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autore: Autore: Nicola Rabbi

Fiducia e costruzione dei legami

“La fiducia è la possibilità di affidarsi all’altro avendo la speranza che l’altro abbia comunque rispetto per te…L’operatore dovrebbe avere la possibilità e l’energia per porsi dentro la relazione di cura in uno stato d’animo interlocutorio”. Intervista a Maria Cristina Pesci, medico e psicoterapeutaFiducia si può tentare una definizione di questo sentimento?

La fiducia è la possibilità di affidarsi all’altro avendo la speranza che l’altro abbia comunque rispetto per te. Il discorso della speranza non è un discorso scontato, nel senso che noi nell’operare quotidiano lo diamo come assunto, ma invece è una cosa che meriterebbe da un lato più attenzione e dall’altro dovrebbe essere verificato.
La fiducia è qualcosa che si costruisce nel tempo e si modifica nel procedere della relazione, è qualche cosa che con accenti diversi riguarda tutti e due i poli della relazione.
C’è anche una reciprocità oltre alla speranza che comunque è unica e speciale per ogni rapporto a due che si crea e quindi in questo senso irripetibile.
Ci troviamo a riflettere su due ambiti, uno intersoggettivo che implica la presenza e l’incontro tra due persone, e l’altro che riguarda la dimensione professionale, la consapevolezza che essendo coinvolto in una professione sei chiamato anche istituzionalmente a rispondere a una serie di bisogni e di mandati legati al ruolo.

E’ possibile ricostruire le “condizioni” che permettono il nascere e il consolidarsi dei legami di fiducia fra le persone?

Non solo è possibile, anche se a volte è molto difficile, ma uno dei cardini su cui costruire l’aiuto all’altro. Noi sappiamo che qualsiasi competenza , che qualsiasi risultato è possibile raggiungere soltanto con una “colorazione” affettiva che produce la spinta e rappresenta la molla al cambiamento.
Il cambiamento inteso come parziale abbandono di vecchie conoscenze certezze, sicurezze e salto nel nuovo, nel non conosciuto, nell’incerto, in sintesi in una condizione di instabilità. In questo senso la fiducia diventa particolarmente efficace.
Insegnare a un bambino con un deficit motorio a mettersi in piedi non è una mera esercitazione tecnica ma è essere con lui in una specie di esercizio senza rete nel quale abbandonare i vecchi schemi motori implica trovare il piacere di una diversa motricità che però è anche paura di cadere, di non essere capace o di non fare troppa fatica. In questo senso la fiducia in questa relazione diventa dalla parte del bambino la speranza che ciò che la terapista propone alla fine sarà più vantaggioso e piacevole. Dalla parte del terapista una speculare speranza che questo percorso sia il meno parzialmente raggiungibile nonostante il deficit.

Come il dare e il ricevere aiuto, che si presenta in modo asimmetrico, può portare all’instaurarsi di una fiducia reciproca? Ci sono aspettative ed attese diverse? Che ruolo giocano?

Ogni relazione di cura è fatta da ruoli e da aspettative diverse che devono in parte rimanere tali in modo che non si confondano completamente i ruoli di chi aiuta e di chi è aiutato. Questa diversità sana ha almeno idealmente un potente collante che dovrebbe essere la consapevolezza del piacere di prendersi cura da un lato, dall’altro nel piacere di sentirsi aiutato e riconosciuto nei propri bisogni. A questa dimensione legata al piacere bisogna affiancare, far convivere, un altro sentimento che ha a che fare con l’aggressività che le situazioni di bisogno evocano sempre.

Lavorare accanto a chi è in difficoltà può evidenziare alcuni rischi estremi: l’essere totalmente “assorbito”, l’essere totalmente separato. Come trovare un equilibrio empatico senza annullarsi in uno di questi due rischi?

L’operatore dovrebbe avere la possibilità e l’energia per porsi dentro la relazione di cura in uno stato d’animo interlocutorio; poter quindi permettersi di interrogarsi rispetto ai bisogni a cui sta rispondendo, non escludendo che parte della propria professione è anche prendersi cura di sé stessi e dei propri bisogni. Non confondere queste due ambiti permette forse la giusta distanza.
Un bambino, ad esempio, che all’interno di una classe crea problemi di disordine e di mancanza di rispetto delle regole può essere valutato e aiutato da diversi punti di vista. L’operatore che si occupa di aiutare questo bambino può costruire delle strategie di aiuto efficaci solamente se riesce a rispondere a due interrogativi; uno riguarda quali significati questa confusione sta “raccontando” in quel contesto e per quel bambino, l’altro riguarda il mio progetto di contenere questo disordine e deve tener conto anche della mia preoccupazione di operatore di rispondere a ciò che l’istituzione si aspetta dal mio ruolo professionale.

La fiducia nasce e cresce nell’incontro. La fiducia regge alla separazione?

La separazione è paradossalmente un tema importantissimo legato al tema della costruzione dei legami e della fiducia; perché molto spesso sia gli operatori che la persona che riceve aiuto vive in sottofondo una specie di contraddizione tra la temporaneità dell’intervento e la presenza di un legame che per certi versi rimane unico e indimenticabile, nel bene e nel male.
La fiducia regge alla separazione quando entrambi i soggetti di quella relazione hanno avuto la possibilità di costruire questo legame e quindi di sentire dentro di sé un cambiamento che solo la partecipazione umana può rendere vero, autentico. Questo nucleo forte e interiorizzato diventerà nella successiva relazione, con un altro operatore, un terreno fertile su cui costruire un nuovo percorso di fiducia.
Separarsi è qualcosa di doloroso e costruttivo là dove la relazione ha permesso di sentire uno scambio tra parti importanti di sé, caricate di un senso affettivo, che non significa solamente emozioni positive accoglienti ma anche la gamma più ampia che il sentire emotivo comprende.

Raccontare semplicemente una storia

Raccontare semplicemente una storia. Intervista a Guido Quarzo,scrittore per ragazziCon quale atteggiamento ci si pone davanti al fatto di voler raccontare una storia di diversità?

Non credo che sia necessario, per raccontare una storia intorno a una situazione di diversità, avere un atteggiamento particolare, diverso da quello che si ha quando si raccontano altre storie. Ogni storia in fondo nasce dalla definizione di un problema: può essere un problema soggettivo, di relazione con gli altri, o un problema più oggettivo come una situazione difficile in cui i personaggi vengono a trovarsi. Nello svolgimento delle storie poi i problemi si intrecciano e si complicano. Nel caso di “Clara Va Al Mare”, alle difficoltà ‘‘soggettive’’ della protagonista, si aggiungono quelle “oggettive” dovute al fatto che viaggia da sola. Ma raccontando questa storia non ho mai pensato che la ‘diversità’ di Clara richiedesse da parte mia un atteggiamento narrativo specifico. Credo anzi che la forza del racconto, se ne ha, stia proprio in questo, che ho cercato di trattare la materia senza nessun accorgimento particolare, con l’idea appunto di raccontare semplicemente una storia.Quali sono i rischi maggiori che si corrono?
Credo che i rischi più grandi che un narratore corre con storie di questo tipo siano di enfatizzare eccessivamente i problemi della diversità o, all’opposto, di minimizzarli, quasi per negare l’assunto iniziale che una diversità comunque esiste. Ho visto per esempio il film “L’Ottavo Giorno”, che parlava dello stesso problema e aveva per protagonista un ragazzo down, e non mi è piaciuto per niente: ho trovato esagerata l’insistenza sul rifiuto da parte della gente “normale” e poi altrettanto esagerata l’esaltazione della diversità come modello di confronto capace di mettere in crisi l’ipocrisia e l’egoismo.

Come e’ nata l’idea di scrivere il libro “Clara va al mare”?
Io sono prima di tutto uno scrittore di narrativa, questo è il mio mestiere e sono quindi sempre alla ricerca di storie interessanti. Molto del materiale narrativo che utilizzo lo vado a pescare naturalmente nel mio personale ‘magazzino mentale’. Ebbene, lì dentro c’erano anche alcune esperienze che, avendo insegnato per molti anni nella scuola elementare, ho avuto occasione di fare con bambini e bambine in qualche modo problematici. Tra questi, anche almeno tre casi di alunni down. L’idea di scrivere “Clara va al mare” è cresciuta un poco alla volta, da un primo abbozzo iniziale che conteneva solo l’episodio dei grandi magazzini e che pensavo di accorpare agli altri racconti del volume “Talpa Lumaca Pesciolino”. Mano a mano che scrivevo però mi tornavano alla mente episodi, espressioni e atteggiamenti, arrabbiature e tutta la grande carica affettiva che quei bambini sapevano comunicare. Direi che da un certo punto in avanti il racconto di Clara è diventato una sorta di sfida con me stesso: vediamo se sei capace, mi dicevo, di raccontare quel groviglio di emozioni e di portare questa ragazzina fino al mare.

Nella storia di Clara si ritrovano quotidianità e fantasia. Come si miscelano? C’è prevalenza dell’una o dell’altra?

