Skip to main content

autore: Autore: di Roberto Parmeggiani

Intervista doppia… ai mercatini

Da qualche tempo partecipo con un banchetto ai mercatini per hobbisti.
Vendo, insieme a un amico restauratore, oggetti vintage e piccolo mobilio restaurato.
Al di là del risultato economico, è davvero un’esperienza interessante, un’immersione profonda in un mondo parallelo, abitato da persone e personaggi di tutti i tipi.
In quei lunghi week end trascorsi ai bordi delle strade ho conosciuto molte persone, condiviso lunghe chiacchierate affrontando i temi più diversi, scambiato informazioni, mangiato ottimi cibi locali, goduto di bei centri città chiusi al traffico.
Insomma, ogni mercatino è un’immersione nella società, non quella dei numeri o della televisione, non quella dei libri o dei proclami politici. Ogni mercatino è un’immersione nella società reale, fatta di carne, ossa e desideri.
Anche il 18 settembre scorso mi sono alzato di buon’ora, ho caricato la macchina e sono partito per trascorrere un’ultima domenica d’estate un po’ speciale.
Sono arrivato in piazza alle 7:30.
Mi sono messo in fila con gli altri per farmi assegnare la mia piazzola.
Arrivato il mio turno, mi hanno mostrato il posto in cui avrei potuto montare il mio banchetto, ottima posizione all’angolo tra la piazza e la via principale.
Prendo la macchina e inizio a scaricare il mio materiale.
Alla destra del mio spazio si era già installato un ambulante tunisino con la sua merce: oggettistica varia, grandi tegami di rame, vecchie scarpe… insomma oggetti diversi, raccolti qua e là.
Poco dopo, arriva anche la vicina che si installa alla nostra sinistra.
Una bella ragazza dell’Est Europa, giovane e molto contenta di essere lì.
Il suo compagno l’aiuta a montare un appendi abiti sul quale attacca una serie di magliette firmate, su un tavolo mette in mostra una serie di collane di diverso tipo e valore e, per terra, appoggia alcune scarpe e un paio di scarponcini, anch’essi di marca.
La giornata è lunga, per cui tra un cliente e l’altro, scambio qualche domanda con i miei due vicini e ne nasce una specie di intervista doppia che mette in luce due diversi mondi, due diversi modi di vivere l’immigrazione nel nostro paese.

Come ti chiami?
Maria
Da dove vieni?
Dalla Moldavia
Da quanto tempo sei in Italia?
Da tre anni, anzi da tre anni e qualche mese.
Come mai sei venuta in Italia?
Avevo bisogno di un lavoro e sono venuta per fare la badante. Un’amica di famiglia era qui da un paio di anni e mi ha trovato una famiglia che aveva bisogno. È stata una bella esperienza ma per fortuna è finita.
Adesso di cosa ti occupi?
Faccio la mamma! Mi sono fidanzata con un uomo italiano e abbiamo un bambino di sei mesi. Per ora non faccio più la badante, vivo con il mio fidanzato.
Fai spesso mercatini?
No, no! Questo è il primo. Di solito le cose che non uso più le mando in Moldavia ma alcune le ho tenute e ho pensato di venderle qui. Non so come andrà, vediamo. Qualche euro in più non fa male. Speriamo che continui meglio di come è iniziato.
Perché, cos’è successo?
Quando ero in fila c’erano delle persone che parlavano e ho sentito che se la prendevano con me. Ci sono delle persone cattive, appena vedono che sei straniera pensano male. Poi ci sono le persone gentili come te.
Ti manca il tuo paese?
[Pausa] Un po’ mi manca. Mi mancano certe zone di montagna, la casa dei miei nonni, la musica moldava. Mi mancano le mie amiche. Però sono contenta di essere qui, anche l’Italia mi piace molto. Sono stata molto fortunata, non mi è mai successo nulla di grave, ho sempre incontrato delle persone gentili, ho sempre lavorato.
In cosa ti senti italiana e in cosa, invece, non ti identifichi con questo paese?
Sinceramente, non mi sento italiana. Mi sento una moldava che vive in Italia. Forse qualcosa è cambiato da quando è nato mio figlio. Lui è sicuramente italiano perché è nato qui e crescerà qui. L’Italia sarà il suo paese, chissà cosa penserà della Moldavia.
Secondo il tuo punto di vista, c’è un problema immigrazione in Italia?
Sì, secondo me c’è. Troppe persone che vengono qui senza sapere cosa fare. Persone non per bene, con intenzioni cattive. Molte donne che vengono imbrogliate e finiscono sulla strada. Bisognerebbe che potessero venire solo le persone che hanno un lavoro altrimenti è più facile che finiscano a fare cose sbagliate.
Come immagini la tua vita tra dieci anni?
Tra dieci anni avrò trentasei anni. Avrò un altro figlio e continuerò a fare la mamma. Magari lavorerò con mio marito.

