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autore: Autore: Nicola Rabbi

3. La vera mala educación? Adulti incompetenti e bambini soli su internet

di Nicola Rabbi, giornalista

Che senso ha proibire certi libri rivolti ai bambini perché ritenuti poco idonei alla loro crescita psicologica e culturale quando hanno la possibilità, grazie alla tecnologia digitale, di poter leggere e vedere ogni genere di informazione?
Un genitore, un insegnante o un educatore (e quest’ultimo dovrebbe comunque palpitare nel cuore dei primi due) hanno il dovere di porsi questo genere di domande riguardo alla formazione dei minori, ma questo dovere deve essere relazionato ai reali problemi. Che senso ha censurare dei libri per l’infanzia perché raccontano, per esempio, storie di famiglie diverse, quando i bambini, comunque, conoscono e imparano vedendo la realtà che ruota attorno a loro?

L’innocenza di internet
In realtà il tema che su cui dovremmo riflettere è un altro, soprattutto quando i nostri figli raggiungono i sei, sette anni e cominciano a usare i nostri stessi strumenti digitali. E qui può succedere di tutto.
Su internet, infatti, non esiste una reale censura (e su questa cosa ritorneremo più avanti) e un bambino, che magari ha evitato certi libri che trattano temi considerati pericolosi nelle scuole dell’infanzia, potrebbe, navigando liberamente sul web, vedere immagini pornografiche o violente, con persone spiaccicate per terra dopo un volo suicida di dieci piani o altre che ritraggono esseri umani colpiti da malattie strazianti.
Questo, se prendiamo in considerazione un uso passivo del digitale.
Se passiamo a un suo uso attivo, quello cioè che ci mette in relazione con le altre persone, allora le cose si complicano. Con gli smartphone o i tablet queste relazioni sono ancora più semplici da creare. Nei casi dei contatti diretti ci si possono scambiare foto private e si possono stabilire relazioni dove il corpo è del tutto assente, e questa mancanza di fisicità, se può creare problemi di rispetto verso gli altri in una persona adulta, figuriamoci cosa può significare per un bambino. Internet e i dispositivi digitali sono quindi un pericolo per i nostri bambini?Sono un’altra cosa da proibire?
No, non è così. La risposta deve essere ricercata altrove. Internet è ciò che siamo, non è niente di peggio di quello che già esiste, il problema semmai siamo noi, noi come genitori, insegnanti, educatori che non siamo all’altezza del nostro compito quando entriamo in relazione con le nuove tecnologie.

Quanti sono i minori in rete?
Secondo i dati Istat del 2013, in Italia solo il 56% delle persone usa regolarmente internet ponendoci al terzultimo posto nella graduatoria europea dei Paesi UE con una distanza di 16 punti dalla media. Se poi andiamo ad analizzare il dato relativamente al tipo di conoscenza che si ha in termini di competenze informatiche e telematiche, allora la percentuale di italiani che sanno usare con una certa padronanza il web si assottiglia all’11% della popolazione.
Questo significa che le probabilità di trovare dei genitori, degli insegnanti o degli educatori in grado di orientare il bambino sulla rete sono davvero poche.
Dall’altra parte, quanti sono i minori che usano la rete?
Sempre in base ai datiIstat, questo tipo di utenza cresce di continuo. Se nel 2005 la fascia dei minori utenti forti (uso quotidiano di internet) compresi tra i 6 e i 10 anni era dell’1,1% del totale, nel 2013 era arrivata all’8%. Nella fascia dagli 11 ai 13 anni si passa dal 2,7% al 36,3%, mentre in quella tra i 14 e i 18 anni si passa dall’11,7% al 63,1%. Parlando invece di utenti deboli della rete (uso almeno settimanale di in-ternet), nel 2013 sono il 25,2% dei minori tra i 6 e i 10 anni, il 34,8% di quelli tra gli 11 e i 13 anni, il 21,8% di quelli tra i 14 e 18 anni.
In conclusione, circa il 33,2% dei bambini tra i 6 e i 10 anni usa internet, quelli tra gli 11 e i 13 anni sono il 71,1%, quelli tra i 14 e i 18 anni sono l’84,9%. Sempre più minori su internet e questo di fronte a un numero esiguo di adulti competenti.

“Tieni il mio cellulare ma sta’ buono per favore”
Internet non si può censurare o meglio, molti ci provano, anche nazioni potenti come la Cina e la Russia, ma con risultati non soddisfacenti. È questo, del resto, il bello, della rete, la possibilità aperta a tutti di esprimersi liberamente. La libertà, però, porta con sé anche comportamenti scorretti o illeciti che devono essere individuati e puniti ma che ci saranno sempre, come nella vita reale. Per questo si ha bisogno sempre più di adulti che abbiano delle buone competenze, che sappiano accompagnare in rete il minore dandogli le informazioni necessarie per capire i rischi cui va incontro nell’esporsi pubblicamente, come anche gli strumenti per cercare di valutare la qualità delle fonti informative che incontra.
Da un’altra ricerca del 2013 (DuepuntoZero Research-Doxa) si viene a sapere che più della metà dei bambini tra i 5 e i 13 anni navigano da soli su internet. I genitori tendono a cedere i loro dispositivi: il 70% di coloro che hanno un tablet lo danno ai loro figli e il 16% lo fa senza nessun controllo. Così per gli smartphone, 4 volte su 10 i genitori li cedono ai figli in piena autonomia.

Sugata Mitra: “Lasciateli soli su internet, ma assieme”
Il comportamento peggiore per un genitore è quello di lasciare il proprio figlio da solo in rete, magari isolato nella sua stanza. Per un insegnante e per un educatore, invece, l’errore è quello di far lavorare il minore individualmente su internet, magari in competizione con gli altri.
In situazioni di gruppo, invece, il modo migliore per entrare e conoscere la rete è quello di far sì che i compagni lo facciano tutti assieme; questo lavoro diretto su internet, fatto tra simili, con una quasi invisibilità della figura dell’adulto, non solo porta a un uso corretto di internet ma a una capacità di apprendimento e di soluzione dei problemi stupefacenti. È quanto sta dimostrando, da 15 anni a questa parte, un pedagogista indiano esperto in tecnologia, Sugata Mitra, che ha fatto numerosi esperimenti in giro per il mondo. In alcuni villaggi poveri dell’India ha incastonato nei muri lungo le vie pubbliche dei computer connessi alla rete, con i quali i bambini potevano interagire liberamente; nel giro di due mesi, senza alcuna istruzione per l’uso, i minori sono riusciti a comprenderne perfettamente il funzionamento e a informarsi su varie cose. In ambienti aperti e pubblici, dove i bambini vengono lasciati soli succedono cose meravigliose secondo Sugata Mitra; l’apprendimento dell’inglese cresce improvvisamente, problemi di varia natura posti anche in una lingua sconosciuta trovano una soluzione. E allora perché non proviamo anche noi?
Proviamo a dare a un gruppo di bambini una serie di ricerche, magari difficili, magari scabrose (e in questo caso una figura di adulto competente ritornerebbe utile) perché ne discutano in gruppo e attraverso la rete se ne facciano un’idea: forse ci stupiremmo anche noi grandi scoprendo fino dove possono arrivare.

9. Al Binèri, l’esperienza di un ristorante etico

A cura di Nicola Rabbi, Bandiera Gialla

Al Binèri è un ristorante estivo gestito dalla cooperativa sociale Arca di Noè di Cadriano (BO) che vede coinvolti all’interno dello staff 5 richiedenti asilo ospiti nelle strutture Sprar della Città Metropolitana.
Il ristorante si definisce etico principalmente per due motivi: perché da un lato rivolge particolare attenzione all’inserimento lavorativo di persone che sono accolte nello Sprar (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) e dall’altro perché le materie prime utilizzate in cucina sono a km 0 e sono biologiche. Per conoscere meglio gli sviluppi di questo progetto abbiamo intervistato Valentina Iadarola, responsabile dell’Area Progettazione della cooperativa Arca di Noè.

Come è nato questo progetto?
La  nostra  cooperativa  è  stata  coinvolta  nelle  attività  del  ristorante  già  nel 2016, anno durante il quale ci siamo occupati principalmente dell’inserimento lavorativo di alcuni ospiti di centri di accoglienza del territorio, oltre all’organizzazione e realizzazione di eventi culturali e di sensibilizzazione riguardanti tematiche sociali e di integrazione sul territorio di Bologna. L’Arca di Noè nasce infatti nel 2001 con l’intento di attivare percorsi di inserimento lavorativo e inclusione sociale per categorie svantaggiate. Le nostre attività si rivolgono a persone che vivono ai margini della società e a migranti forzati titolari di protezione internazionale.
Il nostro obiettivo è inserirle in percorsi di formazione e avviamento al lavoro. I nostri progetti di accoglienza hanno lo scopo di fornire gli strumenti volti all’autonomia e all’indipendenza delle persone.
Per questo svolgiamo attività di affiancamento, orientamento e supporto legale, orientamento all’inserimento lavorativo e insegnamento dell’italiano. Il ristorante è stato per noi un’occasione di gestione integrata di un’attività commerciale che unisse la nostra mission alla sfida di offrire un servizio innovativo e di qualità. Il ristorante, che funziona solo da giugno a settembre, è collocato all’interno del parco del Dopolavoro Ferroviario di Bologna dove si svolgono numerose attività ricreative e sportive.

Da un punto di vista economico il ristorante ha funzionato?
L’attività è aperta per il solo periodo estivo (4 mesi) e richiede un’organizzazione puntuale, basata sull’approccio imprenditoriale e su un format ad hoc strategicamente definito. Abbiamo avuto una media 40-50 coperti a sera circa, potremmo arrivare anche fino a 60, anche se questo richiederebbe probabilmente interventi strutturali per modernizzare le attrezzature della cucina. Questo può rappresentare un limite in termini di ampliamento dell’attività.

Come avete organizzato l’inserimento lavorativo dei richiedenti asilo?
Lo staff è composto da personale italiano e da cinque richiedenti asilo che svolgono compiti di diverso genere: aiuto cuoco, lavapiatti, camerieri, tutti inseriti con tirocini lavorativi di 38 ore. Sono persone ospiti di centri Sprar presenti sul territorio. Abbiamo selezionato sia persone con un minimo di esperienza che persone alle prime armi, per permettere loro di acquisire competenze specifiche nell’ambito della ristorazione e fornire occasioni di lavoro di gruppo e di contatto con la cittadinanza. Io penso che sia stata un’esperienza formativa molto importante. C’è chi è entrato come lavapiatti e ne è uscito aiuto cuoco, come un ragazzo di 19 anni alla sua prima esperienza lavorativa. Queste persone, prima dell’avvio dell’attività, hanno partecipato a un breve corso che prevedeva la formazione HACCP- sull’igiene alimentare – una parte teorica generale sul lavoro di ristorazione e una maggiormente personalizzata.

Che tipo di problemi avete incontrato in questa esperienza?
L’aspetto  relazionale  è  stata  la  parte  più  difficile.  Abbiamo pensato questa esperienza come un percorso di formazione e avviamento al mondo del lavoro, che unisse la parte di acquisizione di competenze specifiche e tecniche e la parte di capacità relazionali e di lavoro di gruppo. Il tutto ovviamente con la finalità di offrire ai clienti del ristorante un servizio di qualità e di livello. Questo tipo di approccio ha certamente richiesto uno sforzo ulteriore allo staff del ristorante per riuscire a integrare la parte formativa con i ritmi rapidi di un ristorante. È stata inoltre un’esperienza nuova per i richiedenti asilo che hanno potuto mettersi in gioco e sperimentare occasioni di scambio con la cittadinanza, oltre che per i clienti del ristorante che hanno avuto la possibilità di conoscere alcune delle persone ospiti dei centri.

E per quanto riguarda gli alimenti?
I nostri prodotti sono per la maggior parte biologici e locali, la cooperativa Arca di Noè è infatti tra i soci fondatori dell’azienda “Local to You”, maggior fornitore del ristorante. Facciamo una cucina mediterranea e nel nostro menù abbiamo alcuni piatti fissi, mentre altri sono piatti “del giorno”, così da garantire al cliente la freschezza dei prodotti e delle materie prime. Come cooperativa abbiamo inoltre acquisito il birrificio “Vecchia Orsa”, produttore di birra artigianale realizzata da persone con disabilità.

Che progetti avete per il futuro?
Il sogno sarebbe che questa struttura fosse funzionante anche d’inverno, non solo come ristorante, ma anche come un luogo dove fare corsi di formazione, eventi, catering. Questo ci permetterebbe di formare personale con competenze specifiche nell’ambito della ristorazione, offrendo quindi maggiori occasioni di inserimento lavorativo. Il settore della ristorazione a Bologna negli ultimi anni ha visto un grande aumento in termini di offerta e quindi potrebbe essere interessante trovare proposte strategiche di sviluppi futuri.
Anche la collocazione del ristorante è molto interessante, essendo la Bolognina un quartiere estremamente vivo e variegato, dove il Comune sta sviluppando numerosi progetti di riqualificazione. La cooperativa persegue il medesimo obiettivo di recupero degli spazi del Parco del Dopolavoro Ferroviario, per ridare nuova vita a un’area verde unica per collocazione e caratteristiche.

Le mie statue permettono di toccare cose che nessuno ha mai toccato

di Nicola Rabbi

“Non hanno voluto farmelo toccare, perché il direttore del museo Cappella Sansevero a Napoli diceva che potevo rovinarlo; ma stiamo parlando di marmo, il ‘Cristo velato’ è un unico pezzo di marmo”. Chi sta parlando è Felice Tagliaferri, è un artista, uno scultore e ha un’altra particolarità, è non vedente da quando all’età di 13 anni un’atrofia del nervo ottico lo ha colpito. Lo spiacevole episodio del museo però diventa per lui l’inizio di una sfida che lo porterà a realizzare una copia dell’opera.
“Quando un vedente guarda una porta, guarda l’insieme della porta, ma per un non vedente la cosa è diversa; lui per poterla percepire deve ricostruirla centimetro per centimetro, in questo modo io ho rifatto il Cristo. Un collaboratore del Museo Tattile Omero di Ancona mi ha descritto centimetro per centimetro come era fatta la statua e, mentre lui parlava, io me la figuravo e creavo un mo-
dello in creta. Siamo stati per tre giorni praticamente chiusi in una stanza, poi, una volta uscito, ho impiegato due anni a scolpirla”. L’ha intitolata il “Cristo rivelato”, nel senso che, rifacendolo, l’aveva velato per la seconda volta, ma anche l’aveva reso accessibile, svelato, ai non vedenti che avrebbero potuto toccarlo a loro piacimento.
Felice Tagliaferri abita a Tavernelle, poco fuori Bologna, è uno scultore attivo da una ventina di anni che dal 2006 ha un suo atelier ne “La chiesa dell’arte”, una piccola chiesa restaurata grazie a una fondazione bancaria locale, che raccoglie le sue opere. “Lo scultore fa ciò che vede, lo scultore cieco vede ciò che sente” afferma Felice e in effetti è proprio così, le sue statue non sono solo da vedere ma anche da toccare e con il tatto ti accorgi del significato. Felice mi prende le mani e le porta su una palla di marmo bianco con un buco in mezzo. Poi me la fa per- correre con i polpastrelli fuori e dentro e mi dice: “Vedi fuori come è liscia ma dentro nel buco, profondo e difficile da raggiungere, diventa ruvida e tormentata” ed è un modo per farmi capire che quella palla rotta è l’uomo che fuori dà una certa immagine, mentre al suo interno ne ha un’altra, ben diversa.

Hai mai toccato l’onda del mare?
“Le mie statue poi permettono di toccare cose che nessuno ha mai toccato” mi dice in modo enigmatico, poi mi fa tastare l’onda del mare, i capelli mossi dal vento, l’ombra dell’uomo e l’immagine nello specchio: in effetti tutte situazioni non afferrabili, se non grazie alle statue di Felice. Una grossa testa di Cristo bendato attira la mia attenzione: “Mi è venuto in un momento di ironia – spiega sorridendo – solo io cieco? No, anche lui”.
Questa testa sarà esposta prossimamente all’ingresso dei Musei Vaticani, cosa che farà del suo autore l’unico artista vivente presente nelle collezioni.
Inaspettatamente Felice dice di non sentire un rapporto stretto tra la sua arte e il suo essere non vedente, nel senso che si sente prima artista e la sua disabilità viene dopo. “L’arte si fa perché fa star bene, fai l’arte perché ti piace e questo ti basta. Se poi il tuo prodotto è anche gradevole e ha un riscontro commerciale allora meglio ancora, ma l’arte c’entra soprattutto con il benessere della persona”.