Entro certi limiti si potrebbe dire che il personaggio di Clara incarna il mondo dell’immaginazione, delle pulsioni e dei desideri. Gli altri personaggi rappresentano, se vogliamo, il cosiddetto principio di realtà.
Ma non c’è una netta separazione tra i due mondi: il principio di realtà fallisce quasi ogni volta che tenta di ‘interpretare’ il pensiero di Clara e l’immaginario si trova a dover fare i conti con la realtà, nel dialogo fra il cane e Clara che, nonostante le apparenze, è uno dei momenti più realistici del racconto.
La risposta dei lettori: rispetto alle intenzioni, a ciò che si voleva esprimere, che tipo di reazione ha suscitato la lettura di testi come “Talpa, lumaca, pesciolino” e “Clara va al mare”?

Con Talpa Lumaca e Pesciolino ho avuto molte soddisfazioni nel corso di incontri con i lettori, sia adulti sia bambini. Ho l’impressione che sia stata ben colta l’idea che ognuno di questi racconti ha per soggetto la possibilità. La possibilità è qualcosa di diverso dalla speranza: la possibilità sta dentro di noi, è come una falda sotterranea e in qualche modo troverà uno sbocco.
Clara va al mare è un libro ancora troppo nuovo, ma finora i commenti sono stati lusinghieri. Mi piacerebbe che venisse letto come un breve romanzo, per il piacere della lettura soprattutto, senza etichette di genere o intenzioni didascaliche, questo sì. “Clara va al mare” è un fuori collana; come è stata voluta questa collocazione?

E’ stata una decisione di ordine puramente pratico: non si riusciva ad attribuire al racconto una precisa ‘fascia di età’ indicata per la lettura. Da una parte spiaceva all’editore proporlo come libro per ragazzi tout court, d’altro lato considerarlo un libro per soli adulti sarebbe stato un limite ingiustificato. Così se ne è fatto un fuori collana, e devo dire che Luigi Spagnol, il mio editor della Salani, ha avuto ragione: infatti Clara va al mare viene letto con interesse dalla quinta elementare alla scuola media, e anche dagli adulti.Il mio prossimo libro, che uscirà in ottobre per Feltrinelli e sarà intitolato “Il Fantasma del Generale”, avrà gli stessi problemi di “target”.
Fra i temi del racconto ritroveremo ancora quello della diversità, ma essendo una storia che si svolge alla fine del XIX secolo, l’atmosfera sarà molto diversa. Uno dei personaggi è addirittura ricalcato sulla figura di Cesare Lombroso, potete quindi ben immaginare…

Aspettando carosello

La comunicazione sociale, conosciuta in Italia soprattutto attraversol’operato di Pubblicità Progresso, è un settore in rapida ascesa. Solo nel1995 sono apparse 75 campagne di sensibilizzazione e di promozione sociale perun fatturato totale di 85 miliardi, che rappresenta però solamente il 3-4%degli investimenti che si fanno ogni anno nel campo delle comunicazioni. Questisono alcuni dei dati emersi da un convegno promosso dal Centro Studi PubblicitàProgresso, che si è svolto di recente alla I.U.L.M. (Istituto Universitario diLingue Moderne) di Milano.

Un Centro Studi per una pubblicità sociale più efficace

Il Centro Studi è stato istituito di recente proprio per supportare conl’approfondimento culturale e la ricerca le campagne di comunicazione nell’areasociale che spesso operano in mancanza di riscontri e che si affidano solamentealla intuizione dei creativi pubblicitari. "E’ una grandissimaresponsabilità – afferma Gianni Gottardo, presidente di Pubblicità Progresso -iniziare un’azione di sensibilizzazione a un tema sociale, senza averne fattouna verifica preventiva; l’eccessiva superficialità con cui a volte vengonoelaborati i messaggi può portare ad errori che sono dirompenti quando si fadella comunicazione sociale".
Oltre al pericolo di diffondere messaggi sbagliati, esiste anche il problemadella loro efficacia. La comunicazione sociale molte volte è un fatto episodicoche andrebbe accompagnato da azioni più articolate che vadano al di làdell’invito al ben operare. Per superare il problema, secondo Gottardo, occorre"che anche nella comunicazione non profit si instauri il principio delmarketing mix del sociale. Come per vendere un prodotto non si può prescinderedalla sua qualità, il suo confezionamento, il suo prezzo, la sua distribuzione,così anche chi opera nel sociale dovrebbe coordinare tutti gli elementi in mododa rendere più efficace la comunicazione".
Gottardo fa notare che le campagne di sensibilizzazione per la prevenzioni dellestragi del sabato sera hanno avuto approcci inefficaci, dal mieloso "nonucciderti" all’aggressione verbale (il "quattro pirla di meno" diOliviero Toscani). Un fenomeno così complesso deve essere affrontato non solocon uno spot che ne denunci la pericolosità, ma deve essere accompagnato ancheda altri mezzi. Supponiamo ad esempio che in Italia i taxisti decidano dipraticare uno sconto del 50% al sabato sera (come accade in Germania), questaopportunità unita all’informazione dei rischi penali a cui si va incontro puòformare un messaggio più efficace: "Allora sarà possibile ricorrere allapubblicità – dice Gottardo – che non dovrà andare a sollecitare o contrastaremotivazioni profonde, ma dovrà far conoscere l’esistenza di un determinatoservizio o strumento di repressione o prevenzione disponibile".

Non solo pubblicità: l’importanza della comunicazione allargata

Nella maggior parte dei casi lo strumento pubblicitario viene impiegato dasolo, senza il supporto di altri strumenti: anche questo ne diminuiscel’efficacia. "La comunicazione è tanto più potente – continua Gottardo -quanto più utilizza in modo integrato e organico i vari elementi dellacomunicazione allargata". In questo caso l’esempio della pubblicitàcommerciale insegna; oltre alle normali vie di pubblicità, ne vengono battutealtre per indurre all’acquisto di un prodotto. In questo modo è stata costruital’ultima campagna della Pubblicità Progresso per l’automiglioramento delcittadino. Oltre agli spot mandati in onda sono state organizzate una serie diiniziative tese al rafforzamento del messaggio; sono stati coinvolti cinque milaistituti secondari superiori per far discutere la cosa tra gli studenti che sonostati invitati anche a partecipare ad un concorso. I ragazzi che scriveranno imigliori dieci elaborati vinceranno una vacanza a Londra dove potranno visitareil Central Office of Information (COI). Infine è stato creato anche un evento:il prossimo 2 marzo sarà la giornata dedicata all’automiglioramento delcittadino che prevederà tutta una serie di iniziative.

Il linguaggio della pubblicità sociale

La comunicazione sociale ha un proprio linguaggio che non è completamentericonducibile a quello della comunicazione commerciale. Ma secondo GiovannaGadotti docente di Sociologia della comunicazione dell’Università di Trento,queste differenze non giustificano "La scelta stilistica dimessa esemplice, il tono doveristico proposto in termini di ingiunzione morale, divittimismo sentimentale o di vera e propria aggressione ricattatoria che sonopresenti nella pubblicità sociale".
Di fronte ad un pubblico abituato al linguaggio seduttivo, ricco disollecitazioni libidiche e alla spettacolarità delle pubblicità commerciali,quelle sociali rischiano di passare inosservate o addirittura di infastidire.Per Giovanna Gadotti invece "La pubblicità sociale dovrebbe usare queglistessi strumenti largamente usati dalla pubblicità commerciale. Non si puòfare a meno di quell’happy end che è una delle sue carte vincenti; il messaggiodeve sollecitare inoltre il passaggio all’atto come per i prodotticommerciali".

Il mondo patinato delle pubblicità commerciali

La comunicazione sociale, come viene suggerito da molti specialisti, perottenere migliori risultati dovrebbe impiegare le stesse tecniche dellacomunicazione commerciale; ma è anche vero che la pubblicità normale trasmettestereotipi e modelli di realtà che sono molto lontani da alcuni temi che lapubblicità sociale vorrebbe promuovere.
Gli interpreti degli spot sono persone fisicamente ineccepibili, anzi quasiperfette; con dei modelli di bellezza e di armonia così rigidi eirraggiungibili (se non, naturalmente, acquistando quel prodotto reclamizzato),qualsiasi discorso di relazione e di accettazione della diversità vienecompletamente escluso.
Anche le famiglie felici della pubblicità non sono certo rappresentative di unasocietà complessa e contraddittoria come la nostra, basata proprio sul consumoche la pubblicità commerciale tenta sempre di alimentare.
Fare della comunicazione sociale efficace, allora, non deve significare larinuncia alla critica di una società contraddittoria e disuguale a cui lapubblicità commerciale è funzionale.