Come ti chiami?
Samir.
Da dove vieni?
Dalla Tunisia, da Tunisi.
Da quanto tempo sei in Italia?
Da undici anni.
Come mai sei venuto in Italia?
Mio fratello mi aveva trovato un lavoro come muratore, per cui mi sono trasferito. Prima io poi, dopo tre anni, mia moglie.
Adesso di cosa ti occupi?
Adesso faccio questi mercatini, ogni giorno uno diverso, io e mia moglie. I miei figli vanno a scuola, oggi stanno con mio fratello. Ho comprato un furgone e raccolgo oggetti di tutti i tipi. Anche quando vado in Tunisia raccolgo qualcosa e la porto qua. Piacciono molto le cose del mio paese. Facciamo i mercati classici e questi nei fine settimana.
Quindi è il tuo lavoro. Riesci a guadagnare abbastanza per mantenere la tua famiglia?
Insomma. Un tempo andava meglio, adesso è più difficile, le persone prima di comprare pensano, anche se le cose costano poco. Però, per fortuna, alla mia famiglia non manca nulla.
Ti manca il tuo paese?
Molto. Ci sono cresciuto, ci ho vissuto tanti anni, ci sono le mie tradizioni. Ci torno almeno due volte all’anno. Mi manca tutto… Per fortuna mia moglie cucina cibi tipici ogni giorno e passo molto tempo con la famiglia di mio fratello e la comunità tunisina.
In cosa ti senti italiano e in cosa, invece, non ti identifichi con questo paese?
L’Italia mi ha dato la possibilità di vivere in modo abbastanza tranquillo, i miei figli vanno a scuola e stanno bene. Per questo mi sento italiano. Non mi piace la maleducazione e certi atteggiamenti delle donne.
Secondo il tuo punto di vista, c’è un problema immigrazione in Italia?
Il problema dell’immigrazione c’è. Non sono gli immigrati il problema. Certo ci sono persone che vengono in Italia per rubare o per continuare a fare quello che facevano nel loro paese. Però il vero problema è la difficoltà di integrarsi, la paura che la gente ha di noi, la sfiducia. Appena vedono mia moglie con il velo, subito le persone pensano male.
Come ti immagini tra dieci anni?
[Si fa una grassa risata] Sono così impegnato a pensare cosa farò domani… Comunque tra dieci anni avrò cinquanta anni, spero che i miei figli abbiano la possibilità di studiare e crearsi un futuro migliore del mio. Io spero di poter tornare a vivere in Tunisia, ho un terreno che mi piacerebbe coltivare.

L’intervista viene interrotta dall’arrivo degli organizzatori che vengono a riscuotere la tassa di riscossione, 10 euro. Samir scopre che era necessario iscriversi e che quindi ha occupato uno spazio “abusivamente”. Chiede scusa, si giustifica dicendo che pensava che ognuno potesse prendere un posto come succede in altri mercati, paga e torna a dedicarsi a suoi clienti.

