverse…), è quella di un corpo recintato, rinchiuso e "guardato a vista", invalidato di valori e significati condivisibili, oltre che invalido, inabile, dipendente…
Faticosa evoluzione quella che possa vedere convivere il piacere, il valore e il significato di ogni singola identità, nonostante la dipendenza, il bisogno di cure, la necessità di mediazioni. L’esistenza di una dimensione della sessualità che si concede al piacere del desiderio e del corpo, risulta indecente e inopportuna. La disabilità la ripropone invece come reale in tutti.
In questo senso diventa paradossale la necessità di una distinzione e differenziazione dei termini "sessualità" e "genitalità". Dall’intento lodevole di poter riconoscere in ogni persona per quanto disabile, ammalata, dipendente, la dimensione e l’identità sessuale, si può più nascostamente cadere in una rappresentazione scadente, svuotata di valore e a sua volta sintomo di ulteriore infermità.

Se la riabilitazione diventa un abuso

Violenza e riabilitazione sono due termini che nell’immagine comune difficilmente riusciamo a vedere affiancati. Se questo pensiero si fa strada nell’esperienza di qualcuno coinvolto come familiare, operatore o utente del processo di riabilitazione, la più spontanea reazione è quella di accantonare una problematica che troppo profondamente intaccherebbe l’idea stessa della “cura”, dell’aiuto all’altro, della risposta ad un bisogno.

E’ difficile parlare di abuso e violenza nella riabilitazione senza cadere in una elencazione di aspetti denunciati tra le righe della vita quotidiana di famiglie e bambini handicappati, di operatori e strutture (ambulatori, scuole, ospedali…), ma spesso allontanati da un’immagine complessiva forse troppo dura da riconoscere e accettare.
Violenza manifesta e violenza nascosta; ed è sicuramente quest’ultima, quella nascosta, la più difficile da riconoscere e affrontare. La violenza nascosta è quella che a volte si dà per scontata e quasi per inevitabile, quella che ad esempio non si prende cura di accogliere la nascita di un bambino handicappato fornendo alla madre e al padre tutto l’appoggio e l’attenzione che una condizione come questa richiede e lasciando quasi sempre sospeso il carico di incertezze e di dolore, di scelte e di elaborazione di ciò che è successo.
Sicuramente violenti possono essere avvertiti quei provvedimenti e cure che devono paradossalmente allontanare il neonato dalla madre per terapie intensive; oppure ancora i ritmi, i tempi delle pratiche riabilitative; la curiosità che la diversità provoca, inevitabile eppure tanto forte nel determinare l’immagine della corporeità e le strategie adottate dal bambino.

Il caso dei bambini disabili

Sono tante le variabili in gioco, prime tra tutte le reazioni e le capacità di adattamento specifiche di ciascun bambino, che diventa improponibile dare un quadro generale che accomuni ogni singola storia. Una riflessione attenta permetterebbe comunque di arrivare a riconoscere o scoprire che in alcuni comportamenti o reazioni del bambino handicappato si rivela una condizione avvertita come contrapposta ai propri desideri, subìta senza la possibilità di sottrarsi completamente a ciò che viene avvertito come pericoloso, motivo di paura e dolore.
Questa dimensione soggettiva rappresenta bene quel significato che la parola "soggetto" racchiude: "essere sottoposto a dei limiti". In questo caso un bambino handicappato si ritrova per definizione in una condizione in cui i limiti sono rappresentati non solo dalle situazioni più varie che la realtà propone a ciascuno; ci sono infatti limiti che nel bambino handicappato assumono spesso una vera e propria impossibilità a incidere sulla realtà, sul tempo e sullo spazio entro cui è immerso, salvo adottare questa passività trasformandola in piacere.
Ma "soggetto", come sottolinea Silvia Veggetti Finzi, significa anche artefice della propria condizione e delle proprie scelte, oltre che sottoposto a limiti; anche su questo piano la gamma delle scelte possibili subisce una forte riduzione in presenza di deficit, ma non esclude la possibilità di salvaguardare una spinta al desiderio di autonomia che produca quindi il piacere di incidere sulla realtà.
Perché questo piacere possa essere salvaguardato in misura sufficiente da potere riemergere come risorsa ogni qualvolta nuove e impreviste difficoltà mettono in discussione il processo di crescita nel percorso riabilitativo, è necessario che il bambino possa sentirsi riconosciuto nel proprio timore. In fondo ogni bambino in riabilitazione si trova a dover considerare l’alternanza continua del piacere della dipendenza al piacere di sperimentare nuove autonomie, spesso affrontando da solo il disagio di un tale conflitto.
Tenendo conto di quanto possa essere faticoso e difficile e quindi privo di piacere sperimentare funzioni che sono normalmente vissute come spontanee, istintive, occasioni di scoperta (mangiare, muoversi, afferrare, camminare…) la riabilitazione porta con sé situazioni molto controverse.
In un campo come quello della riabilitazione, esistono aspetti che in modo manifesto o in maniera più mascherata, possono rappresentare vere e proprie condizioni di violenza o comunque essere percepite come tali da chi, a causa ad esempio di un deficit congenito, si trovi a crescere e a strutturare la propria identità e autostima "nonostante" gli svantaggi e le differenze che la menomazione comporta.
Il termine nonostante è tra virgolette allo scopo di sottolineare quanto lavoro emotivo profondo sia richiesto a un bambino handicappato, chiamato ad apprendere come muoversi, percepire collegare le proprie esperienze nell’ambiente circostante e nelle relazioni che lo coinvolgono.
Se spostarsi autonomamente per un bambino che comincia a camminare rappresenta una occasione evolutiva di indipendenza non solo fisica ma anche psichica dall’adulto a cui il bambino partecipa con piacere, esiste un piacere vissuto di riflesso dal bambino, piacere proveniente dalla gioia e dall’orgoglio di un genitore che ad esempio assiste ai primi passi del proprio figlio.
Occasioni analoghe possono diventare per un bambino handicappato situazioni di delusione, di insuccesso, di invasiva presenza dell’adulto, non immediatamente riconoscibile come violenza ma ugualmente in grado di produrre una ferita profonda nella struttura e nella rappresentazione dell’identità del bambino continuamente giocata sul filo del "cosa sa fare, cosa non sa fare", del "troppo presto, troppo tardi".