L’adorabile creatura

Perché parlare di Frankenstein? Cosa ha a che fare questo personaggio con l’emarginazione, con la diversità, con il lavoro educativo? Parecchio, dato che Frankenstein è diventato dal 1816 (anno della sua "creazione") ad oggi, attraverso le sue riduzioni cinematografiche, un mito moderno della sua diversità, quella rifiutata e perseguitata perché fa paura.
Ma la creatura a cui ci riferiamo è soprattutto quella inventata da Mary Shelley, un mostro sì, ma dotato di una notevole sensibilità e che soffre per i rifiuti continui a cui è sottoposto, per la mancanza di comprensione della sua vera natura.
Frankenstein soffre per una contraddizione che è comunque tra chi vive ai margini, tra chi vive una particolare diversità (fisica, psicologica, etnica, religiosa…), ma che, in definitiva, è comune a tutti e che si può enunciare con questa domanda: come ci sentiamo dentro, e come ci vedono gli altri dall’esterno?
Nel caso del nostro eroe la distanza tra le due percezioni è enorme, così come deve esserla per il nomade che chiede l’elemosina alla colonna di auto ferme di fronte al semaforo rosso o per un disabile sulla sua carrozzina che incrocia gli sguardi della gente.
Nelle seguenti pagine troverete soprattutto un discorso sul Frankenstein cinematografico, quello reso più semplice, semplicemente mostro, spettacolarizzato al punto giusto da renderlo lontano da noi, non confondibile con la normalità, insomma un mostro in realtà più rassicurante di quello descritto dal libro.
L’operazione compiuta dal cinema ricorda quella compiuta dai mass media quando parlano della diversità. La ricerca dell’effetto, la mancanza di approfondimento, la riproposizione dei pregiudizi, di ciò che la gente già pensa, sono un modo per allontanare dal lettore o dall’ascoltatore qualcosa che potrebbe infastidire, qualcosa di irrisolto, dando una visione del reale semplicemente non vera.

La telematica come strumento di liberazione?

Internet non è solo il Web: applicazioni come e-mail, mailing lists, newsgroups e chat possono garantire una comunicazione più diretta, e schiudere ai disabili prospettive di autonomia pratica e socialità fino ad oggi impensabili. Non senza contraddizioni.La duttilità del digitale

In questo articolo cercheremo di descrivere come le nuove tecnologie possono e potranno cambiare la vita dei disabili; dico anche “potranno”, perché molti dei discorsi che faremo sono da riferire più al futuro che al presente, ma con una certezza, che questo futuro non si farà attendere troppo e che la velocità del cambiamento è in continua accelerazione.
I cambiamenti che la tecnologia ci propone ogni giorno, in forme sempre variate, non sono a senso unico, ma come le medicine hanno le loro controindicazioni, potranno avere una valenza positiva e subito vicino averne un’altra negativa.
Le nuove tecnologie basate sul digitale portano con sé un elemento di estrema duttilità che permette di includere tutti; “permette”, ma il pericolo di esclusione rimane pur sempre presente. Facciamo un esempio: l’invenzione della locomotiva come mezzo di trasporto ha permesso a tutti di spostarsi più rapidamente ma ha creato (naturalmente con il passare del tempo e in un clima culturale attento ai diritti dei disabili) dei problemi nuovi di accessibilità per i disabili motori; se i gradini rimangono insormontabili, se gli scompartimenti sono stretti o mal congegnati, a cosa serve ad uno spastico un Eurostar che raggiunge i 200 chilometri all’ora? A nulla. Così vale anche per le applicazioni delle nuove tecnologie: se non sono pensate anche per i disabili il rischio di esclusione rimane.
A differenza della locomotiva e delle altre invenzioni basate sulla meccanica, le tecnologie basate sul digitale hanno una caratteristica adattabilità, che permette di personalizzare le varie applicazioni a seconda del loro utente e delle situazioni che incontra. Un modo “visivo” per spiegare questa duttilità ci è offerto dal cinema; secondo Stefano Penge, progettista multimediale della Linx, un’associazione che produce cd-rom didattici, “In un film come Terminator 2 possiamo vedere la differenza tra il meccanico e il digitale”. Mentre nel primo film della serie (Terminator 1) il robot, interpretato da Arnold Schwarzenegger, è metallico e quindi si può ammaccare, la seconda creatura è un essere di “metallo liquido” molto più potente del precedente modello, perché questa sua caratteristica, il poter passare da uno stato solido ad uno liquido, lo rende adattabile a tutte le situazioni che incontra.

Di cosa parleremo

Qui non parleremo di ausili (che fanno parte dell’hardware) che aiutano i disabili ad usare i computer, o dei software speciali che vengono incontro alle necessità di un disabile motorio o sensoriale; questo tipo di applicazioni sono peraltro molto importanti perché permettono al disabile di compiere azioni altrimenti impossibili per lui, relative, ad esempio, al controllo dell’ambiente circostante, al gioco o all’utilizzo stesso del proprio computer per comunicare. In un certo senso questi strumenti sono il presupposto di quello di cui ci occuperemo. Ma noi parleremo soprattutto della telematica, ovvero del luogo dove l’informatica e la comunicazione si incontrano dando nuove e sostanziose possibilità a tutti, non solo ai disabili naturalmente. Parlando di telematica ci riferiamo, anche se la cosa non è del tutto vera, ad internet. Lo facciamo perché internet è la sua espressione più eclatante e anche vincente. Per prima cosa vedremo cosa offre, in termini di risorse informative in lingua italiana, la rete telematica (da adesso la parola rete sarà usata come sinonimo di internet), poi illustreremo quegli strumenti che permettono all’utente di agire direttamente (è il caso delle mailing list, dei newsgroup, delle chat…). Infine, cercheremo di descrivere quali nuove possibilità offre la telematica ai disabili (e ai loro famigliari) nel campo del lavoro e della vita sociale.

L’handicap in rete

Che materiale informativo è disponibile su internet a proposito di disabilità?
Al di là dei sensazionalismi e delle mode, si può con certezza affermare che in rete si trovano un certo tipo di risorse.
Vi sono siti abbastanza ricchi di materiale e aggiornati sul tema della legislazione e l’handicap, sugli ausili, software e hardware per le persone con disabilita’, sulla didattica; sono molto rappresentati certi tipi di deficit rispetto ad altri, numerosi sono infatti i siti che parlano di non vedenti e di persone con disturbi nella comunicazione e nel linguaggio, nonché della minorazione fisica; più rari sono invece i “posti virtuali” dedicati all’handicap intellettivo e, cambiando di campo, alle esperienze dirette di genitori, disabili e operatori.
Mancano banche dati riguardanti le pubblicazioni di settore, mancano infine le news, notizie fresche, aggiornate in tempo reale, come è possibile fare con questo supporto elettronico.
Il grande assente è però un altro, è il cittadino italiano che, vuoi per una generale e scoraggiante mancanza di cultura tecnologica, vuoi per una mancanza di incentivi offerti dallo stato tesi a superare questa situazione, rimane lontano dalla telematica e dalle possibilità che essa offre.
A dire il vero da tre anni a questa parte, da quando cioè abbiamo iniziato a monitorare costantemente i siti web dedicati al sociale in lingua italiana, molte cose sono cambiate, molto associazioni hanno fatto il loro ingresso in rete, molti privati cittadini hanno cominciato ad usare la posta elettronica in un numero e con una frequenza che solo tre anni fa era impensabile. Ma la crescita rimane limitata se confrontata a quella degli altri paesi occidentali. Inoltre, la presenza di tante associazioni in rete è sì un fenomeno importante, ma che, in sé, non dice come questo mezzo viene poi da esse usato; in altre parole, se l’uso della telematica si riduce alla sola presenza in rete, all’esserci come vetrina colorata che non fornisce servizi all’infuori degli indirizzi reali, allora l’impatto delle nuove tecnologie sarà comunque poca cosa.

L’interattività che cerchiamo

Interattività è una parola che ritorna spesso quando si parla di telematica e indica la più importante qualità del mezzo, ovvero la possibilità di agire, di retroagire, la possibilità di essere informati e di informare a propria volta, di chiedere e di rispondere senza filtri, senza mediazioni di qualcuno (come avviene quando ci rivolgiamo ai mass media).
Per un disabile e per i suoi famigliari questo può significare tanto.
Ma in che modo si può essere interattivi su internet? In molti modi e con diverse applicazioni (software). Normalmente parlando di internet si pensa alle pagine web, a quelle pagine scritte secondo un particolare linguaggio (l’html) e che vediamo, anche chi non ha mai acceso un computer, oramai pubblicizzate dappertutto, in televisione e sui giornali. Da qui, noi possiamo partecipare al “grande gioco” scrivendo delle lettere, compilando negli spazi appositi (form) le nostre richieste, cercando e scaricando materiale informativo. Tramite l’uso intelligente dei motori di ricerca (search engines) è possibile informarsi da casa propria sugli orari dei mezzi di trasporto, o fare degli acquisti (vedremo meglio più avanti questi aspetti). Ma altre grandi opportunità sono date da mezzi diversi, prima di tutto la posta elettronica (l’e-mail) che permette di comunicare rapidamente con qualsiasi parte del mondo, i gruppi di discussione ( i newsgroup) e, con delle caratteristiche un po’ diverse, le chat (applicazioni che permettono la comunicazione in tempo reale tra due o più persone).
Queste opportunità vengono utilizzate tramite dei software diversi dai normali browser (ovvero le applicazioni – Internet Explorer e Netscape sono le più note – che “sfogliano”, “vedono” le pagine web), anche se, molte volte, fanno parte del browser stesso, ne sono parte integrante.
Questi programmi consentono la comunicazione diretta tra le persone, ed è perciò in questi luoghi, più che sul web, che il “popolo della rete” si incontra, e in mezzo a queste persone vi sono anche numerosi disabili.