Si è sempre meridionali di qualcuno

Ci sono sud e sud.
Ci sono sud molto lontani e sud molto vicini.
Ci sono sud che per alcuni sono nord e nord che per alcuni sono sud.
Gli eventi degli ultimi mesi che hanno sconvolto il nord Africa, stanno mettendo l’Italia al centro del mondo, nel bene e nel male.
La nostra politica, così impegnata a risolvere problemi personali oppure a trovare il nemico di turno, capro espiatorio di tutte le difficoltà o demagogico baluardo pro-elezioni, forse non si è resa conto di quello che sta succedendo. O forse lo sa, ma fa finta di nulla.
La nostra classe dirigente è riuscita anche a perdere quel po’ di prestigio e quel ruolo internazionale che ci era rimasto e che ci apparteneva, se non altro, per posizione geografica.
Restando legati al tema “geografia”, in Italia sta succedendo qualcosa di davvero singolare, che sta cambiando gli equilibri interni, politici e sociali.
Ormai non abbiamo più solo un sud, ne abbiamo due.
Mi spiego.
Fino a ora parlando di sud ci riferivamo ad alcune regioni che, nel bene e nel male, rispondevano a caratteristiche particolari, con peculiarità gastronomiche, ambientali e sociali tutte loro. Luoghi desiderabili e invidiabili, situazioni difficili e faticose. Confini specifici che, negli ultimi anni, sono stati il limite che i migranti hanno incontrato una volta deciso di cambiare vita.
Fino ad ora questo era il sud, l’unico.
Ora invece abbiamo scoperto di averne un altro.
Alcuni paesi dell’Europa stanno facendo sentire “sud” anche una parte del nord, nel momento in cui respingono i migranti che tentano di entrare nel loro paese.
L’Italia si riscopre violentemente al sud di qualcuno. Come se si svegliasse da un bel sogno non può far altro che fare i conti con la realtà e con una politica di governo incapace di instaurare relazioni forti con l’Europa, vittima di quei punti di forza che da sempre sono il baluardo della loro politica: il blocco all’immigrazione, la chiusura dei confini, il rifiuto di investire su politiche d’inclusione; punti di forza che ci si ritorcono contro in quanto strumenti dei governi dei paesi a noi più vicini.
Ormai è tardi, abbiamo perso tanti treni, ci siamo fatti scappare molte occasioni, da destra a sinistra lamentandoci degli errori del passato senza riuscire a realizzare azioni concrete.
Detto questo, però, non possiamo più ragionare secondo criteri di esclusione o di chiusura.
Ciò non vuol dire, allo stesso tempo, aprire le porte in maniera indiscriminata, creando una situazione che potrebbe portare svantaggi, oltre a chi vive nel paese che accoglie, anche ai migranti stessi.
Come fare allora?
L’esperienza di Lampedusa lasciata sola dal governo nell’accoglienza dei primi migranti, ma anche quella di Ventimiglia impegnata a gestire il flusso di migranti respinti dalla Francia, ci può aiutare a definire alcuni punti rispetto al tema dell’accoglienza e dell’integrazione.
Scriveva il poeta John Donne: “Nessun uomo è un’isola, intero in se stesso”.
Reinterpretando questo concetto alla luce della globalizzazione, dobbiamo accettare l’idea che nessun essere umano è un elemento scollegato dal resto dell’umanità e, soprattutto, dal resto dell’economia.
Cioè non possiamo ricordarci dei rumeni quando delocalizziamo, oppure dei libici finché ci permettono di usare il loro petrolio, per poi dimenticarcene quando mutano gli equilibri e quando anche loro, proprio come noi, desiderano avere qualche euro in più in tasca e una vita meno difficile e, quindi, decidono di arrivare a casa nostra.
Alcuni movimenti politici propongono uno slogan pro elezione che dice: “Meno immigrazione, più integrazione”. Non cito tali movimenti perché il problema è generale, di chi si riempie la bocca delle parole e di chi parla di respingimenti. In troppi ormai crediamo che il problema dell’integrazione delle diversità sia il numero troppo alto di persone straniere.
Beh, finché sarà questo il pensiero comune il problema non verrà mai risolto.
Per favorire una reale integrazione, infatti, non è necessario diminuire il numero di migranti bensì attuare politiche che agendo sui vari contesti (scuola, lavoro, cultura…) favoriscano la creazione di qualcosa di nuovo, di un nuovo modo di pensarci italiani, anzi europei. L’integrazione non è fare posto a qualcuno, accogliere con benevolenza lo sfortunato; integrazione è creare qualcosa di nuovo, un nuovo contesto frutto dell’apporto di entrambi, nel quale le diversità diventano ricchezza l’una per l’altra. Integrazione è non fare differenze tra “quelli là” e “questi qua”, definendo in questo modo esseri umani di serie A e di serie B.
Le parole hanno un senso e un peso. Dire che un atto di guerra è fatto per difendere i civili e poi trattare quelli che arrivano sulle nostre coste come clandestini, forse è segno di interessi altri rispetto a quelli dichiarati. Allora dobbiamo aprire gli occhi, per non farci ingannare da parole false che vendono una guerra come una missione umanitaria.
“Si è sempre meridionali di qualcuno”. Le parole di Luciano De Crescenzo si adattano perfettamente alla situazione vissuta dai cittadini di Ventimiglia, che scoprono improvvisamente di essere al sud di qualcuno. Scoprono, inoltre, cosa significa dover fronteggiare l’arrivo di tanti migranti, respinti da un paese confinante. Questo è un ennesimo esempio di come non possiamo più ragionare al singolare ma, soprattutto in Europa, è necessario pensare al plurale e lavorare, politicamente e culturalmente, per far sì che i privilegi e i problemi di ogni stato membro siano i privilegi e i problemi di tutta l’unione.
Concludendo, un’ultima riflessione.
Il nome di questa rubrica è davvero azzeccato, non si può infatti parlare di “sguardo dal sud” o “al sud”, ma è giusto dire “lo sguardo del sud”, quello che tutti dovremmo imparare a usare per guardare il mondo che ci circonda.
Lo sguardo del sud, di chi, cioè, vede il mondo dal punto di vista degli sfruttati e non degli sfruttatori, di chi prova a parlare di persone e non di categorie, di chi considera i punti cardinali non come misuratori di valore quanto come mezzo per riconoscersi dentro un contesto di diversità, di chi, infine, non fa del profitto economico l’unico parametro ma che prova a immaginare, forse sognare, una società, una politica e un’economia più giusta.
Perché in fondo di giustizia si tratta!