Le violenze nascoste che negano la persona

Del resto se esistono e possono essere ammesse disattenzioni o errori nell’interpretazione degli effettivi bisogni e desideri che un bambino handicappato propone, generalmente si è molto meno disposti a considerare la presenza di un’altra importante dimensione. Il riferimento riguarda la dimensione interiore, soggettiva della esperienza legata alle terapie, alle manipolazioni, agli interventi più o meno cruenti per la definizione di una diagnosi, agli eventuali interventi chirurgici, alle apparecchiature utilizzate e così via.
A questo è necessario aggiungere una condizione che inevitabilmente si collega con l’elenco prima accennato e che forse più di questo, può rappresentare in termini soggettivi un vero e proprio vissuto di violenza subita; ad esempio le separazioni dalla madre da parte del bambino ricoverato o sottoposto a visite e cure, comunque l’allontanamento dall’ambiente familiare conosciuto, dai ritmi e dalle occasioni tipiche di una casa o di quegli ambiti dove comunemente si svolge la vita di un bambino.
La violenza nascosta può allora essere quella che inconsapevolmente nega la condizione di disagio, tralasciando la persona-bambino per occuparsi dell’handicap-bambino in cui emozioni, sentimenti, conoscenze, comunicazioni, sono separati e tutti filtrati da quel giudizio preordinato che la disabilità può portare con sé in quanto simbolo di diversità e dolore. In questo caso il bambino non è più soggetto della cura, del percorso riabilitativo scandito dalla sua persona e dai suoi bisogni, ma la riabilitazione e le terapie diventano i soggetti a cui il bambino deve adattare la propria crescita e la propria vita quotidiana.
La riabilitazione può trasformarsi nella occupazione della vita della persona handicappata, non solo nella scansione delle giornate, settimane, mesi e anni impegnati, ma nella immagine interna costantemente occupata a definire qualcosa che non è piuttosto che dare una dimensione di se stessi, per quello che si è.