Le mailing list

Le mailing list sono dei gruppi di discussione realizzati tramite la
posta elettronica. Per poter partecipare occorre iscriversi mandando un
messaggio ad un particolare indirizzo e scrivendo nel corpo del messaggio,
nella maggior parte dei casi, la parola subscribe.
Dal momento in cui uno si è iscritto, riceve tutti i messaggi che gli altri
iscritti mandano in lista e ogni suo messaggio (mandato ad un unico
indirizzo, quello della lista) viene ricevuto da tutte le persone che in
quel momento sono iscritte. Di solito a gestire automaticamente tutte
queste operazioni è un particolare computer che può adottare programmi
differenti (listserv, majordomo, listproc, smartlist…).
A volte le mailing-list sono in modalità digest, ovvero i messaggi non vengono inviati agli iscritti immediatamente, ma sono raggruppati in un unico messaggio inviato con cadenza regolare.
L’informazione, nel caso delle liste, arriva direttamente alla persona,
nella sua casella di posta elettronica, e questo è un elemento da non
sottovalutare, dato che l’utente non ricerca, ma riceve direttamente le
notizie senza nessuno sforzo (se non quello successivo di rispondere o
partecipare al dibattito). Come per i giornali e gli altri mass media
tradizionali, le mailing list sono lette da un numero di persone maggiore
rispetto a quelle che intervengono direttamente nella discussione, anche se
l’interattività, la possibilità cioè di partecipazione offerta dal mezzo
telematico, è nettamente superiore.
Di diversa natura sono i newsgroup, i gruppi di discussione i cui messaggi non arrivano privatamente nella propria casella postale (elettronica) ma sono pubblicati in spazi pubblici cui chiunque può connettersi per leggerli (oltreché per partecipare). Sulle tematiche a noi care, in lingua italiana ne esistono due, uno dedicato all’handicap generale e uno a quello intellettivo; in più vi sono newsgroup che ne parlano trasversalmente (quelli dedicati al volontariato, all’obiezione di coscienza, agli scout). E’ possibile partecipare ai newsgroup sia dal web (quindi usando un browser), sia con delle specifiche applicazioni. Qui il tono delle discussioni si fa più leggero, meno impegnato; i messaggi che passano ogni giorno possono essere anche decine, e alcune discussioni durano delle settimane.
Per finire le chat, programmi che permettono una comunicazione diretta come quella telefonica, sia scritta, che audio (con l’ausilio di un microfono) o anche video (con l’aiuto questa volta di una webcamera). Qui la comunicazione non è più definibile o classificabile, perché in questi luoghi comunicativi può succedere veramente di tutto (dallo scambio di opinioni alla relazione amorosa).

Ma ai disabili la telematica serve?

Dopo questa carrellata in cui abbiamo cercato di definire il tipo di strumenti che possono essere usati dal disabile e dalla sua famiglia, veniamo ad alcune considerazioni pratiche.
Per molti disabili la telematica significa innanzitutto diminuzione delle deleghe. Dice John Fischetti, del Movimento della Vita Indipendente (Enil) e da anni impegnato nel settore: “L’aspetto più importante è l’annullamento della necessità di deleghe. Un numero sempre maggiore di operazioni e attività potrà essere svolto con mezzi e strumenti telematici, liberando così le persone con disabilità dalla dipendenza e restituendo loro privacy e autosufficienza. Non esiste forma di disabilità, per quanto grave, che possa impedire del tutto l’uso dello strumento informatico e telematico”.
Comprare un biglietto d’aereo, un armadio o un computer, può essere fatto da casa semplicemente connettendosi alla rete e utilizzando la carta di credito. Le normali operazioni quotidiane, o almeno un gran numero di esse, così difficili per un disabile, diventano possibili.
Anche sul piano delle relazioni sociali la telematica può portare delle novità; la possibilità per un disabile di uscire (virtualmente) dalla propria stanza, e di comunicare con il mondo intero, può permettere una qualità di vita migliore, e può portare a dei cambiamenti anche nella vita reale. Esiste anche la possibilità che il disabile nel mondo virtuale decida di avere un’altra identità, non più quella della persona con deficit. Il cambio di identità è un fenomeno abbastanza diffuso in rete, che si esemplifica nei nickname (i nick, i soprannomi che una persona assume in rete quasi a voler denotare un altro sé).
Per quanto riguarda l’istruzione e il lavoro, la rete permette cose sicuramente impensabili fino a poco tempo fa; si stanno sviluppando strumenti telematici (videoconferenza, teledidattica…) per la formazione a distanza, utilissimi per chi ha difficoltà a muoversi o per coloro per i quali muoversi significa spendere risorse enormi. Il telelavoro (il lavoro a distanza, a casa propria davanti al terminale) è sicuramente un discorso a venire che in Italia non è regolamentato; una cosa di cui si parla molto ma si pratica poco, e quel poco in condizioni ( in termini di diritti dei lavoratori) non esaltanti.
Abbiamo elencato tutta una serie di possibilità, offerte dalla telematica, importanti per un disabile, ma che comportano un altro effetto da non sottovalutare: chi telelavora, chi studia tramite la formazione a distanza, chi comunica con il mondo tramite una chat, lo fa al chiuso della sua stanza, nel posto da cui molti disabili vogliono invece uscire. E’ una contraddizione non facilmente risolvibile ma di cui bisogna sempre avere coscienza. Riporto un’altra interessante considerazione di Fischetti: “È ovvio che ignoranza e solitudine non si possono debellare solo con lo strumento telematico. I rapporti fisici, l’essere insieme e il crescere insieme sicuramente continuano ad essere basilari per ciascuna persona. In questo senso la telematica non deve assolutamente costituire un alibi per costringere le persone a rinunciare alla mobilità; la telematica non deve mai essere descritta come un sostitutivo degli incontri fisici, dei viaggi, dell’esplorazione del mondo. Può però costituire una ottima integrazione, e per chi oggi si vede preclusi gli incontri fisici, i viaggi e l’esplorazione del mondo, la telematica può costituire comunque un enorme passo avanti”.
Per finire un ultima considerazione doverosa.
Stiamo parlando di possibilità, di potenzialità (che oramai sono molto più che promesse) da cui viene esclusa la maggior parte della popolazione mondiale. La telematica ed internet sono cose da mondo occidentale, da paesi ricchi; laddove le infrastrutture (linee telefoniche, energia elettrica…) non esistono o dove l’analfabetismo è endemico, queste conquiste dell’umanità non arriveranno mai. Quindi un’altra contraddizione, un altro paradosso: questi benefici ricadranno là dove le condizioni di vita dei disabili sono migliori, e rischiano di non riguardare la maggior parte delle persone disabili che, come è noto, sono nei paesi poveri del quarto mondo.

Sostenere ed orientare

Sono più i maschi ad interrompere gli studi, a livello di scuola media superiore, per motivi connessi non a situazioni di povertà ma per il desiderio di immediato guadagno. Questo al nord, al sud Italia i motivi di abbandono rimangono legati a difficoltà economiche e di disagio sociale e avvengono più nella scuola dell’obbligo. Intervista a Vittorio Capecchi.

Intervistiamo sul fenomeno del disagio scolastico e dell’abbandono Vittorio Capecchi, docente di sociologia all’università di Bologna, che ha curato l’ultimo "Rapporto su scuola, università, formazione professionale e mercato del lavoro" dell’Osservatorio del mercato del lavoro della regione Emilia Romagna.

D. Quali sono i dati più recenti riguardo l’abbandono scolastico?

R. I dati più recenti sull’abbandono scolastico si possono ricavare dalle rilevazione fatte dal Censis, e si riferiscono all’anno scolastico 1992-93. Questi dati ci dicono che su 100 studenti solo 64 riescono a terminare la scuola dell’obbligo. I dati non sono però disaggregati tra maschi e femmine, distinzione che ne permetterebbe una lettura molto diversa.
In Emilia Romagna dove abbiamo questo tipo di disaggregazione, risulta che il 73 % delle femmine riesce a terminare la scuola dell’obbligo contro il 60 % dei maschi; è un differenza molto significativa. Altre differenze riguardano il divario tra nord e sud Italia, con questa caratteristica: nel sud l’abbandono è un fenomeno che riguarda la scuola dell’obbligo, mentre al nord esiste questo problema nelle scuole medie superiori.

D. Quali sono le principali cause che fanno si che uno studente si "perda" durante il percorso scolastico? E’ possibile parlare di diverse cause di abbandono a seconda dell’ordine scolastico?

R. Al sud l’abbandono, dicevo, riguarda la scuola elementare, la media inferiore; le cause sono da ricercarsi nei contesti familiari, di povertà, di emarginazione, per problemi legati ad all’uso del dialetto al posto dell’italiano…Al nord, l’abbandono prima del diploma ha invece un motivo ben preciso; in queste regioni il mercato del lavoro richiede con urgenza degli operai specializzati, soprattutto i maschi, che lasciano così la scuola per andare a lavorare. In questo modo si capisce anche la differenza di comportamento tra maschi e femmine; in passato accadeva l’opposto, erano le femmine che lasciavano la scuola perché venivano "utilizzate" in famiglia.

