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autore: Autore: Nicola Pianzola

Il laboratorio del Centro 21: diario di un’esperienza teatrale

Il Centro nazionale Trisomia 21, oltre le diversità è un’associazione ONLUS con finalità sociali, didattiche ed assistenziali a carattere di volontariato. Tale associazione ha lo scopo di gestire, senza fine di lucro, un centro della salute per l’inserimento di portatori della sindrome di Down e persone della terza età. Le finalità del centro sono rivolte allo sviluppo delle autonomie lavorative della persona Down, come per esempio: lavori artigianali, stampa di un giornale di informazione, giardinaggio, musica, spettacoli, attività sportive. Il Centro si trova a Idice (BO) in via Emilia (centro21@iperbole.bologna.it).
Nel 2000 il Centro 21 inizia a collaborare con l’Associazione Gibus Teatro per sviluppare un progetto desiderato da lungo tempo: istituire un laboratorio permanente di teatro rivolto ai propri utenti disabili e normodotati . In qualità di attore e pedagogo teatrale mi viene assegnata la conduzione del laboratorio, sotto la direzione di Vladimira Cantoni, regista e presidentessa di Gibus Teatro e la supervisione di Anna Maria Poli, presidentessa del Centro 21, e affiancato da alcuni collaboratori, tutti studenti DAMS interessati al progetto . Per la prima volta nel mio percorso artistico e pedagogico, mi trovavo ad insegnare teatro a persone in situazione di handicap.
Il primo anno di laboratorio si è tenuto da ottobre 2000 a maggio 2001, con frequenza di un incontro a settimana della durata di due ore. I partecipanti sono stati ed 10, di cui 2 normodotati e 8 disabili (6 soggetti affetti da sindrome Down più un caso di ritardo mentale e uno di autismo) ed i collaboratori 8.
Il secondo anno, iniziato ad ottobre 2001 e terminato a maggio 2002, ha avuto una frequenza di due incontri a settimana, ed ha previsto un calendario di prove in vista della presentazione dello spettacolo che si sono svolte nel mese di giugno. I partecipanti sono stati complessivamente 14, di cui 9 avevano già partecipato al laboratorio del primo anno mentre 5 erano nuovi elementi, tutti disabili (quattro con sindrome di Down e un caso di ritardo mentale). Durante l’anno 2 dei partecipanti si sono ritirati dal corso, mentre i collaboratori, inizialmente 10, sono rimasti in 7. Lo spettacolo realizzato, presentato al Festival Dei Teatri di Vita 2002 con il titolo “Di Don Chisciotte ed altre follie”, ha visto la presenza di 15 attori in scena, 9 diversamente abili e 6 normodotati.

 

Teatralizzare lo spazio

Vorrei partire da un lavoro che io chiamo Teatralizzare lo spazio, svolto durante il primo incontro al Centro 21, poiché mi ha colpito quello che è accaduto durante questo esercizio che, più volte ripetuto in altri laboratori di normodotati, ha portato a risultati sorprendenti solamente in questa occasione.
Ho ritenuto opportuno che i partecipanti trasformassero, da subito, la stanza in cui svolgono tutte le altre attività, in un luogo “altro”, creato da loro stessi, in cui potersi mettere in gioco alterando la spazialità e la temporalità quotidiane.
A ciascuno di loro e dei collaboratori, disposti su una fila unica, è stato chiesto di arricchire lo spazio, dopo averlo osservato con cura, posizionandovi, uno alla volta, una sedia all’interno di esso. Per  compiere questa azione è stata concessa loro la massima libertà nei tempi e nelle modalità di esecuzione.
Una cosa molto interessante da notare consiste nel fatto che la maggior parte dei partecipanti ha appoggiato le sedie in maniera particolare (rovesciate a terra o capovolte), seguendo linee spaziali oblique, mentre quasi la totalità dei collaboratori, le ha posizionate normalmente sulle quattro gambe, rivolte verso uno dei punti cardinali.
La cosa  che più mi ha sorpreso si è verificata quando Fabio, uno dei partecipanti, anziché dirigersi verso la fila di sedie, è andato a prendere una scala, appoggiata al muro, in un angolo della stanza.

Fabio parte dalla sua posizione con un grado di concentrazione più elevato degli altri,  attraversa lo spazio zigzagando con scatti improvvisi tra le sedie, in direzione della parete sulla quale poggia l’ultima sedia da posizionare. Improvvisamente si  blocca, direziona lo sguardo in un angolo vuoto della stanza e si dirige verso quello opposto in cui  trova una scala che afferra con decisione. Con tutta sicurezza e nello stupore generale, in un primo momento appoggia a terra i due piedi della scala ancora chiusa, si  ferma proprio sul punto di aprirla e, dopo un secondo di pausa, distende l’attrezzo al suolo. Guarda compiaciuto l’oggetto da lui scelto per alcuni secondi, poi si volta e torna al posto senza mostrare in volto alcuna emozione. 

Una volta ultimata la costruzione del nostro nuovo spazio “scenico”, è stato chiesto a ciascuno di dare una libera interpretazione a quello che era stato creato insieme, in base alle suggestioni che ne avevano ricevuto. I primi a parlare sono stati alcuni dei collaboratori che non sono riusciti a superare la connotazione negativa e stereotipata di disordine e caos, che può possedere una serie di sedie rovesciate su un pavimento.
Come già mi aspettavo, i partecipanti hanno risposto in maniera più originale e profonda, andando ad indagare veramente le emozioni che tale immagine suggeriva loro.

Daniele: Io, in uno spazio così, farei l’amore con una donna.
Francesco: Io, canterei.
Barbara: Eh,…mhh..io, balletto, sì.
Fabio: Mi sebra…mi sebra…ehm…spazza…spazzacamino.
Sara: Io farei…calla…callavolo.

Dopo una prima carrellata di interpretazioni e impressioni, decido di intervenire sulla luminosità dello spazio scenico.

Abbasso l’interruttore della luce e taglio il pavimento della stanza con piccole lame tratteggiate di bianco, che spiovono dalle fessure delle tapparelle che faccio scendere lentamente

Ecco come, con un po’ più di esitazione, si modificano alcune delle interpretazioni date in precedenza dai partecipanti.

Daniele: Comincio, comincio io. Allora vedendo questa stanza qui, mi immaginerei un uomo seduto che canta una canzone a una ragassa, e questa ragassa fa uno spogliarello. Fa uno spogliarello mentre questo cantante seduto canta.
Francesco: mmhh…che gli altri ballano.
Sara: Io ballerei Franchesco.
Fabio: Io, farei quello che dorme, ma che non ha sonno.

Solo dopo questa discussione, attraverso il confronto delle nostre impressioni e delle intenzioni che ci suggerisce la situazione spaziale che abbiamo creato, abbiamo potuto incominciare ad agire questo nostro spazio “teatralizzato”.
La musica ha segnato l’approdo a questa fase, contribuendo ad arricchire emotivamente la motivazione con cui ciascuno sarebbe entrato nello spazio per animarlo della propria presenza.
Carla, la madre di Andrea, uno dei partecipanti affetti da un forte autismo, ha portato un nastro su cui ha registrato suo figlio che suona il pianoforte.

Alla presenza di questa melodia spezzata, lo spazio sembra prendere vita, le note cambiano lentamente sedia sulla quale riposare, accarezzano i pioli di una scala che dà l’idea di essere stata usata per l’ultima volta, avvolta nella penombra che vela i corpi di Sara e Francesco, i primi a danzare insieme in questo spazio, senza alcun timore o imbarazzo, come se quel luogo fosse ciò che rimane del mondo, e loro le ultime creature a popolarlo.

Questo esercizio ha lo scopo di portare i partecipanti a quella che diventa una improvvisazione libera, dove si sviluppano una serie di rapporti di interrelazione. Si interagisce innanzi tutto con uno spazio volutamente alterato nella sua agibilità e con degli elementi praticabili, in questo caso le sedie e la scala. Un altro livello di interazione si instaura tra le persone, che stabiliscono delle relazioni, ciascuno a partire da una propria azione,  scaturita da una suggestione provocata dalla combinazione dello spazio con i suoi elementi, con la luce e la musica.
La prima improvvisazione del laboratorio ci è apparsa molto carica di energia e densa di significati, ma soprattutto vera. Il sovrapporsi delle azioni di ognuno andava a creare dei contrasti molto interessanti e le relazioni che si instauravano tra queste figure pullulavano di una sincerità cruda, messa a nudo senza alcun pudore.
Il lavoro riguardante la “teatralizzazione” dello spazio è stato ripreso nell’ambito dell’incontro seguente nel quale, dopo aver ripetuto la fase di costruzione di una sorta di scenografia mediante l’utilizzo delle sedie e della scala, è stato dato a ciascuno dei partecipanti un elemento di un costume o di  una maschear. La richiesta è stata quella di indossare o calzare tali accessori, prima di entrare nello spazio scenico, e scegliere la posizione e la postura iniziale. Questo avrebbe dovuto già caratterizzare l’entrata di ognuno allontanandolo dal sé di ogni giorno e avvicinandolo ad una prima condizione fittizia di personaggio.
E’ stato di fondamentale importanza cercare di capire che cosa andasse a modificare la presenza ed il contatto con questo nuovo elemento.

Daniele si aggiusta con cura la bombetta che gli ho dato, sposta il bacino in avanti, getta il peso del tronco all’indietro, mima con la mano una pistola, assume uno sguardo minaccioso chiudendo di più un occhio ed inclinando leggermente il capo da un lato. La sua entrata in scena ricorda quella di un gangstar, con camminata  lenta e pausata dai movimenti che esegue con la mano, utilizzata come arma da fuoco.
A Sara ho dato un cappello da marinaretto. Quello che modifica il suo comportamento abituale è la presenza fastidiosa di quell’elemento estraneo che porta sulla sua testa e che continua a mettere, togliere, aggiustare, guardare. Quello che però mi colpisce è la fatica fatta per tenersi quell’oggetto sul capo, uno sforzo che altera a momenti il suo equilibrio e frena i tempi della sua solita camminata.

Quando ognuno ha occupato la sua posizione all’interno della scena, osservo il quadro che si è venuto a creare, notando subito con piacere che alcuni di loro, hanno trovato una loro postura, differente da quella che utilizzano solitamente, legata alle suggestioni derivanti dall’accessorio che indossano, che li ha portati probabilmente ad avvicinarsi ad una loro rappresentazione mentale di un qualche personaggio.
È giunto il momento di aggiungere un altro elemento fondamentale per agire questo spazio, per “teatralizzarlo” ulteriormente: la voce.
Ciascuno dei partecipanti, dalla posizione in cui si trovava, è stato messo nella condizione di utilizzare, a suo piacimento, il materiale drammaturgica che aveva scelto per l’occasione. Così, alcuni hanno cantato un pezzo di una canzone, altri hanno recitato una parte di una poesia, altri ancora hanno letto una frase scritta da loro stessi. Durante questa fase, i partecipanti sono stati sollecitati individualmente ad alzare la voce , a ripetere il testo facendo pause tra una parola e l’altra, ad articolare come meglio potevano, a dilatare e sottolineare alcuni suoni. Terminato questa sorta di lavoro sul singolo, tutti sono stati invitati ad alternarsi nell’esposizione dei propri materiali, con lo scopo di ridurre il più possibile le pause tra l’uno e l’altro, fino quasi ad arrivare a sovrapporsi.
Andrea, non potendo utilizzare la parola, si sarebbe sentito escluso da questa fase del lavoro, per questo è stato fatto accomodare al pianoforte, per accompagnare questo momento con una musica da lui eseguita.