L’angoscia di cadere

Se in questa lettura la riabilitazione assoggetta il bambino handicappato, la sua famiglia, il futuro, sicuramente si può intravedere in tutto questo un aspetto che produce effetti contrari alle intenzioni di chi cura; il bambino può difendersi congelando la propria partecipazione attiva e in definitiva il proprio sviluppo: una sorta di resistenza passiva che egli mette in atto per cautelarsi, come meglio può, da interventi che spesso inconsapevolmente lo sottopongono a situazioni avvertite come minacciose e che quindi lo inducono a sottrarsi dal partecipare alle proposte e alle aspettative dell’adulto.
Winnicott elenca tra le angosce primarie del bambino (1) l’angoscia di cadere. Ogni bambino la sperimenta nei primi mesi di vita. Via via questa lascia il posto a quella capacità motoria che implica la rassicurazione rispetto al "mondo" esterno, attraverso quelle possibilità di modificarlo, di controllarlo e cambiarlo con le proprie azioni (2).
Così il contenimento proveniente dall’esterno, dalla madre che tiene in braccio il bambino, si tramuta in una capacità sempre più autonoma di un sostegno proveniente dall’interno, da una condizione sempre più evoluta in termini motori ed emotivi che il bambino acquista crescendo.
In una condizione di deficit il contenimento dall’esterno si prolunga per più tempo rispetto al periodo fisiologico, influendo sulla costruzione di un’immagine corporea stabile e sull’angoscia primaria di cadere. Questa a sua volta, può prolungare la sua impronta, agendo così sullo sviluppo stesso della motricità, innescando un meccanismo a catena che non tralascia di influire anche sulla relazione primaria (simbiotica). La dipendenza fisica del bambino handicappato mantiene più a lungo, a volte indefinitamente, questo legame e il cerchio si può chiudere a volte ingabbiando il bambino e la famiglia (quasi sempre la madre) in un isolamento inespugnabile: nemmeno il tempo che scorre e gli anni che si succedono hanno a volte ragione di una tale condizione!
Infine una ulteriore paradossale condizione di violenza potrebbe diventare, a dispetto di qualunque profonda attenzione, quella secondo la quale già prevedendo danni più o meno visibili, più o meno recuperabili, ci mettessimo tutti a pensare che in fondo a un’inevitabile condizione di sofferenza corrisponde sempre e comunque un futuro prevedibilmente nero.
Il senso di continuità e di imprevedibilità che il futuro racchiude in sé, molto spesso sembra negato a chi cresce con un deficit. Il senso di continuità significa la possibilità di pensare proiezioni di sé nel futuro che diano anche ragione della fatica di crescere, di proporsi in prima persona, diventando autonomi.
In questo caso, autonomia rappresenta soprattutto la possibilità di progettarsi nonostante il proprio passato, senza dimenticarlo e quindi anche nell’impossibilità di cancellare le cicatrici di una probabile violenza vissuta, ma potendo contare su ferite che si sono rimarginate.

Note

(1) Winnicott D., "Gioco e realtà", Armando
(2) Imbasciati A., "Sviluppo psicosessuale e sviluppo cognitivo", Il Pensiero Scientifico

Sesso negato

Sesso e handicap: a quanti si rizzano i capelli sentendo un simile accostamento? Quanti si vestono di teorie e moralismi per non ammettere che lerelazioni affettive e sessuali fanno parte integrante delle persone disabilicome di qualsiasi individuo? E non parliamo solo di pedagogisti, psicologi,neuropsichiatri, di addetti ai lavori in somma, ma di chi vive sulla propriapelle tali recriminazioni e crescendo con la convinzione che "certe cosesporche non saranno mai possibili" si convince della giustezza di unaeducazione che spacca a metà l’individuo: da una parte si creano per le personehandicappate interventi di integrazione e socializzazione, dall’altra sieffettua sistematicamente la castrazione morale di chi non rientra nella norma
Le prime pubblicazioni che toccano questi argomenti sono firmate Rosanna Benzi,Camallo Valgimigli, Cesare Padovani e risalgono agli anni ’75 – ’76,
mentre nel ’77 è indetto a Milano il primo convegno dal titolo"Sessualità e handicap".
Salvo iniziative sporadiche però, il tema delle relazioni affettive esessuali delle persone handicappate è tutt’oggi tabù e chi trasgrediscequesta regola desta ancora grande scalpore: è dell’ultima ora la polemicasollevata a Parma dal film di Silvano Agosti "D’amore si vi ve"realizzato in collaborazione con 1’Assessorato alla Sanità del Comune diParma.
Con queste premesse abbia mo iniziato il lavoro di raccolta di materiale riguardante la sessualità a cui è seguita la formazione di un gruppo distudio come risposta all’esigenza di conoscere e approfondire un tema cosìsentito da ciascuno di noi.
E così abbiamo scoperto che sul problema dei rapporti interpersonali, suiproblemi della tenerezza, dell’amore, della sessualità, tutti hanno difficoltàad entrare nellamischia, ma che è anche comodo utilizzare queste difficoltà per insabbiareancora una volta la sessualità dei "diversi. La ricerca del gruppo noncoinvolge soltanto le persone handicappate, vogliamo arriva re dentro lacosiddetta "norma" non soltanto per mettere in discussione larelatività di questo termine, ma sopratutto per comprendere le veremotivazioni che spingono tanti "normali" a reazioni così diversedi fronte alla vita sessuale e affettiva di chi non rientra nei canoni. Capirei per che di chi nega, prima di tutto a sé stesso, l’esistenza di un corpovivo e teso verso gli altri; chi invece, per contro,coglie di questa persona solo l’oggetto di cure riabilitative; chi ha orroredi pensare il proprio figlio handicappato mentre fa l’amore; chi ancora, ma gliesempi sarebbero ancora tanti, teme questi amori come generatori di altri mostriinconfessabili…. e l’impossibilità di compiere l’atto sessuale, come sel’amore avesse un solo binario in cui poter correre, e i soliti modelli da ricalcare: "lui" forte e conquistatore, "lei" belle e oca,pronta ad essere rapita.
L’elenco sarebbe interminabile e il nostro lavoro vuole essere solo lo stimoloa questa riflessione, una premessa per un capitolo solo iniziato.