D. Facendo un discorso di andamento temporale, quali sono le oscillazioni che il fenomeno dell’abbandono scolastico ha avuto negli ultimi anni?

R. L’Italia ha senza dubbio recuperato rispetto agli anni precedenti, ma questi dati rimangono comunque allarmanti. Facendo un paragone con gli altri paesi industrializzati, in Italia la popolazione con il diploma in età compresa tra i 25 e i 64 anni, rappresenta solo il 22% del totale, contro il 36% della Francia, il 49% dell’Inghilterra, il 53% degli Stati Uniti, il 60% della Germania.

D. Come reagiscono la scuola, il corpo docente di fronte a questo problema? Quanto dipende l’abbandono scolastico dall’altro abbandono, quello educativo, dovuto cioè agli insegnanti?

R. La dispersione scolastica può essere risolta grazie ad un grosso impegno degli insegnanti; poi ci sono una serie di dispositivi offerti dalla comunità europea, che non sempre vengono utilizzati. Strumenti che diano una seconda chance, tramite l’orientamento e i corsi di sostegno, esistono e sono finanziati, ma a volte sembra che la scuola italiana non ne approfitti.

D. Quali saranno gli scenari futuri riguardo il disagio scolastico, quali nuovi o vecchi problemi si riproporranno?

R. Oggi viene enfatizzata la scuola come un bene diffuso, si dà molta importanza alla diffusione dell’istruzione; esistono alcune nazioni, come il Giappone, dove l’istruzione superiore di massa è stata realizzata; se si vuole raggiungere questo obiettivo anche in Italia occorre attuare tutta una serie di strategie.
La legge di riforma della scuola proposta dal ministro della Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer prevede appunto una serie di incentivi agli studenti "in difficoltà" attraverso la formazione professionale e l’orientamento.

Educare e cooperare

Da una parte l’opera, il lavoro sociale svolto dall’educatore, dall’altra l’intervento educativo, formativo dei cooperatori che lavorano in varie parti del mondo, nei paesi poveri. Tra queste due condizioni abbiamo cercato di intrecciare un discorso che riguarda le motivazioni delle persone coinvolte, la relazione di aiuto che si instaura a livelli diversi, la necessità di superare vecchi stereotipi culturali.
La relazione di aiuto che si instaura tra un operatore sociale e l’altro (un disabile, o un qualsiasi individuo in una situazione di svantaggio) cosa ha un comune con la relazione di aiuto che lega un cooperatore con la controparte? Sono la medesima cosa? O possono essere solo paragonate? Perché una persona decide di partire e perché lavora nel sociale?
Abbiamo cercato di rispondere a queste domande con due interventi che affrontano da una diversa prospettiva le medesime questioni. Nel primo articolo un educatore racconta la propria esperienza di cooperazione nel Nicaragua che lo porta a fare i conti con le proprie motivazioni che lo hanno indotto a partire e sul senso

della relazione che ha instaurato con gli abitanti del luogo; una relazione di aiuto che si trasforma in un’esperienza di conoscenza che lo porta, come spesso accade quando si incontra la diversità radicale, ad un cambiamento profondo e non comunicabile a chi non lo ha vissuto.
Chi da e chi riceve in una relazione di aiuto? E che cosa si riceve e che cosa si da? Con queste domande potrebbe essere riassunto il secondo contributo scritto da un’educatrice che ha lavorato all’interno di un progetto di formazione all’università di Phnom Pen in Cambogia. L’idea di relazione di aiuto tra cooperatore e controparte molte volte si basa su un modello culturale che vede una parte che da e una che semplicemente riceve, a discapito di quest’ultima che viene svilita; di qui la proposta di superare queste relazioni a senso unico per valorizzare la ricchezza che anche l’altro ha.
E questo vale solo per la cooperazione internazionale?

Integrare tutti

Fare il punto dell’integrazione scolastica oggi in Italia sarebbe stato un obiettivo forse troppo pretenzioso, anche se oggi questa sensazione di dover tirare le somme, gettare uno sguardo d’insieme, viene avvertita da più parti; dagli specialisti, dagli insegnanti, dalle famiglie. I motivi di questa riflessione sullo stato d’integrazione sono diversi, ne ricordiamo alcuni. Le situazioni di disagio a scuola, in classe, si sono profondamente trasformate negli ultimi 10-15 anni, ramificandosi, assumendo forme inattese e ponendo gli insegnanti di fronte a situazioni e a domande nuove. Chi è il soggetto da integrare? Solo quello munito di un foglio in A4 chiamato certificato o esistono emergenze che sono iscritte, in maniera drammatica e dolorosa, al di là di quel margine di carta? E chi pone, chi deve porre lo sguardo al di là del solito? Mai come oggi si avverte, proprio per quello che abbiamo appena accennato, come sia povera di prospettive la riduzione del processo di integrazione alla fetta dei disabili presenti in un sistema scolastico. "L’integrazione è una prospettiva complessiva", dice Andrea Canevaro, direttore del Dipartimento di Scienze dell’Educazione a Bologna, in un intervento che troverete su questa rivista. Forse l’equivalenza integrazione/handicappato non tiene conto del fatto che tutti gli studenti hanno bisogno di essere integrati, particolarmente oggi in un contesto sociale così complesso e disgregato. A tutto ciò si aggiunge un altro fattore, quello economico che in questa inchiesta però non tratteremo: i tagli al "sociale", nel senso onnicomprensivo, la riduzione dello spazio del Welfare State non può che porre altre domande sul dove si vuole andare. Con questi interventi non abbiamo voluto fare il punto della situazione, abbiamo semplicemente ascoltato le voci di alcune persone (un insegnante di scuola media superiore, un insegnante di sostegno, un pedagogista) che pongono al centro del loro lavoro la questione dell’integrazione, che viene così raccontata da tre angolazioni diverse. Un discorso comunque appena iniziato, da proseguire.

Cooperazione internazionale e disabilità

Cooperare con i paesi poveri, e in particolare proporre e realizzare progetti che riguardano i disabili; è questo il tema della nostra inchiesta che riporta le testimonianze di persone che lavorano in Palestina, in Nicaragua e in altre parti del mondo; un lavoro difficile che, accanto alla scarsità di risorse locali, deve fare i conti con situazioni politiche a volte difficili, al limite della pericolosità. Nonostante le difficoltà, da queste esperienze emergono risultati importanti e idee originali; è il caso della riabilitazione su base comunitaria, un metodo riabilitativo particolarmente adatto in certe situazioni di povertà. Raccontare queste esperienze è anche un modo per fare dei confronti fra chi opera nel sociale nel mondo occidentale e chi lavora in un contesto del tutto diverso, alla ricerca di punti di contatto e di presa di coscienza di un fatto: che il perseguimento dello sviluppo e del benessere non può essere pensato solo per una parte (piccola) del mondo, ma deve riguardare l’intero pianeta.

 

La rete che cambia

Parecchie cose sono cambiate in rete in questi ultimi anni, anzi in questi ultimi mesi; stiamo naturalmente parlando di rete telematica (di internet). Quando nel 1995 cominciammo ad usare timidamente l’armamentario telematico interrogando le BBS specializzate sul tema dell’handicap (qualcuno si ricorda ancora cosa siano le BBS?) il panorama era completamente diverso da quello di oggi, nel bene e nel male. Nel male perché quello era un mondo da iniziati, a volte chiuso e tendenzialmente elitario, difficile anche da comprendere, nel bene perché le poche persone presenti (in quell’anno non più di 80 mila in Italia) erano più consapevoli del valore sociale del mezzo telematico di quanto non lo si sia oggi.
In Italia, paese molto arretrato in termini di cultura tecnologica, se confrontato con i paesi sviluppati, la diffusione di internet è stata ed è rapidissima, anzi mi viene da dire furiosa. Internet è diventata una moda e chi non la conosce e non la usa non fa parte del gruppo che possiede anche gli altri status symbol (i telefonini, la macchina, il dvd…). Tutto questo ha naturalmente un prezzo, e il prezzo che si paga è quello di uno svilimento delle nuove tecnologie vissute unicamente come nuova occasione di consumo. Sia ben chiaro internet è anche questo, dovrebbe rendere la nostra vita più facile permettendoci acquisti on line, permettendoci il confronto di prodotti diversi e di prezzi diversi. Ma la telematica non finisce qui.
Da tre anni a questa parte come Centro di Documentazione Handicap giriamo per l’Italia organizzando corsi di formazione sulle nuove tecnologie rivolti agli operatori sociali, ai volontari, agli insegnanti, alle persone svantaggiate. I nostri non sono corsi puramente informatici ma parliamo anche di telematica sociale, di come sia possibile informarsi e fare informazione sui temi sociali. In base a questa genere di esperienza abbiamo notato come le persone che frequentano i corsi siamo aggiornate sulle ultime novità web e siano a digiuno delle altre applicazioni (che non siamo i browser) che servono per comunicare in rete. Molti conoscono kataweb, tiscalinet, gli mp3, le nozioni base dell’uso dei motori di ricerca, ma nessuno sa (per lo meno in modo chiaro) cosa siano le mailing list, ancora meno cosa siano i newsgroup, gli strumenti sicuramente più originali della rete (ancora oggi). Non conoscere ed usare i gruppi di discussione significa rinunciare alla comunicazione digitale più interessante. Il prezzo che si paga è allora questo, vivere la telematica come un susseguirsi di pagine web da guardare e basta, senza partecipazione attiva e senza alcun senso critico. E’ anche vero che il web si arricchisce sempre più di nuove potenzialità e tendenzialmente convoglia su di sé tutte le varie possibilità comunicative che vengono svolte da applicazioni diverse (newsreader, le applicazioni per la gestione della posta elettronica e per l’uso delle chat). Ma, almeno per adesso, i browser (Internet Explorer e Netscape, per citare i più noti) non permettono le stesse potenzialità. E non è, naturalmente, una sola questione di conoscenza tecnologica (delle applicazioni); la telematica può essere realmente uno strumento di liberazione (lo si può dire senza paura) liberazione dall’ignoranza, dalle barriere, dall’isolamento, ma perché lo sia occorre anche crederlo, ed allora ecco l’importanza dei valori condivisi (di solidarietà e di speranza) dove la tecnologia figura come un mezzo da usare (incredibilmente nuovo e rivoluzionario), ma solo un mezzo per migliorare il modo di stare su questo pianeta. Di come poi il digitale muti questi contenuti (e la nostra socialità), beh, questa è tutta un’altra storia.

