Il tennis in carrozzina, per scoprire nuovi movimenti (e momenti) di sé
di Francesca Aggio, animatrice Progetto Calamaio
L’anno scorso mi sono recata insieme alla mia famiglia in vacanza alle isole Mauritius e quando i miei genitori giocavano a tennis io li osservavo. Sul campo, a fianco mamma e papà, c’era un uomo che sembrava una statua di bronzo, appena lo vidi rimasi senza fiato e credetti che madre natura avesse donato tutta la perfezione del mondo e dell’universo a lui. Si presentò come Ivan, era un ex campione di tennis russo che aveva deciso di trasferirsi a vivere in quell’isola.
Ivan si occupava anche di insegnare il tennis in carrozzina a chiunque volesse, e da subito mi convinse a provare. Grande gioia e stupore, mi piacque immediatamente.
Appena tonata in Italia, tormentai i miei perché volevo assolutamente continuare e qui la fortuna ci assistette, perché proprio nella mia città insegnava Alberto Setti, istruttore e responsabile nazionale del tennis in carrozzina. Dovevo però
scegliere se continuare il teatro che credevo fosse per me molto importante o iniziare a diventare una sportiva. Volevo mettermi in gioco, provare qualcosa di diverso e dove solo io fossi protagonista. Col tempo capii sempre di più che mi ero innamorata di questo sport, il tennis mi ha dato la sensazione di libertà, mi ha permesso di avere una valvola di sfogo, mentre imparo a colpire una pallina non mi sento sotto esame.
Sono tranquilla, se sbaglio ripeto l’esercizio e mi entusiasmo alla fine di ogni lezione, perché capisco che il mio corpo ha utilizzato parti che fino a quel momento non solo pensavo di non essere in grado di usare, ma nemmeno di avere. Un esempio potrebbe essere la posizione del mio polso destro che è sempre uguale, perché credevo di saperlo usare solo in quel modo, ma quando tengo la racchetta e devo piegare o meno il polso per impugnarla diversamente a seconda se il risultato è un dritto o un rovescio, mi accorgo che posso spostarlo come devo. Alberto è sicuramente una persona con grandissima capacità professionale, e con tanta pazienza e fiducia. Lui stesso mi dice che ogni venerdì, con me come con tutti gli altri suoi allievi, è un mettersi in gioco insieme, lui insegna, ma nello stesso tempo lui impara. Non mi pone e non si pone limiti, insieme scopriamo. Le sensazioni sono tante e tutte piacevoli, sia fisiche che psicologiche.
Con il tennis sto scoprendo che non si deve mai rinunciare alle cose, ho fatto tanti progressi, ma non solo dal punto di vista sportivo ma soprattutto di crescita personale, perché ero una persona che davanti alla prima difficoltà rinunciava, invece ora sto imparando che devo credere un po’ di più in quello che faccio.
Non devo pensare in modo negativo, ma tutto deve essere uno sprono per crescere personalmente senza temere il giudizio altrui. Le prime volte se c’era solo la mamma a vedermi, non era un problema, ma se veniva anche papà, diventavo più ansiosa, temevo un suo giudizio. Era un comportamento molto infantile, e ora questo sport mi sta aiutando ad avere un mio autocontrollo, mi devo assumere la responsabilità di fare bene o sbagliare, senza mettermi troppo in crisi, ma accettare che non tutto riesco a fare.
Consiglio ultimo: provate il tennis, il divertimento è assicurato!
Per rendere più comprensibile quello che ho voluto condividere con voi, ho preparato delle domande che ho posto ad Alberto, il mio istruttore.
Secondo te a che età si dovrebbe cominciare a giocare a tennis?
Diciamo che un’età giusta non esiste, per darti comunque qualche riferimento i bambini mediamente possono iniziare tra i 4 e i 5 anni. Con gli strumenti attualmente utilizzati, racchette corte e leggerissime campi e reti di dimensioni ridotte oltre a palle lente e leggere, alcuni bimbi iniziano addirittura ad apprendere i primi rudimenti attorno ai 2-3 anni. La cosa importante da sapere è che proprio l’uso di questi strumenti rende la prima fase di apprendimento molto semplice e poco traumatica per il corpo ancora esile di un bimbo di quell’età.
Concludo anche affermando che, chi inizia più tardi, trova comunque terreno fertile per iniziare uno sport che, aldilà del lato agonistico, permette di essere praticato per tutta la vita con grande soddisfazione.
Nella tua carriera da giocatore quali sono stati i risultati che hai ottenuto?