Barbara si alza, avvolta nel suo tutù rosa da ballerina di danza classica, appoggia dolcemente una mano alla scala e inizia a dire una poesia. La voce è molto bassa e nasale, a stento riusciamo a sentire solo la prima parola di ogni verso. Il capo, tendenzialmente tenuto basso, si alza solo a momenti, accompagnato dal movimento di un braccio che compie un leggero slancio in avanti, corrispondente all’incipit di alcune parole, ma il suo sguardo rimane totalmente interiore. La memoria invece non sembra assolutamente provocare alcun problema, dato che Barbara attraversa velocemente varie strofe di quella poesia senza  interruzioni o auto correzioni. Le chiedo di ripetere a voce alta solo il primo verso cercando di fare delle pause tra una parola e l’altra,  prendendo il fiato necessario. Lo sforzo compiuto da Barbara è incredibile, ma la voce ancora fatica ad uscire con più volume dalla sua bocca piccolissima e che si apre minimamente ad ogni suono. Decido allora di farle rivolgere quelle stesse parole a Beatrice, sollecitando la sua attenzione. Il tono cambia e, si colora di molte sfumature, fino a diventare imperativo e portare la voce di Barbara ad alzarsi notevolmente di intensità. Inoltre, l’effetto comico è davvero esilarante, perché Barbara alterna alle parole pompose della poesia i bruschi richiami a Beatrice (“Oh ascolta mo! Dai!” oppure “Ehi! Beatrice! Mi ascolti o fai finta?!”) che la guarda esterrefatta e quasi spaventata.
Sara, seduta vicino a Francesco, lo guarda, e quando le chiedo se vuole dire qualcosa anche lei, dopo un minuto di silenzio, riempito dai suoi continui cambi di espressione, con tutta la dolcezza e la naturalezza possibile dice: “Io  amo Franchesco!”. Inizio a lavorare su questa frase come sulle altre, intervenendo sul volume della voce, e soprattutto sulla scansione e l’articolazione delle parole, stabilendo però già una relazione tra questi due personaggi, dal momento che Sara deve sempre dire la sua frase a Francesco cambiando di volta in volta il contatto fisico con lui (tenendosi per una mano, per entrambe le mani, abbracciandosi, appoggiati di spalle l’uno all’altro,etc.). I risultati ottenuti da Sara, in alcuni minuti di lavoro, sono strabilianti, soprattutto se si pensa che, tra i partecipanti affetti da sindrome di Down, è il caso più grave e che ha scoperto la parola da poco tempo.
Daniele si dirige verso lo stereo, estrae una cassetta dalla tasca e la inserisce nell’apparecchio. Si volta, ci guarda, preme play e ritorna nello spazio cominciando, con le dita, a tenere il tempo di una canzone dance cantata in francese. Con la sua goffa andatura comincia a sondare lo spazio. Poi si ferma di fronte ad una delle collaboratrici, prima con uno sguardo accattivante, poi tendendo la sua mano, con il suo indecifrabile linguaggio delle dita, la invita a ballare. Tenendola per  mano viene verso di me, e ripete lo stesso invito, ci fa disporre ai suoi fianchi e ci guida in un inchino verso un ipotetico pubblico, ripetendo questa procedura per tutti e quattro i lati della stanza. Le sue mani cominciano la loro danza insolita, indicando gli altri, forse invitandoli, fino a che, sempre su indicazione dello stesso Daniele, che oramai riveste la figura di direttore di questa orchestrina danzante, prendiamo gli altri partecipanti per mano. Si viene a formare in tal modo un cerchio che danza imitando i gesti di Daniele, mentre Barbara sale sulla scala, rimasta al centro dello spazio, e, tenendosi saldamente con una mano, getta nell’aria l’altra, che comincia a seguire il tempo della musica. Sull’incalzare del tempo tutti quanti cominciamo a battere le mani sfociando in un meritato applauso rivolto a tutti i partecipanti a quella che è diventata, inaspettatamente, un’improvvisazione collettiva.

Sono bastati questi due incontri a farmi capire che qualsiasi struttura fissa di un esercizio serve ai partecipanti, inizialmente, per dare loro una certa sicurezza iniziale e stimolarli ad agire. Successivamente, però, la loro imprevedibilità e le loro peripezie scardinano da dentro qualsiasi sistema chiuso, alterandone continuamente la forma, espandendone talmente i confini da arrivare a distruggerli. Così ogni indicazione data, ogni traccia da seguire diventa la partenza per un percorso che porterà alla liberazione da ogni schema. E questo capita anche a me, quando lavoro con loro, difficilmente riesco a concludere anche solo un riscaldamento muscolare senza improvvisare sulle loro reazioni continue variazioni. Così, quando Daniele, invece di utilizzare un testo, ha deciso di usufruire di una base musicale per giungere ad una improvvisazione priva della parola, ho lasciato proseguire la cosa, senza quasi accorgermene. Proprio per lasciare ogni libertà di espressione, per non soffocare la sua inventiva ed il suo narcisismo. Per non confezionare nulla in uno schema fisso o in un metodo rigoroso. Forse la verità è che qui, come nel teatro, non c’è metodo da seguire. Ogni giorno impari qualcosa e il giorno dopo sei da capo. Il terreno in cui mi stavo avventurando sarebbe stato quello dell’inatteso e dell’imprevedibile. Avrei insegnato ma anche imparato, avrei dovuto essere disposto ad abbandonare quei meccanismi e quelle logiche che noi chiamiamo “normali”, per conoscere ed acquisire quelle da loro utilizzate. Questa sarebbe stata la condizione per poter creare un vero dialogo tra di noi. E questo il nostro “spazio teatralizzato”, dove tutto è possibile, dove abita lo stupore, dove c’è continua tensione ad un’originalità e non esistono preconcetti. Un luogo dove la creatività, intesa come capacità di vedere nuove relazioni e di rendere esistente qualcosa che non esisteva prima, significa anche deviare da modelli tradizionali di pensiero e comportamento, affrancandosi dai limiti dell’uniformità, liberandosi, realizzandosi, salvandosi, ovvero essendo “diversi”  e imparando a considerare la diversità un valore costruttivo, in cui operano la scoperta e  il miglioramento.

La sfida al limite:un occasione creativa.

 

Il limite fisico, sociale, psicologico o di qualsiasi natura, è un’occasione creativa, è il punto di partenza di un’originalità espressiva e soprattutto il profilo di una identità e quindi va cercato, indagato, conosciuto (3).

Al laboratorio del Centro 21 il limite è stato sempre affrontato, sfidato, trasformato in arte, con volontà, coraggio e sudore da parte di tutti i partecipanti. Nessun esercizio, nessun tipo di lavoro svolto insieme è stato mai preparato appositamente per venire incontro alla loro condizione.

Gli esercizi che propongo loro e che invento, modifico, sviluppo, complico insieme a loro, provengono da un repertorio di esercitazioni svolte durante il mio percorso di attore. Alcuni sono complessi e richiedono molta concentrazione, altri sono molto faticosi e necessitano di un buon allenamento. Non c’è stato alcun tipo di semplificazione e di alleggerimento di queste pratiche, ognuno era libero di arrivare, ogni giorno, dove si sentiva. Questa era la sua sfida personale al limite, intrapresa con una coscienza delle proprie capacità e potenzialità che è andata crescendo nel tempo.

Più volte è stato rimproverato a molti collaboratori di utilizzare un approccio pietistico e di assistenzialismo verso i partecipanti, di aiutare invece di capire, di limitarsi a notare solo i difetti e a correggere gli errori anziché osservare quei modi nuovi di agire, e di agevolare lo sviluppo di quelle potenzialità espressive.
Dove c’è la presenza di un vissuto di carattere assistenziale, e quindi una certa tendenza ad adagiarsi e annullarsi nell’aiuto degli altri, occorre disciplina, per fare in modo che i partecipanti imparino a distinguere il lavoro teatrale dalle altre attività ricreative e lo affrontino con professionalità.
Molti di loro, inizialmente, manifestavano questa tendenza a non spingersi oltre una certa soglia, e a cercare il nostro conforto di fronte ad un compito mai affrontato prima. Inizialmente c’è una coltre di apatia da superare, che se affrontata nella maniera giusta permette a quell’energia potenziale, celata in loro, di sprigionarsi in tutta la sua potenza e a quella volontà di raccontarsi in tutta la poesia del proprio essere, di emergere.

È un periodo molto produttivo, dove si raccoglie ciò che si è seminato a schiena curva e con tanto sudore sulla fronte.
Oggi i ragazzi hanno condotto il training fisico e vocale interamente da soli, passandosi la fiaccola regolarmente, così tutti hanno guidato tutti. Sembrano un corpo solo, un movimento unico con tutte le sue mille sfumature, un suono solo con tutti i suoi armonici. Ho spiato questo avvenimento che è durato più di quaranta minuti senza alcuna interruzione, senza distrazione, non una risata, non uno sbuffo, niente, solo concentrazione e professionalità. […].

Il training che effettuavamo ad ogni incontro, con una durata che variava ogni volta, e che comprendeva un lavoro sul corpo, sulla voce e sulle facoltà mentali (memoria, concentrazione, immaginazione), era il terreno privilegiato per questa sfida lanciata al limite, il luogo in cui poterlo trasformare in altro.
Durante i primi incontri il training veniva affrontato con molta fatica e la spossatezza subentrava dopo pochi minuti, costringendo alcuni partecipanti a fermarsi per riprendere fiato. C’era una sorta di imbarazzo nel compiere il tentativo di misurarsi con quelle difficoltà psico-motorie determinate dall’ handicap. Quello che è stato più volte spiegato loro è che ciò che contava maggiormente era la tensione di quello sforzo impiegato nel tentato superamento del limite piuttosto che il risultato in sé.
Col passare del tempo, dopo esercizi dedicati in maniera specifica all’ equilibrio,  ma soprattutto dopo aver capito che il limite che ognuno ha va messo in gioco e trasformato, come punto di partenza di ogni nostra personale ricerca su noi stessi, ogni situazione che metteva in discussione il proprio equilibrio veniva vissuta come una prova con se stessi, come un’occasione per spingere i limiti del proprio corpo un po’ più in là, oltre la prossima meta.
Sara, che prima si aggrappava alla mia spalla,  di sua iniziativa, per cercare di sollevare la gamba e mantenerla alzata, e non voleva lasciare più la presa, da un po’ di giorni abbandona il mio sostegno ogni qualvolta crede di aver trovato l’equilibrio.
Oggi i ragazzi hanno condotto il training fisico e vocale interamente da soli, passandosi la fiaccola regolarmente, così tutti hanno guidato tutti. Sembrano un corpo solo, un movimento unico con tutte le sue mille sfumature, un suono solo con tutti i suoi armonici. Ho spiato questo avvenimento che è durato più di quaranta minuti senza alcuna interruzione, senza distrazione, , solo concentrazione e professionalità.

La maggior parte dei partecipanti conoscono quali sono i propri limiti, sono coscienti dei rischi che possono correre affaticandosi troppo, ognuno sa quanto può osare. Così molte volte, durante esercitazioni più stancanti, alcuni dei partecipanti si fermavano e uscivano momentaneamente dal lavoro, come può accadere in qualsiasi altro laboratorio dove si lavora con una certa intensità. È capitato però che  qualcuno ignorasse completamente i disturbi che stavano insorgendo in quel momento, colto dalla smania di riuscire a fare sempre di più rispetto agli altri, nel tentativo di voler dimostrare di essere più vicino a noi normodotati che ai compagni disabili.
Il training funzionava molto e cominciava a dare i suoi risultati già dopo qualche mese. Quello che ho sempre apprezzato di questo lavoro è che non si trattava di insegnare loro dei movimenti, delle posture, delle figure, degli esercizi per lavorare con il corpo e con la voce, ma di permettere uno scambio, un dialogo tra i nostri corpi. Così molte volte qualcuno di loro conduceva un riscaldamento vocale basandosi sulle tecniche apprese durante i corsi di canto, un altro proponeva dei passi di danza imparati al corso di ballo, altri ancora mostravano particolari atteggiamenti del corpo e posizioni che a loro sembravano tanto usuali, a noi inimitabili.

Invito Rossella, che durante alcune improvvisazioni si piega fino ad inserire la testa tra le gambe, a proporre le sue figure, che sembrano quelle di una contorsionista, durante il training fisico. Tutti i partecipanti, me incluso, si impegnano ad utilizzare quelle posizioni, per riscaldare i muscoli, fino a dove possono. Mi accorgo di come il corpo di molti di questi attori, proprio perché diverso in alcune caratteristiche che la medicina chiamerebbe malformazioni, possiede delle caratteristiche e gamme di movimento differenti. In questo caso dimostra un’elasticità congenita straordinaria. Io, seppure allenato, non riesco a raggiungere l’estensione dei loro piegamenti con la stessa facilità. Un corpo più flessibile, più elastico, sul quale si può lavorare molto per indagare tutte le sue potenzialità ed esaltarle al meglio.