Bianco con il giallo: una settimana al Serming di Torino

La disabilità può diventare uno spunto per parlare di difficoltà? E di comunicazione?
La paura del diverso, può essere affrontata in modo disarmato?
C’è un legame tra comunicazione e pace?
Queste domande e le conseguenti riflessioni scaturiscono dall’esperienza che io e Claudio Imprudente abbiamo vissuto, quest’estate, al Sermig di Torino una realtà con la quale siamo entrati in contatto e abbiamo stretto amicizia un paio d’anni fa.
Gli “abitanti” del Sermig sono vari: chi ci vive per un giorno, una settimana, un mese oppure per tutta la vita. I volontari che prestano servizio per le più svariate attività (secondo l’idea che tra pulire un bagno, cucinare o gestire la distribuzione di aiuti internazionali non c’è differenza), le donne e gli uomini di strada, ai quali viene offerta accoglienza e la possibilità di riscattarsi, i giovani che a centinaia passano periodi più o meno lunghi per fare e ascoltare, imparare e insegnare, amare ed essere amati.
In questo contesto, siamo stati invitati per incontrare circa 500 ragazzi, provenienti da tutta Italia, con i quali affrontare il tema della comunicazione e della disabilità.
Nonostante la nostra lunga esperienza di incontri dentro e fuori la scuola, è stato molto emozionante passare una settimana intera in loro compagnia, sia durante gli incontri, sia passeggiando per i corridoi dell’Arsenale della Pace, a mensa come durante le varie attività di servizio. Scambiare due chiacchiere, fare una foto, prendere un gelato… un modo diverso e, come ama dire Claudio, molto interessante di stare insieme e conoscersi.
L’idea di questa serie di incontri è nata dopo la pubblicazione di Omino Macchino e la sfida della tavoletta (Ed. Erickson, 2009), ultimo libro di Claudio, al quale abbiamo collaborato anche io e Luca Giommi.
Partendo dalla comunicazione, tema trattato nel testo, e dal confronto diretto con la disabilità e le difficoltà, siamo arrivati a parlare di pace, tema tanto caro al Sermig.