L’albero indiano che include
E allora dov’è il tocco dato dalla situazione di essere una persona con disabilità? Sicuramente nella prospettiva del lavoro di Felice, il suo impegno continuo di toccare gli altri attraverso la sua arte e sostenere chi ha incontrato le sue stesse
difficoltà. L’esempio più eclatante del suo impegno, ma è solo un esempio, è il suo coinvolgimento in un progetto della CBM (Christian Blind Mission), la più grande organizzazione non governativa che fa prevenzione e cura delle malattie degli occhi nei paesi poveri del sud del mondo.
“Mi hanno chiesto di andare in India, mi hanno chiesto di portare questa esperienza di vita a dei bambini che avevano bisogno di tutto. Un corso di formazione anche agli educatori che provenivano da varie parti del paese”. È andato in un remoto stato dell’India nord orientale ai confini con il Bangladesh e ha insegnato a dei bambini con vario tipo di difficoltà e a degli operatori come si fa a lavorare la creta. In 15 giorni di laboratorio alla Betany school di Shillong hanno a poco poco costruito un albero di creta fatto da mille mani diverse. Tutta questa esperienza è stata documentata grazie a un bel documentario girato da Silvio Soldini che è partito assieme a Felice che è anche voce narrante del film (www.youtube.com/watch?v=cpvM3fYhHwA).
Il suo ultimo progetto è invece dedicato alla Convenzione Onu sui Diritti delle persone con disabilità; lo ha concretizzato in un’opera dove una grossa risma di fogli di carta – la Convenzione appunto – è tenuta in posizione verticale da due mani: “Nello spazio bianco voglio la firma scolpita delle persone che hanno delle grosse responsabilità civili; un modo per dire questa è la Convenzione, è una cosa pesante, come questa opera di marmo, vuoi impegnarti per farla rispettare?”. I primi che vuole incontrare saranno Sergio Mattarella, Riccardo Segni (rabbino capo della Comunità ebraica di Roma) e Papa Francesco e ci riuscirà di sicuro.

3. La vera mala educación? Adulti incompetenti e bambini soli su internet

di Nicola Rabbi, giornalista

Che senso ha proibire certi libri rivolti ai bambini perché ritenuti poco idonei alla loro crescita psicologica e culturale quando hanno la possibilità, grazie alla tecnologia digitale, di poter leggere e vedere ogni genere di informazione?

Un genitore, un insegnante o un educatore (e quest’ultimo dovrebbe comunque palpitare nel cuore dei primi due) hanno il dovere di porsi questo genere di domande riguardo alla formazione dei minori, ma questo dovere deve essere relazionato ai reali problemi. Che senso ha censurare dei libri per l’infanzia perché raccontano, per esempio, storie di famiglie diverse, quando i bambini, comunque, conoscono e imparano vedendo la realtà che ruota attorno a loro?

L’innocenza di internet

In realtà il tema che su cui dovremmo riflettere è un altro, soprattutto quando i nostri figli raggiungono i sei, sette anni e cominciano a usare i nostri stessi strumenti digitali. E qui può succedere di tutto. 

Su internet, infatti, non esiste una reale censura (e su questa cosa ritorneremo più avanti) e un bambino, che magari ha evitato certi libri che trattano temi considerati pericolosi nelle scuole dell’infanzia, potrebbe, navigando liberamente sul web, vedere immagini pornografiche o violente, con persone spiaccicate per terra dopo un volo suicida di dieci piani o altre che ritraggono esseri umani colpiti da malattie strazianti.

Questo, se prendiamo in considerazione un uso passivo del digitale.

Se passiamo a un suo uso attivo, quello cioè che ci mette in relazione con le altre persone, allora le cose si complicano. Con gli smartphone o i tablet queste relazioni sono ancora più semplici da creare. Nei casi dei contatti diretti ci si possono scambiare foto private e si possono stabilire relazioni dove il corpo è del tutto assente, e questa mancanza di fisicità, se può creare problemi di rispetto verso gli altri in una persona adulta, figuriamoci cosa può significare per un bambino. Internet e i dispositivi digitali sono quindi un pericolo per i nostri bambini? 

Sono un’altra cosa da proibire?  

No, non è così. La risposta deve essere ricercata altrove. Internet è ciò che siamo, non è niente di peggio di quello che già esiste, il problema semmai siamo noi, noi come genitori, insegnanti, educatori che non siamo all’altezza del nostro compito quando entriamo in relazione con le nuove tecnologie.

Quanti sono i minori in rete?

Secondo i dati Istat del 2013, in Italia solo il 56% delle persone usa regolarmente internet ponendoci al terzultimo posto nella graduatoria europea dei Paesi UE con una distanza di 16 punti dalla media. Se poi andiamo ad analizzare il dato relativamente al tipo di conoscenza che si ha in termini di competenze informatiche e telematiche, allora la percentuale di italiani che sanno usare con una certa padronanza il web si assottiglia all’11% della popolazione.

Questo significa che le probabilità di trovare dei genitori, degli insegnanti o degli educatori in grado di orientare il bambino sulla rete sono davvero poche.

Dall’altra parte, quanti sono i minori che usano la rete? 

Sempre in base ai dati Istat, questo tipo di utenza cresce di continuo. Se nel 2005 la fascia dei minori utenti forti (uso quotidiano di internet) compresi tra i 6 e i 10 anni era dell’1,1% del totale, nel 2013 era arrivata all’8%. Nella fascia dagli 11 ai 13 anni si passa dal 2,7% al 36,3%, mentre in quella tra i 14 e i 18 anni si passa dall’11,7% al 63,1%. Parlando invece di utenti deboli della rete (uso almeno settimanale di internet), nel 2013 sono il 25,2% dei minori tra i 6 e i 10 anni, il 34,8% di quelli tra gli 11 e i 13 anni, il 21,8% di quelli tra i 14 e 18 anni.

In conclusione, circa il 33,2% dei bambini tra i 6 e i 10 anni usa internet, quelli tra gli 11 e i 13 anni sono il 71,1%, quelli tra i 14 e i 18 anni sono l’84,9%.

Sempre più minori su internet e questo di fronte a un numero esiguo di adulti competenti.

“Tieni il mio cellulare ma sta’ buono per favore”

Internet non si può censurare o meglio, molti ci provano, anche nazioni potenti come la Cina e la Russia, ma con risultati non soddisfacenti. È questo, del resto, il bello della rete, la possibilità aperta a tutti di esprimersi liberamente. La libertà, però, porta con sé anche comportamenti scorretti o illeciti che devono essere individuati e puniti ma che ci saranno sempre, come nella vita reale. Per questo si ha bisogno sempre più di adulti che abbiano delle buone competenze, che sappiano accompagnare in rete il minore dandogli le informazioni necessarie per capire i rischi cui va incontro nell’esporsi pubblicamente, come anche gli strumenti per cercare di valutare la qualità delle fonti informative che incontra.

Da un’altra ricerca del 2013 (DuepuntoZero Research-Doxa) si viene a sapere che più della metà dei bambini tra i 5 e i 13 anni navigano da soli su internet. I genitori tendono a cedere i loro dispositivi: il 70% di coloro che hanno un tablet lo danno ai loro figli e il 16% lo fa senza nessun controllo. Così per gli smartphone, 4 volte su 10 i genitori li cedono ai figli in piena autonomia.

Sugata Mitra: “Lasciateli soli su internet, ma assieme”

Il comportamento peggiore per un genitore è quello di lasciare il proprio figlio da solo in rete, magari isolato nella sua stanza. Per un insegnante e per un educatore, invece, l’errore è quello di far lavorare il minore individualmente su internet, magari in competizione con gli altri. 

In situazioni di gruppo, invece, il modo migliore per entrare e conoscere la rete è quello di far sì che i compagni lo facciano tutti assieme; questo lavoro diretto su internet, fatto tra simili, con una quasi invisibilità della figura dell’adulto, non solo porta a un uso corretto di internet ma a una capacità di apprendimento e di soluzione dei problemi stupefacenti. È quanto sta dimostrando, da 15 anni a questa parte, un pedagogista indiano esperto in tecnologia, Sugata Mitra, che ha fatto numerosi esperimenti in giro per il mondo. In alcuni villaggi poveri dell’India ha incastonato nei muri lungo le vie pubbliche dei computer connessi alla rete, con i quali i bambini potevano interagire liberamente; nel giro di due mesi, senza alcuna istruzione per l’uso, i minori sono riusciti a comprenderne perfettamente il funzionamento e a informarsi su varie cose. In ambienti aperti e pubblici, dove i bambini vengono lasciati soli succedono cose meravigliose secondo Sugata Mitra; l’apprendimento dell’inglese cresce improvvisamente, problemi di varia natura posti anche in una lingua sconosciuta trovano una soluzione. E allora perché non proviamo anche noi? Proviamo a dare a un gruppo di bambini una serie di ricerche, magari difficili, magari scabrose (e in questo caso una figura di adulto competente ritornerebbe utile) perché ne discutano in gruppo e attraverso la rete se ne facciano un’idea: forse ci stupiremmo anche noi grandi scoprendo fino dove possono arrivare.

14. Bibliografia/sitografia

Tullio De Mauro, Guida all’uso delle parole, Roma, Editori Riuniti, Libri di Base, 2004 (XII edizione)

Tullio De Mauro, La cultura degli italiani, Bari, Laterza, 2010

Stefania Ferrari, Comprehension and l2 reading: an experimental study on the effects of textual modification, Tesi di laurea in Lingua e Letteratura Inglese Università di Bologna, 2002

Annalisa Ghiretti, Comprensibilità di testi modificati e apprendimento della seconda lingua in cittadini stranieri residenti in Italia, Dottorato in Scienze Umane, Università Modena e Reggio Emilia, 2010

Maria Grazia Menegaldo, Guida pratica alla semplificazione dei testi disciplinari, Viterbo, Gruppo Albatros Il Filo, 2011

Walter Ong, Oralità e scrittura, Bologna, Il Mulino, 1986 (capitolo 4)

Gabriele Pallotti (a cura di), Scrivere per comunicare, Milano, Bompiani, 2001 e Capitolo 2

Gabriele Pallotti, Favorire la comprensione dei testi scritti, in LEND, 3, 2000, pp. 28-35

Maria Emanuela Piemontese, Capire e farsi capire. Teorie e tecniche della scrittura controllata, Napoli, Tecnodid, 1996

Giovanni Solimine, L’Italia che legge, Bari, Laterza, 2010

Sitografia

chiaro&semplice

Comunicazione pubblica, scrittura, leggibilità e comprensibilità dei testi scritti; testi di facile lettura; tecniche di scrittura controllata; manuali di stile; corsi di lingua italiana… il blog di Emanuela Piemontese

http://chiaroesemplice.blogspot.it/2006/03/otto-pagine-dueparole-oltre.html

Easy-to-Read Network

Il sito della rete mondiale delle organizzazioni che si occupano di lettura facile

www.easytoread-network.org

Klartale
Quotidiano di facile lettura norvegese prodotto su carta, web, in podcast e in versione Braille; una delle esperienze più complete esistenti in Europa

www.klartale.no

L’essentiel
“L’informazione semplice come il buongiorno” è lo slogan di questo sito web belga di lingua francese

www.journal-essentiel.be

news-2-you

Un settimanale di informazione globale rivolto agli studenti e pensato a livelli di difficoltà differenti

http://news2you.n2y.com

capito – Barrierefreie Information

Semplificazioni dei testi, produzioni di video in questo sito austriaco collegato in rete ad altre esperienze

www.capito.eu/de

Simplify Reality
Un’iniziativa editoriale statunitense che, utilizzando circa 400 parole di base, racconta i fatti importanti dell’America e del mondo; pensato per le persone che non hanno tempo per leggere

http://simplifyreality.com/?page_id=201

8. Che storia! La storia italiana raccontata in modo semplice e chiaro


Gabriele Pallotti, linguista (assieme allo storico Giorgio Cavadi) ha scritto un intero libro di facile lettura, non sacrificando però la piacevolezza della scrittura a un’eccessiva semplificazione e sottolineando aspetti della storia che di solito non troviamo nei libri scolastici.

Perché hai scritto questo libro e a chi è rivolto?
Il libro è stato scritto inizialmente pensando a dei lettori che non hanno l’italiano come lingua materna, residenti in Italia e all’estero. Poi, sempre più persone mi hanno fatto notare che sarebbe stato utile anche per parlanti nativi dell’italiano, sia con particolari difficoltà scolastiche o deficit nella comprensione, sia senza particolari svantaggi, ma semplicemente un po’ smemorati di storia e forse con qualche cattiva esperienza alle spalle di studio di questa bellissima materia. Il libro così ha preso una piega un po’ diversa: forse un po’ meno facile, ma di lettura più piacevole e scorrevole per il lettore italiano medio.

Quali sono i contenuti e in che modo si discosta dai normali libri di storia?
Il libro tratta della storia italiana da Roma ai giorni nostri: più di duemila anni di storia in 150 pagine. Come abbiamo fatto? Abbiamo ridotto moltissimo le informazioni nozionistiche: nomi di re, imperatori, papi, politici, eroi e generali, date, luoghi, terminologie tecniche. Il libro cerca di far capire le dinamiche sociali, politiche ed economiche di un’epoca, senza approfondire i dettagli del chi, cosa e quando. Questa estrema riduzione di un certo tipo di contenuti ci ha consentito di dare informazioni che invece non si trovano di solito nei libri di storia. In particolare, abbiamo approfondito molto la storia sociale: come si viveva, lavorava, mangiava in diverse epoche, chi comandava, chi era comandato, perché si litigava e si combatteva. Spesso si parla di denaro: quanto costava andare alle terme al tempo dei Romani? Quanto guadagnava un pittore nel Rinascimento? Come spendeva lo stipendio un operaio dell’800? È un argomento che di solito tutti trovano interessante, e che dà un’idea concreta di tante dinamiche sociali di un’epoca, favorendo anche il confronto con l’oggi. Questa è un’altra caratteristica del libro: dove opportuno, il lettore viene invitato a notare corrispondenze tra fatti del passato e del presente. Ad esempio, il clientelismo che affligge l’Italia di oggi ha radici antiche di duemila anni. Il sistema feudale del Medioevo sopravvive nell’università italiana, e così via.

La tecnica di scrittura che hai utilizzato su quali requisiti poggia? Quali regole hai seguito?
Non parlerei di vere e proprie regole. Ci sono dei principi che si basano sui numerosi studi di psicologia della lettura che hanno dimostrato quali aspetti di un testo rendono la lettura più difficile. In base a questi principi, uno cerca di evitare le difficoltà gratuite: frasi complesse, lessico non di base, impliciti e difficoltà nell’identificazione dei referenti. Però il nostro modo di scrivere risulta un po’ più difficile di quello di altre pubblicazioni classificate “di facile lettura”.

Perché? Non volevate correre il rischio, con una scrittura troppo semplice, di non riuscire a catturare l’attenzione del lettore?
Dopo una prima redazione, in effetti molto facile, ho pensato che essa risultasse troppo monotona, noiosa, poco gradevole per i lettori nativi. Allora ho, sempre in modo controllato e consapevole, introdotto alcune caratteristiche nel testo che comportano una difficoltà di comprensione leggermente maggiore, ma che rendono l’effetto finale molto più piacevole. Ad esempio, ho tolto un po’ di ripetizioni e ridondanza, ho usato qualche parola non proprio di base ma più espressiva o precisa, ho allungato qualche frase perché così suonava meglio.
Non credo che esista un solo modo di scrivere semplice e chiaro: la nozione chiave di “controllo” della scrittura va applicata sempre in relazione a un destinatario e uno scopo. Per un certo periodo ho sostenuto che non esiste il “troppo facile”. Ora penso che riformulerei questa affermazione. Un livello di facilità adeguato per un bambino molto piccolo, uno straniero appena arrivato, una persona con un livello di istruzione minimo o con un deficit cognitivo, può risultare troppo facile per altre persone con maggiori competenze, che troverebbero il testo faticoso, frammentario, poco stimolante. Non dimentichiamoci che per leggere serve anche la motivazione: se un testo non piace, uno non lo legge. L’estetica ha un ruolo, è un fattore da considerare. Poi, sempre in modo consapevole e razionale, uno può decidere, e con buone ragioni, di sacrificare l’estetica in nome della comprensibilità, ma ci sono  altre ragioni che possono portare a fare il contrario. Certo, per documenti di utilità pubblica, darei sempre la precedenza alla comprensibilità.