Con il passare del tempo sono stati i partecipanti stessi a chiederci di essere aiutati a colmare delle lacune nel loro utilizzo del corpo, per affinare dei movimenti, per imparare tutte quelle cose che non sono in grado di fare e che vivono come un deficit. Così, molte volte, durante il training, io stesso o un collaboratore ci dedicavamo interamente ad una persona e al problema che aveva esposto. Tutto questo lavoro sul training e votato al superamento dei propri limiti si è concluso con un risultato sorprendente.
Verso la fine del secondo anno di laboratorio, Andrea, che aveva partecipato anche al primo, durante un momento di distrazione dal lavoro teatrale, ha cantato parte di una canzone.

Rossella ha deciso di portare il karaoke a laboratorio. Accettando questa sua iniziativa, è stato trascurato per un giorno il lavoro che stavamo svolgendo per dedicarci al canto. Ciascuno dei partecipanti ha scelto una canzone ed ha aspettato il suo turno. Questo ha permesso di verificare come cambiasse la voce durante quello che poteva essere inteso come un gioco, rispetto al lavoro teatrale. In effetti, la voce di Rossella, rispetto agli altri, cambiava di parecchio. Mentre, quando si lavora, c’è tutta una serie di inibizioni che quasi non permette alla voce nemmeno di uscire, in quest’ambito più ludico, questa acquista volume, intensità e tono. Inoltre utilizza, in questo caso, un’espressività nelle tonalità molto marcata. Se Rossella stupisce per questi cambiamenti Andrea regala qualcosa che nella vita si vede una volta sola. In quella sala, sulle dolci note della Ninna nanna del Cavallino  si compie quello che potrebbe essere definito come un miracolo. Andrea prende in mano il microfono, segue con gli occhi le parole del testo e comincia a scandirle con il movimento della bocca che si dilata sempre di più.  Improvvisamente comincia a uscire il suono di quelle parole. Una voce limpida, fresca, rimasta inutilizzata per dieci anni riempie la sala, invade i nostri sensi e quelli dei partecipanti. Si crea il silenzio più totale, è solo questa voce a prendere forma, come se fosse una presenza che per un istante popola questo spazio per poi scomparire nuovamente nel nulla. Questa apparizione sonora dura meno di un minuto, sufficiente a gettare tutti nell’incredulità e nel  silenzio. Sembra che nessuno voglia più parlare perché la sua voce non inquini lo stesso spazio in cui si è rivelata quella di Andrea, come un tesoro celato, un enigma svelato, una scoperta che ha dell’incredibile.

Dal laboratorio alla scena

Nel secondo anno di laboratorio, abbiamo deciso di lavorare alla produzione di uno spettacolo, come verifica del percorso biennale svolto e come ulteriore stimolo alla creazione per i partecipanti. Ho pensato di lavorare con delle suggestioni forti, utilizzando dei testi crudi e aperti all’esplorazione dei caratteri umani, ma soprattutto, che potessero esaltare, in tutti i suoi aspetti, il comportamento scenico di questi attori, che ritenevo teatralmente efficace. Durante le improvvisazioni abbiamo utilizzato molto il tema contenitore del circo. Questo, per via del suo potenziale evocativo e fantastico, che invogliava i partecipanti a voler esplorare caratteri e personaggi che possiedono abilità straordinarie, e che di conseguenza li portava a sfidare in continuazione i propri limiti, e a coinvogliare in queste figure tra il poetico ed il grottesco, tutta l’originalità e l’efficacia del loro agire in scena.
L’idea era quella di presentare uno studio su alcuni frammenti di F. Wedekind e G.Buchner,  di compiere un indagine dei caratteri e dei vizi umani che nei due drammaturghi tedeschi compaiono metaforizzati sotto forma di animali. Si trattava quindi di lavorare principalmente sulla metamorfosi e sul doppio, dato che ogni personaggio del circo era anche un vizio, un carattere, un tipo umano, identificato nell’animale che doveva evocare.
Nell’assegnare queste figure agli attori, abbiamo cercato di rispettare una sorta di coerenza nella fisicità e negli atteggiamenti naturali del corpo di ognuno, cercando di scoprire quale fosse la “bestia” che vive dentro ciascuno di loro. Questo lavoro di ricerca, ha fatto intuire ai partecipanti che non si trattava semplicemente di rendere l’effetto di un animale attraverso la sua imitazione, ma che bisognava percepirne l’essenza e viverla come linea guida del proprio personaggio circense, mediante l’utilizzo di una particolare qualità del movimento, di una specifica temperatura energetica, di un tono muscolare differente, etc.
Il procedimento di costruzione del personaggio era tutt’altro che semplice, poiché si articolava sul triplice livello persona-personaggio del circo-risultato personaggio/animale.
Completata questa fase di lavoro inerente al personaggio, ci siamo potuti dedicare al montaggio di alcune sequenze, provenienti dalle improvvisazioni, che delineavano i rapporti e le dinamiche di relazione di queste figure. Mancava però una sorta di referente interno che fungesse da motore delle azioni fisiche e da linea guida. Ho deciso quindi di inserirmi come attore nelle scene che stavamo costruendo, dopo averle osservate e guidate come regista, per dare ulteriori sviluppi e per permettere agli attori di andare più in profondità in ogni loro azione e relazione, nochè per scandire il giusto ritmo all’andamento dello spettacolo.

Così, per la prima volta, mi sono sentito veramente a disagio, come un debuttante capitato per caso in mezzo ad una troupe di attori professionisti ed esperti. Scomparivo letteralmente dalla scena, inghiottito dalla loro presenza scenica così forte, così difficile da sostenere o contrastare.
Ho dovuto lavorare intensamente ed al massimo delle mie capacità, e ricordo che al termine di ogni sessione di lavoro ero esausto. Per mia fortuna non sono solo io ad aver provato queste sensazioni, altri prima di me hanno riportato queste affermazioni, dopo aver lavorato al fianco di attori diversamente abili. […] possiedono un’energia e una coscienza espressiva che un normodotato raggiunge solo con molto lavoro. Tengono avvinto lo spettatore, ma al tempo stesso mantengono una chiara “umiltà” […] (4).[…] Stare vicino ad un attore portatore di handicap è massacrante, perché ha una forza scenica, una verità dell’agire teatrale enorme. […] in loro c’è una capacità di essere autentici. C’è una tale forza di segno scenico che determina un territorio tutto “in salita” […] (5).

Dopo una serie di prove guidate, in cui si testavano i tempi di intervento di ognuno, si è passati alla ripetizione filata dell’intera scena, che ha assunto la durata di circa trenta minuti.
Ci sono state difficoltà iniziali legate alla memorizzazione, non tanto delle partiture, ma dei tempi di esecuzione di queste. Una volta che tali tempi sono stati assimilati, però, il ritmo e l’energia dell’intera scena sono stati sempre sostenuti con grande impegno, dimostrando un alto livello di professionalità.
Per ottenere questo, è stato indispensabile creare una rete di forti stimoli all’azione, che scandivano i tempi di intervento dei personaggi, i cambiamenti spaziali, le pause, l’incalzare del ritmo, le impennate di intensità etc.
Questi impulsi venivano dati da alcuni gesti decisi e da vocalità marcate, come fossero dei segnali conosciuti e condivisi solo dagli attori in scena, che venivano assimilati a tal punto che la risposta risultava automatica.
Quando ogni attore ha imparato a decifrare i segni che scandiscono i tempi e le variazioni della sua partitura, questa rete di segnali si estende automaticamente all’insieme dell’agire scenico di tutti i personaggi, e l’impulso si trasmette da uno stimolo all’altro. Così, un mio gesto si ripercuote sullo spostamento spaziale di un altro personaggio, che a sua volta determina il movimento di un altro, che a sua volta va a innescare la dinamica di relazione tra altri due ancora e così via.
È stato interessante notare come questi attori rispondano meglio proprio a tutti quegli impulsi più sofisticati e meno visibili che si annidano in un cambio di intensità della voce o del tono muscolare, per esempio, piuttosto che ad altri più espliciti. Pare che questi segnali, rintracciabili nelle variazioni energetiche di chi sta agendo in scena, siano più consoni alla loro qualità di percezione, in maniera direttamente proporzionale alla gravità dell’handicap.
Questi attori riescono a captare la preparazione dinamica ad un’azione, e ritrovano gli stimoli per il loro agire in quei momenti di passaggio dall’intenzione all’azione, nei Sats, come li ha definiti Eugenio Barba (6)a proposito del lavoro con i suoi attori.

È incredibile vedere come Sara, che a volte non sembra dare il minimo accenno di risposta quando la si chiama per nome,  così isolata nel suo continuo muovere la bocca, sempre un passo avanti agli altri nel cerchio,  percepisca il mio cambio di tono della voce e compia il suo salto iniziale per avanzare verso il centro. Oppure come, addirittura, avverta il mio ondeggiare del bacino e risponda con il gesto che ha memorizzato e che non ha mai omesso di eseguire.

Tutti gli attori avevano lavorato sodo, ma, soprattutto, era stato speso molto tempo affinché ciascuno di loro fosse cosciente del complesso percorso di costruzione del personaggio intrapreso, delle dinamiche di relazione con gli altri attori, nonché dei significati che il proprio intervento arrecava all’intera scena.
Questo per evitare che lo spettatore, anche solo per un istante, potesse percepire una sensazione di diversità esibita in scena, o di fatica fatta da un attore disabile per imitarne uno normodotato, che non era certo quello che accadeva nello spettacolo e in tutto il nostro lavoro. Così, attraverso la consapevolezza e l’energia degli attori, la nostra è stata una  performance di grande efficacia che non solo ha valorizzato le qualità degli interpreti ma ha colpito il pubblico “come un pugno allo stomaco”, riuscendo a trasmettere un flusso di emozioni forti e autentiche, insieme a un messaggio critico nei confronti di una società che, vergognosamente, tende ancora alla ghettizzazione dell’handicap.

L’handicap non consente trucchi; svela e denuda, e ci costringe molto spesso a fare i conti con la nostra cattiva coscienza di spettatori, di critici, di studiosi, con le nostre cattive abitudini mentali (7).

3. Cfr. Eleonora Fumagalli, in F. Silvestri, Differenze a teatro, in Teatri delle diversità, Pesaro, Edizioni Associazione nuove catarsi, n.19 , 2001, p. 46.

4. P. G. Nosari  (a cura di), Non faccio diversità,  Intervista a Pippo Delbono, in Hystrio, trimestrale di teatro e spettacolo, anno XV n. 2 , 2002, p. 29.

6. Regista teatrale e fondatore dell’ Odin Teatret (DK) nonché teorico dell’Antropologia Teatrale. Cfr. E.Barba, La canoa di carta, Bologna, Il Mulino, 1993, p.87.

7. D. Seragnoli, Ascoltare l’altro, in in E.Pozzi, V.Minoia, Di alcuni Teatri delle diversità, Pesaro, ANC Edizioni, 1999, p. 34.