La disabilità può diventare uno spunto per parlare di difficoltà? E di comunicazione?
A queste domande rispondo forse.
Mi spiego.
Partendo dalla differenza, ormai assodata, tra deficit e handicap, possiamo affermare che le difficoltà non sono insite nel deficit ma sono il frutto del rapporto tra la persona disabile e la realtà.
La disabilità, quindi, non rappresenta la difficoltà, bensì si confronta con essa nel momento in cui entra in relazione con il mondo esterno, sia quello fisico che quello delle relazioni umane. Fatta questa premessa, possiamo allora tranquillamente affermare che la disabilità può diventare uno spunto per parlare di difficoltà e, soprattutto, del modo in cui affrontarle. Infatti è proprio dal confronto con esse che nasce la necessità di individuare strategie utili per poterle superare: tecniche o intuizioni creative che diminuiscano la distanza tra quello che una persona con disabilità potenzialmente potrebbe fare e quello che invece riesce a realizzare effettivamente.
Questo discorso, però, ha senso solo se non prescindiamo dal contesto, il quale rappresenta il primo partner con il quale confrontarsi e con il quale creare alleanze. Se, infatti, è proprio dal rapporto con il contesto che nascono le difficoltà, è sempre nel contesto che possiamo individuare le modalità per superarle.
Lo stesso discorso può essere allargato alla comunicazione, intesa come elemento di relazione e di superamento delle difficoltà. Anche la comunicazione, in molti campi, spesso rappresenta il problema. È indubbio, però, che rappresenta anche l’unico strumento per risolverlo, per superare la distanza tra gli interlocutori. La difficoltà, in questo modo, diventa risorsa.

La paura del diverso, può essere affrontata in modo disarmato?
Una delle frasi celebri del Sermig è: la bontà è disarmante.
Idea molto chiara di uno stile di vita e di relazione, che intende porsi in modo disarmato, non solo di fronte ai conflitti più o meno gravi o più o meno personali, ma in ogni campo della vita: nella propria professione, nelle relazioni personali, a scuola come nello sport.
Disarmati, quindi, ma di fronte a che cosa?
Fondamentalmente di fronte al diverso, a ciò che non conosciamo e che, di conseguenza, produce il sentimento della paura.
Affrontarla in modo disarmato significa imparare a considerare la diversità, non tanto come ostacolo o limite, ma come luogo di incontro e ricchezza da condividere. Assumere una nuova logica che, oltre a costruire ponti per superare fiumi ed eliminare distanze, faccia scendere tutti con i piedi nell’acqua perché è il fiume stesso (cioè, ciò che separa) il luogo dell’incontro, dell’inclusione.
Fare tutto ciò in modo disarmato, significa farlo liberi da pregiudizi e preconcetti, aperti alla conoscenza vera e all’incontro con l’altro che, proprio perché diverso da noi, può aiutarci nel percorso di crescita e di evoluzione.
Negli incontri con i ragazzi, la paura e il pregiudizio nei confronti delle persone con disabilità vengono presi come esempio di tutte le paure derivanti dal confronto con la diversità e, a partire da questa provocazione, si arriva a scoprire che la paura è un atteggiamento innato, che si mette in atto come difesa da ciò che percepiamo come pericoloso, e che scompare nel momento in cui conosciamo chi abbiamo di fronte.
Conoscenza, però, che non si può fermare all’immagine esterna ma la deve rivalutare, proponendola in maniera vincente, sottolineando quelle che sono le abilità, le capacità, i desideri e i sogni e non solo ciò che non va. In questo modo si offre all’altro un’idea positiva con la quale confrontarsi alla pari, senza perbenismo o superiorità, permettendo che avvenga uno scambio e si sperimenti la ricchezza di ciò che è diverso.