Ma quando un disabile diventa vecchio?

Gli anni passano, il bambino diventa ragazzo e poi adulto, l’invecchiamento continua senza sosta; è normale. Ma quando questo capita alla persona disabile allora si pongono dei problemi specifici ed anche alcuni rischi.

Il tema può essere visto da punti di vista differenti; quello del servizio sociale che deve pensare ad una organizzazione opportuna, quello dell’educatore (là dove ce n’è bisogno) che deve saper modificare il suo rapporto, quello della famiglia e delle associazioni e infine quello dello stesso disabile.
Sono livelli di osservazione diversi ma tutti necessari per ricomporre, attorno al disabile che invecchia, un tema che altrimenti rischia di essere affrontato in modo frammentato e con logiche diverse (la razionalità, l’emozione, l’economicità, l’ideologia…).
Intanto bisogna chiedersi perché parlare di questo tema adesso e i rischi che può comportare.

I disabili intellettivi vivono e vivranno più a lungo

Per quanto riguarda il primo aspetto bisogna dire che si tratta essenzialmente di una questione di numeri; in tutti i paesi europei e, presumibilmente in tutti quelli occidentali, il numero di persone handicappate mentali con più di 50 anni raddoppierà nell’arco dei prossimi 10 anni. Questo comporterà dei problemi nuovi che i normali servizi sociali non sono sicuramente attrezzati ad affrontare; le stesse famiglie poi vedono allungarsi il "periodo di accudimento" che tende a proiettarsi oltre la vita degli stessi genitori (è il tema del "dopo di noi").
Secondo Anna Contardi dell’Associazione Italiana Persone Down, "Il problema dell’invecchiamento delle persone Down è diventato molto grosso dato l’allungamento della vita; i servizi che funzionano solo su alcuni aspetti, come l’inserimento lavorativo, lasciando scoperto tutto il resto. Questo naturalmente là dove per fortuna esiste un servizio per l’handicap adulto".
Per Wilma Cavallazzi, presidente dell’Anffas (Associazione Italiana Famiglie Fanciulli e Adulti Subnormali) di Bologna, _Questo problema investe fortemente i genitori che hanno paura di morire prima dei loro figli. Il compito delle associazioni di genitori diventa a questo punto quello di sollecitare gli Enti Pubblici a progettare. Una risposta possono essere le RSA (Residenze Sanitarie Assistenziali); oggi molti disabili finiscono semplicemente nei ricoveri per anziani ma queste sono risposte improprie a persone che anziane non sono".
I rischi invece possono essere diversi; innanzitutto c’è il pericolo di generalizzare. Una cosa è parlare di invecchiamento per un handicappato mentale o per una persona affetta da una malattia degenerativa e un’altra cosa è parlare di invecchiamento per i disabili fisici.

Semplice invecchiamento o invecchiamento precoce?

Per quanto riguarda la precocità dell’invecchiamento la questione è delicata: in che termini e con quale sicurezza si può parlare di precocità?
Qui le opinioni sono differenti. "Io non credo all’invecchiamento precoce dell’handicappato; per alcune categorie può essere vero, ma l’affermazione non può essere totalizzante; -afferma Fausto Ameli, coordinatore del Polo Handicap Adulto Azienda USL Città di Bologna- La stessa espressione "l’handicappato che invecchia " va rivista, bisogna pensare alla persona disabile nelle varie età della vita e comunque rimane un problema di integrazione. Se perseguiamo una politica di integrazione per il bambino handicappato così deve essere per l’handicappato che invecchia. Il rischio fondamentale è quello di un ritorno alla medicalizzazione che è in parte condiviso dagli anziani e in parte è il tipico modo di concepire l’handicap come una malattia".
Dice Laura Maccherini, coordinatrice del Centro residenziale "casa Paderno" dell’Aias (Associazione Italiana Assistenza agli Spastici) di Bologna:"Dopo i 40 L’invecchiamento è precocissimo. Le esigenze sanitarie e assistenziali diventano predominanti e superano quelle educative. Questo vale in parziale misura anche per i disabili fisici. A questo punto il problema educativo è quello di sfruttare al meglio il tempo rimasto libero dalle esigenze sanitarie e assistenziali".

Se l’infermiere subentra all’educatore

Dalle testimonianze ora riportate emergono altri rischi. L’invecchiamento (più o meno precoce) può diventare un alibi per non affrontare più la questione dell’integrazione (nella famiglia, nel lavoro, nella vita sociale…) e nella peggiore dell’ipotesi (come è il caso delle case di riposo per anziani) può spianare la strada all’istituzionalizzazione.
A questo punto bisogna distinguere e precisare l’apporto che possono dare le strutture sanitarie e quelle sociali; infatti il sociale e la geriatria rispondono a logiche e ad intenti ben diversi. Mentre per il primo vale il discorso dell’educabilità, del progresso e dell’integrazione a vari livelli, per il secondo vale un discorso di mantenimento, fin dove è possibile, di capacità fisiche e mentali che stanno scemando.
E il discorso non si ferma al confronto di competenze fra l’educatore e l’infermiere o l’assistente di base, ma va all’interno della stessa professionalità dell’educatore ponendo nuovi quesiti.
"C’è anche il rischio – conferma Fausto Ameli – di un approccio educativo ad oltranza; in alcuni centri diurni si continua ad insegnare per anni ad un disabile oramai di una certa età a leggere , ad esempio, l’orologio; ma se questa persona non lo ha imparato a quarant’anni certo non lo imparerà più. L’approccio educativo molto spesso non è preparato ad affrontare questi cambiamenti e a volte si arriva all’errore di trattare come un bambino una persona che non lo è più. Faccio un altro esempio; l’inserimento lavorativo è importante ma può non esserlo più per una persona di 55 anni; allora – conclude Ameli – qui non ci deve essere un "accanimento pedagogico-educativo", ma bisogna riorientare tutto l’intervento a partire dalla persona".

La stimolazione contro l’invecchiamento?

Come devono comportarsi gli operatori sociali di un centro diurno con gli utenti che invecchiano, cosa devono modificare nel loro rapporto educativo? E ancora, come devono essere organizzati i servizi in questa prospettiva? Per rispondere a queste domande è partita una ricerca nella regione Marche a cura del Centro socio-educativo “Francesca”; ne parliamo con il professor Cottini, responsabile del progetto.

Domanda. Che cosa vi ha spinto a fare questa ricerca?
Risposta. Secondo gli studi epidemiologici è fortemente aumentata la vita media dei disabili; i dati dicono che i disabili mentali vent’anni fa vivevano in media 30-35 anni oggi invece per il 60% arrivano ai 60 anni. Naturalmente questo cambiamento pone nuovi problemi.

D. Per alcuni l’invecchiamento dei disabili mentali comporta anche un aggravamento delle condizioni; condivide queste affermazioni?
R. Si assiste ad un deterioramento delle funzioni intellettive però è difficile fare delle generalizzazioni; questi cambiamenti sono lenti e non avvengono all’improvviso quando si raggiunge una certa età. Noi pensiamo, ed è questa una delle motivazioni delle ricerca, che è possibile contenere questo peggioramento delle funzioni intellettive stimolando dal punto di vista cognitivo i soggetti in età avanzata; certo se continuiamo a pensare a strutture per questi soggetti rette solo da personale infermieristico e sanitario non si risolve il problema.