Gabriele Pallotti, Giorgio Cavadi, Che storia! La storia italiana raccontata in modo semplice e chiaro, Roma, Bonacci editore, 2012

7. My opinion My vote: la comunicazione politica accessibile a tutti

Riscrivere i testi dei programmi dei gruppi politici europei con una scrittura facile da leggere perché tutte le persone disabili possano partecipare: è questo lo scopo del progetto europeo rivolto allo 0,1 % dei cittadini europei con disabilità intellettiva. Ne parliamo con Anna Contardi, responsabile del progetto per conto dell’AIPD.
In appendice  l’esperienza dei “Laboratori per le autonomie”.

Che cos’è il progetto My opinion My vote?
M.O.TE – “My Opinion My Vote” è un progetto multilaterale, finanziato dalla Commissione Europea, Direzione Generale per l’Educazione, la Cultura e gli Audiovisivi, Programma di educazione permanente, Sottoprogramma Grundtvig realizzato dall’Associazione Italiana Persone Down (AIPD) in partenariato con associazioni ed enti di Danimarca, Spagna, Irlanda, Malta e Ungheria. Lo scopo del progetto è sostenere le persone con disabilità intellettiva a essere cittadini attivi, anche attraverso il voto. Lo 0,1% dei cittadini europei ha una disabilità intellettiva. La maggior parte delle persone con disabilità intellettiva non prende parte come elettore alla vita politica, di conseguenza non esercita il suo diritto di voto. Tale situazione può essere dovuta alla mancanza di:

  • consapevolezza ed educazione delle persone con disabilità intellettiva
  • consapevolezza da parte dei familiari e operatori
  • facilitazioni da parte delle autorità pubbliche.

Come si è sviluppato?
Per affrontare quanto prima espresso il progetto ha svolto le seguenti azioni:

  • un’attività di ricerca per esaminare la diffusione dell’esercizio dei diritti politici nei sei stati rappresentati nel progetto. Sondare l’auto-percezione di “cittadini” europei/nazionali/locali nelle persone con disabilità intellettiva e individuare esempi di “buona pratica” in questo campo già sperimentati anche con altri gruppi di riferimento 
  • progetto, sviluppo e verifica (con la collaborazione di un gruppo pilota europeo e gruppi di sperimentazione nazionali) di un programma educativo (con persone con disabilità intellettiva e operatori) consistente in due moduli contenenti dieci unità didattiche
  • 2 campagne di sensibilizzazione rivolte alle persone con disabilità intellettiva, agli operatori, ai responsabili del settore e ai partiti politici.

Quali documenti riscrivete per renderli più chiari? Tutti o solo una particolare tipologia?
Durante il progetto abbiamo tradotto in alta comprensibilità i testi dei programmi dei gruppi politici europei alle ultime elezioni europee. Sono stati poi scritti in alta comprensibilità i depliant per le due campagne e i materiali per i percorsi educativi.

A quale pubblico vi rivolgete?
Il progetto è nato pensando alle esigenze delle persone con disabilità intellettiva.

Quali tecniche di scrittura avete utilizzato per trascrivere i documenti?
Ci riferiamo alle tecniche dell’alta comprensibilità o easy reading.
In sintesi queste ne sono le regole.

  • Le parole: si utilizza un lessico comune, attingendo il più possibile dal vocabolario di base, cioè l’insieme minimo di parole che garantisce la possibilità di comunicare;

di fronte a una coppia di sinonimi si sceglie quello meno forbito (ad es. “andare” piuttosto che “ recarsi”); si preferiscono le parole concrete alle espressioni astratte (meglio “impiegati” che “risorse umane”); non si usano possibilmente acronimi o abbreviazioni; si limita l’uso di termini tecnico-specialistici e si spiegano con parole semplici quelli di cui non si può fare a meno

  • Le frasi: si dà una struttura semplice, soggetto, verbo, complemento; si prediligono le frasi brevi (max 20-25 parole) e non si dice con molte parole ciò che si può dire con una (invece di “alla luce di tutto ciò” basta “quindi”); non si mettono troppe informazioni in un’unica frase; si legano le frasi con rapporti di coordinazione piuttosto che di subordinazione; si predilige la forma attiva a quella passiva, quella affermativa a quella negativa, l’indicativo al congiuntivo, i verbi ai sostantivi corrispondenti
  • Il testo: le informazioni non vengono presentate in ordine casuale, ma secondo un criterio logico o cronologico che aiuti a seguire il filo del discorso; l’informazione principale precede di solito i dettagli, le conclusioni sono fornite prima delle motivazioni; il testo è frammentato in paragrafi (titolo, sottotitoli, parole evidenziate orientano il lettore); si usano elenchi numerati o puntati per ordinare le informazioni; si usano congiunzioni e avverbi che esplicitano i rapporti tra i vari concetti; si utilizzano esempi e riassunti
  • L’aspetto del testo: la ricerca ha evidenziato anche alcune caratteristiche della grafica dei documenti che ne favorisce la leggibilità: caratteri grandi, almeno corpo 12; caratteri con grazie come il Times new roman sono più leggibili ad esempio dell’Arial perché le grazie guidano lo sguardo; meglio l’allineamento a sinistra che il testo giustificato; le varie parti del testo sono separate da spazi bianchi che fanno respirare pagina e lettore; tabelle e grafici favoriscono la comprensione; uno stile sobrio senza eccesso delle varie forme di messa in rilievo offerte dalla videoscrittura; mai troppi colori; coerenza delle scelte grafiche nell’intero documento.

Ovviamente la garanzia che un testo sia effettivamente leggibile è dato soprattutto dall’attività di testing su un campione di lettori con caratteristiche analoghe a quelle dei lettori cui esso è destinato. Alcuni linguisti hanno anche elaborato degli indici di leggibilità cioè delle formule matematiche per determinare la facilità di lettura di un testo i cui limiti però sono legati al fatto che valutano il testo soprattutto sotto un profilo quantitativo e non qualitativo, come la lunghezza di parole e frasi, mentre la chiarezza di un testo si gioca soprattutto sul piano dei contenuti e della loro organizzazione. Il test è quindi il sistema di validazione più efficace.

I documenti riscritti vengono controllati dagli autori?
Di solito noi “scriviamo” piuttosto che “riscriviamo”. Nel caso dei manifesti dei partiti abbiamo comunque inviato i nuovi testi ai gruppi e alcuni li hanno approvati e messi sul loro sito.

Quello che avete fatto per la comunicazione politica non potrebbe essere rifatto anche per altri ambiti? Per fare solo un esempio la comunicazione tra la Pubblica Amministrazione e il cittadino.
Assolutamente sì. La scrittura altamente comprensibile dovrebbe essere uno stile di scrittura che caratterizza tutte le comunicazioni con un pubblico ampio. Non si tratta solo di rivolgersi alle persone con disabilità intellettiva ma di migliorare la comprensione per tutti. Sicuramente persone con basso livello di istruzione o scarsa conoscenza della lingua ne possono trarre particolare utilità.

Come si evolverà in futuro questo progetto?
Stiamo cercando di dare “stabilità” a un centro risorse che stimoli e sostenga la partecipazione politica delle persone con disabilità cercando fondi con altri progetti.

“Laboratori per le autonomie”
Intervista ad Anna Contardi, condirettore dell’iniziativa pubblicata dalle edizioni Erickson.

Che cos’è la collana “Laboratori per le autonomie”?
La collana nasce dal desiderio di ampliare strumenti e occasioni per far crescere l’autonomia delle persone con disabilità intellettiva e non solo. Si affrontano temi legati alla vita quotidiana dentro e fuori casa. I testi si rivolgono a persone con disabilità intellettiva, ma anche stranieri, persone poco informate su quel tema, bambini e ragazzi senza disabilità. Ogni volume ha nella contro copertina un fascicolo di accompagnamento per educatori e genitori.

Quali sono i titoli che avete prodotto fino ad oggi?
Contardi A, Castignani D., Coltelli e fornelli, Trento, Erickson, 2008
Contardi A., Castignani D., Da soli in città senza mamma e papà, Trento, Erickson, 2009
Berarducci M., Cadelano F., Valigia e biglietto, un viaggio perfetto, Trento, Erickson, 2010
Contardi A.,Castignani D., Berarducci M., Fare spese senza sorprese, Trento, Erickson, 2012

Che tipo di scrittura avete utilizzato?
Ci siamo sempre rifatti alla scrittura altamente comprensibile.

Per migliorare la comprensione avete puntato anche sulle immagini e gli elementi grafici?
Abbiamo usato icone per sottolineare alcuni passaggi, immagini di illustrazione, fotoromanzi, sottolineature attraverso l’uso del colore.

Che tipo di riscontro avete avuto da parte dei lettori?
Un buon riscontro. Il libro di ricette è stato molto apprezzato in generale anche da chi semplicemente non sapeva cucinare e ne ha apprezzato facilità ed esaustività.

Esistono altre collane simili alla vostra in Italia ma anche all’estero?
No che io sappia. Esistono testi semplici o semplificati, ma non conosco collane analoghe.

6. Pathways II: leggere, ascoltare, vedere e… comprendere ogni informazione

“Il linguaggio facile da leggere va bene per tutti e non fa male a nessuno”: così recita lo slogan di questo progetto europeo che ha portato alla produzione di una serie di guide rivolte a insegnanti, formatori, disabili. Il loro obiettivo è assicurare, attraverso la formazione permanente, la piena partecipazione delle persone con deficit intellettivi.
Abbiamo intervistato Maria Cristina Schiratti* e Roberta Speziale**, formatrici nazionali del progetto.

Come nasce il progetto Pathways II, quali sono le motivazioni e da chi è stato promosso?Pathways II, “Creazione di percorsi di formazione permanente per persone con disabilità intellettiva” è un progetto sul linguaggio facile da leggere e la formazione permanente degli adulti con disabilità intellettiva promosso da Inclusion Europe, un’associazione europea che opera in difesa dei diritti delle persone con disabilità intellettiva e i cui associati sono organizzazioni nazionali di 36 Paesi, tra i quali anche l’Anffas.
Il progetto Pathways II, al quale hanno aderito associazioni di diversi Paesi (Italia, Croazia, Estonia, Lettonia, Repubblica Ceca, Repubblica Slovacca, Slovenia, Spagna e Ungheria) nasce per dare un seguito al precedente Pathways I, sviluppato nel 2009, con partner di Paesi diversi rispetto agli attuali. Entrambi i progetti sono cofinanziati dal programma di formazione permanente dell’UE.
Pathways I ha prodotto diversi documenti utili e linee guida sull’uso del “linguaggio facile da leggere” per l’accesso all’informazione e alla formazione permanente delle persone con disabilità intellettiva e, data l’ottima riuscita dell’iniziativa e del materiale realizzato, Inclusion Europe ha voluto riproporre il progetto ad un nuovo insieme di associazioni, includendo tra queste anche l’Anffas (il solo partner italiano).
Lo sviluppo di Pathways II, e precedentemente di Pathways I, si colloca all’interno di un percorso, non solo europeo, ma internazionale, di difesa e promozione dei diritti umani e della non discriminazione delle persone con disabilità: nel 2006 infatti, è stato approvato il testo della “Convenzione Onu sui diritti delle persone con disabilità” che definisce un modello di disabilità basato sui diritti umani ed è volto a rimuovere tutte le forme specifiche di discriminazione.
La Convenzione Onu, attualmente ratificata da 123 Paesi (in Italia fu ratificata con la Legge 3 marzo 2009 n.18) vuole infatti combattere ostacoli, barriere e pregiudizi, spesso profondamente radicati nella cultura, nelle pratiche e nelle politiche delle Comunità, intervenendo in tutti i campi della vita (dal diritto alla vita, alla partecipazione a tutti i contesti sociali in condizioni di inclusione sociale, fino al diritto alla vita privata, autonoma e indipendente).
Nello specifico, l’iniziativa di Pathways per una formalizzazione e diffusione del linguaggio “easy to read” ha l’obiettivo di dare concretezza alle proposizioni definite dall’articolo 21 della Convenzione Onu, attraverso il quale si ribadisce il diritto di tutte le persone con disabilità ad avere accesso all’informazione e alla comunicazione, nonché all’istruzione e alla formazione continua per l’intero arco della vita e di partecipare anche in prima persona alla vita sociale, pubblica e politica e ai “contesti” nei quali si prendono decisioni che le riguardano.
La documentazione prodotta e la formazione a cascata prevista dal progetto che si sta realizzando attraverso tutto il network di Anffas Onlus promuovono un passaggio culturale, nonché un utile strumento per l’inclusione sociale e l’auto-rappresentanza delle persone con disabilità intellettiva.

Che cos’è per voi una “scrittura facile da leggere”?
La scrittura facile da leggere è uno strumento che si propone di rendere maggiormente accessibili a tutti le informazioni.
Individua l’informazione utile e indispensabile all’interno di una vasta e ricca comunicazione e, attraverso alcune regole condivise e frutto dell’esperienza di vari Paesi sul tema, la rende accessibile a tutti, soprattutto a chi ha difficoltà nella comprensione delle informazioni, come ad esempio persone con disabilità intellettiva, ma anche anziani, stranieri, persone con poca istruzione scolastica…
La scrittura facile da leggere mette al primo posto la comprensibilità delle informazioni in qualche caso anche a discapito dell’“estetica” della comunicazione, specie nella lingua italiana, che gode di una ricchezza, varietà e complessità di termini, forme e strutture.
Al tempo stesso però rappresenta un utile strumento per garantire pari opportunità e non discriminazione, soprattutto dal punto di vista dell’accesso all’informazione e della formazione per moltissime persone.

Quali sono le linee guida per scrivere in modo comprensibile alla maggior parte delle persone?
Le associazioni dei Paesi partecipanti al progetto hanno creato delle linee guida che regolano la produzione di materiali in linguaggio facile da leggere.
Diverse sono le regole generali da utilizzare, poi declinate per le varie tipologie di informazione: scritta, audio, video ed elettronica.
Le linee guida propongono di utilizzare parole facili da comprendere e nel caso in cui si debbano usare parole difficili, di cercare di spiegarle, anche con l’aiuto di esempi per chiarirne il significato.
Inoltre, per fare qualche esempio, è sconsigliato l’uso di metafore e di parole in lingua straniera, di sigle e abbreviazioni, di percentuali e numeri grandi.
Altre indicazioni riguardano l’uso di frasi brevi e di ripetizione delle informazioni importanti. È inoltre consigliato di prediligere il senso positivo invece che negativo delle frasi e usare i verbi in forma attiva piuttosto che passiva.
Nell’informazione scritta, è sconsigliato usare formati difficili, è bene prediligere formati A4 e A5, non scrivere documenti di grandi dimensioni, piuttosto dividerli in più parti. Non usare sfondi che rendano la lettura difficile, tipo foto, e non scrivere a colori. Usare caratteri di scrittura semplici, come Arial e Tahoma, e con una misura grande. Non usare caratteri Serif, il corsivo, caratteri con effetti speciali, note a fondo pagina. Accompagnare le frasi con disegni, foto o simboli chiari che possano aiutare nella comprensione delle frasi.
Queste e altre sono le regole enunciate dalle linee guida, che permettono di sviluppare un documento facile da leggere, ma seguirle non basta. Infatti, si richiede sempre la controprova, proponendo i documenti elaborati ai “lettori di prova”, persone con disabilità intellettiva che hanno seguito una formazione sul linguaggio facile da leggere, e che quindi possono notare le difficoltà nella comprensione dei documenti e proporre soluzioni alternative. Il coinvolgimento diretto delle persone con disabilità intellettiva nel controllo e nella produzione di informazioni in linguaggio facile da leggere e da capire è veramente innovativo in quanto finalmente le persone con disabilità stessa sono sì destinatari delle informazioni ma anche e soprattutto supervisori delle stesse.