C’è un legame tra comunicazione e pace?
Se, come abbiamo detto, la comunicazione è il primo strumento della relazione, ecco che viene facile rispondere sì a questa domanda.
Per raggiungere la pace è necessario comunicare.
Ed è necessario farlo in modo disarmato, limpido, schietto e valorizzando il contesto nel quale si vive. Non esiste pace senza comunicazione, perché non esiste pace senza relazione.

Ecco allora che, partendo dal tema della disabilità, siamo arrivati a parlare di pace.
Facile, perché in fondo la pace può essere definita anche come l’inclusione di tutte le diversità in un mondo fatto di diversità. Un controsenso, vero? Beh, il mondo, purtroppo, ne è pieno… Sta a noi cercare di eliminarne qualcuno.

Postilla (più o meno) infantile
C’è una canzone dello Zecchino d’Oro che mi è sempre piaciuta.
Melodia carina e un testo semplice ma creativo.
Scritta per bambini ma con un messaggio valido anche per gli adulti.
La canzone è Bianco con il giallo e dice:
Prendi una matita, gioca coi colori, non aver paura di metterli vicini,
di mischiarli tutti sotto un solo cielo come dei bambini all’uscita dall’asilo.
Prendi un foglio bianco e disegna il mondo con dei grandi prati e il mare sullo sfondo.
Non importa molto se non è rotondo, quello che è importante è la gente che ci sta.
Gente che sappia dare amore alla gente che amore non ne ha,
senza guardare mai il colore che la sua pelle ha.
Bianco con il giallo trova suo fratello, giallo con il nero ed è un amico vero,
verde con il viola vanno insieme a scuola, l’arancione e il blu che si danno già del tu.
Bianco contro il nero, il mondo resta a zero, azzurro contro il rosso cadono nel fosso,
blu senza marrone, il cuore è già in prigione e non c’è ragione che debba stare là.
I colori e la pace sono un binomio ormai consolidato, a partire dai cerchi olimpici, segno di unione dei cinque continenti, per finire con le bandiere della pace, apparse su tanti balconi qualche anno fa.
Tra le varie interpretazioni, a me piace sottolineare l’idea delle sfumature, come quel terreno di incontro tra i diversi colori, quel luogo dove il giallo e il blu, rimanendo loro stessi, producono il verde, nuovo colore nato dalla mescolanza tra i due.
Sfumature quindi come luogo indefinito, affascinante, stimolante che permette a ognuno di cambiare, pur rimanendo se stesso.
In questo luogo sono di casa tutte quelle realtà che pongono in modo esplicito la diversità come elemento di crescita culturale e sociale, come stimolo alla ricerca di senso e di vera inclusione. Anche le persone con disabilità, quindi, che attraverso l’esercizio dei propri diritti e il compimento dei doveri, si pongono come parte attiva della società, una sfumatura necessaria sulla tavolozza della vita.