Purtroppo non eccelsi. Sono stato classificato in 3° categoria nella prima metà degli anni ’80. Ho iniziato proprio nel 1986 invece a intraprendere il percorso dell’insegnamento che, ad oggi, posso affermare mi ha dato molte più soddisfazioni.
Perché hai deciso di intraprendere questa avventura con le persone in carrozzina?
È stata inizialmente una casualità. Nei primi anni di insegnamento avevo avuto un ragazzino di nome Fabian Mazzei. Fabian da grande appassionato di sport non si limitava al tennis ma giocava a calcio e sciava. Proprio durante una gara amatoriale di sci ha subito un incidente che gli ha cambiato la vita. La mancanza delle reti di protezione laterali al percorso ha fatto sì che la sua caduta si sia trasformata in incidente gravissimo, la sua corsa dopo la caduta si è purtroppo fermata contro un albero che gli ha spezzato la schiena. A 19 anni, dopo un lungo percorso riabilitativo, Fabian deve accettare l’idea di vivere la sua vita su due ruote invece che su due piedi. Ma lo sport rimane una fiamma viva dentro di lui e inizia, sempre nel nostro centro sportivo, a giocare in carrozzina. In pochi anni diventa il più forte giocatore d’Italia e la sua carriera di giocatore lo porta ad avere esigenze che la dirigenza di allora non poteva soddisfare, cosa che inevitabilmente ci allontana. Durante un Campionato Italiano giocato a Bologna riprendiamo i contatti e dopo qualche anno di tentennamento nel 2007 mi chiede di diventare il suo Coach. La sfida mi sembrava interessante, dovevo dimostrare a me stesso di essere in grado di ampliare e trasformare le mie conoscenze da insegnante di tennis. La mia curiosità è stata inevitabilmente stuzzicata e abbiamo iniziato il nostro percorso che, nel giro di un anno, ha portato Fabian a raggiungere il suo best ranking: n. 18 del mondo. Nei due anni successivi i suoi continui miglioramenti hanno dato grande visibilità al mio lavoro e mi hanno permesso di entrare a far parte del board tecnico della Nazionale di tennis in carrozzina di cui oggi sono Responsabile Tecnico Nazionale.
Avevi avuto già modo di interagire con persone disabili?
Sì, ma di altro tipo. Avevo avuto, nei primi anni di insegnamento, una ragazzina con sindrome di Down, inserita in un gruppo di bimbi. Una bellissima e impegnativissima esperienza che è però terminata dopo un anno.
Con che tipo di disabilità lavori?
Solo con quella di tipo fisico. Non ho competenze sulle altre tipologie di disabilità nonostante l’esperienza fatta nei miei primi anni di insegnamento come già riferito.
Quando hai iniziato a insegnare alle persone con disabilità quali sono state le difficoltà che hai incontrato?
Io personalmente nessuna. Le difficoltà sono soprattutto legate alle barriere architettoniche e al reperimento degli strumenti necessari, le carrozzine sportive. In Italia siamo ancora indietro nello sviluppo dell’accessibilità sia per motivi strutturali, città vecchie e quindi difficilmente modificabili con i giusti criteri di accessibilità, che per motivi culturali, ad esempio la gestione della disabilità con parametri molto diversi da quelli esclusivamente assistenzialisti. Ma il problema non è solo di chi non vive a stretto contatto con la disabilità e pensa che le persone disabili debbano vivere in un mondo a parte anziché essere parte del mondo. Ti posso dire che difficoltà molto grandi sono invece legate alla mentalità delle persone che gravitano attorno alla persona disabile, te ne indico una su tutte: la scarsa volontà di creare indipendenza, autonomia. Il tennis è uno sport individuale e responsabilizza molto chi lo pratica, si vince e si perde per proprio merito o demerito, e porta a una grande comprensione di noi stessi. Questa cosa ha un valore enorme per una persona disabile che ha bisogno di appropriarsi o di riappropriarsi della propria autonomia. Purtroppo questo valore estremamente positivo a molti fa paura.
Hai dovuto modificare qualcosa nel tuo metodo di insegnamento?