Non solo informazione scritta ma anche informazione audio, video e tramite le nuove tecnologie: quali regole per ciascuna? Come ottenere un mix ideale tra tutte queste possibilità per comunicare a tutti? 
Le regole generali e quelle per l’informazione scritta vanno utilizzate anche nell’informazione audio, video ed elettronica.
Infatti, le frasi riportate sulla custodia dei DVD o i sottotitoli nei video, o i documenti presenti sui siti internet devono attenersi alle regole generali per l’informazione scritta.
In più, esistono delle regole specifiche.
Per quando riguarda il web è necessario progettare siti internet con grafica chiara, senza effetti speciali, con testi chiari e grandi da cliccare per cambiare pagina, barra di navigazione con massimo 7 o 8 titoli principali, con link che vanno sottolineati e, se sono troppo lunghi, nascosti dietro una parola facile.
Nei video non bisogna parlare troppo velocemente, la voce di sottofondo deve parlare solo delle cose che le persone vedono sullo schermo, video e suono devono essere di alta qualità, i sottotitoli devono essere chiari, perché molto utili per le persone con problemi di udito e devono rimanere sullo schermo il più a lungo possibile per dare il tempo sufficiente alla lettura.
Nell’informazione audio, la voce della persona parlante deve essere molto chiara, avere un tono alto, una buona pronuncia e parlare lentamente. Le informazioni vanno ripetute più volte, non bisogna interrompere la comunicazione, per esempio con della pubblicità, ed è bene annunciare l’informazione con un suono speciale.
Le regole generali fanno da filo conduttore per le varie tipologie di comunicazione, per poi essere più puntuali e specifiche in ognuna.
L’utilizzo, anche congiunto delle varie tipologie di informazione, può essere utile per realizzare documenti maggiormente accessibili: uno stesso documento, presentato in video con immagini, audio e sottotitoli può essere accessibile sia a persone con difficoltà nella lettura, che per esempio non sanno leggere, ma anche nella visione e nell’ascolto, come ad esempio le persone con disabilità sensoriali oltre che intellettiva.

Chi sono i vostri lettori, a chi vi rivolgete con questo linguaggio?
Il linguaggio facile da leggere nasce all’interno di un percorso di difesa dei diritti delle persone con disabilità intellettiva, volendo operare verso la rimozione delle discriminazioni e la promozione delle pari opportunità, in chiave inclusiva.
Il target principale è quindi composto dalle persone con disabilità intellettiva, che nell’inaccessibilità delle informazioni vedono una significativa barriera verso l’inclusione sociale. 

 Esistono anche stadi intermedi di pubblico, persone che pur non avendo un deficit intellettivo però necessitano di un linguaggio più chiaro (persone anziane, persone con poca cultura, immigrati recenti, …); pensate che debbano esistere dei formati solo per loro?
Il linguaggio facile da leggere può essere utile non solo alle persone con disabilità intellettiva.
Infatti, rendendo più accessibili e comprensibili le informazioni, si può rivolgere a tutte le persone che possono avere problemi nella comprensione di documenti, come ad esempio le persone anziane o non di madrelingua.
Inoltre, uno degli slogan del progetto recita che “il linguaggio facile da leggere va bene per tutti e non fa male a nessuno”, intendendo che produrre “buone informazioni” può essere un elemento che semplifica la comprensione e l’utilizzo dei documenti per tutte le persone. Basti pensare alla difficoltà di documenti ufficiali, comunicazioni amministrative… che risulterebbero accessibili nell’immediata lettura a tutti, se fossero accompagnate da una versione “facile da leggere”.

Che ruolo ha la formazione permanente in questo discorso?
Lo scopo del progetto Pathways è proprio quello di rendere i programmi di formazione permanente più facili da frequentare da parte delle persone con disabilità intellettiva.
Al momento, è difficile che una persona con disabilità intellettiva prenda parte a programmi di formazione permanente, perché l’inaccessibilità delle informazioni rappresenta una barriera significativa in tal senso e spesso insormontabile. Questo amplifica gli svantaggi e rende difficoltosa l’effettiva partecipazione e inclusione delle persone con disabilità, a partire ad esempio dall’inclusione lavorativa.
I materiali facili da leggere ed eventi formativi ripensati in chiave accessibile possono facilitare la fruizione della formazione permanente anche a chi ha una disabilità intellettiva, e non solo.

Quali sono i prodotti di questo percorso (guide manuali)?
Oltre alle Linee guida europee “Informazioni per tutti” per rendere l’informazione facile da leggere e da capire per tutti, i partner del progetto hanno elaborato altri 3 opuscoli.
L’opuscolo “Non scrivete su di noi senza di noi” definisce come coinvolgere le persone con disabilità intellettiva nella produzione o traduzione di testi in linguaggio facile da leggere. Nessun testo dovrebbe mai essere scritto senza che le persone con disabilità intellettiva siano coinvolte: esse sanno di cosa hanno bisogno per capire le informazioni e possono diventare esperte nel controllare la facilità di comprensione dei documenti.
Il secondo opuscolo “Insegnare può essere facile” è stato scritto per aiutare gli insegnanti a rendere i loro corsi più accessibili, dando alcune idee ed esempi su come sviluppare i corsi: il modo di parlare, i materiali di supporto utilizzati, documenti scritti e contributi video, le modalità di coinvolgimento degli studenti durante la presentazione e la comunicazione verso le persone con disabilità presenti.
Il terzo opuscolo “Formare i formatori” dà consigli sulla formazione dei formatori e degli insegnanti su come scrivere documenti che siano facili da leggere e capire. Si consiglia come organizzare le giornate di formazione, quali strumenti utilizzare, gli esercizi da proporre…
Inoltre sarà presto disponibile una lista di controllo online, utile per verificare, attraverso step definiti, l’accessibilità del materiale prodotto.
I tre opuscoli e le linee guida sono scritti in linguaggio facile da leggere e adesso, grazie alla partecipazione di Anffas a questo progetto, sono disponibili in lingua italiana. Possono essere scaricati gratuitamente dal sito www.anffas.net nella sezione dedicata al progetto.

In futuro come porterete avanti questa esperienza?
Entro novembre 2013 è prevista una serie di incontri nazionali e territoriali, per promuovere l’iniziativa e la documentazione realizzata e per sollecitare sia all’esterno che all’interno dell’associazione e del movimento delle persone con disabilità, la formazione e l’utilizzo del linguaggio facile da leggere.

Il progetto ha infatti consentito la formazione di 9 formatori che entro luglio prossimo realizzeranno dei primi incontri sui territori. Inoltre sono previste iniziative di carattere nazionale, con il coinvolgimento dei cosiddetti “decision maker”.

Pathways II
www.anffas.net/Page.asp/id=604#.UNx0-ncTTwK

5. “Informazione Facile”… l’unica in Italia

Gabriella Barilari, logopedista attiva a Torino, ci parla dell’unica esperienza di scrittura controllata attiva oggi in Italia: un settimanale che, pensato per le persone afasiche, ora si rivolge a un pubblico ben più vasto.
In appendice i Criteri per la stesura di testi a scrittura controllata di Maria Grazia Menegaldo.

Per quale motivo è nata “Informazione Facile”?
“Informazione Facile” (IF) è nata in ambito logopedico per un duplice motivo.
Da un lato avvertivo l’esigenza di proporre testi adatti a una popolazione adulta che per diversi motivi si trova ad affrontare un percorso riabilitativo per problemi nella comprensione di testi; dall’altro volevo offrire a chi – per patologia o per problemi socioculturali – ha difficoltà a comprendere l’informazione offerta dalla stampa tradizionale, uno strumento che consentisse di ridurre le barriere comunicative e informative che il deficit nella comprensione dei testi porta con sé.
Il progetto Informazione Facile nasce nel 2003. In un primo periodo si chiamava “Alta Frequenza”, poi nel 2006 è diventata “Informazione Facile”.

A chi si rivolge?
IF è stata studiata, in prima istanza, per persone afasiche e, più in generale, per persone adulte che hanno deficit nella comprensione di testi per via di patologie neurologiche.

Chi effettivamente legge IF?
I lettori di IF appartengono a una popolazione meno specifica e più ampia di quanto il gruppo di lavoro aveva immaginato.
IF è utilizzato dai servizi di logopedia e di neuropsicologia come strumento di riabilitazione, da persone afasiche che hanno terminato il loro iter terapeutico, ma è anche diventato uno strumento usato nelle RSA per attività di gruppo. È letta e usata anche da insegnanti di sostegno, sordi, insegnanti di lingua italiana, stranieri, popolazione carceraria.
Noi ovviamente siamo molto contenti di questo uso più ampio, perché è una dimostrazione del fatto che IF risponde a un bisogno.

Che periodicità ha e come è strutturata la rivista?
IF esce una volta la settimana. Il giorno era il martedì, ma ora probabilmente slitterà al giovedì.
È suddivisa in sezioni con obiettivi e difficoltà variabili. 

  • “Notizie in breve” offre in poche righe le informazioni sui fatti principali accaduti in Italia e nel mondo
  • “Notizie per parlare” raccoglie notizie di cronaca, scienza e spettacolo scritte in modo da renderle comprensibili e narrabili
  • “Notizie per guarire” presenta argomenti di attualità e prevenzione medica
  • “Notizie da vedere” presenta le novità cinematografiche. È realizzata in collaborazione con AIACE
  • “Spazio aperto” pubblica quello che le persone con problemi comunicativi ci inviano
  • Infine “Parole crociate e giochi linguistici” che rispettano i criteri che rendono IF fruibile in situazioni di difficoltà o handicap

Inoltre, quotidianamente sul sito www.informazionefacile.it esce la notizia (o le notizie) del giorno, mentre una volta la settimana viene inserito un nuovo video.

Chi sono i redattori di IF e che professionalità hanno?
Nel 2003 “Alta Frequenza” (AF) aveva uno sponsor e a quel tempo la redazione era formata anche da giornalisti.
Noi logopedisti rivedevamo i testi. Il nostro lavoro consisteva nel verificare l’applicazione delle regole della scrittura controllata.
Nel 2006 abbiamo perso lo sponsor e i finanziamenti. A quel punto, dopo un certo periodo, comprensibilmente i giornalisti si sono ritirati dal progetto.
Adesso redigono i testi un piccolo gruppo di logopedisti, insegnanti, medici, cioè persone che tutti i giorni si trovano ad affrontare nel loro lavoro le difficoltà di comprensione di informazioni complesse. 

Che tecniche di scrittura usate? Come avviene la semplificazione del testo e che regole avete in redazione?
La rivista è riconducibile, dal punto di vista scientifico, alla ricerca di De Mauro e della Piemontese sui criteri per controllare la comprensibilità dei testi.
IF rispetta queste regole:

  • usare il Vocabolario di base di Tullio De Mauro. Quando si usano parole difficili, se ne dà la spiegazione
  • rendere esplicite le conoscenze che il testo richiede, ma spesso sottintende, evitando al lettore la fatica che l’inferenza comporta
  • organizzare in modo chiaro l’argomento così da evidenziare i passaggi logici e trasformare le idee in frasi chiare
  • rivedere i testi utilizzando indici di leggibilità statisticamente definiti (indice Gulpease progettato e tarato per la lingua italiana, che segnala il grado di leggibilità del testo secondo il livello di scolarizzazione)
  • adottare criteri e accorgimenti volti a far superare deficit visivi e/o visuo-percettivi.

Un’eccessiva semplificazione non porta a un testo scialbo e poco interessante? Come evitare questo difetto?
Questa è una difficoltà di cui siamo consapevoli. Il più delle volte i nostri testi, effettivamente, sono monotoni. Ciò è dovuto, a mio avviso, non alle regole che ci siamo dati, ma al poco tempo che abbiamo per redigere i testi. Ancora una volta, il problema è il tempo e, quindi, il denaro.

Chi sceglie e quali criteri avete nella scelta delle notizie? Vi ponete problemi di tipo politico e sociale nella scelta delle notizie?
Cerchiamo di coprire le notizie più importanti di politica e cronaca nazionale ed estera.
Cerchiamo di proporre temi che sollecitano il dibattito e possibilmente appassionino, perché – essendo utilizzata IF in attività di gruppo – speriamo che, coinvolgendo emotivamente le persone, gli argomenti favoriscano la voglia di comunicare e di confrontarsi con gli altri.
Cerchiamo di essere abbastanza neutri nel dare le notizie, ma riconosco che spesso non ci riusciamo.

Non solo persone con deficit ma anche larghe fasce della popolazione sono soggette in Italia a un progressivo impoverimento culturale e a una diminuita capacità di lettura, vi rivolgete anche a loro? Non occorre adottare livelli diversi di complessità di scrittura a questo punto?
Questa affermazione è assolutamente vera e condivisibile. Infatti il nostro desiderio sarebbe quello di riuscire a dare vita a un giornale non di nicchia, ma per il largo pubblico. Certamente per un pubblico più largo occorrerebbe ricalibrare la complessità dei testi e anche modificare l’impaginato.
Questo giornale sarebbe da una parte uno strumento di informazione, ma dall’altra uno strumento di alfabetizzazione civile e sociale.
Intendo dire che sarebbe uno strumento utile per rendere i lettori cittadini consapevoli che conoscono – ad esempio – la Costituzione italiana e come funziona lo Stato.
L’informazione che noi vorremmo è un’informazione che non si basa sulla seduzione (nel senso di condurre a sé) ma sulla in-formazione di sé.
“Informazione Facile” come strumento di democrazia! È un delirio di onnipotenza, me ne rendo conto, ma se riuscissimo a unire un po’ di forze, forse qualcosa di buono si potrebbe fare…
Abbiamo, ad esempio, nel cassetto un bel progetto di una versione di IF per la scuola dell’obbligo…
Vedremo, mai dire mai!

Quanto costa la vostra operazione e chi vi finanzia?
In un primo periodo avevamo uno sponsor, che era il mio datore di lavoro di allora. Pierfrancesco Camerlengo credeva in questo progetto e lo aveva finanziato.
Quando le nostre strade lavorative si sono divaricate, ho preferito andare per la mia strada anche con “Informazione Facile”.
Da allora abbiamo partecipato a due Bandi di CRT (Cassa di Risparmio di Torino) Vivo Meglio che ci hanno consentito di andare avanti.
Inoltre collaboriamo con la Fondazione Carlo Molo Onlus con la quale portiamo avanti alcuni progetti di ricerca.
La gestione del sito è curata da una realtà torinese, attiva nell’e-learning, e-mentor, che gestisce il sito in forma gratuita.

Progetti per il futuro?
Abbiamo arricchito il sito di “Informazione Facile” con una voce sintetica che legge i testi ma l’ambizione sarebbe di arrivare a produrre una vera web-radio.
Grazie alla Fondazione Carlo Molo, inoltre, stiamo portando avanti un progetto di ricerca, secondo noi, molto bello.
Stiamo cercando di individuare quali sono le regole di “scrittura” (cioè inquadrature, montaggio,…) che aiutano la comprensione del linguaggio filmico.
Presso il Laboratorio Sperimentale di Afasia della Fondazione abbiamo realizzato una sperimentazione con alcuni gruppi di afasici (quelli che hanno già partecipato a uno o – meglio – due cicli di lettura di IF).
A questi gruppi, una logopedista – Angelica Trovarelli – proponeva la visione di corti di Charlie Chaplin; una prima volta senza alcuna modificazione e una seconda volta con alcune modificazioni che, nelle nostre intenzioni, rendevano la pellicola più comprensibile. Verificavamo poi le differenze di comprensione con test di avvenuta comprensione.
È un lavoro che ha dato ottimi risultati e che stiamo riproponendo.
Su quest’argomento è stata affidata una tesi a uno studente del Corso di Laurea in Logopedia dell’Università di Torino, che noi stiamo seguendo.
Un altro progetto cui teniamo moltissimo e sul quale ci stiamo impegnando con tutte le nostre risorse, avendo avuto ancora un contributo da Vivo Meglio di Fondazione di CRT è la progettazione di un comunicatore.
Di questo progetto, però, scaramanticamente, non dirò nulla se non che esiste.

Informazione Facile:
www.informazionefacile.it

4. La cultura degli italiani e la scrittura controllata

La scrittura controllata non è una scrittura più semplice da realizzare, anzi richiede uno sforzo ben maggiore e un atteggiamento di umiltà in chi scrive che deve mettersi nei panni del suo lettore.
Le nuove tecnologie non impoveriscono la scrittura ma pongono nuove modalità. I giovani leggono di più dei loro genitori ma in generale la società italiana non è all’altezza delle nuove richieste di prestazioni linguistiche che la società oggi richiede. Intervista a Maria Emanuela Piemontese.
In appendice l’Indice Gulpease  che calcola i criteri di leggibilità di un testo.