I principi dell’antropologia teatrale

Uno strumento di analisi sulla diversità e le arti performative

L’antropologia teatrale è lo studio de comportamento dell’essere umano che utilizza la sua presenza fisica e mentale secondo principi diversi da quelli della vita quotidiana in una situazione di rappresentazione organizzata. In questa utilizzazione extra-quotidiana del corpo si rintracciano alcuni principi pre-espressivi ricorrenti e transculturali, che regolano e determinano la presenza scenica dell’attore, ancora prima che egli manifesti una qualsiasi intenzione ad esprimere.
Vorei utilizzare l’antropologia teatrale, in particolare la teoria sui principi pre-espressivi, come linea guida della mia indagine, come solido impianto teorico dal quale poter estrapolare quei concetti in grado di spiegare, almeno in parte, alcune delle costanti presenti nel comportamento scenico degli attori in situazione di handicap, per la maggior parte affetti da sindrome di Down, autismo e ritardo mentale, con i quali ho avuto l’occasione di lavorare, nei due anni in cui ho condotto un laboratorio teatrale presso il Centro 21.
La prima domanda che mi sono posto osservando le loro azioni è stata infatti questa: perché la loro presenza scenica è così forte? Perché la loro espressività mi cattura così tanto? In che modo riescono a godere della mia più elevata attenzione e della più intensa partecipazione emotiva ancora prima di voler intenzionalmente esprimere qualcosa? Perché tanta “seduzione” in ogni piccolo gesto o azione? Come posso spiegare quella sensazione di palpitante attesa che mi invade appena si presentano sulla scena?
L’attesa di essere stupiti dal loro agire sembrerebbe quasi una condizione garantita loro a priori, come innata. Per trovare una risposta occorre cercare una spiegazione che fondi le proprie motivazioni non esclusivamente sul piano emotivo ma su un approccio interessato alle questioni che riguardano l’arte dell’attore, e quindi gli studi sul corpo, il movimento e l’espressione delle emozioni.
Il corpo dell’attore in scena è un corpo “altro”, che utilizza delle logiche differenti da quelle comuni, che non opera nell’ambito della quotidianità ma utilizza tecniche “extra-quotidiane”, che è pronto a evocare presenze e a farsi veicolo di significati: insomma un corpo trasformato che cattura l’attenzione dello spettatore ancora prima di agire.
Certo uno spettatore che non abbia liberato il suo sguardo da preconcetti di ordine culturale e sociale, e che, di conseguenza, non sia pronto ad accettare la diversità in quanto tale, potrebbe, in maniera assai riduttiva, attribuire quel livello particolare di attenzione e tensione, alla visione in scena di un corpo diverso, che possiede una fisicità differente dalla norma. Tutta la suggestione coinciderebbe perciò con l’esperienza della diversità.
Ma la questione riguardante la presenza scenica di questi attori è di certo più sofisticata e, di conseguenza, merita di essere approfondita, proprio per contrastare questa visione, purtroppo comune, che si ha nei confronti della diversità “messa in scena”. 
In questo caso, l’antropologia teatrale può fornire, a mio avviso, un aiuto molto prezioso a tale proposito, poiché permette di compiere un’indagine specifica dell’utilizzo extra-quotidiano del corpo-mente dell’attore o di chi chiunque agisca di fronte ad uno spettatore, come nel caso del laboratorio teatrale del Centro 21, un contesto in cui la persona disabile è portata nella condizione di esprimersi di fronte ad altri individui diversamente abili e normodotati. 
La considerazione principale da cui possiamo partire per questa ricerca è la condizione di “pre-espressività” che sembra essere connaturata alla condizione fisica e mentale dell’attore in situazione di handicap, in grado di applicare naturalmente quei principi individuati dall’antropologia teatrale e che  producono quelle tensioni organiche e quindi quella qualità di energia che rende il corpo dell’attore vivo e teatralmente deciso. In realtà questi principi sono già rintracciabili nel comportamento che regola il suo agire quotidiano,  ma  con il passaggio ad una pratica extra-quotidiana, assumono una straordinaria valenza di presenza scenica.

Equilibrio

L’equilibrio del corpo umano è una funzione del complesso sistema di leve composto dalle ossa, dalle articolazioni e dai muscoli. Si possono distinguere principalmente due tipi di equilibrio: quello statico, tipico della situazione eretta simmetrica, che richiede un minimo sforzo muscolare, e quello dinamico, che mette i muscoli in azione per conservare la posa eretta..
Questo secondo tipo di equilibrio richiede uno sforzo fisico maggiore ed una dilatazione delle tensioni corporee che sottolineano la presenza dell’attore, prima ancora che egli passi allo stadio dell’espressione intenzionale e individualizzata.
L’attore abbandona l’equilibrio cosiddetto normale, che regola il comportamento di tutti i giorni, modificando il suo modo di camminare e di spostarsi nello spazio, alterando anche la maniera di stare immobile, alla ricerca di un equilibrio “di lusso”, e di un’immobilità che genera, in chi guarda, una sensazione di movimento.
L’equilibrio è messo in azione e le opposizioni delle differenti tensioni del corpo raccontano già una storia.
Sebbene la fisicità di molte persone Down possa dare, in un primo momento, l’idea di una stazione eretta molto stabile e ben ancorata al suolo, in verità, le forze che agiscono per mantenere questa situazione sono sempre in azione ed esprimono uno sforzo superiore alla norma. Per esempio, osservando individualmente i partecipanti al laboratorio del Centro 21, si ha come l’impressione che ognuno abbia trovato la sua posizione eretta prendendo coscienza delle tensioni che operano nel proprio corpo e accomodandosi sullo sforzo minore. Di fatto, ognuno ha una postura  molto differente dall’altro: chi piega molto le gambe e divarica i piedi, chi tiene tutto il peso verso il basso, compresa la testa, chi appare sbilanciato all’indietro, chi sta più rigido etc. I casi più gravi invece, non sono mai del tutto immobili nella stazione eretta, ma compiono delle continue correzioni e dei minimi aggiustamenti che, talvolta, assumono il carattere di oscillazione armonica; l’impressione è quella di un equilibrio dinamico-ondulatorio. Quando poi l’equilibrio viene messo in azione e addirittura sfidato durante il training (allenamento fisico-vocale e psico-sensoriale che precede il lavoro teatrale di improvvisazione e costruzione delle azioni sceniche), le forze che operano compiono uno sforzo talvolta inverosimile, creando tensioni così forti che, in virtù di questo spreco di energia, esaltano la presenza del corpo. Lavorando sul disequilibrio congenito si scoprono nuove valenze comunicative e si comincia a considerare gli sforzi compiuti, non più solamente come deficit e malfunzionamenti muscolari, ma come un potente mezzo di espressione, capace di catturare l’attenzione in modo non ordinario, al fine di manifestare la propria esistenza.
Ad esempio, Barbara, una delle partecipanti,  prima durante le improvvisazioni, e poi nel personaggio che ha scelto di esplorare, quello della ballerina, ha deciso di utilizzare alcuni passi ed evoluzioni studiati a danza.
Quando la osservo nei suoi movimenti, è la danza di quell’equilibrio, continuamente messo in discussione, che mi cattura, è l’energia sprigionata da quell’enorme sforzo, teso alla rottura degli automatismi, derivati, nella maggior parte, dalla costrizione dell’ handicap, che rivela tutta la vita di quel corpo.
Andrea, un ragazzo affetto da un grave autismo, ha deciso di lavorare sulla figura del funambolo, di conseguenza, durante le improvvisazioni, percorre un filo steso a terra. Non riuscendo a liberarsi dalla lentezza di ogni suo movimento, si trova costretto a controllare maggiormente ogni muscolo per mantenere la situazione di equilibrio, nella precarietà dettata da questa particolare condizione. La concentrazione raggiunta sul filo immaginario, da cui deriva questa sua qualità di equilibrio, è strabiliante. Durante un esercizio in cui viene chiesto a tutti i partecipanti, normodotati compresi, di percorrere il filo ad occhi chiusi, appuriamo che Andrea è quello che ha compiuto il tragitto più lungo. Non solo, il suo modo di gestire l’equilibrio ha creato una particolare tensione negli osservatori, che hanno realmente sentito la paura che Andrea cadesse da un momento all’altro.
A volte è un cambiamento di altezza a mettere in moto queste dinamiche. Per esempio, durante un’esercitazione sulla narrazione, sono intervenuto chiedendo ai partecipanti di salire su una sedia per continuare il proprio racconto. La qualità del narrare è cambiata, nonché l’attenzione suscitata in noi osservatori. Questo perché la fatica nel mantenersi stabili sulla sedia ha conferito forza e sfumature anche alle parole, oltre che alla qualità della presenza del narratore.

Opposizione  e  negazione
Il corpo dell’attore è un luogo in cui si scontrano forze e tensioni contrapposte e la resistenza che nasce da queste opposizioni conferisce ad ogni movimento una maggiore densità energetica.
Inoltre, attraverso la dilatazione dell’azione nello spazio, l’attore riesce ad attirare maggiormente l’attenzione dello spettatore e a guidarla verso la comprensione dell’azione compiuta. Quest’ultima quindi, nel suo svilupparsi e nel suo compiersi, non segue le logiche e le direzioni che apparterrebbero alla quotidianità. Il disegno dell’azione può intraprendere una direzione opposta rispetto al punto di arrivo prefissato, sottostando ai cambi direzionali e spaziali dettati dalle forze in atto.
Quando osservo i partecipanti, soprattutto quelli affetti da sindrome di Down, compiere un’ azione, o una sequenza di azioni in scena, soprattutto  non c’è mai niente di scontato, compresi l’inizio ed il termine della medesima. Il movimento è sempre molto dilatato nello spazio e nel tempo, segue cambi improvvisi di direzione e di intensità, il suo inizio difficilmente riesce a farci intravedere la fine o ipotizzare uno sviluppo dell’azione. Queste opposizioni, questi contrasti sono presenti anche nell’agire comune delle persone disabili e caratterizzano il loro pensiero in atto. Molte volte, durante l’esecuzione di una qualsiasi azione, può accadere che intervenga una sorta di auto-correzione. Il partecipante può cercare di nascondere il suo intervento correttivo, in questo caso si avrà una ripercussione comunque percepibile a livello dell’azione, che subirà dei cambi improvvisi. Egli,  sfidando le sue inibizioni iniziali e le sue resistenze corporee, lottando contro i suoi blocchi emotivi e le differenti tensioni interne, fa defluire, nell’azione che sta compiendo, l’opposizione fra forze contrastanti. In tal modo andrà a creare delle sequenze di opposizioni in tutto il suo corpo e dei cambiamenti improvvisi di direzione nella linea della sua azione.
Queste opposizioni che giocano nel corpo-mente dell’attore diversamente abile, comportano una dilatazione energetica del corpo che rinforza la sua presenza scenica. Inoltre, così facendo, l’azione può cominciare nella direzione opposta, cambiare rotta, essere dilatata e ritmata diversamente. L’effetto è quello di non rendere immediatamente leggibile l’intenzione di chi sta eseguendo una determinata azione eludendone pertanto la prevedibilità. Azioni con ritmi propri, sequenze ripetitive, nei cui cambi impercettibili si annidano piccole epifanie, brusche accelerazioni, lunghe pause, frenetiche tirate, perdita di orientamento, salti emozionali. Tutto questo, cucito armoniosamente in ogni partitura individuale, ed animato da repentini sbalzi di energia, genera una forte tensione in chi osserva il lavoro di questi attori.
Ricordo, ad esempio, la sequenza messa in atto da Fabio, uno dei partecipanti, nata dalle forze contrapposte che, da un lato, lo spingevano a voler recitare una poesia a memoria, dall’altro, lo frenavano e lo spingevano verso altre soluzioni. Così Fabio rinunciò a pronunciare le parole di quella poesia e la fece vivere nel suo corpo, tramite una sequenza di gesti contrastanti,  accompagnata da sonorità echeggianti.
Un’altra sequenza interessante a tale proposito fu quella eseguita da Andrea durante un esercizio per variare le posture dei personaggi, che consisteva nel trovare modi diversi di sedersi e sbilanciarsi fino a cadere dalla sedia. Andrea dilatò anzitutto i tempi dell’esercizio, che regolò sulla base di una sua particolare logica di manifestare le intenzioni. Gli impulsi al movimento, all’azione, al cambiamento coesistevano perciò in lui con le intenzioni di sedersi, appoggiarsi, sostare. Così, appena Andrea trovava una situazione minima di stasi, la rimetteva immediatamente in discussione, facendo giocare queste opposizioni nei dettagli dei movimenti delle dita, nello sguardo, nelle impercettibili oscillazioni di equilibrio. Andrea tornò poi al posto senza essere riuscito a trovare un modo di sedersi. Erano passati effettivamente più di dieci minuti, a me sono sembrati secondi.
L’errore può avere delle ripercussioni negative sull’autostima di un attore Disabile, ma se esorcizzato e trasformato può portare a nuove soluzioni, rivelando il fascino dell’inatteso.