Non molto in realtà, è chiaro che alcuni aspetti fondamentali sono assolutamente diversi e quindi sono dovuto partire proprio da questi, ma il metodo di insegnamento che utilizzo per i normodotati si adatta perfettamente. Provo a chiarire il concetto: è evidente che chi gioca muovendosi su due ruote deve risolvere un problema fondamentale che chi si muove su due piedi non deve affrontare, l’uso degli arti superiori per chi gioca in carrozzina ha come obiettivo sia la mobilità sul campo da tennis che la gestione della racchetta per colpire la palla. Serve quindi creare una perfetta sinergia tra i due movimenti in modo che entrambi sviluppino energia e precisione. Bisogna poi considerare che la disabilità fisica è estremamente articolata: pensa alla differenza che può esserci tra chi ha subito l’amputazione di un piede e un tetraplegico o una persona affetta da spina bifida. Quindi, se già ogni individuo ha caratteristiche proprie che lo rendono differente da tutti gli altri, queste differenze vengono amplificate dalle variabili relative alla disabilità che lo contraddistingue. Il residuo funzionale, quindi la catena muscolare di cui può disporre, oltre ai fattori nervosi che regolano la motricità sono tutti aspetti da considerare, ma diventa tutto molto semplice se si conoscono i principi basilari che permettono al giocatore di svolgere il compito che è chiamato a svolgere sul campo: cioè colpire la palla per mandarla dalla parte opposta del campo. È chiaro che se prendiamo i grandi campioni come esempio di questo compito può sembrare (anzi lo è) tutto molto complicato, visto che la loro capacità di generare energia con grandissima precisione è incredibile; bisogna però considerare che ogni gesto tecnico ha una base di partenza che può essere considerata molto semplice per la stragrande maggioranza delle persone, basta quindi focalizzarsi su questi aspetti tecnici per creare le condizioni che possono portare quindi a ottenere il risultato richiesto. Proprio questa cosa mi ha permesso di utilizzare buona parte della mia struttura metodologica trasferendola e plasmandola sulle necessità delle persone disabili.
Hai seguito delle lezioni o hai semplicemente provato sperimentando un nuovo metodo?
Certamente mi sono dovuto documentare, soprattutto sulla parte medica, ma la sperimentazione ha avuto ed ha, ancora tutt’oggi, un ruolo fondamentale. Ogni mio allievo è stato vittima di sperimentazione da parte mia. Detto così però non sembra molto bello per cui provo a chiarire cosa intendo: ogni miglioramento che riesco a produrre in un giocatore comporta una variazione nel suo schema tecnico-tattico che, inevitabilmente, mette in evidenza anche aspetti negativi. È chiaro che se il lavoro viene svolto correttamente questi aspetti negativi incidono in percentuale minore sulla qualità del gioco, ma sono presenti e vanno osservati perché ci danno spunto sul percorso da intraprendere da quel momento in avanti. Per quel che riguarda il mio rapporto con la disabilità poi è stato fondamentale ascoltare e osservare le reazioni che Fabian per primo e tutti gli altri poi hanno durante le lezioni. Ritengo comunque che la cosa più importante sia avere sensibilità sul movimento in generale, cioè percepire ed elaborare i movimenti delle persone che hai di fronte tentando di ricreare su se stessi quelle condizioni che, nel bene e nel male, condizionano il risultato finale per poter evolvere o modificare i riferimenti utilizzati fino a quel momento. Mi sono quindi messo sulla carrozzina sportiva per capire come reagisce ai diversi stimoli il corpo di chi la utilizza, analizzando su me stesso ogni colpo del tennis e ogni spostamento necessario a coprire il campo. Da questa base e analizzando diversi video di match tra i migliori giocatori del mondo ho potuto creare le basi per il mio lavoro su Fabian che è stata quindi la mia prima cavia.
C’era qualcosa che ti spaventava?
Sono sincero non mi sono mai posto questa domanda, non perché fossi certo dei miei mezzi ma perché nel lavoro di un tecnico sportivo il fallimento è sicuramente l’aspetto più frustrante e quindi anche quello a cui bisogna abituarsi. Ma come nella prestazione sportiva, anche in quella che offre un tecnico questo aspetto diventa un forte stimolo al lavoro e alla perseveranza, quindi ho solo dedicato le mie energie alla ricerca della soluzione dei problemi che, di volta in volta, dovevo affrontare. Altro motivo per cui non mi sono posto il problema è che non ho mai sofferto di quella che potrei chiamare la paura delle differenze. Io ho a che fare con delle persone, con dei giocatori di tennis e il fatto che si muovano su due ruote anziché su due piedi non cambia nulla.
Cosa ti permette di continuare questa esperienza?
Sicuramente il fatto che mi dà forti stimoli. Sono una persona molto curiosa e la mia curiosità viene fortemente stimolata dalla ricerca di soluzioni a problemi che ancora non ho dovuto affrontare.
Per fortuna questo aspetto è relativo a entrambi i miei campi d’azione, sia quello con le persone disabili che quello con le persone normodotate. Per sintetizzare: vedere che un mio allievo riesce fare oggi qualcosa in più di ieri e la sua soddisfazione sono per me fonte di energia incredibili.
Lo rifaresti?
Certamente!