Che cos’è la scrittura controllata?
La scrittura controllata è un insieme di tecniche di scrittura nate prevalentemente intorno all’esperienza di “dueparole”. La scrittura controllata viene spesso identificata con la semplificazione linguistica, cioè con un metodo di controllo della lingua usata per farsi capire. La scrittura controllata vuole essere qualcosa di più: un insieme di tecniche, oggettive e consapevoli, cioè che si possono imparare e quindi insegnare, per adeguare le scelte linguistiche dei testi ai diversi tipi di destinatario. In questa seconda e più ambiziosa accezione la scrittura controllata è il modo di scrivere un testo basato sul controllo della difficoltà/facilità di lettura che esso può presentare ai destinatari. Questo controllo consente di dosare (e governare) il grado di difficoltà del testo, sempre in rapporto al tipo di destinatario, al contenuto e all’obiettivo, giocando sulle variazioni, di volta in volta possibili, tendenti verso l’alto o verso il basso.
Per scrittura controllata intendiamo perciò il risultato della capacità di smanettare la lingua e di arrivare alla definizione del grado al quale collocare le nostre scelte linguistiche e di organizzazione logico-concettuale a seconda dei destinatari ai quali ci rivolgiamo. Quindi “controllata” per noi  vuol dire più rispettosa del destinatario. La scrittura semplificata è una delle possibili realizzazioni della scrittura controllata: non è l’unica, ma certo è la più difficile da realizzare perché rappresenta il caso di controllo estremo, il più oltranzistico, dei testi, privilegiando in modo netto la comprensibilità da parte del destinatario.

Se dovesse elencare le regole di scrittura per scrivere in maniera controllata quale sarebbe il suo decalogo?
La regola principale che guida la nostra scrittura è quella del buon senso. Il buon senso nel fare le cose, di norma, non si trova “in natura”.  Bisogna imparare a riconoscerne innanzitutto il valore, poi a costruirselo e a imparare a metterlo a frutto. In altri termini, voglio dire che per scrivere testi chiari per fini didattici o informativi, basterebbe poco: sarebbe sufficiente chiedersi continuamente, mentre scriviamo, cosa capirà di quel che stiamo scrivendo chi ci leggerà, come ci insegna Italo Calvino. Se chi scrive, infatti, fosse meno autocentrato e pensasse di più ai suoi destinatari reali gli verrebbe naturale chiamare con semplicità pane il pane e vino il vino. Va detto che la nostra cultura – tranne poche e notevoli eccezioni – non ha mai avuto il culto della semplicità. La semplicità è sempre stata vista come roba da poveri o come una scelta di vita “alternativa”, in stile S. Francesco d’Assisi. Quando scriviamo, temiamo che essere semplici possa significare spogliarci delle nostre (presunte) ricchezze e farci apparire poco colti, tendenti alla banalizzazione.
Come riuscire a capovolgere, anche nell’arte dello scrivere, quest’idea tutta nostrana della semplicità? Da autorevoli fonti e autori abbiamo imparato alcuni concetti chiave: che la semplicità  non è né rozzezza né semplicioneria, ma piuttosto chiarezza delle idee; che la chiarezza che non è banalizzazione o negazione della complessità,  ma trasparenza del pensiero prima che delle parole;   che la trasparenza del pensiero non è inconsistenza di idee e di contenuto, ma il loro specchio in cui noi li vediamo prendere forma. Noi abbiamo provato innanzitutto su di noi a cambiare quest’idea fallace di semplicità e crediamo di esserci pure, in qualche modo, riusciti. Questo processo di revisione di un modo di essere e di pensare nel “fare cose con la lingua”, è stato accompagnato, non di rado, da incomprensioni e ironie, disinteresse  e, a volte, intolleranza da parte di molti sapienti doc.
Il problema sta nel fatto che, quando noi scriviamo, tendiamo naturalmente a pensare che il mondo sia fatto “a nostra immagine e somiglianza”. In pratica non ci poniamo il problema di chi sia il nostro destinatario e di quanto egli riuscirà a capire di quel che gli diciamo. La mancata comprensione, d’altra parte, è sempre stata, esplicitamente o implicitamente, imputata a chi legge e alle sue presunte carenze (di lingua, di interesse, di specializzazione…).
La redazione di “dueparole” si è basata su criteri di scrittura precisi che noi amiamo chiamare di buon senso in quanto dettati innanzitutto dalla nostra preoccupazione maggiore: farci capire. In effetti, mi rendo conto che dire che sono criteri di buon senso può essere fuorviante e far pensare a modi di scrivere ovvi e irriflessi. Per noi “buon senso” vuol dire esattamente il contrario: pensare e ripensare a un testo finché esso risulti, non solo a noi, ma a chi ci rivolgiamo chiaro e comprensibile. Con questa priorità, il pensiero rivolto ininterrottamente ai nostri destinatari e grazie alle tecniche di scrittura insegnate e applicate da don Lorenzo Milani, abbiamo definito, testato, messo ripetutamente in discussione e rivisto i nostri criteri di scrittura controllata.
Uno dei nostri criteri base è scrivere frasi e testi brevi per essere più facilmente comprensibili. Una frase troppo lunga, superiore cioè alle 15-20 parole, rischia sempre di contenere troppe informazioni, incistate l’una nell’altra per cui, alla fine, non si capisce bene né la gerarchia delle informazioni né cosa vogliamo dire davvero. Quindi fare frasi brevi, possibilmente con una sola informazione principale e solo qualche informazione secondaria, è un primo criterio per rendere più agevole la lettura e la comprensione ai lettori.
Va detto, a scanso di equivoci, che la brevità dei testi e delle frasi non è il risultato dello spezzettamento meccanico di testi e frasi lunghe in testi e frasi più brevi. Si tratta, invece, del modo stesso di ideare e costruire il testo nelle sue varie parti, seguendo cioè una precisa gerarchia di idee, sviluppando un certo ragionamento logico (coerenza) e traducendolo in parole tra loro ben collegate (coesione).
Di fondamentale importanza è poi la scelta delle parole che devono essere le più comuni, cioè quelle che tutti conoscono, usano e capiscono.
Non è un caso che ci venga spesso rimproverato di usare un linguaggio troppo semplice nei nostri testi. Basterebbe chiedersi: “Troppo semplice per chi?” e riflettere sulla risposta.
Noi pensiamo che quando una persona legge o ascolta qualcosa o qualcuno impara in proporzione a quello che riesce a capire e a memorizzare. Se utilizziamo un linguaggio troppo complesso rispetto alle possibilità di certi lettori, questi rischiano di non capire e non imparare nulla. Secondo il neuropsichiatra infantile Gabriel Levi richieste troppo elevate, fatte a certi tipi di destinatari, rischiano di danneggiarli perché costoro, oltre a non capire, accumulano senso di frustrazione e impotenza che li blocca e li porta a rifiutare di leggere altro. C’è chi pensa che un testo di una certa complessità possa aiutare, invece, il lettore a sforzarsi di capire e quindi a migliorare la sua comprensione. Noi siamo del parere opposto: chiunque legga, se legge e non capisce, non può imparare, memorizzare e riutilizzare concetti e contenuti. Il lettore è stimolato ad approfondire ciò che legge solo se capisce ciò che sta leggendo e, in modo autonomo o con l’aiuto di altri, cerca di saperne di più.
La nostra aspirazione non è perciò eliminare, azzerare la complessità delle cose da dire, impresa per altro impossibile, ma ridurla e dosarla nei limiti consentiti dagli strumenti posseduti dai nostri lettori e dai loro livelli d’età affinché non si sentano sopraffatti.

Non c’è il rischio che questo tipo di scrittura risulti scialba e poco interessante da leggere?
Precisiamo che qui stiamo parlando solo della lingua della comunicazione quotidiana, non della lingua per usi letterari e artistici. Stiamo parlando di scrittura di testi prevalentemente informativi o formativi. Quella che noi proponiamo di usare, per questi tipi di testo, è la lingua comune, quella che tutti, mediamente, conoscono, usano e capiscono.
Noi ci occupiamo di efficacia della comunicazione. Se parliamo di lingua della comunicazione, questa deve essere dunque semplice, chiara e precisa affinché i destinatari sappiano cosa fare o non fare, quando, dove, come e perché. Tuttora, la comunicazione pubblica continua a usare spesso un linguaggio inutilmente complesso, contorto e confuso perché ai burocrati appare più elegante e raffinato o più adeguato al livello delle istituzioni di appartenenza.
Occorre intendersi, mettersi d’accordo sulle parole e su che cosa significhi eleganza, che cosa significhi più interessante… Italo Calvino, che abbiamo già ricordato, diceva che, quando si parla di lingua della comunicazione, occorre scrivere, imparando a leggerci, sapendoci mettere cioè al posto dei nostri destinatari. Per noi è elegante ed interessante, ma anche più civile e democratica la lingua di chi riesce a farsi capire e non quella di chi spande fumo, senza nessuna considerazione dei destinatari e spesso perfino di se stesso.

Chi scrive sui quotidiani oggi o sui mezzi di informazione in generale, ha una certa attenzione per il lettore oppure no?
Nelle redazioni dei giornali e delle case editrici, come altrove, ci sono persone più attente e persone meno attente ai loro destinatari. Mediamente l’attenzione al destinatario non sembra essere la preoccupazione principale di chi scrive. Ma mai generalizzare!
Negli ultimi venti anni l’attenzione è andata crescendo rispetto ai decenni precedenti. Infatti ora si tende a dare un po’ meno per scontate tante cose che prima, invece, non erano considerate un problema di chi scriveva (o parlava) ma di chi leggeva (o ascoltava).
Quanto sia cambiato di fatto la cultura italiana nell’affrontare questi problemi non è facile dire. C’è ancora una forte variabilità individuale nelle diverse situazioni in cui si usa la lingua per motivi professionali. Non abbiamo (né aspiriamo a farla) una graduatoria di giornali più o meno leggibili o di autori più o meno comprensibili, ma come lettori sappiamo apprezzare le differenze. Quando leggiamo qualcosa tutti siamo capaci di renderci conto se stiamo capendo oppure no, se chi scrive sa quello di cui parla o se ha le idee confuse. La chiarezza e la comprensibilità dei testi dipendono anche dal tempo che chi scrive è stato disposto a impegnare per chiarirsi le idee prima di parlare o scrivere e poi anche dalla volontà, dal tempo (e dall’umiltà. Sì proprio umiltà!) per continuare a limare il testo finché non siano sciolti tutti i possibili nodi della comprensione. Molti ritengono che “scrivere di getto” sia, invece, la modalità più efficace, oltre che la più spontanea e gratificante. Ogni bravo scrittore, giornalista, insegnante, autore di testi di ogni genere, sa bene che, invece, non è così e che la fatica da fare è enorme.
Scrivere bene, cioè in modo chiaro, semplice e preciso, richiede, oltre a un addestramento e a un esercizio continuo, un enorme lavoro, impegno di tempo e pazienza e un grande senso di responsabilità professionale. 

Da questo punto di vista come si presenta la scrittura sul web?
Anche per la scrittura per il web vale il discorso appena fatto, sia pure con qualche differenza. Il mezzo usato e i tempi rapidissimi di viaggio e consumo delle informazioni fanno certo la differenza. Ma su questo argomento si trova di tutto e di più sulla rete. Occorre fare molta attenzione. Per fortuna ci sono anche siti e blog molto professionali come quello di Luisa Carrada (www.mestierediscrivere.it), di Alessandro Lucchini (www.magiadellascrittura.it), Giacomo Mason (www.intranetmanagement.it) e di altri blogger che meritano attenzione sia per i contenuti trattati sia per la forma utilizzata.

La qualità della scrittura per il web dipende, ovviamente, anche dalle motivazioni e dagli obiettivi di chi ha bisogno di usare la scrittura. Chi scrive sul web e per il web con motivazioni serie, competenza e chiarezza di obiettivi impara presto quanto sia preziosa e, nello stesso tempo, volatile l’attenzione dei lettori/naviganti, se non trovano scritto in modo chiaro e immediatamente comprensibile ciò che cercano e serve loro. Perciò i professionisti della scrittura per il web conoscono il mezzo, le regole che lo governano e cercano, sempre nel rispetto di queste regole, una forma di scrittura vivace, diretta, senza fronzoli e sbrodolamenti.
Sul web possiamo apprezzare molti stili di scrittura che sono varianti più di un parlato-scritto che di uno scritto-scritto, secondo l’articolazione proposta da Giovanni Nencioni. Basta visitare qualche blog, sito o pagine di Facebook creati per avere scambi veloci, scherzosi, a volte, anche troppo disinvolti, tra amici, colleghi (più raramente parenti) per rendersi conto degli usi diversi e molto approssimativi della scrittura. In molti casi non viene rispettato neppure il criterio minimo di formalità della scrittura. Questi usi scritti della lingua, che s’avvicinano molto di più al parlato irriflesso e meno controllato, sono tutt’altra cosa rispetto alla scrittura per il web di siti istituzionali, aziendali, commerciali, politici…

I lettori italiani di oggi: che tipo di cultura, di istruzione e di educazione alla lettura hanno?
Una risposta più precisa e articolata a queste domande può trovarle in due volumi veloci, ma ben documentati, e cioè la seconda edizione del volume di Tullio De Mauro, La cultura degli italiani curato da Fancesco Erbani (2010) e il volume di Giovanni Solimine, L’Italia che legge, del 2011.
Oggi siamo un popolo mediamente più istruito di quanto non lo fossimo in passato. All’epoca  dell’Unità di Italia, solo 150 anni fa, a mala pena il 2.5% della popolazione conosceva e parlava l’italiano; gli analfabeti erano il 78.5%. Oggi abbiamo circa l’1% della popolazione (secondo il censimento Istat) che si autodefinisce analfabeta. Di sicuro la capacità di usare la lingua italiana comune è oggi molto più alta di una volta, quando la quasi totalità della popolazione parlava quasi esclusivamente in dialetto.
L’italiano comune è da alcuni anni patrimonio condiviso da quasi il 95-96% della popolazione (e il 45% conosce e usa ancora un dialetto, oltre all’italiano). Quando ho iniziato ad andare io a scuola,  nella seconda metà degli anni Cinquanta, ero in una classe di 38 bambine: di queste 2-3 parlavano esclusivamente italiano, meno di una decina parlavano/parlavamo sia il dialetto che l’italiano (ma con differente propensione personale per l’una o l’altra lingua), tutto il resto della classe parlava solo il dialetto. Per i due terzi della mia classe l’italiano era una lingua sconosciuta, poco e male imparata sui banchi di scuola, studiata davvero come una lingua straniera, come sosteneva il linguista Peruzzi. Non a caso alle medie arrivammo a iscriverci molto meno della metà, quasi un terzo, dell’iniziale classe delle elementari.
La buona notizia è che oggi è sicuramente aumentato il livello di alfabetizzazione degli italiani; la cattiva notizia è che non sempre questo aumento del livello di istruzione riesce a garantire il possesso sicuro e disinvolto della lingua per fronteggiare crescenti e sempre nuove richieste sociali. In pratica siamo sicuramente più alfabetizzati, ma la capacità di dominio sulla lingua, non solo parlata ma anche scritta, non è sufficiente per fare fronte alla vita quotidiana, come dimostrano i dati citati da Tullio De Mauro nel suo volume, a cominciare dai lavori curati da Vittoria Gallina.
A questi dati fanno riscontro quelli presentati e discussi da Giovanni Solimine: in Italia permane un’abitudine di lettura scarsa e ben inferiore alla media europea.
Accanto ai dati che parlano di fatti, ci sono poi i luoghi comuni che circolano – non di rado – anche tra insospettabili. Si dice che oggi i giovani non sappiano più parlare in italiano, che scrivano male o peggio dei loro coetanei delle generazioni precedenti perché usano gli sms e leggono poco. Sono affermazioni che meriterebbero di essere analizzate una per una e smontate pazientemente: le fasce giovanili leggono mediamente molto di più delle fasce anagraficamente più anziane; la lingua da loro usata negli sms serve per scrivere in modo veloce, risparmiando tempo e soprattutto spazio. Non dimentichiamo che il ricorso alle abbreviazioni è nato per la limitata disponibilità di caratteri dei cellulari delle prime generazioni.
Ma non è questo il problema o, meglio, non è questa la causa della lamentata scarsa dimestichezza dei giovani (ma di quali?) con la lingua italiana. Il problema è un altro: capire cosa c’è dietro all’uso del xke al posto di perché in testi che non siano sms. Innanzitutto come si fa ad affermare che i giovani ricorrano sempre alla forma abbreviata anche quando non scrivono sms? Solo dopo che abbiamo accertato che i giovani sappiano/non sappiano distinguere un mezzo dall’altro, gli usi formali da quelli informali della lingua scritta, possiamo allora cominciare a discutere. In qualche momento della loro formazione linguistica, qualcuno deve pur spiegare loro che scrivere xke nello scambio di sms tra amici e parenti è accettabile, perché funzionale al mezzo e al risparmio di spazio e tempo, ma non lo è più in contesti formali, come sono un compito a scuola, un esame scritto all’università o un messaggio di posta elettronica a un docente, o una domanda di lavoro e così via.  Il contesto d’uso, con il destinatario e l’obiettivo della comunicazione, fa la differenza. È inutile perciò caricare i nuovi mezzi di comunicazione di responsabilità che non hanno, così come è sbagliato caricarli di aspettative eccessive, quasi palingenetiche. Sono mezzi e mezzi rimangono. A questo punto il discorso si farebbe troppo lungo e ci allontanerebbe dal nostro discorso. In conclusione, possiamo dire che solo chi sa usare bene la lingua, scritta e parlata, sa sfruttare al meglio anche le notevoli possibilità offerte da nuovi mezzi di comunicazione. Non è detto, invece, che saper smanettare i nuovi mezzi possa significare sempre e per chiunque possesso e uso sicuro dei diversi usi della lingua.