D. Sempre a proposito della ricerca, quali sono gli obiettivi e i tempi di realizzazione che vi siete proposti?
R. La ricerca, che è realizzata dal Centro socio-educativo "Francesca" in collaborazione con l’università di Urbino e l’istituto di Medicina Sociale, ha un preciso fine operativo e non vuol essere una ricerca staccata dalla realtà. Vogliamo suggerire agli operatori e a coloro che dovrebbero organizzare questo tipo di servizi, come dovrebbero funzionare delle strutture che hanno come utenti dei disabili che invecchiano o già lo sono. Per quanto riguarda gli operatori il nostro obiettivo è quello di proporre modalità di intervento gestite dall’operatore, programmi che l’educatore stesso può utilizzare senza dover ricorrere ad altre figure specialistiche. Per quanto riguarda le modalità e i tempi di realizzazione vogliamo condurre la ricerca presso alcuni centri italiani dell’Anffas (Associazione Nazionale Famiglie Fanciulli e Adulti Subnormali); la ricerca dovrebbe durare un paio di anni.

D. In pratica che tipo di intervento dovrebbe compiere l’educatore?
R. Ad esempio programmi di stimolazione percettiva e discriminatoria (l’uguale e il diverso), di stimolazione della memoria e dell’attenzione. Si tratta quindi di puntare più sull’aspetto educativo rispetto a quello assistenziale.

D. Che apporto può dare il campo geriatrico nel caso del disabile che invecchia?
R. Naturalmente non si può pensare di fare uno studio in questo settore ignorando quello che è già stato fatto in campo geriatrico. L’invecchiamento della persona disabile pone però questioni differenti, più specifiche e la risposta non può quindi essere solo sanitaria o ricreativa. In questo caso occorre un’integrazione di competenze.

Lavorare stanca

Un’organizzazione del servizio non ottimale e un’inadeguato trattamento economico; sono questi i due motivi che spiegano lo stato di esaurimento psichico e fisico in cui si vengono a trovare gli operatori sociali dopo alcuni anni di lavoro. E’ quanto emerge da una ricerca fatta dal Labos (Laboratorio per le politiche sociali).
Una formazione di base, poi continuata nel tempo, può essere molto utile a prevenire e a reagire alle situazioni di stress a cui chi opera nel sociale può andare incontro.

L’indagine è stata realizzata l’anno passato ed è stata commissionata al Labos dal ministero del Lavoro. "Avevamo già fatto delle ricerche nel comparto sociale e avevamo subito rilevato l’alto grado di turn over fra gli operatori – afferma Pasquale Gigante, sociologo e coordinatore della ricerca. In questo caso si è trattato di una ricerca di sfondo per capire un fenomeno di cui si conosce ben poco e rispetto al quale si ha uno scarso controllo delle variabili che intervengono nel processo; siamo andati a "grattare" il fenomeno stesso per vedere ciò che c’era".
La ricerca ha coinvolto 290 operatori sociali distribuiti nei servizi pubblici e privati (comunità, cooperative…) equamente ripartiti fra tre settori particolarmente esposti; quello delle tossicodipendenze, della salute mentale e dell’Aids.

Un operatore su tre mostra segni di disagio

"Abbiamo utilizzato il Maslachburnout inventory, una scala per la rilevazione del burnout lavorativo; il soggetto, di fronte a sette affermazioni graduate, deve esprimere il grado in cui si trova nella scala. Questo dà luogo a tre dimensioni che spiegano l’esaurimento energetico di un operatore: la mancata realizzazione lavorativa, con la caduta dell’autostima e un senso forte di inadeguatezza al lavoro; l’esaurimento emotivo, ovvero la sensazione di non avere più riserve psicologiche da offrire; la depersonalizzazione, che si esplica con atteggiamenti di presa di distanza od ostili nei confronti delle persone per le quali si lavora. Un apposito questionario – conclude Pasquale Gigante – ha messo in luce che per tre operatori su dieci si manifestano segni di malessere o di grave disagio".
Questo dato emerge anche se, come rilevano gli stessi ricercatori, gli operatori tendono a minimizzare il problema.
La ricerca individua le fonti di stress degli operatori sociali in: il carico eccessivo di lavoro (65% degli intervistati), la remunerazione economica (64%), l’attuale organizzazione del servizio (62,8%), l’assenza di adeguati momenti di recupero (59,9%). Di rimando i fattori protettivi contro lo stress secondo gli stessi operatori risultano essere invece: un buon clima all’interno dell’equipe (85,5%), un’organizzazione più adeguata del servizio (85,5%), corresponsabilità terapeutica interna equipe (81,2%), aggiornamento permanente (80,9%), remunerazione economica più adeguata (73,9%).
"Considerando però le ragioni possibili di affaticamento proposte dal questionario – spiega Pasquale Gigante – si possono riformulare i dati in gruppi fattoriali maggiori da cui risulta che l’inadeguatezza della remunerazione economica, il sovraccarico di lavoro, il rischio di morte degli utenti, l’assenza di un buon clima all’interno dell’equipe sono i motivi principali".

L’importanza della formazione

Se l’organizzazione del servizio e il trattamento economico sono questioni ineludibili, uno strumento importante che può fornire agli operatori sociali dei mezzi per fronteggiare lo stress lavorativo è la formazione professionale.
"Se interpretiamo il burnout come l’incapacità di fare i conti con la propria esperienza lavorativa – spiega Emanuela Cocever, pedagogista – allora il modo in cui tu fai un monitoraggio costante del tuo lavoro è fondamentale; soprattutto i lavori di relazione si reggono solo se si riesce ad impostare una dimensione di ricerca sul proprio lavoro, ovvero di non spesa di se stessi totalmente nell’azione o nella relazione ma con frequenti momenti di osservazione e di riflessione. Questi momenti sono l’esito di una formazione in tutti i sensi, sia iniziale che quella che segue; una formazione che oltre a fornire le competenze, fornisce anche la capacità di una supervisione costante del percorso. Una formazione a tempo pieno con un periodo di tirocinio allora diventa un buon trampolino per superare questi ostacoli, mentre una formazione sono universitaria lascia più sguarniti in questo senso".
Secondo Raymond Ceccotto, responsabile dell’ARFIE (Association de Recherche et de Formation sur l’Insertion en Europe) "Il bournout può essere fronteggiato meglio in quei paesi che offrono diverse possibilità d’impiego per gli operatori sociali; in questo modo si può cambiare settore passando a un’utenza diversa. Ma là dove questa possibilità manca o è limitata (come è il caso dell’Italia), allora bisogna ricorrere agli strumenti offerti dalla formazione. La formazione e la supervisione devono preparare l’operatore sociale a sapersi mettere continuamente in discussione per non farlo adagiare in ruoli troppo rigidi che portano inevitabilmente a fenomeni di stress lavorativo".

L’handicap in rete 1

Le reti telematiche vengono di sovente paragonate a delle spaziose autostrade (elettroniche) dove corrono a velocità impensate una moltitudine di informazioni riguardanti i campi più disparati: da un paio d’anni su queste veloci autostrade passano anche informazioni riguardanti la disabilità.

Rispetto alla quantità di informazioni che transitano sulle reti telematiche, lo spazio dedicato all’handicap è molto limitato ma esistono già alcune esperienze che vale la pena di conoscere.
Sulla rete Agorà, una delle prime nate in Italia e che si occupa principalmente di problemi politici e sociali, esiste la banca dati "La mano sul cappello" rivolta espressamente all’handicap. "E’ nata nel marzo del ’93 – afferma John Fischetti, moderatore della BBS (Bulletin Board System, ovvero banca dati) – ed è divisa in tre parti; la conferenza, una vera e propria tavola rotonda telematica dove chiunque può leggere e scrivere dei brevi testi, l’archivio che raccoglie testi più lunghi come leggi o articoli inseriti dal moderatore e gli annunci che vengono prelevati dalla rete Internet e che sono per lo più in lingua inglese". Il compito del moderatore, come in ogni altra area, è quello di vivacizzare il dibattito e far rispettare agli utenti delle regole minime di comportamento. Se la gestione dell’archivio e degli annunci sono compito dei moderatori (sono due in questo caso) che ricercano testi nuovi e arricchiscono la banca dati, la conferenza è fatta dagli utenti. Nella conferenza de "La mano sul cappello" sono circa trenta gli interventi al mese, un numero piuttosto basso che indica un primo limite di questa tecnologia emergente.