Omissione

Il principio dell’omissione si collega ai precedenti, poiché permette di omettere alcuni elementi di una sequenza, regolata da un gioco di opposizioni, per metterne in evidenza altri. È una semplificazione che elimina i tratti accessori di un’azione. Si compie un assorbimento e un trattenimento dell’energia necessaria per un’azione più ampia, concentrandola in un limitata porzione dello spazio. Questa è una condizione necessaria per giungere alla sintesi, rafforzando la presenza dell’attore in scena. Negli attori del laboratorio l’omissione interviene in maniera naturale, come conseguenza di ciò che appare come errore. Spesso accade che chi sta compiendo un azione eviti alcuni passaggi e sottragga alcuni elementi, che magari noi riteniamo fondamentali e necessari a tratteggiare quella determinata azione, per dilatarne altri che, altrimenti, rimarrebbero impercettibili.
Ad esempio, durante una sua improvvisazione, Francesca traccia un figura nello spazio utilizzando una particolare danza delle braccia. Solo dopo alcuni minuti capiamo che si tratta di un fiore, ovvero solo quando arriviamo a comprendere che alcuni tratti distintivi di tale immagine sono stati volutamente omessi. Le mani smettevano a tratti di tracciare le linee immaginarie nello spazio, ma l’immagine del fiore veniva completata con i movimenti della bocca e tramite una brevissima danza sul posto. Un soffio completava l’opera, dopo di che la sequenza ricominciava, con delle piccole variazioni. Alcuni istanti più tardi, quando la danza si fa più sostenuta, Francesca si avvicina ad Andrea e, anche in questo caso, capiamo solo dopo, e con molta difficoltà, quale azione stia compiendo. A noi sembra che Francesca, stia divorando il cuore di Andrea, che improvvisamente fa battere nelle sue mani e successivamente ingoia, mimando accuratamente e più volte la sequenza. Quello che veniva omesso era il passaggio necessario ad impossessarsi del cuore di Andrea. In realtà, successivamente ho capito che questo momento era stato tradotto da Francesca non in un’azione mimica ma nel suo inspirare profondamente a bocca aperta. Inoltre fu difficile anche capire che quello che Francesca teneva in mano poteva essere un cuore  ancora vivo, proprio perché ne aveva dilatato gli intervalli del battito eccessivamente, ingannando i nostri sensi.
Ancora più interessante è quello che accade quando i partecipanti vengono indotti a trattenere l’energia, evitando di convogliarla in una miriade di gesti per rendere manifesta la loro presenza, concentrandola in piccole azioni limitate nello spazio. La carica energetica da utilizzare resta quella che verrebbe impiegata per compiere una azione molto faticosa e che necessiterebbe di un’ ampia porzione di spazio. Occorre ribadire che i soggetti Down, già normalmente, fanno fatica a controllare gesti incondizionati e tic nervosi o a liberarsi da certe posture o atteggiamenti di fondo. Questo implica che, avendo bisogno di scaricare parecchie tensioni, sono soliti compiere delle piccole azioni, a volte quasi impercettibili, ed alcuni gesti di adattamento (2). Ovviamente, tutto questo comporta anche una difficoltà nel raggiungere un’ adeguata  concentrazione e nel tenere viva l’attenzione richiesta.
Così, quando il partecipante è portato a trattenere l’energia, dovrà controllare, nella sua postura, e in ogni suo gesto, il flusso energetico che vi scorre, cercando di gestirlo al meglio, affinché solo la sua immobilità ed il suo sguardo, raggiungano una buona presenza scenica. Naturalmente, tante sono le difficoltà per alcuni, come sorprendenti i risultati di altri, come nel caso di Francesca, che ha una capacità sbalorditiva nel gestire la sua carica energetica.
Ogni sua improvvisazione solista infatti assomiglia ad una vera e propria dimostrazione di come si trattiene e si scarica energia attraverso il corpo. Non c’è un’esuberanza nel movimento del corpo che danza, tutto è omesso e concentrato in gesti danzati in maniera impercettibile e contenenti una smisurata quantità di energia. Una sua danza assomiglia ad una sorta di trance e dura più di venti minuti. Quando questa energia, trattenuta fino allo stremo, diventa incontrollabile, un urlo, di una potenza dirompente, ne permette la scarica. Francesca è sfinita al termine di queste sue performance e si risiede. Con un’ intensità massima, in un’attività minima, ci ha rivelato il fascino dell’omissione e del trattenimento.

Equivalenza

L’arte dell’attore, in tutte le sue codificazioni, può essere considerata come un metodo per evitare gli automatismi della vita quotidiana, creando degli equivalenti. Al contrario dell’imitazione, si cerca di rendere la realtà attraverso un suo sistema equivalente.
Quando si gestiscono delle improvvisazioni al laboratorio, si cerca di creare un contesto in cui tutti gli attori, sia i collaboratori normodotati che i partecipanti in situazione di handicap, riescano ad operare ed interagire con i significati che emergono dall’interazione fra gli attori e dall’apporto dei vari elementi che entrano a far parte di un’improvvisazione. Si intende principalmente: lo spazio scenico con tutti gli eventuali elementi scenografici (praticabili inclusi), gli oggetti, la musica, gli strumenti utilizzati in scena, i costumi, le luci.
Le azioni che i partecipanti trovano non sono mai imitazioni del reale, ma si presentano già come degli equivalenti reali e concreti, che si trascinano dietro una vasta gamma di significati, e sono strettamente legati al contesto originario dell’improvvisazione, permettendo perciò, a chi osserva, di percepirne il senso.
Quando chiesi a Fabio e a Michele di lavorare con i loro personaggi, rispettivamente il domatore e Il leone, ad una sequenza che mostrasse i rapporti di forza tra l’uomo e la bestia, la ragione e l’istinto, non mi accorsi subito che stavo parlando di cose astratte. Notai parecchie incertezze in loro e molta inibizione inizialmente. Poi, capii, che dovevo utilizzare uno stimolo che servisse loro per creare un equivalente reale di quei concetti. Così diedi un cerchio da ginnastica ritmica a Fabio, feci togliere la maglietta a Michele e li tranquillizzai, dicendo che tutto ciò che volevo vedere erano i loro personaggi giocare insieme, senza mai staccare i piedi da terra e toccarsi. Il risultato fu davvero ottimo. Quello che si percepiva erano i rapporti di forza e di potere che animavano i personaggi, evocando il pericolo incombente della belva, pronta ad attaccare, e la sua successiva sottomissione da parte dell’uomo. In questo modo, i significati, che prima cercavo, si concretizzavano e si rafforzavano nel contesto dell’intera scena.

Energia

L’energia generalmente è definita come vigore fisico, fermezza di carattere e risolutezza nell’azione, volontà e capacità di agire. Un attore deve imparare a modellare questa energia per poter agire e manifestare in maniera efficace la sua presenza scenica. Tutte le tecniche extra-quotidiane, a differenza di quelle quotidiane, dove prevale la tendenza al minimo sforzo, si basano su uno spreco di energia, suggerendo il principio del massimo impiego energetico per un minimo risultato.
Le due ore di durata del laboratorio costituiscono per i partecipanti una attività molto stancante. Date le loro difficoltà, l’affaticamento e la spossatezza subentrano molto prima, talvolta anche dopo pochi minuti di attività, costringendo alcuni di loro a interrompere per riprendere il fiato.
Eppure in due anni di attività si sono verificati dei netti miglioramenti e tutti i partecipanti, esclusi episodi ormai sempre più rari, riescono a sostenere queste due ore e ad uscirne pieni di vitalità. Questo, a mio avviso, è potuto accadere perché, durante il lavoro svolto finora, questi attori hanno imparato a gestire le proprie risorse energetiche quantitativamente e qualitativamente. Bisogna considerare che, in loro, questo spreco di energia è evidente, poiché anche un’attività che richiede un minimo impiego di forze diventa una difficoltà da superare. Se questo surplus di energia si produce già nelle azioni quotidiane, una volta “educato”, nell’ambito del lavoro teatrale intrapreso, ed assimilato nel loro comportamento scenico, può rivelare tutta la sua efficacia.
Tutti i partecipanti hanno acquisito una consapevolezza delle loro qualità energetiche, esplorandone la vasta gamma di temperature, arrivando a capire quale utilizzare per ottenere la massima efficacia in ogni contesto. In molti di loro si avverte la compresenza di questi poli energetici e la capacità di mostrare il proprio doppio.
Il loro agire in scena è dominato da una linea morbida, leggera nel movimento, da una qualità dolce, tenera, da un’ armonia che viene continuamente spezzata da brusche rotture, che rendono l’azione  pesante, frenetico, mentre il gesto tende alla durezza, allo sfogo, alla disorganicità. Un continuo giocare tra gli opposti, una continua metamorfosi, una compresenza di temperature energetiche antitetiche, che conferisce una particolare qualità alla presenza scenica. Sembra quasi di vedere, messa in pratica, la “tecnica dei contrasti”, che caratterizzava la recitazione nella commedia dell’arte. Questa tecnica veniva utilizzata non soltanto a livello “interattorico”, come opposizione, ad esempio, fra lo stile degli Zanni e quello degli Innamorati, ma anche a livello infra-attorico, e cioè appunto all’interno dello stile recitativo di uno stesso attore. Tali contrasti possono essere visti come modi opposti di utilizzare le energie a livello pre-espressivo.
Mi viene in mente Michele quando entra nel personaggio di Maciste. Ciò che colpisce è la tensione muscolare del suo corpo, l’impressione di una possanza che lo inchioda al terreno, lo sforzo che colora la sua pelle di rosso fuoco, in contrapposizione al suo sguardo che rimane dolce, da cui traspare timore e allo stesso tempo compiacimento della sua forza fisica.
La stessa cosa accade quando si presenta come la figura del leone, digrignando i denti e facendo echeggiare il suo fragoroso ruggito, ostentando il petto e battendo gravemente i piedi a terra, ma mantenendo pur sempre quell’atteggiamento di sconfitto, di “anima del circo” che verrà sacrificato per sfamare la povera famiglia circense.
Questi sono solo alcuni esempi tratti direttamente dal diario di lavoro di quell’esperienza, che possono dimostrarsi utili per comprendere meglio la natura di questi principi appena citati, ed introdurci in quella rete di complessi meccanismi che regola il comportamento dell’attore, ed in questo caso di un attore che si trova ad affrontare una realtà fatta di difficoltà quotidiane, e che scopre il segreto e trova la forza per superarle sulla scena, un luogo che per la sua finzione dichiarata, nasconde a volte una verità più profonda.

2.Cfr. P.Ekman, W.V. Friesen, The Repertoire of Nonverbal behaviour, 1969, in “Semiotica”, I pp.49-98. (citato da P.E.Ricci Bitti, a cura di, Regolazione delle emozioni e Arti-terapie, Roma, Carocci editore, 1998, pp. 20-22.).

Sulla scena della diversità

Percorsi di ricerca teatrale con persone in situazione di hasndicap

Sempre più convegni, tavole rotonde, rassegne, festival ed iniziative sociali ed artistiche sono dedicate oggi al tema del teatro & handicap. Al teatro ed alle arti performative è stata da sempre riconosciuta una funzione catartica e terapeutica, oltre che a quella di strumento sociale.  Da questi aspetti dell’arte scenica derivano termini molto in voga attualmente e attorno ai quali si è creato un alone di ambiguità tra cui: teatro terapia, teatro sociale, teatri delle diversità . Sta di fatto che, dalle prime esperienze di teatro a contatto con le sfere del disagio sia psichico che fisico, avvenute in Italia negli anni settanta, questo fenomeno ha subito una crescita esponenziale, ed oggi sono molteplici le realtà che operano in questo settore. Da un lato c’è un interesse da parte di registi e uomini di teatro verso la diversità, come terreno di ricerca artistica e come fonte creativa, dall’altro c’è l’intenzione da parte delle strutture che operano nel sociale di educare e riabilitare i propri utenti attraverso la pratica delle arti sceniche, o più semplicemente e saggiamente di dare la possibilità anche a chi vive una condizione di marginalità e diversità di esprimersi in scena e di apprendere un arte ed un mestiere. Così, si moltiplicano tra le attività delle organizzazioni di volontariato, delle cooperative sociali e dei centri diurni, quelle legate al teatro o alla danza, e sempre più teatri, compagnie e registi, collaborano con queste per ideare e sviluppare progetti artistici. Anche nelle scuole, sono sempre di più i laboratori artistici a carattere integrato, caratterizzati quindi dalla compartecipazione di persone in situazione di handicap e normodotati.
In Italia negli ultimi anni sono nate compagnie teatrali e di danza integrate o costituite interamente da persone in situazione di handicap, che esulano dal contesto terapeutico e che si dedicano a portare avanti una ricerca artistica e a creare e distribuire spettacoli di alto livello. Nel resto dell’Europa queste compagnie esistevano da più tempo ed in molti casi, sono servite da esempio e da stimolo di confronto e di crescita per le realtà nostrane, attraverso scambi di lavoro e progetti internazionali.
Grazie a questo fermento ed all’accresciuto interesse per questi teatri, sono nati anche una serie di convegni nazionali sul tema, progetti di finanziamento speciali, rassegne e festival dedicati ai teatri della diversità e i primi corsi fi formazione e scuole per operatori nel teatro sociale.
Personalmente, in qualità di attore, pedagogo e ricercatore teatrale, ho avuto modo di avvicinarmi a questo terreno nel 2000, quando ho iniziato a condurre un laboratorio biennale integrato di teatro presso il Centro Trisomia 21 di Idice, in provincia di Bologna.  Quest’occasione mi ha spinto ad approfondire quest’ambito, compiendo delle indagini sul territorio di Bologna e provincia, per verificare quante e quali realtà svolgessero attività di teatro o di danza con persone in situazione di handicap, e a formulare una serie di osservazioni e teorie sul comportamento scenico degli attori diversamente abili con i quali stavo lavoravo.  Inoltre, ho potuto conservare l’esperienza di quei due anni di laboratorio nel mio diario di lavoro, il quale si è rivelato uno strumento molto utile per trarre ulteriori considerazioni e raccontare come è stato sfidato, affrontato e superato il limite dettato dall’handicap e come la diversità sia stata un occasione per creare arte e per instaurare un dialogo alla pari  tra normodotati e non.