La società oggi richiede maggior prestazioni linguistiche al cittadino?
Oggi per poter esercitare il diritto di piena cittadinanza dobbiamo avere sempre maggiori e migliori capacità d’uso della lingua. Riempire un modulo, affrontare la lettura di una circolare ministeriale, saper interpretare le istruzioni per la raccolta differenziata, sono alcune delle richieste (non sempre banali) che ci troviamo quotidianamente davanti. Ogni giorno siamo chiamati a fronteggiare nuove situazioni comunicative sia come destinatari sia come produttori. Questo richiede a ciascuno di noi il dominio sicuro delle capacità di lettura e di scrittura.
Fare la dichiarazione dei redditi, accedere ai servizi del sistema sanitario nazionale, iscrivere un figlio al nido alla scuola materna, fare gli esami per la patente, pagare una multa… sono tutte azioni che richiedono un’elevata capacità di saper fare cose con la lingua scritta e parlata. Le richieste di saper fare tutte queste cose sono strettamente collegate all’estensione e all’ampliamento dei diritti democratici dei cittadini delle società avanzate e complesse. Oggettivamente la vita è molto più complessa oggi, sul piano dell’organizzazione sociale, rispetto a quella di cinquant’anni fa. I nostri nonni non avevano effettivamente troppe pratiche da sbrigare. Sembra una buona notizia, ma non lo è affatto. Il motivo è presto detto: non c’era il servizio sanitario nazionale, non c’erano ospedali, non c’erano asili comunali, pochissimi arrivavano a mandare i figli all’università…
Ricordiamoci che alle maggiori richieste sociali corrisponde, di norma, un allargamento dei diritti e dei doveri dei cittadini. Occorre quindi essere tutti più attrezzati linguisticamente se vogliamo vedere realizzati, rispettati e condivisi i diritti sanciti dalla nostra Costituzione per noi e per le generazioni future.

L’Indice Gulpease e il vocabolario comune
L’Indice Gulpease è un indice di leggibilità di un testo tarato sulla lingua italiana. Rispetto ad altri ha il vantaggio di utilizzare la lunghezza delle parole in lettere anziché in sillabe, semplificandone il calcolo automatico.
Definito nel 1988 nell’ambito delle ricerche del GULP (Gruppo Universitario Linguistico Pedagogico) presso il Seminario di Scienze dell’Educazione dell’Università degli studi La Sapienza di Roma, si basa su rilevazioni raccolte tra il 1986 e il 1987 dalle cattedre di Filosofia del linguaggio e di Pedagogia dell’Istituto di Filosofia.
L’Indice di Gulpease considera due variabili linguistiche: la lunghezza della parola e la lunghezza della frase rispetto al numero delle lettere.
La formula per il suo calcolo è la seguente:

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I risultati sono compresi tra 0 e 100, dove il valore “100” indica la leggibilità più alta e “0” la leggibilità più bassa. In generale risulta che testi con un indice inferiore a 80 sono difficili da leggere per chi ha la licenza elementare, inferiore a 60 sono difficili da leggere per chi ha la licenza media, inferiore a 40 sono difficili da leggere per chi ha un diploma superiore.
Complementare all’Indice Gulpease è la valutazione del “vocabolario comune” utilizzato nel testo, ovvero la “notorietà” dei singoli termini utilizzati.
Il “vocabolario comune” è un vocabolario che misura la leggibilità di un testo considerando il grado di comprensibilità e la frequenza di uso dei termini utilizzati. In base alla frequenza e al grado di comprensibilità, le parole sono divise in sottoinsiemi concentrici. Quello più ampio è rappresentato dal vocabolario di base che nella lingua italiana contiene circa 7.000 vocaboli generalmente compresi e usati dalle persone che hanno conseguito la licenza media inferiore.
I termini del vocabolario di base sono ulteriormente ripartiti in funzione del relativo grado di diffusione e uso in “vocabolario di alta disponibilità” (circa 2.300 termini appartenenti alla vita quotidiana, ben noti ma che capita raramente di dire o di scrivere), “vocabolario di alto uso” (circa 2.750 termini usati con altissima frequenza), “vocabolario fondamentale” (circa 2.000 termini che chi parla una lingua ed è uscito dall’infanzia conosce, capisce e usa).
(Questo testo è tratto dalla combinazione delle voci “L’Indice Gulpease” e il “Vocabolario comune” tratti da Wikipedia)

3. L’esperienza della rivista “dueparole”

Intervista a Maria Emanuela Piemontese docente alla Facoltà di Filosofia, Lettere, Scienze Umanistiche e Studi Orientali dell’Università di Roma. Assieme a Tullio De Mauro ha ideato e realizzato alla fine degli anni ’80 la prima rivista a scrittura controllata in Italia; si chiamava “dueparole” ed era un’esperienza all’avanguardia in Europa.

Com’è nata la rivista “dueparole” e come si è evoluta?
La nostra rivista è nata per rispondere a varie esigenze e cercare così di colmare un vuoto culturale, lamentato da varie parti ma da nessuno adeguatamente ascoltato e considerato.
Innanzitutto vale la pena ricordare che, negli anni Settanta, il Parlamento italiano ha approvato una serie di misure “rivoluzionarie” sull’integrazione degli alunni disabili nella scuola.
“Due parole” nasce quindi dall’incontro tra le trascurate, se non ignorate, esigenze formative e informative di allievi con certe caratteristiche e l’onda positiva generata dalla legislazione sull’integrazione delle persone con varie forme di disabilità nelle scuole. Nasce così la figura dell’insegnante di sostegno che doveva affiancare – nelle varie classi – i ragazzi con qualche tipo di problema (svantaggiati sociolinguisticamente, portatori di forme varie disturbi dell’apprendimento ecc.) nei processi di apprendimento. Nasceva però un problema: una volta finiti gli anni della scuola dell’obbligo, questi ragazzi non avevano più né la mediazione di un insegnante che li aiutasse ad accedere ai mezzi di informazione, dal telegiornale al giornale radio, dal quotidiano al periodico, né trovavano testi, scritti e parlati, adeguati al loro livello di comprensione. Non c’era un giornale che questi ragazzi potessero leggere autonomamente, senza registrare ulteriori frustrazioni nella comprensione, né c’era un giornale radiofonico o televisivo capace di informare, senza dare per scontata una miriade di informazioni che non tutti possono già avere.
È stato così che, all’inizio degli anni Ottanta, molti genitori e operatori sociosanitari si siano rivolti a Tullio De Mauro (allora docente di Filosofia del linguaggio nell’Università La Sapienza di Roma) ponendogli la domanda: “Cosa possiamo far leggere ai nostri figli, ai nostri allievi, una volta usciti dalla scuola dell’obbligo? Cosa li può tenere informati su quello che succede intorno a loro, man mano che diventano adulti?”. La domanda fatta a De Mauro fu trasformata immediatamente in un progetto piccolo, ma ambizioso assai: provare, insieme ai genitori e agli operatori sociosanitari, poi con i nostri allievi dei corsi di Filosofia del linguaggio, a scrivere testi accessibili per quel particolare tipo di destinatario.
Dai primi tentativi di produrre testi molto semplici, dal punto di vista linguistico e dell’organizzazione logico-concettuale per destinatari con qualche forma di problema della comprensione, è nato nel 1989 “due parole. Mensile di facile lettura”, con una storia già lunga alle spalle. Fin dall’autunno del 1983, infatti, docenti e ricercatori della cattedra di Filosofia del linguaggio hanno organizzato a La Sapienza corsi di scrittura per gli studenti, ben prima che venissero istituzionalizzati i corsi di scrittura funzionale o professionale nati dopo la creazione dei corsi di studio in (poi facoltà di) Scienze della comunicazione.
L’obiettivo iniziale dei nostri corsi era cercare di capire se e come si può ottimizzare la scrittura di testi didattici, di lettura e di informazione adulta, in considerazione di destinatari specifici. Questi corsi hanno trovato continuità a La Sapienza in un seminario durato dal 1983 al 1989, tenuto da Tullio De Mauro, Massimo Vedovelli e da chi scrive. In quegli anni abbiamo iniziato a sperimentare i nostri criteri di scrittura in centri di formazione professionale ai quali accedevano, dopo la scuola dell’obbligo, molti ragazzi con problemi. A questa nostra sperimentazione hanno partecipato, oltre ad alcuni operatori sociosanitari, alcune docenti di sostegno della scuola dell’obbligo, come M. Teresa Tiraboschi e Angela Saponaro, gli studenti iscritti al seminario. In questo modo siamo diventati tutti redattori di “dueparole”.
Durante gli anni di progettazione e realizzazione dell’iniziativa, avevamo già capito che, prima o poi, ci saremmo trovati di fronte a un allargamento notevole dei tipi di destinatario. Ad apprezzare “dueparole” non erano, infatti, solo le persone con ritardo mentale o con forme di svantaggio socioculturale, ma anche persone con  problemi di lettura e comprensione dei testi (soprattutto anziani) e con problemi di vista. Il fatto che “dueparole” avesse scelto un certo tipo di corpo tipografico e una dimensione superiore a quella utilizzata da tutti i giornali italiani e l’uso di molto spazio bianco per dare alla pagina leggerezza grafica e agli occhi dei lettori un po’ di respiro, facilitavano notevolmente la lettura a molte persone. Infatti il giornale si presenta sobrio nelle scelte grafico-tipografiche e molto controllato nel modo in cui sono scritti i testi. In sintesi, “dueparole” richiedeva una serie di attenzioni e competenze precise (grafiche, giornalistiche, linguistiche…), ma richiedeva anche redattori disposti ad abbandonare l’abitudine di scrivere per sé e a imparare a scrivere in modo più oggettivo, controllato, senza sentirsi sminuiti. La scrittura controllata è un punto di arrivo (e di ripartenza continua) che non ha nulla in comune con la cosiddetta scrittura personale, creativa, e ancor meno con quella comunemente definita “di getto”.
Forse si fa fatica a credere che per fare un giornale come “dueparole”, che aveva solo 8 pagine e mediamente 2 o 3 articoli a pagina, impiegavamo un mese e oltre.

Qual è la differenza fra il modo di scrivere “dueparole” e la free press, i quotidiani gratuiti, che per snellezza e brevità degli articoli possono avere una qualche somiglianza?
No, non c’è alcuna somiglianza tra “dueparole” e la free press e spiego subito perché. Mi sento di poterlo affermare con tanta nitidezza perché ho seguito numerose tesi di laurea sui quotidiani che cadono sotto l’ombrello della free press.
La free press riprende, per lo più, le notizie così come date dalle agenzie stampa, senza cioè rielaborarle. “dueparole” prendeva spunto dalle notizie più importanti del mese riportate nei bollettini, allora cartacei, dell’agenzia Ansa, messi a nostra disposizione dal direttore dell’epoca, Sergio Lepri. Dopo lo spoglio dei bollettini, la redazione procedeva collegialmente alla selezione delle notizie, privilegiando quelle di interesse più generale (politica interna, estera, cultura, spettacoli, vita in casa) e utili all’autonomia personale dei nostri lettori. Per esempio, abbiamo fatto quasi ogni anno articoli sulla legge finanziaria: in essi davamo priorità a ciò che cambiava nell’assistenza sanitaria e ai riflessi diretti di questi cambiamenti sulla vita dei nostri lettori, come il costo dei ticket, i cambiamenti nelle prestazioni sanitarie… 

Come mai questa esperienza è terminata?
Intanto non direi terminata, ma – scaramanticamente – sospesa. Nessuno di noi redattori ha mai smesso di credere nella validità della nostra esperienza e quindi tutti speriamo, prima o poi, di tornare “più belli e più forti che pria”. Ciò premesso, non è facile elencare quali e quante cose abbiano reso difficile, dopo l’entusiasmante fase di progettazione e realizzazione, la continuazione, negli anni, dell’esperienza di “dueparole”.  Provo a elencarne qualcuna, cercando di non arrivare a usare toni polemici.
Innanzitutto la nostra era una redazione di volontari e non di “professionisti” (come sono, invece, i colleghi dei nostri gemelli nordici). Vale a  dire che i redattori inizialmente erano giovani studenti, poi sono cresciuti e diventati adulti, quasi tutti con un loro lavoro a tempo pieno, una loro famiglia e relativi problemi. Ciò nonostante, per anni, essi hanno continuato a garantire il loro contributo, volontario e sempre entusiastico, all’iniziativa sia negli anni del formato cartaceo (1989-1997) sia successivamente per la versione on line (2001-2006), anni, questi ultimi, in cui qualche gettone siamo pure riusciti miracolosamente a garantirlo.
In secondo luogo, “dueparole” era un mensile. Avevamo perciò un’esigenza tutta nostra, a causa della periodicità: trattare quasi solo notizie di attualità i cui effetti durassero nel tempo. Noi la chiamavamo – con un ossimoro – attualità permanente. La periodicità mensile del nostro giornale costituiva però un vincolo troppo grosso. Il nostro obiettivo (o sogno) era farlo diventare presto settimanale, come “8 Sidor” , per uscire dalle strettoie della periodicità mensile. Ma questo passaggio richiedeva o avrebbe richiesto: a) un certo numero di persone a tempo pieno o a tempo parziale, b) in qualche modo pagate con tariffe professionali e non più costrette a fare una forma di volontariato eterno; c) una sede fisica, attrezzata ed efficiente; d) una sponda editoriale “forte”,  capace cioè di far farsi carico della diffusione e distribuzione del giornale, per farlo conoscere e crescere. Abbiamo provato con ben due editori che hanno fatto, a loro detta, tutto quel che hanno potuto. Non abbiamo motivi per non crederci, ma non abbiamo superato il numero di abbonati sufficienti per pagare solo le spese di tipografia e spedizione. Abbiamo provato a seguire, per anni, anche altre strade, bussando evangelicamente a molte porte. Molte ci sono state aperte per farci raccontare la nostra esperienza e il nostro progetto, ma tutte si chiudevano immediatamente alle nostre spalle, appena usciti. Sui nomi scritti sulle targhe di queste porte taccio.
Ai fini della sospensione dell’iniziativa più determinanti delle prime due difficoltà appena ricordate sono stati: probabilmente l’essere arrivata troppo in anticipo rispetto alla  cultura e sensibilità comune su questi temi, in Italia; la sordità e il disinteresse unanime dei nostri politici, in altre faccende affaccendati, anche di quelli preposti alle cariche teoricamente più vicine, più specifiche,  per avere motivo di prestare attenzione non tanto alla nostra iniziativa, quanto ai bisogni e alle richieste di una bella fetta della nostra società, trascurata, dimenticata, quella fetta alla quale “dueparole” ha cercato, con i suoi pochi mezzi, di rispondere.
Non possiamo far passare qui sotto silenzio però che “dueparole” ha visto la luce solo grazie alla fiducia da sempre accordataci e poi a un finanziamento straordinario assegnatoci, nel 1989, dal mai abbastanza compianto rettore de La Sapienza, Antonio Ruberti. Solo l’Università di Roma La Sapienza ha supportato il nostro progetto, riconoscendo la valenza formativa per i nostri studenti del nostro seminario sulla scrittura e, nello stesso tempo, l’utilità sociale dell’iniziativa da esso nata.