Uno strano caso. La tua impressione è solo un punto di vista

Siamo nella villa di Annibale, vecchietto simpatico, un po’ sordo.
Da circa una settimana sono lì raccolti i suoi parenti più cari.
C’è Sergio, il figlio cieco a causa di un incidente e sua moglie Costanza, eccentrica artista sempre in giro per mostre e vernissage.
Viola, secondogenita di Annibale, è una bella ragazza che si crede brutta. La sostiene in questa convinzione il fatto che fino ad ora non è riuscita ancora a trovare marito.
Lucrezia, sorella e socia in affari di Annibale, vive in città ma è lì per festeggiare, come ormai da vent’anni, il suo compleanno.
Sono inoltre presenti il maggiordomo Manfredo, affetto da tic da nervosismo e la governante Silvana, resa zoppa da una strana caduta parecchi anni prima.
Un altro ospite è presente, Walter, un viaggiatore al quale si è guastata la moto (un poco di buono, ha trascorso alcuni mesi in carcere per una presunta rapina).
La sera la festa di compleanno.
Mentre il maggiordomo e la governante servono da mangiare e da bere, gli altri ospiti parlano, chiacchierano, bisbigliano…
Vengono consegnati i regali: Viola dona una collana di perle, Sergio e Costanza un prezioso grappolo d’uva di smeraldi e Annibale un bracciale di corallo, rosso fuoco.
L’entusiasmo un po’ per volta cala e i famigliari si ritirano nelle loro stanze.
Rimangono Lucrezia e Annibale, parlano fitto mentre Silvana riordina.
Annibale chiude la discussione ed esce velocemente, seguito dalla governante.
Lucrezia si siede sul divano, come stremata dalla discussione e si addormenta sbadigliando smisuratamente. La mattina dopo la zia viene trovata morta.
Alla luce degli indizi che raccoglierete, dovrete scoprire il colpevole!
Questa è la missione dei 160 bambini che parteciperanno quest’anno a un centro estivo nella provincia di Bologna. E tale missione verrà presentata dagli animatori sotto forma di spettacolo teatrale. Ognuno di loro diventerà un investigatore, un commissario, un esperto dei R.I.S. e dovrà raccogliere indizi per riuscire a scoprire il colpevole, l’assassino che ha fatto fuori la zia Lucrezia.
Avranno la possibilità di guardare il caso da più punti di vista e dovranno cercare il modo più creativo per superare le difficoltà che uno strano delitto come questo gli porrà davanti.
Infatti i vari protagonisti della storia saranno portatori sia del loro personale punto di vista, attraverso il quale offriranno indizi utili alla risoluzione del caso, sia di diverse difficoltà che, nei giochi come nei laboratori, saranno occasione di divertimento e scoperta.
Gli investigatori impareranno, almeno se lo augurano gli animatori del centro, che il punto di vista di ognuno è importante però non è l’unico, dovranno costruirsi il proprio, non contrapponendolo a quello degli altri bensì integrandolo. In questo modo potranno scoprire che la verità è una sola ma ha molte facce e tutte quante sono giuste.
Tutto questo viene organizzato per dare concretezza all’idea pedagogica che guida il centro estivo, un’idea che si basa su alcuni punti forza: la pluralità di esperienze formative degli animatori, la teoria del dis-equilibrio educativo e il concetto di co-divertimento.
Sono punti forza che non trovano fondamento in una particolare teoria pedagogica, sono idee nate e cresciute nel grembo dell’esperienza di tanti animatori che hanno lavorato estati intere, svolgendo attività, ascoltando e riprendendo bambini, relazionandosi con genitori ansiosi e affrontando le difficoltà del fare educativo.
A proposito di animatori, da sempre quelli che hanno svolto servizio al centro estivo vengono da esperienze formative ed esperienziali piuttosto varie: studenti di ingegneria, filosofia, lettere, farmacia, scienze naturali e del territorio,… Una pluralità formativa che, se in un primo tempo potrebbe apparire come un limite o una difficoltà, durante gli anni si è rivelata una delle peculiarità principali del lavoro di gruppo valorizzando sia questo che il singolo.
Obiettivo degli organizzatori è quello di permettere a ogni animatore di offrire il massimo a partire dalla loro professionalità, portando quindi un valore aggiunto al lavoro educativo. Dall’altro lato vuole offrire a ognuno la possibilità di sperimentarsi in un’attività educativa che, nella maggior parte dei casi, non diventerà il loro principale lavoro, ma che potrà offrirgli un’altra impressione sul mondo, un secondo punto di vista che non può far altro che arricchirli personalmente e professionalmente.