Ma gli utenti ancora sono pochi

"Manca ancora una grossa utenza – spiega Giorgio Banaudi – mentre vi sono molti "giocherelloni" che si collegano in rete". Banaudi responsabile di "I care" bollettino sul software didattico tocca un punto delicato, quello della scarsa conoscenza del mezzo telematico che viene visto ancora come qualcosa di esoterico.
Le banche dati sull’handicap avrebbero un senso ben maggiore se fossero accessibili dalla gran parte della popolazione, soprattutto da parte dei diretti interessati. Inoltre a volte lo svantaggio coincide anche con quello culturale e se da una parte questa tecnologia può essere di grande aiuto per certe forme di handicap sensoriali, per altre sono necessarie delle mediazioni. In altre parole se per una persona che non vede o non sente, la telematica rappresenta il superamento del deficit e una grande occasione per comunicare e ricevere comunicazioni, per le persone con deficit intellettivi le reti telematiche possono avere delle ricadute positive solo indirette.
La BBS curata da Banaudi viaggia sulla rete Fidonet, la rete amatoriale più diffusa in Italia e nel mondo, ed è la prosecuzione del Bollettino sulle Tecnologie Didattiche (BDT) nato nel 1990. ""I care" – dice Banaudi – intende proseguire idealmente sulla stessa "pista" nel fornire informazioni, materiali e supporto software con particolare attenzione agli ambiti della didattica, della disabilità e dell’impatto sociale che le nuove tecnologie hanno nel settore dell’informazione".
La banca dati è suddivisa in tre parti; le aree file (che raccolgono articoli, testi, software per l’handicap, biblioteca elettronica di testi…), la documentazione On-line (per consultare l’archivio delle Biblioteca del Software didattico) e le aree messaggi condivise con altre realtà telematiche italiane ed estere. In quest’ultima area Banaudi, che è anche l’autore del libro "La Bibbia del modem", modera la conferenza Humanitas che riceve qualche decina di messaggi al mese. "Non siamo mai riusciti a superare la soglia dei cento messaggi al mese – dice Banaudi – però molte persone leggono senza intervenire; è difficile inoltre dire quanti disabili partecipano alla conferenza, perché il mezzo non permette nessuna identificazione".
Il mezzo telematico permette infatti all’utente di dire di sè solo ciò che vuole far sapere; in questo modo un disabile non è tenuto a dichiararsi e può presentarsi come vuole. E’ una situazione nuova per un disabile che può essere vissuta in diversi modi ma di cui è utile tenerne conto.

Software didattici e per i disabili

Un’altra area handicap è presente sulla rete MC-Link, BBS della rivista Microcomputer. "La rubrica è nata un anno e mezzo fa – dice Cesare Patara, moderatore dell’area – ed era orientata verso il settore educativo; oggi invece ha allargato il suo campo d’interessi. All’area sono iscritte circa 100 persone anche se poi quelle attive sono circa una trentina; di solito la gente cerca notizie sulle normative, sulle pensioni di invalidità, sui software".
Su Peacelink, una rete specializzata sui temi della pace e i diritti umani, esiste "Area-BBS", un’altro spazio dedicato all’handicap e alla riabilitazione espressione dell’Associazione Regionale Amici degli Handicappati (AREA) che ha sede a Torino.
"Il nostro gruppo esiste da sei anni – afferma Marco Del Dottore, curatore della banca dati. Ha anche un centro di documentazione, ma l’idea di organizzare una biblioteca è stata superata dalle possibilità offerte dalla rete telematica". L’Area-BBS fornisce soprattutto software di pubblico dominio e, a livello locale, gestisce una computer conference sempre sui temi della disabilità.
Sulla rete Fidonet vi sono altre due banche dati, la Tel&ware-BBS che ha sede a Cento in provincia di Ferrara e la Infoline-BBS espressione della UIC (Unione Italiana Ciechi) di Bologna; tutte e due forniscono informazioni e materiale su software utili per i disabili.
Questo è quanto esiste oggi sulle reti telematiche italiane in materia di disabilità; chi conosce l’inglese e vuole collegarsi a Internet, una rete praticamente mondiale, può però esplorare tra le migliaia di computer conference e di banche dati che raccoglie per trovare qualcos’altro sull’argomento: ad esempio in California viene curato l’"Handicap Digest", un riassunto di ciò che si pubblica nel mondo in materia di handicap.

Cercasi famiglia…

La qualità dei servizi sociali, la loro efficacia, risulta ancora più importante nel caso delle famiglie affidatarie e adottive di bambini disabili che hanno vari tipi di bisogno.
Abbiamo intervistato alcuni operatori sociali in diverse realtà italiane per cercare di capire in cosa consiste il loro lavoro, qual’è la loro mentalità per quanto riguarda questi casi particolari.

Esiste un problema di reperimento di famiglie disponibili a queste esperienze, una questione che viene affrontata dai servizi sociali tramite canali diversi.
"Per il reperimento di famiglie disponibili si sono fatti degli appelli specifici"- spiega Rosanna Bertani che lavora all’Ufficio Coordinamento Interventi per Minori del comune di Torino. "La nostra esperienza fino ad oggi è stata sempre positiva; quando avevamo un caso di un minore disabile o ammalato siamo sempre riusciti a trivargli una famiglia disposta ad accoglierlo".
Per quanto riguarda l’adozione le cose sono più difficili. "Di solito – afferma Carla Medda, funzionario del medesimo ufficio – se c’è una conoscenza personale del minore aumenta la disponibilità ad adottarlo; inoltre molti affidi di minori disabili si trasformano poi in adozioni".
La cosa che forse può stupire è che alla fine le famiglie si trovano quasi sempre; Carla Medda racconta il caso recente di una bambina malata ai reni adottata, i cui nuovi genitori hanno installato nel proprio appartamento l’attrezzatura per fare la dialisi.
"La sensibilizzazione verso l’adozione di bambini non sani non è elevatissima – dice Alice Poggi, assistente sociale all’Usl 28 di Bologna -, ma è naturale che sia così; questa disponibilità è aumentata con gli anni, ma certo non è una cosa da tutti. La mancanza di disponibilità di questo tipo di coppie non è un problema per il servizio; è vero ce ne sono poche, ma si trova sempre qualcosa tramite le associazioni a forte motivazione religiosa, le parrocchie e i gruppi di volontariato".

Il sostegno del servizio sociale

Storie di affidamento e di adozione come queste, viste dall’esterno con ammirazione ma vissute dai protagonisti nella normalità, hanno però bisogno di un sostegno ancora maggiore rispetto ai casi di affidi e adozioni di bambini meno problematici.
"Cerchiamo di seguire con particolare cura questi casi sia dal punto di vista tecnico che da quello funzionale; cerchiamo di dare degli opportuni sussidi – afferma Rosanna Bertani. L’amministrazione del comune di Torino ha previsto con una delibera di aumentare del 100% i sussidi mensili. A questo si devono aggiungere le altre facilitazioni che valgono per tutti i minori in affido come ad esempio l’esenzione dal ticket".
Il comune di Bologna, nel caso di affido di minore con handicap, aumenta la quota mensile di 200 mila lire, portandola a 900 mila. "Questa non è certo la cifra massima che si può erogare – dice Alice Poggi – la cifra aumenta se c’è un progetto attorno ad un caso. Ad esempio recentemente abbiamo pagato un’assistenza domiciliare in più nel caso di due gemelline malate di Aids che erano "tate affidate ad una coppia della provincia di Bologna".
Ogni Usl si regola molto liberamente in proposito visto che non esiste una direttiva generale; così capita che le zone dove sono presenti dei forti servizi sociali hanno a disposizione più risorse, sia di denaro che di strutture, per dare sostegno ad una coppia affidataria. In questo modo una coppia residente nel Mezzogiorno, che avrà in affido un bambino disabile, andrà incontro probabilmente a difficoltà maggiori.

Coordinarsi e integrarsi

L’efficenza e l’efficacia dei servizi sociali si misura non solo in termini di risorse, ma anche di come sappiano coordinarsi e integrarsi tra di loro.
Gianna Pasti assistente sociale di Bologna, fino a poco tempo fa lavorava in una struttura di accoglienza per bambini piccoli; ecco la sua testimonianza: "Non ho mai avuto grosse difficoltà a trovare una famiglia a bambini anche disabili, ma il problema fondamentale rimane quello del coordinamento degli interventi; nel caso di un bambino handicappato sono infatti necessari interventi diversi: medico, riabilitativo, psicologico… Occorre una maggiore e più intensa comunicazione tra gli operatori che intervengono in quel caso, in modo che un aspetto non prevalga su un altro. Ma a volte vi sono altri problemi più generali, come quello di sovraccarico di lavoro del singolo operatore che non riesce a seguire tutto o quello della mobilità del personale".
Intanto nell’ottica di una migliore integrazione dei servizi, l’Ufficio Coordinamento Interventi per Minori di Torino ha adottato un protocollo d’intesa tra il servizio sociale e il servizio di neuropsichiatria infantile che dovrebbe assicurare un intervento coordinato.

Fare o non fare campagne di sensibilizzazione?

"Bisogna fare cultura rispetto a questi temi, per quanto se ne parli se ne sa sempre troppo poco; bisognerebbe fare un’opera di sensibilizzazione permanente"- sostiene Rosanna Bertani.
Questo può sembrare un falso problema visto che, secondo le testimonianze degli operatori sociali sentiti, si trovano sempre delle famiglie per dei bambini disabili.
Per Floriana Barile dell’Ufficio Coordinamento per l’affido familiare della provincia di Roma."Non c’è bisogno di pubblicizzare il singolo caso, ma bisogna informare di più sull’affido e sull’adozione in generale". Secondo Floriana Barile a proposito di minori disabili in stato di abbandono vi sono particolari emergenze: "Quella dei figli dei nomadi che nella stragrande maggioranza sono abbandonati, visto le condizioni di precarietà in cui vivono. Capitano inoltre casi di adozione internazionale di bambini che in un secondo momento risultano avere qualche deficit; i genitori non sono certo preparati a questo e il più delle volte rifiutano il bambino".