Maria Emanuela Piemontese
emanuela.piemontese@uniroma1.it

2. Ma a chi serve la scrittura controllata?

Non sono solo le persone con un deficit intellettivo che possono avere dei problemi a comprendere un testo scritto sui quotidiani e sui mezzi di informazione in generale; non sono solo le persone dislessiche o con patologie dello sviluppo che possono perdersi nel tentativo di comprendere il significato di un avviso comunale o nel compilare un modulo per ottenere una prestazione sanitaria. La difficoltà di lettura riguarda un numero ben più alto di cittadini e comprende le persone immigrate in Italia che non conoscono bene la lingua, le persone con un titolo di studio basso o che magari hanno anche il diploma ma che poi “si lasciano andare” dal punto di vista culturale, comprende infine molte persone anziane che mal si adattano ai cambiamenti e che non sanno più far fronte alle nuove richieste sociali (terminologie specifiche, ricerca di documenti che attestano…).
Se ragioniamo in questo modo le semplici statistiche sugli indici di analfabetismo in Italia non bastano più a dare spiegazioni, né a rincuorarci visto il loro andamento positivo. Dati alla mano, si è passati dal 1861 con il 77% della popolazione analfabeta all’1% del 2011 (nel 1990 erano il 2,9% della popolazione): ma cosa si nasconde dietro a questa cifra?
Tullio de Mauro, il più noto linguista italiano vivente (è stato ministro della Pubblica Istruzione nel Governo Amato II dal 2000 al 2001), in un incontro pubblico svoltosi nel 2011 ha affermato che il 71% della popolazione italiana si trova al di sotto del livello minimo di comprensione nella lettura di un testo di media difficoltà. Solo il 20% invece possiede le competenze minime “per orientarsi e risolvere, attraverso l’uso appropriato della lingua italiana, situazioni complesse e problemi della vita sociale quotidiana”.
David Bidussa, storico e giornalista, commentando i dati sul livello di istruzione degli italiani, afferma che “Il 38% dei nostri cittadini è fuori dalla Costituzione che prevede l’obbligo del possesso di almeno otto anni di scolarità”.  In effetto le cifre ci dicono che sono 17 milioni gli italiani che hanno solo la licenza media, mentre 23 milioni sono privi del tutto di un titolo di studio o possiedono la licenza elementare.
Questa è la situazione di un paese dove i suoi cittadini godono di un benessere materiale invidiabile dalla maggior parte dell’umanità. In questo caso l’analfabetismo non è un indicatore della povertà, anzi, sostiene Bidussa “L’analfabetismo non riguarda solo la miseria, riguarda anche l’idea che collettivamente associa l’istruzione all’utile sociale”. In altre parole non diamo la giusta importanza all’istruzione, alla formazione continua.
Un’altra prova di questa affermazione la si riscontra nel fatto che l’Italia, per quanto riguarda l’abbandono scolastico, la percentuale dei laureati e la formazione permanente, è decisamente indietro rispetto alla media della UE: è quanto emerge da un rapporto della Commissione Europea sui progressi compiuti nell’UE nel campo dell’istruzione e della formazione in base agli obiettivi fissati per il 2010.
Quindi i dati sull’analfabetismo vanno ripensati visto che non stiamo parlando di individui che non sanno leggere e scrivere ma di individui che sono incapaci di usare correttamente queste abilità. Si parla allora di analfabetismo funzionale. Chi è un analfabeta funzionale? È quella persona che pur con un titolo di studio non è in grado di scrivere in modo corretto un curriculum, che non riesce a compilare un documento amministrativo per via della difficoltà di comprensione di un testo (anche se breve).
Poter leggere e informarsi è un vero e proprio diritto ma, se un testo è incomprensibile, viene meno questo diritto. Per poter essere dei buoni cittadini ma anche per saper far fronte alle nuove richieste sociali, abbiamo bisogno che questo diritto venga rispettato. Oggigiorno l’amministrazione pubblica richiede delle competenze di lettura e scrittura enormemente superiori rispetto a soli 30 anni fa (lo spiega molto bene Emanuela Piemontese nell’intervista che le abbiamo fatto in questa rivista).
Ecco che, dopo quanto abbiamo detto, si capisce bene l’importanza della scrittura controllata, una scrittura che si adegua al livello del suo lettore.
La scrittura controllata, sia ben chiaro, non è un modo per ovviare alle lacune nell’istruzione e nella formazione in Italia ma deve essere solo una strategia per recuperare dei cittadini, per farli partecipare alla vita lavorativa e pubblica, per non perdere nessuno.

1. Semplicemente

La scrittura è una tecnologia, è cioè un “insieme di capacità da praticare e affinare con l’esperienza”. La scrittura non s’impara naturalmente, non si ha il dono innato della scrittura (semmai la predisposizione), ma la sua acquisizione è un processo lento e complesso (sempre di più visto il tipo di società in cui viviamo).
Scrivere in modo controllato significa porsi la domanda di chi sia il destinatario cui ci rivolgiamo, il suo grado di cultura, le sue difficoltà di comprensione; poi, nello stesso momento, chiarire cosa vogliamo dire e i nostri obiettivi nel farlo; infine dobbiamo prendere in considerazione il contesto in cui operiamo che comprende, fra le altre cose, anche lo strumento che utilizziamo per comunicare (periodico su carta oppure on line, audio oppure video).
Se dovessimo riscrivere la spiegazione di scrittura controllata utilizzando la stessa scrittura controllata, non potremmo certo produrre un testo così breve che dà per scontato molte conoscenze che il lettore dovrebbe possedere; no, sarebbe un testo molto diverso ma in questa monografia di “HP-Accaparlante” abbiamo utilizzato una scrittura più difficile dato che ci rivolgiamo a un certo pubblico.
Vi sono terminologie diverse per indicare il nostro tema; noi abbiamo usato per lo più il termine di “scrittura controllata”, ma le persone che abbiamo intervistato, soprattutto quelle non italiane, usano modi differenti; possiamo così incontrare altre espressioni che pongono più l’accento sull’atto della scrittura (plane writing, scrittura facilitata…) o sull’atto della lettura (materiale Easy to read – ETR), ma andando alla ricerca dei principi o delle linee guida che li regolano, troviamo alla fine che i punti fondamentali sono comuni e condivisi.
Ma perché scrivere un’intera monografia sulla scrittura controllata?
Dare la possibilità a tutte le persone di capire e interpretare il mondo che le circonda è un diritto da assicurare; questo diritto è la motivazione che ci ha spinto a scrivere questa indagine. E non stiamo parlando solo di persone con deficit intellettivi (anche se da loro e dalle relative associazioni provengono gran parte delle esperienze realizzate in Italia) ma di un numero ben maggiore di individui come gli immigrati che non conoscono la lingua del paese dove vivono, gli anziani che hanno maggiore difficoltà di comprensione del mondo che li circonda, i giovani usciti precocemente dai circuiti scolastici… Come vedremo nell’articolo successivo non si può dimenticare nessuno e non solo per motivi etici ma anche per motivi di un migliore sviluppo economico e civile delle società in cui viviamo.
La nota dolente che abbiamo riscontrato strada facendo nel nostro lavoro è che questa consapevolezza in Italia non c’è mai stata, nonostante l’autorevole esperienza portata avanti da Tullio De Mauro e Maria Emanuela Piemontese già negli anni ’80 all’interno dell’Università La Sapienza di Roma. Negli stessi anni analoghe esperienze si stavano sviluppando nell’area scandinava (in rete tra loro e con quella italiana) ma, a distanza di più di vent’anni, la realtà ci mostra (come vedremo negli interventi che troverete nella rivista) degli strumenti di informazione “facile” con cadenza settimanale, bisettimanale o addirittura quotidiana, estesi a livello nazionale e finanziati dai Ministeri in Norvegia, Svezia, Finlandia, Danimarca, mentre in Italia l’illustre esperienza si è conclusa nel 2006 per… mancanza di fondi!
Il lavoro che troverete nelle pagine successive è diviso in tre parti: nella prima sono riportate le esperienze italiane di scrittura controllata di natura molto differente; si va dai periodici informativi come “dueparole” e “Informazione Facile”, a progetti per la scrittura semplificata dei testi dei programmi politici europei, fino ad arrivare a un libro di storia “semplificato”. Abbiamo dedicato uno spazio di documentazione nella seconda parte, dove troverete delle pagine tratte dalle riviste “dueparole” e “Informazione Facile”; le abbiamo volute riprodurre fedelmente come esempio di scrittura controllata che passa non solo attraverso l’uso delle parole e delle frasi ma anche l’uso oculato dei font, degli spazi bianchi, della grafica in generale.
Nella terza parte invece abbiamo raccolto le esperienze di periodici di informazione ETR in Finlandia, Svezia, Danimarca, Belgio e Inghilterra.
Dal punto di vista metodologico abbiamo intervistato – in Italia – direttamente le persone (in tre casi abbiamo realizzato delle interviste video che saranno utilizzate per la realizzazione di un e-book), oppure tramite il telefono o via e-mail. Per quanto riguarda le esperienze estere, le interviste sono state fatte tramite telefono o via e-mail.
Infine una piccola nota sul “bello scrivere”, la scrittura letteraria e la scrittura controllata. Spesso ritorna una domanda quando si tratta di questo tema: ma che tipo di scrittura avremo alla fine, non sarà troppo scialba, monotona e poco interessante? Dove vanno a finire le infinite e quasi magiche possibilità che può offrire la scrittura letteraria?
Soprattutto in Italia una domanda come questa ricorre, visto che siamo un paese dove la scrittura di tipo letterario ha influenzato un ambito, quello giornalistico, che per antonomasia dovrebbe invece utilizzare una scrittura di tipo funzionale (all’informare), ovvero una scrittura semplice, chiara e sintetica. Andando a leggere certi editoriali scritti dai direttori dei maggiori quotidiani nazionali, vi accorgerete che i lettori che riescono a comprendere questi pezzi così elaborati e che comportano continue inferenze sono una piccola percentuale degli italiani (il 10%?).
Oltre al consiglio che i giornalisti dovrebbero pensare ai loro lettori non solo in termini di notizie che li possono interessare ma anche in termini di chiarezza e semplicità nell’esposizione, la risposta alla domanda sopra posta è che… ci stanno tutte e due le modalità di scrittura! Dobbiamo e possiamo pensare a lettori diversi, strati di lettori con un patrimonio culturale diverso. In un certo senso ogni tipo di scrittura dovrebbe essere controllata, nel senso che si deve pensare a chi si scrive, alle sue capacità di comprensione. In questo modo ci sarà spazio per il lettore esperto e aggiornato così come per quelle persone, tante, che sono escluse perché comprendono solo una scrittura facile da leggere e che perdono in questo modo dei diritti e delle possibilità: a loro abbiamo pensato scrivendo questa monografia.
E la scrittura letteraria che posto ha? Ce l’ha, ce l’ha ancora nella nostra società, come strumento importante di conoscenza; leggete questa frase di Winfried Georg Sebald (Austerlitz), composta da 98 parole (nella scrittura controllata se ne consigliano dalle 15 alle 24) e  ditemi se non è… bella!
“A mio giudizio, disse Austerlitz, noi non comprendiamo le leggi che regolano il ritorno del passato, e tuttavia ho sempre più l’impressione che il tempo non esista affatto, ma esistano soltanto spazi differenti, incastrati gli uni negli altri, in base a una superiore stereometria, fra i quali i vivi e i morti possono entrare e uscire a seconda della loro disposizione d’animo, e quanto più ci penso, tanto più mi sembra che noi, noi che siamo ancora in vita, assumiamo agli occhi dei morti l’aspetto di esseri irreali e visibili solo in particolari condizioni atmosferiche e di luce”. 

13. Il ruolo della comunicazione

Intervista a Massimo Ghirelli, esperto dell’Unità tecnica Cooperazione del Ministero degli affari Esteri per quanto riguarda gli aspetti della comunicazione e responsabile di redazione del Portale Cooperazione Italiana allo Sviluppo.

Che ruolo ha o dovrebbe avere la comunicazione per le ONG e per tutti coloro che fanno interventi nei paesi in via di sviluppo?
Più che una questione d’importanza è una questione di necessità. Sono migliaia purtroppo gli esempi di cooperazione, anche buona, che non raggiungono i loro scopi perché non viene tenuto conto in maniera giusta e completa l’aspetto comunicativo. Ti faccio l’esempio di un intervento che facemmo in Niger con i Tuareg che riguardava la costruzione di un ospedale. Non avevamo pensato che in Africa le donne non vanno in ospedale e che quindi, se non si faceva un lavoro d’informazione e di comunicazione, spiegando per quale motivo ne valeva la pena (per ragioni di infezione, igieniche…), tutto sarebbe rimasto lì come una cattedrale nel deserto.
Ma fuori dell’edificio c’era un grande parcheggio che era stato trasformato dai famigliari dei pazienti in un villaggio di capanne. Tutto questo era ovvio e naturale: non avevamo pensato al fatto che mai in Africa una donna sarebbe stata lasciata da sola in ospedale e che quindi, attorno a quella persona, ci sarebbero state intorno tante altre persone diverse che, venendo da lontano, avrebbero poi dovuto fermarsi a dormire lì. In quei casi perciò o fai una stanza comune o, come è stato fatto, adibisci a dormitorio il parcheggio. Questo è stato un caso lampante di mancanza di comunicazione adeguata.
Nell’ambito della cooperazione la comunicazione è sempre stata vista e molto spesso ancora oggi viene trattata come un argomento di secondo livello e quindi considerato un di più, una cosa marginale e perciò, ancora peggio,qualcosa che si fa nel momento in cui il progetto è fatto e finito, a volte confondendolo con una parolaccia come “visibilità”, che di per sé non sarebbe una parola sbagliata, nel senso che bisognerebbe far vedere quello che si fa ma che in realtà viene intesa solo come buona immagine di quello che si fa nella cooperazione italiana. La visibilità spesso non ha nulla a che fare con il buon progetto, la visibilità non è comunicazione.
Fino a non molto tempo fa questa parte era considerata molto marginale dalle ONG.
È anche vero che le ONG, stando più vicine al territorio ed essendo espressione di parti della società civile dovrebbero avere ancora più ragioni per capire e per utilizzare una buona comunicazione, per informare prima di tutto i donatori del territorio e le persone che vi partecipano. Le ONG, inoltre, avendo per controparte società civili o piccoli villaggi, comunque non solo istituzioni, dovrebbero fare in modo che questi interlocutori capiscano bene e che soprattutto siano loro a comunicare qualcosa su quello che si aspettano, su come vedono il progetto e su come lo vogliono gestire.
Nel mio lavoro spesso mi sono trovato a mettere delle pezze a progetti in cui c’era una piccola quota riservata alla comunicazione e a convincere gli altri che costituiva invece una parte integrante del progetto. Questo è un elemento raramente compreso, le ONG un pochino ci sono arrivate ma non tutte e soprattutto non ci è arrivata l’istituzione.
La nostra Direzione si è dotata di Linee Guida per la comunicazione; una volta consistevano in un manuale su come si fa la targa, su cosa deve esservi scritto, l’adesivo e tutto il resto; un po’ abbiamo superato questa ipotesi ma anche le Linee Guida attuali, sono solo un punto di partenza per cominciare a parlare di altri aspetti. La comunicazione, per cominciare, deve essere fatta in entrambi i luoghi da parte di vari partner, in patria, e da parte del cosiddetto beneficiario, beneficiario che deve essere partner anche della comunicazione e quindi avere gli strumenti per comunicare. I progetti devono avere non soltanto la partecipazione ma anche il consenso sociale senza il quale il progetto non ha senso.
I progetti stessi in molti casi dovrebbero essere intesi come progetti di comunicazione e non come la comunicazione rispetto ai progetti, sono due cose diverse: i progetti di questo tipo ancora abbastanza rari. Si potrebbe cambiare in questo modo l’intero sistema delle comunicazioni dei paesi in cui si attua il progetto, dalla formazione dei giornalisti alla legge sulla stampa e così via.