Il panorama nazionale: esempi e nuove prospettive

Durante l’indagine svolta nel territorio di Bologna e Provincia, ho avuto modo di accorgermi del fatto che molte realtà operavano a distanza di alcuni isolati senza conoscere le rispettive attività. Quello che manca è ancora oggi un filo che colleghi queste esperienze e dei punti di riferimento e di scambio per queste. Questa tendenza si amplifica quando si allarga il campo di indagine al territorio nazionale. Censire e monitorare queste esperienze diventa un compito arduo, anche perché ci si trova di fronte ad una diversa tipologia di utenza e a contesti differenti. Possiamo comunque concentrare l’attenzione su un certo tipo di handicap e riassumere i contesti all’interno dei quali si opera in due principali tendenze.

  • Dal teatro all’handicap: teatri, compagnie teatrali e di danza professioniste, registi, coreografi e uomini di teatro che si avvicinano alle diverse abilità e scelgono di intraprendere un percorso di ricerca artistica  in questo campo, che comporta la costituzione di una compagnia integrata o non e la produzione e circuitazione di spettacoli.
  • Dall’handicap al teatro: enti, associazioni, organizzazioni di volontariato, cooperative sociali che, si avvicinano all’arte performativa per sperimentarne la pratica con i propri utenti disabili, avvalendosi o no di professionisti, con il fine di sperimentazione libera che può prevedere l’allestimento di spettacoli ma non come obiettivo principale.

 

Ovviamente i confini tra queste due categorie sono labili, dato che professionisti del teatro o della danza operano per le strutture sociali che intendono promuovere il teatro o la danza tra le proprie attività e viceversa, educatori, psicoterapeuti, psicologi affiancano il lavoro di registi e coreografi nelle esperienze professioniste che vedono coinvolti attori e danzatori diversamente abili. La seconda classe è però più difficile da censire, dato che è per il suo carattere poco pubblicizzata e si limita spesso agli utenti della struttura stessa, rimanendo in ambito Comunale o provinciale. Nell’ambito del Secondo Convegno Internazionale di Studi “I teatri delle diversità” organizzato dall’Associazione Culturale “Nuove Catarsi” (11) nel 2001 a Cartoceto (Pesaro Urbino) viene presentato il Primo Censimento Nazionale su Teatro e disagio", promosso da ETI (Ente teatrale italiano), dall’Università di Urbino, da ENEA, dalla Cooperativa "Diverse Abilità" insieme alla rivista "Catarsi-Teatri delle diversità".
Questo progetto che ha portato all’edizione di un agenda ragionata delle esperienze di teatro handicap svolte su territorio nazionale e divise per regione e che costituisce il primo reale tentativo di indagare e catalogare le realtà che operano in quest’ambito. Organizzato per la prima volta nel 2000 “I teatri delle diversità” ogni anno programma una serie di incontri di formazione sugli stili di conduzione della ricerca teatrale nel sociale, interventi dei protagonisti delle esperienze sceniche presentate al pubblico, performance, spettacoli laboratori intagrati e film documentari. Basandomi in parte su questa agenda, in parte sulla mia ricerca e sulle mie conoscenze nel settore, vorrei tracciare un quadro di riferimento delle maggiori esperienze presenti tutt’ora su territorio nazionale. Partiamo proprio dalle regione Marche, dove nel 1993 nasce il progetto “Teatro degli esclusi”, un’esperienza portata avanti dal Teatro Pirata di Jesi (AN) in collaborazione con gli operatori e i ragazzi del Centro Sociale Aldo Moro di Fabriano, un centro diurno per portatori di handicap gestito dal Comune di Fabriano.
Per conto dell’Amministrazione Comunale di Fabriano, il teatro Pirata ha sviluppa tutt’oggi  interventi di animazione rivolti a portatori di handicap ed un laboratorio teatrale permanente, riconosciuto dalla Regione Marche come laboratorio pilota relativo al tema del “Teatro e handicap”.Il progetto prevede anche la produzione e la circuitazione di spettacoli realizzati interamente curata, allestita e realizzata dagli stessi partecipanti diversabili (per maggiori informazioni è possibile consultare il sito www.teatropirata.com).
Ci spostiamo in Lazio dove a Roma la compagnia Teatrale Integrata DIVERSE ABILITA’ è attiva dal 1995 prima come laboratorio teatrale protetto, poi come compagnia teatrale professionale, nata da un Progetto Europeo Horizon. Il gruppo, diretto dalla regista Alessandra Panelli  è composto da operatori culturali, registi, attori e tecnici, sta realizzando da oltre sette anni sia attività didattiche e formative che artistiche e teatrali.
Nella stessa città opera anche l’Associazione Fuori contesto, un gruppo dove persone, disabili e non, lavorano insieme con l’intento di realizzare spettacoli che trasmettano messaggi di valore, attraverso emozioni intense nel gesto come nella parola.
Il loro spettacolo “Chi sogna non piglia pesci”, presentato dalla U.I.L.D.M. (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), sezione laziale Onlus, vede in scena venti attori, disabili e non, che nel teatro hanno trovato la motivazione e l’impulso necessario per una partecipazione attiva alla vita sociale. Lo spettacolo ha partecipato alla Rassegna Nazionale ‘Teatri delle Diversità’ della città di Mondragone (rassegna nazionale di opere teatrali ed esperienze artistiche contro l’esclusione e l’emarginazione sociale).
Da segnalare anche il laboratorio teatrale integrato Piero Gabrielli, promosso da Comune di Roma, Teatro di Roma e MIUR (Ministero Istruzione, Università e Ricerca) e coordinato da Roberto Gandini, che svolge laboratori nelle scuole al fine di integrare ragazzi disabili e non attraverso il teatro, corsi di formazione per insegnanti, attori, registi. Dal 1994 ad oggi hanno partecipato alle attività del Gabrielli 8.134 ragazzi di 324 scuole, di cui 1.788 con disabilità, producendo 103 spettacoli che grazie a 264 repliche sono stati visti da 105 mila spettatori.
In Toscana quest’anno Isole comprese teatro di Firenze ha organizzato e promosso il corso di formazione per attori e operatori nel teatro delle diversità. Si tratta di un progetto di attivita’ teatrale ed espressiva con valenza terapeutico- riabilitativa, attraverso tecniche del teatro sociale, rivolto a utenti con disabilita’ psichica e sensoriale dei Centri del Q.4 Albero vivo e Giaggiolo, e 15 allievi attori. Inoltre cura il sottoprogetto "Risvegli” che consiste in un laboratorio teatrale terapeutico per pazienti psichiatrici ,operatori e attori attraverso tecniche del teatro sociale, organizza la rassegna “I teatri dell’anima” ed ha prodotto gli spettacoli Corpo1Prologo (per maggiori informazioni è possibile consultare il sito www.isolecompreseteatro.it). .
Per la Liguria cito invece l’esperienza della Cooperativa Polena di Savona, nata nel 2000 dall’esperienza di un laboratorio teatrale nell’ambito della sezione italiana del progetto Europeo “Horizon” approvato dalla comunità “Redancia”, che si è avvalso della collaborazione di referenti teatrali esterni tra cui: Pippo Delbono e Pepe Robledo (regista e attore della compagnia teatrale Pippo del Bono) e l’Accademia della Follia di Claudio Misculin.
Storica in Piemonte è la ricerca portata avanti dalla Compagnia Stalker Teatro di Torino, che ha sviluppato fin dall’inizio degli anni ottanta un qualificato studio sul linguaggio teatrale a fini socio-terapeutici coordinato con i Servizi Territoriali di Salute Mentale e dell’ex Ospedale Psichiatrico di Collegno/Grugliasco, e che attualmente ha realizzato un progetto pluriennale con gli operatori e gli ospiti del Centro Diurno di Cossato, in provincia di Biella. Un’altra importante e più recente realtà è quella di Voci erranti (associazione onlus con sede a Racconigi –TO, www.vocierranti.org), nata nel 1999 dal  laboratorio teatrale svolto presso il Centro di Incontro “Il Germoglio” (un centro che coniuga l’esperienza quasi decennale proveniente dall’ex manicomio di Racconigi –TO, e dai suoi primi progetti di Comunità Terapeutica con i bisogni e gli spunti originati dalla coeva esperienza del Centro di Salute Mentale di Savigliano -TO), dalla compagnia di attori, registi, animatori ed autori di spettacoli compresa nel Progetto Cantoregi (compagnia teatrale fondata nel 1977 e con sede a Carignano-TO), e che ha portato allo spettacolo Voci Erranti, che da il nome all’Associazione che tutt’oggi porta avanti questo progetto e continua a realizzare spettacoli
Restando nella provincia di Torino, troviamo la compagnia Tribalico, anima autonoma dell’ associazione Au.Di.Do (Autogestione Diversamente Dotati) di Alpignano (TO), che nacse nel 1997 come laboratorio teatrale che intende considerare la diversità una risorsa piuttosto che un limite. Regista della compagnia è l’ attore professionista Alberto Valente; l’autore dei testi teatrali è Salvatore Smedile.Attualmente il gruppo è composto da 13 membri, di cui sei disabili. Gli ultimi spettacoli sono stati Horlandoh (2002), Merville (2004), Rinaldo (2005). Ci muoviamo in direzione est ed in Lombardia incontriamo Il Teatro la Ribalta di Antonio Viganò con sede a Lombardone (LC), che ha il merito di aver instaurato un solido rapporto di collaborazione con la compagnia francese “Oiseau Mouche” di Roubaix, l’unica compagnia composta interamente da attori disabili riconosciuta come professionista e sovvenzionata in Francia. Antonio Viganò ha infatti firmato la regia degli spettacoli Personnages, Excusez-le o il vestito più bello, No exit , lavori di straordinaria, che hanno conquistato il pubblico che ha avuto la possibilità di ammirarne tutta la straordinaria efficacia e poesia nell’ambito di numerose stagioni teatrali e rassegne teatrali italiane. In Veneto, La Piccionaia – I Carracci, Teatro Stabile di Innovazione (www.piccionaia.it), in collaborazione con l’Anffas – Riviera del Brenta e l’assessorato alla cultura del Comune di Mira (VE) ha dato vita da alcuni anni all’iniziativa ‘T&H progetti teatrali tra disagio e sociale. La ricerca sviluppata dalla compagnia sui territori della memoria personale, ha ispirato l’elaborazione del testo epico dell’Odissea e la messa in scena dello spettacolo omonimo ideata dall’attore e regista Mirko Artuso. Sempre in Veneto, va ricordato il “Progetto Sciamano” diretto da Claudia Contin (attrice e fondatrice, assieme a Ferruccio Merisi, della Scuola Sperimentale dell’Attore di Pordenone) un percorso di sperimentazione teatrale nella prospettiva della valorizzazione delle diverse abilità giunto al settimo anno di sviluppo che negli ultimi tre anni, allo sforzo sociale, artistico e scientifico, ha aggiunto anche una importante dimensione pedagogica, di formazione di aggiornamento, dedicata ad operatori che lavorano o lavoreranno nelle dimensioni teatrali e comunicative della differenza, e che comprende un laboratorio per gli utenti dell’ANFFAS di Pordenone ed un convegno-formazione sul tema. Spostiamoci nel sud della penisola dove in Puglia è iniziata già da ottobre a Bari la una nuova edizione del progetto ‘Teatro e Handicap’ curato dal teatro Kismet Opera di Bari e dall’associazione A.R.C.H.A. Il progetto coinvolge alcune persone disabili dell’Archa, che ne segue una cinquantina, ma anche attori, danzatori, educatori professionali e operatori volontari, che parteciperanno tutti al laboratorio ognuno con le proprie competenze. Il progetto Teatro e Handicap è stato avviato nel 1990 sotto la conduzione del regista Enzo Toma, uno tra massimi esperti a livello nazionale ed internazionale di Teatro con disabili e che, oltre a  collaborare in qualità di docente con diverse Agenzie educative e Università italiane, ha fondato la compagnia “Maccabeteatro”(12). In Campania, in provincia di Caserta, per l’esattezza a Città di Mondragone, si svolge ogni anno la Rassegna Nazionale "Teatri delle Diversità", nata nel 2000 come tappa-prodotto di una ricerca personale e di gruppo condotta dall¹Associazione Agenzia Arcipelago Onlus, ossia di itineranti esperienze psicologiche, cliniche, sociali e teatrali compiute, a partire dal 1983 in luoghi e tempi diversi, a Napoli ed in altre città d’Italia. Un ruolo particolare a livello teorico e prassico, hanno avuto i numerosi laboratori, spettacoli e performances teatrali allestiti con utenti (pazienti psichiatrici, detenuti e tossicodipendenti in primo luogo), le ricerche, gli accadimenti espressivi e le riflessioni svolte all’interno dei contesti di reclusione e in campo didattico, le discussioni accademiche e approfondimenti con psichiatri, psicologi, attori, registi teatrali, sociologi, scrittori. In Sicilia troviamo l’esperienza del Teatro del Sole E.n.s, della compagnia “Bagnati di Luna A.I.P.D.”(13), e della compagnia “Lune inopportune”(14), nate rispettivamente nel 1989, nel 2000 e nel 2001 da un’intensa attività laboratoriale svolta dal Teatro Scalo Dittaino di Catania con con alcuni soci dell’E.n.s (Ente Nazionale Sordomuti), dell’A.I.P.D Associazione Italiana Persone Down) e della Comunità terapeutica assistita S. Antonio di Piazza Armerina. Queste realtà sono attualmente attive ed i loro spettacoli e sono presentati nell’ambito di raasegne e festival nazionali ed internazionali e convegni sul tema. Vorrei concludere questo excursus con l’Emilia Romagna, regione all’interno della quale è iniziata la mia attività di indagine delle realtà che operano nel teatro handicap sul terriotrio, per citare le maggiori esperienze portate avanti in quest’ambito negli ultimi anni. A Parma, il Lenz teatro (http://www.lenzrifrazioni.it), all’interno del progetto Shakespeare collabora con l’Associazione Nazionale Famiglie di Disabili Intellettivi e Relazionali coinvolgendo l’ensemble di Lenz Rifrazioni e un gruppo di attori con handicap intellettivi. Da questa necessità di fusione ha genesi un processo di ricerca teso ad approfondire l’espressività teatrale contemporanea e il significato dell’esperienza artistica nell’incontro tra gli attori disabili e gli attori della compagnia, che porta alla realizzazione dello spettacolo Ham-let, per la regia di Maria Federica Maestri. A Bologna è significativa l’esperienza del regista Nanni Garella con il Dipartimento di Salute Mentale dell’Ausl di Bologna Nord, che ha portato alla nascita dell’associazione Arte e Salute, alla formazione della compagnia Urziburzi, ed alla realizzazione degli spettacoli  Sogno di una notte di mezza estate , I Giganti della Montagna , As you like it , Pinter. Atti Unici,  che hanno segnato una ricerca riconosciuta nel 2004 con l’assegnazione del “Premio speciale Ubu” per il lavoro svolto con i disabili mentali sui grandi classici del teatro. Esemplare e storica è poi la ricerca svolta in quest’ambito dal Teatro Nucleo di Ferrara, compagnia fondata nel 1974 ad opera di Horacio Czertok e Cora Herrendorf, e che nel 1992 fonda il CETT, Centro per il Teatro nelle Terapie, dedicando un luogo specifico alla sua decennale esperienza nell’ambito delle terapie. Interessante e particolare è anche il percorso compiuto dall’Accademia della Follia (www.accademiadellafollia.it), fondata da Claudio Misculin, Angela Pianca, Cinzia Quintiliani nel 1992 a Rimini. È un progetto teatrale e culturale, formato da attori a rischio risultato di un percorso teorico e pratico condotto dal Velemir Teatro, che nasce nel 1983 a Trieste, nell’ambito dell’esperienza basagliana. Ultimamente ha realizzato il progetto spettacolo “Ardito Giulio Romano Italico Muscolini” nato dall’incontro tra la R.A.I. e l’Accademia della Follia decisi a entrare insieme nell’Ospedale Psichiatrico Giuridico di Aversa, rimanendoci qualche mese.

