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autore: Autore: Sandro Bastia

Farsi delle storie

“La sessualità è usatissima tra i giovani per motivi culturali, non per il desiderio…sesso come mezzo per entrare nel gruppo, sesso come violenza…E’ un tema che non può essere isolato”. Intervista a due educatori sulla sessualità degli adolescenti che frequentano un centro socioeducativo

Un gruppo di adolescenti, due educatori, il sesso.

Adolescenti, disagi sociali, e sessualità: queste tre parole accostate spesso evocano immagini di problemi, scontri, difficoltà. I due educatori che mi accolgono durante la loro programmazione invece mi sconfermano questa immagine e più che intenti a "navigare tra le difficoltà" mi paiono due persone normalmente intente nelle faccende di tutti i giorni, che mi mostrano con orgoglio un arredo povero, recuperato in giro e personalizzato dai ragazzi del gruppo.

Micaela ed Alberto sono due educatori che lavorano all’interno di un gruppo socioeducativo, gestito dalla cooperativa bolognese CSAPSA, in convenzione con il servizio sociale dell’Azienda USL. Il gruppo è aperto nel pomeriggio ed è frequentato da un quindicina di adolescenti con storie diverse alle spalle, che all’interno del gruppo cercano un posto dove stare, divertirsi, "socializzare" con coetanei, con adulti significativi – gli educatori – si mangia insieme, si fanno i compiti scolastici e molte attività.
A metà strada tra la "famiglia" ed il "centro giovanile" questa è una struttura intermedia che deve coniugare il quotidiano, le relazioni e gli affetti con l’istituzione, la prevenzione ed il "controllo" sociale". È una struttura che punta sulla quotidianità e sulla qualità delle relazioni: infatti è per una precisa scelta che gli educatori che lavorano sono due, un uomo ed una donna, ovvero una "coppia genitoriale" di adulti significativi di riferimento. La sessualità è un nodo importante, in adolescenza. Il gruppo socioeducativo è una istituzione che incontra e vive anche la sessualità di chi la frequenta, ma quando chiedo qualcosa sul loro lavoro rispetto a questi temi mi accolgono sguardi sorpresi, come se questo, in fondo, non fosse così importante come pensavo.

R. Istituzionalmente la sessualità all’interno del gruppo socioeducativo viene vista, e parlo degli operatori sociali, psicologi, psichiatri ecc. come una tematica molto forte. Spesso è sentita molto al di fuori dal gruppo che al suo interno, al punto che, ad esempio, vi sono proposte di formazione, vi sono richieste esplicite di informazioni durante le verifiche, ci fanno la richiesta di proporre ai ragazzi programmi di educazione sessuale in collaborazione con i consultori.
Noi abbiamo pensato di non fare queste cose. Eravamo abbastanza contrari ad isolare l’educazione per così dire "sessuale" dal resto. Il medico del consultorio che viene a parlare è piuttosto un’informazione perché è svincolata da quello che è il rapporto interpersonale ed i rapporti in generale del gruppo, quindi ci sembrava priva di senso.

Ma i ragazzi e le ragazze vi sembra sentano questa esigenza?
È vero che ragazzi e ragazze vivono aspetti sessuali molto confusi, specie in situazioni di promiscuità’, fanno fatica rispetto al controllo della loro pulsionalità. Inoltre spesso nelle loro famiglie i genitori possono non essere i loro veri genitori, i fratelli possono quindi avere genitori diversi, insomma le storie di questi ragazzi spesso complicano molto le cose. Quindi quando arrivano qui rispetto allo sviluppo sessuale non sono tranquilli, però non è così facile delegare alla sola sessualità i comportamenti. Spesso la sessualità è presa in prestito per giustificare tutta una serie di disagi e di comportamenti che appartengono alla sessualità come linguaggio ma non come senso. Il vocabolario, il turpiloquio sulla sessualità non sono legati al problema sessuale in sé ma ad un costume usato per attirare l’attenzione.
Anche in questi giorni degli operatori USL ci stanno proponendo di fare dei gruppi tematici sulla sessualità.
La possibilità di discutere della sessualità come area tematica o in un gruppo (educatori – utenti) o con la presenza di tecnici e operatori sanitari è stata scartata. Noi facciamo fatica a mettere in pratica, a fare cose così strutturate. Questo perchè quello che ad esempio differenzia quella che è una visione del lavoro "tecnica", come quella che può avere uno psicologo, uno psichiatra o un medico e noi educatori è il setting. I setting sono diversi e questo è difficile da far capire a chi non frequenta il gruppo. Noi lavoriamo all’interno della quotidianità.
Questo cambia totalmente il tipo di linguaggio, il tipo di rapporto, il tipo di modalità di fruizione delle informazioni. È difficile per un non-educatore capire cosa è la quotidianità. Faccio un esempio, è come se in famiglia ti venissero a trovare zii e nonni con i quali non vai molto d’accordo e per risolvere il problema vai a fare un corso di aggiornamento sulle relazioni interpersonali. Assurdo no?!
Spesso l’esterno pensa così: c’è un problema? Bene, facciamo degli incontri, diamo informazioni.
Ma il quotidiano non si gestisce così, con degli incontri così strutturati. Allora spesso delle proposte che riguardano questo sono così lontane dalla "tipologia del quotidiano" che poi vengono escluse. Invece tutto, anche l’aspetto informativo, viene poi gestito all’interno, nella relazione.