Al momento sono in atto progetti di questo tipo? Voi ne curate qualcuno?
Ce ne sono ma si contano sulle dita di una mano. Ho seguito un centro di documentazione per un sindacato di comunicazione in Sud Africa ai tempi della fine dell’apartheid e più recentemente la ristrutturazione di un’agenzia palestinese, la Wafa, un’agenzia stampa che all’epoca era una specie di servizio stampa di Arafat che aveva sede a Gaza e ora ha sede a Ramla. Abbiamo fatto anche un media center, in collaborazione con le ONG e con l’Arci a Belgrado, in una situazione complicata come i Balcani. Negli ultimi anni questi progetti vengono appoggiati anche dai direttori delle UTL (Unità Tecniche locali). In alcune UTL, ho scritto dei progetti come “Comunicare la comunicazione”, quindi intesi proprio per far questo, come riuscire a comunicare bene e chiedersi: “Che strumenti ha l’UTL per farlo?”. Di qui la necessità di dotarsi di un sito, mettere insieme i donatori, le ONG e gli altri partecipanti in rete, in discussione, per comunicare quello che si fa e per farli partecipare e anche organizzare mostre, eventi sulla cooperazione.
Adesso in Palestina si sta lavorando, dopo tre anni di attività, alla terza fase del progetto “Comunicare la comunicazione” e a Gerusalemme, finalmente, si faranno dei corsi di aggiornamento per giornalisti. In un paese particolare come quello di Israele, si tratta di operare per dare degli strumenti soprattutto per lottare, per avere una legge sulla stampa più aperta, considerando il fatto che i giornali possono essere chiusi in qualsiasi momento.
In generale c’è ancora pochissimo attenzione sulle possibilità di stampa e televisione indipendenti. Lo stesso vale per l’Iraq, dove non c’è un UTL ma c’è la Task Force Iraq, organizzazione, il nome lo fa capire, che prima era militare-civile mentre adesso, da qualche anno, è completamente nelle mani della nostra Direzione Generale alla Cooperazione allo Sviluppo. La Task Force, soprattutto in questa fase, in cui si sta piano piano pensando di lasciare il paese, deve raccontare quello che sta facendo e ha fatto. Si tratta comunque di progetti di grande interesse in una situazione difficile come quella della guerra. Progetti di capacity building, di comunicazione interna, progetti che vanno a formare le istituzioni locali, progetti di patrimonio culturale, ambientali, tutta una serie di progetti in cui la comunicazione ha un ruolo centrale. Anche lì, se non c’è consenso, partecipazione e conoscenza dei fatti nulla può funzionare.

Per quanto riguarda il privato sociale, le ONG, ci sono casi di progetti di comunicazione analoghi a quelli che hai elencato?
Ci sono ma sono abbastanza rari. Alcune ONG hanno un buon impianto comunicativo, come il Cesvi di Bergamo, che nasce proprio con una grande vocazione alla comunicazione. Fanno un lavoro sulla comunicazione notevole sia di comunicazione rispetto ai progetti, sia nel modo di presentarli. Un altro che si occupa molto di comunicazione sia in Italia che all’estero è invece il Cospe di Firenze che è diventato un punto di riferimento nazionale per ciò che riguarda media e intercultura, media e immigrazione.

Se tu dovessi  realizzare un piano di comunicazione in occasione di un progetto in un paese in via di sviluppo che riguarda, mettiamo, l’inclusione di bambini disabili all’interno di una scuola, come ti muoveresti?
Intanto la prima cosa che farei è inserire la comunicazione nel progetto, cercando di farla entrare a ogni livello, come parte consistente e sostanziale e che sia economicamente supportata. È necessario poi che ci siano le competenze necessarie per portarla avanti, quindi le risorse umane e che non si riduca l’attività alla semplice dicitura “attività promozionali”.
Occorrono poi delle azioni preventive, come quelle di allertare la società di cui si fa parte e i partner più importanti che sono nel nostro paese e nel nostro ambito, non soltanto per avere più fondi ma soprattutto per avere quel consenso di cui si parlava. E poi ci sono una serie di input importanti non soltanto economici che poi ricadranno sul progetto e che ci serviranno per preparare le basi di quello che sarà il ritorno di visibilità.
Un esempio di questo tipo è rappresentato dal  Magis, un’ONG dei gesuiti italiani, che ha lavorato in Albania con i non udenti anche attraverso il teatro. Gran parte del successo di questo progetto è stato quello di portare in Italia lo spettacolo di questi ragazzi. Ecco questo è un esempio di comunicazione nel senso più normale del termine. Solo che a queste cose ci si pensa dopo, a progetto finito, raccontando solo i risultati e questo non basta. Sia perché sono finiti i fondi, sia perché ti accorgi che non avevi fatto la giusta documentazione, che non avevi fatto le riprese video, scattato le foto. Bisogna quindi inserire la comunicazione in tutte le fasi del progetto e fare il modo di garantire la sua sostenibilità.
La sostenibilità di un progetto, poi, in quanta parte è sostenuta dalla comunicazione? In larghissima parte! I materiali di quel progetto se non vengono curati sono semplicemente i distillati di una relazione che nessuno si legge, che non leggono nemmeno le ONG.
La comunicazione invece va inserita all’interno del progetto, è uno degli elementi fondanti, a tutti i livelli, pensando prima di tutto all’ownership, alla partecipazione democratica di tutti, dei donatori che capiscono effettivamente che cosa stanno donando, senza tuttavia proporre argomentazioni patetiche.
Questo lavoro di comunicazione va fatto prima, durante e dopo il progetto, per costruire un ambiente prima di tutto non ostile, poi consenziente; per poter ricevere un aiuto da parte di tutte le agenzie possibili, di tutte le istituzioni e anche della società civile che è possibile coinvolgere.
Faccio un altro esempio. Ho un amico che ha delle belle idee e mi ha chiesto una mano per scrivere un progetto sulla conservazione della musica africana finanziato dall’Istituto sonoro nazionale. Quando ho letto il suo progetto, mi sono accorto che non aveva messo niente su che cosa si sarebbe fatto con tutto il materiale raccolto. Invece quello che poteva venirne fuori era una cosa bellissima; una mediateca di musica tradizionale africana, fatta attraverso una ricerca nei paesi, a contatto con la gente, frutto di registrazioni, quindi anche un lavoro antropologico importante. Il prodotto finale poteva diventare così una mediateca in Italia e nel paese d’origine.
Dobbiamo far vivere quello che abbiamo e pensare anche a come può vivere dal punto di vista della comunicazione questo progetto, che materiali ne emergono, chi ne è coinvolto.
Da qui si parte. Dopo bisogna fare una scelta e capire come in quel paese si comunica. Tutto questo deve essere studiato prima per capire quali possono essere gli strumenti giusti da utilizzare e naturalmente capire il linguaggio con cui devi parlare alla gente. Comunicazione vuol dire anche questo: farsi capire. Per questo è importante conoscere non solo gli strumenti altrui ma anche i loro codici e lavorare molto su quello.
C’è un bellissimo progetto che ha molto a che fare con quello di cui stiamo parlando; è un progetto che è stato sostanzialmente seguito da un ragazzo, Guido Geminiani, che è stato per un certo periodo un cooperante in Uganda dove c’è uno dei più grandi ospedali dell’Africa, fatto da una coppia di medici occidentali, al confine con tre – quattro paesi. Questo ospedale è diventato importantissimo e ha una storia molto bella e drammatica perché lì ci furono le febbri emorragiche; prima la moglie e poi il marito morirono proprio perché si erano infettati curando i malati.
Qui quello che sono riusciti a fare, è stato di “africanizzare” completamente l’ospedale; dai medici all’ultimo degli infermieri sono tutti africani e oggi questo ospedale ospita qualcosa come cinquecentomila persone all’anno. Accoglie anche, in un apposito settore, bambini non accompagnati, anche lì centinaia, migliaia e qui si parlano moltissime lingue. Il ragazzo di cui ti parlavo è stato uno dei primi a lavorarci e ha inventato, in collaborazione con i dirigenti dell’ospedale, un modo per comunicare nonostante la diversità delle lingue. Devi pensare che lì spesso la gente rimane e ci vive, e così l’ospedale è diventato una città. Con quale lingua allora comunicare? E soprattutto come fai l’informazione? Hanno fatto così uno studio sulla segnaletica e sul codice per cercare di trovarne uno comune, basandosi sulle storie, i costumi, le mentalità diverse, la concezione diversa di comunicazione e di spazio, il tutto per arrivare a fare una segnaletica “esperantica”, capace di arrivare a tutti quanti.

Redazione Portale Cooperazione Italiana allo Sviluppo
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tel. 06/36.91.63.16 – 06/36.91.63.08
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12. Un’attività di inclusive education nei paesi in via di sviluppo

L’intervento di EducAid in Salvador. Conversazione con Alfredo Camerini.

Che cos’è EducAid?
È un’organizzazione, creata da professionisti del settore educativo e sociale, di cooperazione allo sviluppo che opera nel contesto degli aiuti internazionali con una propria mission a cui è legato un certo tipo di approccio.
La mission è quella di promuovere competenze sia nelle figure professionali sia in diverse figure che hanno responsabilità di cura e di educazione e promuovere competenze anche nelle forme associative e nelle istituzioni che operano in questi settori.
In questi dodici anni in cui abbiamo operato, l’obiettivo è sempre stato quello di interloquire con dei contesti facendo delle proposte in risposta a esigenze che venivano via via rappresentate dai soggetti più vari, vale a dire, come in Palestina, da associazioni locali votate al lavoro educativo o richieste provenienti da governi, come avvenuto in Salvador.
In Salvador la richiesta in un primo momento era più centrata sullo sviluppo dell’educazione speciale, poi si è evoluta. Ciò è avvenuto anche in seguito a un cambio di governo, per cui si è verificato un cambio di politiche e di attenzione verso un approccio all’educazione inclusiva, che potesse dare risposte ai minori con seri problemi di diserzione e di dispersione scolastica. Alla fine si è evoluto in un progetto di promozione per la scuola a tempo pieno, al fine di mettere in campo una proposta educativa che mantenesse i minori a scuola.
Altre volte abbiamo agito su richiesta di soggetti esterni come le Agenzie delle Nazioni Unite, soprattutto l’Unicef. L’Unicef infatti è l’organizzazione che maggiormente si occupa di minori “svantaggiati”, anche se hanno un settore che in realtà è più che altro costruito con l’obiettivo della protezione dell’infanzia. Questo fa sì che nella stragrande maggioranza i loro funzionari siano di formazione giuridica e che abbiano difficoltà nel promuovere processi d’innovazione in campo sociale ed educativo.
Il nostro apporto, che viene richiesto in termini di consulenze, è molto utile perché offriamo la possibilità di sperimentare progetti che consentono di organizzare una situazione laboratoriale in cui si praticano proposte educative con la possibilità di conoscerle e anche di discuterle e questo aiuta a interloquire.  Il nostro è un approccio centrato fortemente su una metodologia della “ricercAzione”(ricerca-azione).
EducAid, però, non lavora solo sulla disabilità, sullo svantaggio, lavora per esempio anche nel settore della global education cioè nel proporre attività e sollecitazioni culturali rivolte ai giovani per conoscersi e relazionarsi in modo più consapevole in rapporto alle nuove relazioni che restituisce la globalizzazione. C’è ormai una maggiore facilità di relazione che rischia però, se non sostenuta da un’intenzionalità di tipo educativo, di disperdersi.

Ritorniamo all’inclusive education e fammi un esempio di un luogo dove avete lavorato.
Nel Salvador la nostra proposta ha cercato nel corso del tempo, e direi ottenuto, il miglior livello di contestualizzazione nella realtà locale. Anche questa fa parte della complessità del lavoro di cooperazione che in realtà, almeno nella nostra interpretazione, non mira tanto a trasferire competenze proponendo modelli, quanto a promuovere principi che possano aiutare a interloquire con i professionisti o comunque con le figure che hanno responsabilità e ruolo nell’ambito educativo e nel campo del lavoro sociale per cercare di proporre sperimentazioni locali.
In Salvador il tutto è iniziato un po’ sotto traccia, a partire da un mio coinvolgimento personale richiesto da alcuni esperti del Ministero degli Affari Esteri che si occupano di educazione. Questi funzionari mi hanno proposto una missione per valutare la possibilità di integrare un intervento educativo a un intervento, di fatto, di edilizia scolastica, perché la cooperazione aveva deciso su richiesta del governo locale di costruire un Centro Risorse sulle disabilità presso una scuola, secondo un modello di tipo anglosassone. Un centro risorse cioè che mettesse a disposizione delle competenze per un lavoro di tipo individuale, quindi con specialisti ma anche figure dell’area sanitaria e riabilitatori. Si trattava di un lavoro non tanto volto all’inclusione ma alla riabilitazione in collegamento con la scuola.
Ciò costituisce comunque un contesto separato, in cui il minore con problemi viene prelevato dalla classe e portato a seguire percorsi di riabilitazione per poi essere restituito alla classe, il tutto in un contesto in cui esistono le scuole speciali e in cui non esiste quindi un processo di inclusione affermato. Stiamo parlando di lievi difficoltà di apprendimento, un bambino con paralisi cerebrale o altri deficit più rilevanti ha percorsi non inclusivi.
In collaborazione con la Facoltà di Scienze della Formazione di Bologna abbiamo progettato la componente pedagogica del Centro Risorse, il che comportava progettare un Centro Risorse di tipo diverso, cioè un centro per il territorio volto all’inclusione scolastica e sociale.
Il nuovo governo salvadoregno ha creato la “Segreteria per l’inclusione sociale”, una sorta di ministero che si occupa di inclusione sociale e ne ha fatto una delle bandiere della propria attività; in questo ha incontrato perfettamente quella che è la visione di EducAid in merito all’educazione inclusiva: riteniamo che per educazione inclusiva deve essere inteso tutto il lavoro educativo che viene esercitato a livello sia scolastico ma anche extra scolastico. Nella dizione anglosassone invece, inclusive education è l’inclusione scolastica dei minori con difficoltà e in linea di massima con disabilità.

 Questo Centro Risorse è ora passato in gestione a qualcuno? È funzionante oppure è ancora in via di allestimento?
Il Centro Risorse è stato poi realizzato su principi diversi, attribuendogli quelle che sono le funzioni di un nostro centro di documentazione educativa e cioè la funzione informativa, formativa e di documentazione. Svolge un’attività di supporto all’inclusione sia nella scuola ma anche nella comunità locale.
Poi il progetto è passato a uno stadio successivo in cui abbiamo operato perché la Facoltà di Scienze della Formazione di Bologna potesse farsi promotrice di una fase due, vale a dire sperimentare l’attivazione altrove di queste funzioni del Centro Risorse. Questo è stato fatto nei centri di formazione docente che sono istituzioni regionali che il Ministero dell’Educazione salvadoregno utilizza per la formazione in servizio dei loro insegnanti. In questo modo si è cercato anche di sperimentare, in un certo numero di scuole, il sostegno educativo in classe dei minori con disabilità.
L’esperienza di integrazione precedente (integradora) aveva costituito delle aule d’appoggio dove per alcune ore si portavano fuori dalle classi i bambini con difficoltà; qui gli insegnanti di appoggio facevano una sorta di lezione d’insegnamento intensivo in rapporto alle materie su cui i ragazzi avevano maggiore difficoltà. La proposta è stata quella di promuovere attività laboratoriali da fare congiuntamente e soprattutto di promuovere la consulenza degli insegnanti di appoggio che diventavano anche un raccordo fra la scuola e la comunità locale, soprattutto la famiglia, puntando molto sulla funzione sociale della scuola.
A questo punto si è passati a un’altra fase dovuta al cambio storico di un governo di destra dopo diciotto anni di potere ininterrotto. Su richiesta del nuovo governo abbiamo elaborato un programma di riforma della scuola di base che comportasse l’introduzione della scuola a tempo pieno. È stato così messo a punto un progetto dalla facoltà di Scienze della Formazione con il contributo di EducAid che prevede un vasto programma di apertura del tempo pieno di diverse scuole. La Cooperazione Italiana si è impegnata a finanziare questo tipo di intervento. EducAid concorrerà per avere in appalto l’organizzazione della componente pedagogica.
Ho ora presentato questo caso perché è un buon esempio del rapporto che sempre si cerca di intrattenere sia verso il livello alto, quello ministeriale e decisionale, sia verso il livello più basso, quello più vicino alla realtà quotidiana comunitaria, che è il lavoro educativo nelle scuole.
Questa è un po’ la caratteristica di molti dei nostri progetti, come quelli che non intervengono tanto nel campo dell’educazione inclusiva ma nel campo dell’inclusione sociale, vale a dire i progetti per esempio di deistituzionalizzazione.

EducAid
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