11.Rivista europea "Catarsi-Teatri delle diversità" diretta da  Emilio Pozzi (docente di Storia del teatro e dello spettacolo alla Facoltà di Sociologia dell’Università di Urbino).

12.Cooperativa MACCABETEATRO -Via Lipari, 3 – 70014 Conversano (BA) Sorta nel 2002 grazie a un equipe di professionisti con accreditata esperienza nel settore Teatro e Handicap, si occupa di coordinare, gestire e allestire laboratori teatrali con disabili, percorsi formativi e studi teatrali, spettacoli ed eventi artistici in collaborazione con Enti ed Istituzioni pubblici o privati. La MACCABETEATRO proseguendo il percorso di formazione e ricerca nell’Area delle disabilità ha prodotto nel 2002 lo spettacolo Edipo, nel 2003 lo spettacolo Alcesti e nel 2004 gli spettacoli Filottete H e PinoccHio.

13.Ogni anno di laboratorio si conclude con uno spettacolo diretto da Monica Felloni e Piero Ristagno : Quello che le balene pensano degli uomini (000), Canto della terra che gira (2001), La ruota del pavone (2002),  Passaggio d’Ali (2003),  Appassionati (2004).

14. Spettacoli realizzati: 2002 – "nudiecrudi", 2003 – "Risonanze", 2004 – "Lettere a Theo"

Bologna: teatro di diversità

Come accennavo prima, parallelamente alla conduzione del laboratorio teatrale del Centro 21, ho iniziato un lavoro di indagine sul territorio di Bologna e provincia, finalizzato a scoprire, conoscere e relazionare tutte le esperienze di teatro o danza rivolte a persone in situazione di handicap, mirate all’integrazione di soggetti diversamente abili e normodotati, che abbiano portato alla realizzazione di un prodotto artistico o alla costituzione di un laboratorio permanente.
Evitando di sondare quelle realtà già conosciute a livello nazionale ed internazionale, mi sono rivolto direttamente a tutte quelle associazioni, cooperative, organizzazioni di volontariato, che negli ultimi anni avessero svolto questo tipo di attività, prediligendo il fine di ricerca artistica rispetto a quello dichiaratamente terapeutico e riabilitativo.
Ho avuto modo di fare delle conversazioni trascritte per intero con i conduttori delle esperienze artistiche, conoscendone il contesto, le motivazioni, gli obiettivi, ed il percorso intrapreso negli anni. L’analisi di tutte le esperienze censite e svoltesi in un periodo compreso tra il 1993 e il 2003, davano già un quadro della situazione molto preciso, che disegnava Bologna e la sua provincia come particolarmente attente e attive in quest’ambito, anche grazie ad una serie di importanti convegni sul tema (8) ed alla nascita di Festival e rassegne di teatro e danza dedicati e rivolti alle diverse abilità (9). Dal 1990 al 2003, infatti, queste attività hanno subito un incremento del 70%, ed il primato spetta a quelle promosse dalle Associazioni. In questi ultimi tre anni, la maggior parte di questi percorsi ha avuto una continuazione ed uno sviluppo, e sono nate altrettante nuove realtà, ribadendo l’ulteriore crescita delle esperienze svolte in questo campo e l’aumento di interesse nei confronti dei teatri delle diversità. Tra i quasi 50 enti inclusi nel mio sondaggio, sono state relazionate nel alcune esperienze (10), condotte con handicap fisico e psichico. Tra queste vorrei citarne e approfondirne una per il teatro e una per la danza.

Compagnia Vi-Kap
Associazione Stamina

Il testo in corpo minore è riportato da una conversazione con Roberto Penzo e Anna Albertarelli, conduttori del laboratorio integrato Vi-Kap.

Nel 1997 Anna Albertarelli (insegnante di danza contact, coreografa e performer) e Roberto Penzo (psicoterapeuta di gruppo, psicologo e pedagogista), decidono di attivare un laboratorio integrato che sperimentasse le tecniche di espressione corporea ed in particolare la danza contact con disabili motori.
Nato come progetto artistico dell’Associazione culturale STAMINA, fondata da Anna Albertarelli e Catia della Muta, coreografe e performer, e finanziato dalla Regione, il laboratorio si svolge solitamente da settembre a giugno, con frequenza di una volta a settimana per una durata di tre ore, coinvolgendo un gruppo integrato composto da circa 30 persone, metà normodotati e metà disabili, la maggior parte affetti da handicap fisici e disturbi motori. Il lavoro esula da qualsiasi fine terapeutico-riabilitativo e fa parte di un percorso di libera ricerca artistica orientata alla produzione di spettacoli.
Il linguaggio espressivo utilizzato per la comunicazione corporea che si crea tra i partecipanti è quello della danza contact.

Il contact è una danza basata sul contatto fisico. Il fulcro centrale di questo tipo di danza è che si lavora a coppia al 50% delle possibilità e delle potenzialità, in maniera che nessuno dei due fa uno sforzo per muovere l’altra persona, altrimenti diventerebbe una cosa di forza. Si impara a sentire tutte le parti del corpo, anche quelle che di solito non usi, perché muovi l’altra persona con qualsiasi parte. Diventa un fortissimo bagaglio di percezione a trecentosessanta gradi che ti porti in giro ovunque […].

Ogni incontro si apre con una fase di training, dedicata al riscaldamento muscolare, al rilassamento e al ripasso di sequenze precedentemente elaborate, si passa ad un lavoro di improvvisazione a coppie guidato dalle suggestioni che derivano dalle variazioni del ritmo, dell’intensità, della qualità del movimento.

Si parte dalla fisicità, dal ritmo. Magari lavoriamo più sulla velocità, sullo scatto oppure sulla fluidità, sull’apertura, insomma sulla qualità del movimento e sull’ atteggiamento del corporeo. Fare la stessa azione pensando di essere molto lunghi o di essere molto piccoli o di dover agguantare qualcosa è molto differente, per esempio. Dopo si arriva ad una partitura. A quello che il corpo fa dai un’intenzione e quindi diventi già un personaggio.