SESSUALITA’ E HANDICAP, PER SAPERNE DI PIU’ :

Cesare Padovani "La speranza handicappata, Ed.Guaraldi 
C. Padovani,I.Spano – "Handicap e sesso, omissis" Ed.Bertani 
AA.W. -"Sessualità e handicappati", Ed.Feltrinelli Rosanna Benzi – "Seidimezzato e non avrai sesso", rivista "Gli Altri" n.3/1976 Camillo Valgimigli – "Problemi sessualidegli handicappati", "paese sera" 2/12/76
C.Valgimigli -"Quando il sesso è dell’handicappato non se ne parla", "Corriere della sera" 12/8/76
C.Padovani – "Sesso e handicappati, coraggio parliamone", "Corriere della sera" 8/9/77 C .Padovani – "Per una diversa       gestione del corpo; note sui problemi affettivi e sessuali degli handicappati" rivista"Psicoterapia e Scienze umane" 1976

È facile gridare allo scandalo

"Meglio che niente" è l’espressione che per prima mi è venuta allamente leggendo le interviste e i commenti all’inchiesta su handicap eprostituzione.
"Meglio che niente" sembra una frase dettata dalla superficialità,dal facile compromesso come filosofia di vita, e spesso infatti diventa uno"stile" nella quotidianità di una persona con handicap. Gli ambiti incui questo stile detta legge sono talmente frequenti che, ribaltando ilproblema, sarebbe interessante scovare situazioni di vita in cui la personahandicappata non sia, per definizione, quella che deve accontentarsi.
Tornando in particolare sul tema, che evidentemente mi porta a deviare…, sipuò scoprire che realtà come quella della prostituzione hanno inaspettatamentepunti d’incontro non troppo artificiosi col mondo dell’handicap, anche se, messain questi termini, è facile gridare allo scandalo.
Ma, in fondo, non penso che le grida saranno mai troppo alte, in fondo "amali estremi, estremi rimedi"; così si dice e così diventa una soluzionepossibile, pensare alla prostituzione come risposta alla domanda di un rapportoaffettivo o sessuale di chi è handicappato. Il tema facilmente potrebbeallargare il campo su altri aspetti della diversità e troveremmo che lesoluzioni non si discostano di tanto.
Fin qui nulla di nuovo: la domanda iniziale "Esiste uno specificodell’handicap nel fenomeno della prostituzione" forse avrebbe già trovatouna risposta adeguata, probabilmente già scontata in partenza. L’handicap, cometema troppo spesso sotterraneo e di pochi, non rappresenta in fondo che unadelle tante facce di un isolamento affettivo molto più diffuso e generale.Così anche per la prostituzione, che normalmente è un aspetto ritenutodistante e diverso e che poi si scopre molto più conosciuto e vicino.
E allora, dov’è il problema? Il dubbio che in definitiva non esista, o che iltutto faccia parte di una falso problema, come spesso viene definito il temadella sessualità quando rapportato all’handicap, è legittimo. E allora i contitornano… peccato che dietro le sigle "A", "B","C", e potremmo tranquillamente arrivare in fondo all’alfabeto, sinascondano persone che sulla propria pelle, e quindi anche sul proprio corpo,vivono i segni tangibili di questo isolamento. Il compromesso, il "meglioche niente", come unica opportunità è molto spesso la chiave comune almondo dell’handicap, a quello della prostituzione e alle persone che abitano inquesti mondi; compromesso per esistere, per sentire, per "sentirsiuomo" come sottolineano alcune interviste. E le donne con handicap? Cosahanno a che fare con una simile soluzione, dove sta per loro un compromesso?Nessuna nota di rivendicazione. Forse solo un altro punto interrogativo: chiscrive è "pur sempre" una donna. E così fare un commento conclusivoad un lavoro che ha avvicinato l’handicap alla prostituzione diventa facile edifficile allo stesso tempo: dipende, guarda caso, dai punti di vista, dai panniche ciascuno desidera rivestire. Allo stesso modo può esser facile e difficileascoltare il racconto di chi, a vario titolo, testimonia le proprie personaliconvinzioni aspettandosi quasi inevitabilmente un giudizio. Il viaggio puòanche concludersi qui e una strada possibile diventa quella di riconoscere ilrischio che facilmente si corre nel frammentare i significati, dimenticando lastoria che comunque costituisce lo sfondo di ciascuna persona