La quotidianità è importante per il lavoro degli educatori. È importante avere consapevolezza di questa dimensione che però non si presta nè ad essere racchiusa in una struttura rigida, nè ad essere lasciata all’improvvisazione totale. Il lavoro o le occasioni che vi portano ad incontrare la sessualità nel lavoro con i ragazzi come avvengono?
Nel gruppo, con i ragazzi, di sessualità si parla molto poco. In genere di questo si parla, a fatica, con gli educatori, in colloqui riservati. Ti chiamano, si va nella stanzina e si parla. Spesso arrivano con molta confusione, hanno esperienze, a volte anche importanti, ma che fanno molta fatica a leggere come rapporti di coppia, storie d’amore. Spesso è prevalente l’aspetto "farsi delle storie" per avere consensi, per avere conferme sulla propria identità, per avere potere.Negli anni di lavoro con i ragazzi la sessualità, nei termini di gestione della propria pulsionalità è uno spazio, sembra paradossale, molto minimo rispetto agli aspetti socio-antropologici, che sono preponderanti. La sessualità come merce, la sessualità come violenza, la sessualità per entrare in un gruppo eccetera. La sessualità è usatissima ma per motivi culturali, non per il desiderio sessuale – magari fosse così. Questo è un’altro livello, diverso, che è l’analisi delle emozioni, dei sentimenti e del rapporto con il proprio corpo. Ma sono aspetti distinti. Per questo diciamo che è difficile parlare di sesso: il sesso è all’interno dei rapporti emotivi e del rapporto con il proprio corpo. Quando tu l’affronti, con un qualche ragazzino lo fai in termini emotivi: ad esempio arriva, è chiuso, è sconvolto, non parla o è aggressivo, gli chiedi cos’è successo, lui ti confida una cosa….
Non è mai in termini cognitivi. L’elaborazione arriva dopo. L’approccio in termini cognitivi spesso determina una difesa immediata. Addirittura una caratteristica di alcuni ragazzi che vengono qua e che prima sono stati in carico ai servizi è quella di percepire l’educatore ed il servizio come intrusivo rispetto alla propria vita: stanno all’interno dei servizi dando una immagine di sé che gli permette di tutelare una parte di intimità che non vogliono far vedere. Prima di arrivare ad un rapporto che possa andare più in profondità bisogna superare questa immagine: i ragazzi fanno fatica anche a fare un disegno per la paura di essere interpretati. Quasi sempre sono stati dallo psicologo e sanno benissimo che attraverso quello che scrivono e che fanno vengono interpretati, conosciuti e letti in modo intrusivo. E prima di poter intrecciare una relazione profonda occorre un lungo e lento lavoro di conquista della fiducia che non è scontato.

Educatori in corsia

Un ritratto in bianco e nero, ingiallito, appeso nel posto sbagliato: anziché nelle strade, negli uffici dei servizi sociali, alle pareti dei centri socioriabilitativi, dove siamo abituati a vederlo, lo troviamo nello studio di un medico, magari accanto al calendario sponsorizzato da un’industria farmaceutica.