Marco che studia ingegneria gestionale ha creato un sistema per la gestione delle prenotazioni e poi delle iscrizioni, Chiara che diventerà un’educatrice di nido ha mostrato quanto la cura di ogni singola emozione sia importante dall’accoglienza al saluto, Paola invece è una designer e il suo contributo è sia di contenuto che rispetto all’estetica e quindi ha sottolineato agli altri animatori quanto la cura dei particolari e della precisione siano segno di attenzione all’altro mentre Alfonsina, ragioniera da sempre prestata all’educazione, ci tiene ad avere tutto sotto controllo ma spesso sottolinea che la responsabilità di questo lavoro nasce da una scelta di libertà: quella dell’educatore che decide di mettere in gioco le proprie abilità e il proprio tempo ma anche quella del bambino che riporta continuamente al ruolo educativo. Roberto invece, che educatore lo è di mestiere, è un buon punto di collegamento tra le varie esperienze
Il secondo punto forza è il dis-equilibrio educativo cioè la necessità di vivere il servizio educativo come la continua ricerca di un punto di equilibrio, non dando mai nulla per scontato. In fondo il processo dell’educazione è una ricerca e, sentirsi in disequilibrio, ci spinge a ricercare, a cambiare punto di vista, a individuare soluzioni o possibilità diverse.
Succede quindi che, se proviamo a osservare le situazioni attraverso questo particolare punto di vista, ci rendiamo conto che le scelte – organizzative, gestionali, laboratoriali o di contenuto – realizzate in un anno, devono essere messe in crisi per poter essere riscelte o cambiate l’anno successivo; non risulterà strano che le regole, fondamentali sia per la gestione pratica che per l’azione educativa, a volte possano o debbano essere trasgredite per poter raggiungere gli obiettivi stessi o, semplicemente, perché la situazione specifica lo permette; succederà anche che in corso d’opera si cambi direzione o si sposti l’obiettivo, individuandone uno o più di nuovi.
Per dis-equilibrio educativo si intende anche la necessità di essere se stessi e il più spontanei possibile perché l’educatore non è una persona avulsa dalla realtà e sprovvista di sentimenti o emozioni. Al contrario è chiamato a mettere tutto se stesso nel lavoro, senza mentire o negare quello che sente e che vive; se un bambino fa una battuta divertente, magari anche al momento sbagliato (ci sono poi momenti più o meno giusti per fare battute?), perché non si deve ridere insieme a lui, invece di liquidarlo con un banale “Non fare il pagliaccio?”; se è un giorno storto, invece di scaricare inconsciamente aggressività, malessere e insofferenza sui bambini, perché non provare a dire semplicemente “Guardate bambini, oggi è una brutta giornata, per favore state tranquilli perché non sto bene!”. Probabilmente si scoprirebbe che anche i più piccoli sono capaci di identificarsi con un altro essere umano e che quindi adatterebbero il loro comportamento al vostro stato.
Si tratta quindi di una continua ricerca dell’equilibrio che risulterà, per certi versi, più faticosa, ma indubbiamente renderà il lavoro molto più efficace e soddisfacente.
Con la soddisfazione ha a che fare anche l’ultimo punto forza cioè il co-divertimento, il quale ha un significato molto semplice, riassumibile nella frase che gli educatori si dicono ogni volta che rimettono in moto la macchina organizzativa: se scegliamo, organizziamo, proponiamo attività, gite, esperienze che ci fanno divertire, che ci mettono in gioco, che ci soddisfano e ci convincono sicuramente riusciremo a far divertire, mettere in gioco, soddisfare e convincere anche i bambini.
L’esperienza di tanti anni ha insegnato che questo è vero, e che se segui questa regola il lavoro risulterà più semplice e molto più divertente. Attenzione: non si tratta di obbligare i bambini ad avere gli stessi gusti degli animatori, bensì di riuscire a svolgere in pieno il ruolo educativo, che per certi versi assomiglia a quello di un buon maître. Infatti un buon educatore è colui che prepara la tavola con i contenuti e le attività che vuole proporre in modo impeccabile e il più accogliente e interessante possibile, lasciando poi ognuno libero di mangiare ciò che più gli fa gola. Maggiore sarà la passione e il piacere nel preparare questa tavola, maggiore sarà l’abbuffata!
Ecco allora che i tre punti forza diventano elementi caratterizzanti del centro estivo sia per gli animatori che per i bambini.
In fondo anche loro sono portatori di una pluralità di esperienze – familiari, amicali, personali – che, se integrate, non possono far altro che arricchire la crescita e l’esperienza di tutti; anche loro viaggiano alla ricerca di un continuo equilibrio tra ciò che desiderano e ciò che gli viene proposto, tra il rispettare una regola e il trasgredirla, tra il conformarsi a uno stile e l’arricchirlo della loro spontaneità; infine loro sono oggetto e soggetto del co-divertimento, attori principali della riuscita del progetto, desiderosi di potersi abbuffare allegramente al tavolo dell’educazione.