In pochi anni di attività il gruppo ha prodotto due spettacoli, che sono stati rappresentati nel circuito nazionale ed internazionale e nell’ambito di alcuni festival.
Inoltre, i loro conduttori e fondatori sono stati invitati, in più occasioni, ad intervenire in alcuni convegni, che avevano come tema la disabilità, e si sono fatti promotori di incontri con altre realtà straniere.
Il teatro della compagnia Vi-Kap è permeato da una forte fisicità dell’azione, dalla cenestesia,  dalla percezione allargata a tutti gli impulsi sensoriali che i corpi si trasmettono. Un teatro dove il corpo è padrone, nel suo creare continui contrasti e nel suo mostrarsi personaggio attraverso le proprie intenzioni.  Nel 2000 il gruppo ha prodotto e promosso l’evento performativo “Angeli”, rappresentato anche ai festival “Lavori in Pelle” e “Ammutinamenti” a Ravenna e “Danza Urbana” a Bologna e la cui versione video, presentata al Festival Internazionale di video-teatro e video-danza TTV di Riccione, è stata selezionata per il Festival di video-danza “Dance on screen 2000” di Londra.
Nel 2001 è stata la volta di “Fallen in the Fallen”, mentre “Il piede dell’elefante” rappresenta il loro lavoro più recente.
Il Gruppo Vi-Kap è inoltre presente nel progetto europeo “Contact-art” che coinvolge la compagnia LPDM di Lisbona ed il CanDoco Dance Company di Londra, e che ha portato alla realizzazione di uno spettacolo composto da tre piéces delle rispettive compagnie, che oltre ad essere andato in scena nell’ambito del Festival dei Teatri di Vita nel 2001, è stato rappresentato nei paesi partner del progetto.  
Oltre alle rassegne e i festival, l’Associazione ha partecipato ad una serie di convegni sul tema e quest’anno, grazie ad un progetto ideato da Roberto Penzo e Valentina Galvagni in collaborazione con Franca Silvestri (giornalista e studiosa di teatro), e con il sostegno di ENAIP (Ente che opera nell’orientamento e nella formazione al lavoro con una particolare attenzione verso il mondo giovanile)
e DAMS di Bologna,  ha concepito e realizzato il Corso di socio-formazione professionisti dello spettacolo, con il fine di fornire le adeguate competenze tecnico-teoriche, a chi intende operare nell’ambito dello spettacolo attraverso percorsi artistici in grado di favorire le fasce sociali svantaggiate. Il corso è diviso in due parti: una teorica “Formazione operatore e tutor dello spettacolo per l’integrazione” di 100 ore, una pratica “Laboratorio integrato di espressione corporea” di 200 ore.
Quello intrapreso da Stamina con il gruppo Vi-Kap è un percorso che sta andando avanti con ottimi risultati e che sta avendo i suoi giusti riconoscimenti a livello artistico e sociale.

[…] ovviamente stavo ancora tastando il terreno, insegnavo contact da più di dieci anni, ma lavorare coi disabili è tutto un altro discorso. […] ho imparato tantissimo perché quando ti trovi di fronte un paraplegico, e non sai da dove iniziare, devi accantonare tutto quello che hai imparato fino ad ora e ricominciare da capo, e questo per me è stato molto stimolante. È un rimettersi in gioco ogni volta e a me questo è servito tantissimo anche dal punto di vista professionale.

 

COOPAS
Cercando Chi-Sciotte

Il testo in corpo minore è riportato da una conversazione con Ulisse Belluomini, conduttore del laboratorio integrato Cercando Chi-Sciotte.

Dall’ottobre del 1999 Ulisse Belluomini, regista e attore, conduce il laboratorio sperimentale di teatro Cercando Chi-Sciotte all’interno della Coopas (Cooperativa integrata di attività sociali, con sede in via Crtiera 92, Borgonuovo di Sasso Marconi – Bologna).
Il laboratorio è integrato e prevede la partecipazione in uguale proporzione di normodotati e  diversamente abili, principalmente affetti da sindrome Down, ma anche da alcuni casi di psicosi e ritardo mentale, che si incontrano per circa tre ore una volta a settimana, nel periodo che va da settembre a luglio.
Oltre al conduttore, che si occupa anche della regia, sono presenti altri tre operatori, due in qualità di regista e uno di scenografo.

Il laboratorio vuole essere un lavoro di ricerca ed ha nell’attività quotidiana la sua forza, la sua capacità di comprensione della realtà, aspira a diventare uno stimolo, un punto di riferimento da cui procedere verso una riflessione sul significato di “essere differenti oggi”.
Ciò che noi ricerchiamo, sia nella nostra idea di teatro sia nel rapporto con le persone disabili, è la possibilità di cogliere forme di espressione attraverso la creatività. L’idea di Don Chisciotte è il nostro pretesto, questa idea si è trasformata durante il nostro viaggio nel “cavaliere” sempre in lotta con la realtà, non per sfuggirla ma per comprenderla e, se necessario, cambiarla.
Pensiamo che il teatro come forma di espressione possa facilitare un percorso reale di integrazione e visibilità della persona nel contesto sociale, possa aiutare le persone a esprimere il proprio disagio, la voglia di giocare, di essere vivi, di lottare per una realtà diversa.
Questo gruppo ha creato un percorso comune attraverso i gesti, le parole, il gioco, la rigorosità, la condivisione e la passione di ritrovarsi a dare spazio ai loro sogni.

All’interno del laboratorio si lavora molto sul corpo, a partire dai gesti quotidiani, fino ad arrivare ad indagare il rapporto tra movimento ed emozioni, e sulla voce, nonché sulla parola, esplorando una vasta gamma di sonorità differenti e di utilizzazione del linguaggio verbale.

Noi siamo partiti da un training, al quale ogni volta aggiungiamo delle improvvisazioni, tra le altre cose chiediamo anche a loro di condurlo. Training corporeo e vocale, per cui dentro ci sta di tutto, ci sta l’uso dello spazio, le camminate, la voce, il contatto, il lento-veloce, etc. Noi abbiamo pensato che fosse importante avere una struttura chiara, di modo che loro lavorassero sulla struttura, e poi, dopo, ogni volta mettiamo un altro elemento. Ma quello che cerchiamo di fare è lavorare sul movimento, e arrivare dal movimento all’emozione, cercare di lavorare su questo, che è poi il ponte che, per chi ha le potenzialità, dovrebbe arrivare a costruire anche il lavoro sul personaggio.

Si sono verificate poche difficoltà all’interno del lavoro svolto, che viene affrontato dai partecipanti con grande professionalità, e concepito come un luogo altro, in cui è possibile esprimersi con una qualità differente da quella quotidiana. È stato compiuto inizialmente questo scarto dal quotidiano che ha permesso di operare nel territorio dell’ extraquotidianità.

Quello che chiediamo a loro e a noi è un forte rigore dello stare dentro al lavoro. Soprattutto all’inizio, quando si lavorava con tutta una serie di gesti, che fan parte del nostro quotidiano, e noi su questo abbiamo cercato di essere rigorosi, proprio per dare l’idea che, dentro quel lavoro, si potevano fare alcune cose e non altre, perché andavano ad impicciare il senso di quello che si faceva. Sono tutte quelle cose che ognuno di noi fa senza accorgersene. Per trovare un po’ un altro da sé in quello spazio. E per trovare anche una sorta di rigore perché, visto che noi lavoriamo con persone disabili, queste persone hanno un vissuto particolare, un po’ assistenziale, c’è bisogno di rompere questo immaginario […].
Noi lavoriamo sempre tutti insieme, non c’è chi sta fuori; si, c’è chi conduce, ma il lavoro è comune. In queste occasioni noi lavoriamo molto dal punto di vista vocale-corporeo. Lavoriamo spesso anche in improvvisazioni, e in queste occasioni davanti al pubblico, senza portare tutta la struttura di un lavoro teatrale, che diventa complesso, perché necessita di degli spazi che è difficile trovare.

Durante questi anni di attività sono stati presentati spettacoli, tra cui “Voci scordate” nel 2003, studi e dimostrazioni di lavoro. Il gruppo ha inoltre partecipato a Festival quali Superabili Celebration” e “TIS Festival” di Bologna  e Convegni dedicati al tema del teatro handicap (“I Teatri delle diversità e l’integrazione” nel 2000, “I Teatri delle diversità” nel 2001, convegno internazionale di studio di Cartoceto (PU), “Teatri delle diversità” nel 2002, presso il Teatro polivalente occupato di Bologna) e alla trasmissione televisiva “Differenti attività”, andata in onda su RAI 3.
Attualmente ha collaborato con l’associazione francese Arc en ciel di Marsiglia, attraverso uno scambio di una settimana, durante la quale il gruppo di Cercando Chi-Sciotteha avuto la possibilità di conoscere e relazionarsi all’esperienza di un altro gruppo teatrale composto da persone disabili.
Gli obiettivi del laboratorio non sono però quelli relativi alla produzione di spettacoli, ma sono indirizzati alla ricerca e ai risultati finali.

Certo il laboratorio è anche finalizzato a presentare un lavoro aperto al pubblico ma non è l’obiettivo principale. La finalità è il processo di ogni incontro. Lo spettacolo diventa un occasione di confronto col pubblico […].
Abbiamo iniziato non con un testo scritto, ma cercando di far sì che ciascuno potesse esprimersi attraverso le proprie emozioni, i propri sogni, i propri desideri e i propri gesti. Siamo partiti inizialmente da un training, una sorta di riscaldamento corporeo e vocale, e abbiamo preso da lì dei gesti e delle improvvisazioni per costruire tutti insieme questo studio.

Lo spettacolo è tenuto in vita da un ritmo travolgente che si materializza nel corpo e nella voce degli attori, i quali dimostrano di possedere un’ottima conoscenza dei loro mezzi espressivi e dell’uso che possono farne sulla scena. Ogni movimento ha la sua origine in un semplice gesto, che traspare appena sotto la qualità di un movimento limpido e seducente, educato ad esprimere le proprie emozioni e a colorarsi delle più svariate sfumature di significato. La voce è controllata e mostra un sapiente utilizzo di sonorità diverse, che contribuiscono ad arricchire i materiali testuali dello spettacolo, emersi dagli stessi partecipanti. Sorprendente è anche l’utilizzo dello spazio, soprattutto nelle scene in cui il movimento degli attori diventa una sorta di danza collettiva, e del materiale scenico, delle tende trasparenti appese a campana dalle quali entrano ed escono i partecipanti, giocando con la trasparenza ed il movimento stesso del tessuto. 
Quella del laboratorio Cercando Chi-Sciotte è un esperienza professionale e umana molto intensa in continuo sviluppo grazie soprattutto all’intenzione di presentare il proprio operato in più ambiti possibili ed alla collaborazione con altre realtà nazionali ed internazionali.

8.Tra questi vorrei ricordare: 2001 “ Teatro nel–dal sociale?”, Fest Festival, seconda edizione, Centro interculturale Zonarelli; 2002 “Ho sognato che vivevo. Teatri della trasformazione dell’esclusione”, Arena del Sole. 2002 “Teatri delle diversità” presso il Teatro polivalente occupato.

9.Tra questi vorrei citare il Festival internazionale di Arte e Diversità “Superabili Celebration”, nato nel 2000 da un progetto di Antonietta Laterza (cantautrice e presidentessa di “Sirena Project”) e il TIS Festival, Teatro di interazioni Sociali, nato dalla collaborazione fra quattro assessorati della Regione Emilia-Romagna: Cultura, Formazione professionale e lavoro, Politiche sociali, Sanità. Direttori artistici del progetto e del festival sono Claudio Meldolesi (storico del teatro e Presidente del Corso di laurea DAMS) e Franca Silvestri (giornalista e studiosa di teatro).

10.Polo handicap adulto, Servizio sociale dell’A.S.L. 28 di Bologna,“Facciamo Insieme teatro” laboratorio di Animazione 1992-93, condotto da Luana Diambri e Anna Vicaretti (educatrici professionali).
CEPS Trisomia 21, Laboratorio teatrale (1999-2005) condotto da Paolo Paganelli (attore e regista).
OPIM Opera dell’Immacolata, Laboratorio teatrale: (1995-2000) condotto da Vito Mercea (regista), (2000-2005) condotto da Gruppo teatrale CAMELOT con la collaborazione di Paola Limpidi e Assunta Cacciari (educatrici professionali).
COOPAS Cooperativa attività sociali, “Cercando Chi-Sciotte” laboratorio sperimentale di teatro (1999-2005) condotto da Ulisse Belluomini (attore e regista).
Compagnia Rompere Gli Argini, Associazione Culturale, (1995-2000) Eleonora Fumagalli (regista e dramaturg).
Sirena Project Associazione Culturale, Antonietta Laterza (presidentessa), laboratorio teatrale e musicale (1998-1999) condotto da Eleonora Fumagalli, Progetto “Sirene” (2002-2005).
ANFFAS, Azzurroprato, Centro Educazione alla danza Mousikè, (1994-2005) laboratorio di teatro-danza condotto da Franca Zagatti (danza educatrice).
STAMINA, Associazione Culturale, Vi-Kap, laboratorio integrato di danza contact (1997-2005) diretto da Anna Albertarelli (danzatrice e coreografa) e Roberto Penzo (psicoterapeuta, psicologo).