E’ un ritratto quello che emerge da decreto recentemente firmato dal ministro della Sanità Rosy Bindi che descrive gli educatori in termini di "collaboratore", "operatore", "attuatore". Non è riconosciuta, ad esempio, alcuna progettualità; l’educatore viene estirpato, a forza verrebbe da dire, da contesto sociale, pedagogico ed antropologico in cui la storia di questa professione si colloca.

E’ un ritratto inserito in un contesto, quello medico terapeutico che non piace a nessuno, con una collocazione per la formazione – diploma universitario triennale presso la facoltà di medicina – che non piace a nessuno, con un nome "tecnico dell’educazione e della riabilitazione psichiatrica e psicosociale" che sembra un giro di parole per evitare proprio di dire "educatore professionale".Oltre allo scontento si apre il campo ad ipotesi poco chiare.Un esempio: molte sono ancora le persone – specie quelle che sono impiegate all’interno di cooperative – che non hanno ancora avuto nemmeno l’accesso ai corsi di riqualificazione – vietati per legge dal gennaio del 1997 – e che hanno paura per il proprio lavoro, che magari svolgono da dieci anni, e per cui si troverebbero a non avere più i requisiti richiesti. Ma, paradossalmente, non vi è nessuno con il titolo che possa subentrare al posto di chi il titolo non l’ha. Infatti ci risulta che gli educatori professionali (almeno nel nord Italia) ora sono tutti impiegati e cooperative ed enti del settore se li contendono. Questo crea debolezza in tutti i campi.Questi "paradossi burocraticoamministrativi" però è bene che non distolgano l’attenzione dal problema vero, quello del profilo e della formazione dell’educatore professionale. Intanto il corso di laurea di Scienze dell’educazione (ben 25 sedi in Italia) ha diplomato lo scorso ottobre i primi laureati nell’indirizzo "educatori professionali"; che prospettive vi saranno per loro e per quelli che verranno?

Dilemmi formativi

“In Europa la figura dell’educatore e molto forte all’interno dei servizi sociali e sanitari; la formazione è in parte unitaria per chi vada lavorare al nido, alla scuola materna, nell’handicap,… poi esiste una specializzazione che però è successivo alla costruzione di una identità professionale comune di base.”

Siamo andati ad intervistare Emanuela Cocever, pedagogista, responsabile di formazione e docente dei corsi, triennali e biennali di riqualificazione sul lavoro, dalla partenza di questi, circa dieci anni fa.

Come scorge il profilo dell’educatore che emerge dall’ipotesi del ministero?
Parliamo di "educatore professionale" ma in realtà facciamo un cortocircuito che è indebito visto che questa è una figura che soddisfa alcune delle richieste dell’educatore professionale, ma non è il profilo dell’educatore professionale. E’ un indizio di ambiguità. La collocazione dell’educatore preoccupa tutti.
E non solo quella.
La formazione, ad esempio è un altro nodo critico. Infatti ricordo di avere visto un programma di triennio, qualche anno fa, che formava una figura professionale simile a quella che viene delineata o almeno che aveva il titolo simile al titolo che viene ipotizzato in questo triennio attribuito alla facoltà di medicine per la formazione del riabilitatore – operatore tecnico della riabilitazione.
Era un triennio tutto dedicato alla strumentazione per la riabilitazione fisica, sensoriale. Logopedia, fisioterapia e qualche terapia occupazionale. Da lì emergeva una figure professionale veramente strumentale, molto esecutiva. Non certo l’educatore che progetta dei percorsi o che conduce dei processi educativi, li valuta, come siamo invece abituati noi. Sono fortemente contraria all’attribuzione della formazione di una figure che appartiene all’ambito pedagogico, alla facoltà di medicine.Inoltre in questo modo continua a prefigurarsi una formazione settoriale per campo di intervento, per una figura che è invece, secondo me, unitaria.Ci sono esperienze in Europa, penso ad esempio alla Scandinavia, dove la figura dell’educatore professionale è una figura molto forte all’interno dei servizi sociali e sanitari; la formazione è in parte unitaria per chi vada a lavorare al nido, alla scuola materna, nel tempo libero come per chi vada a lavorare nella patologia o nell’handicap ecc.
C’è una parse di formazione unitaria e poi una ampia parse dedicate alla specializzazione ma che sia successiva alla costruzione di una identità professionale comune di base.

Il profilo ipotizzato non e raccordato con i profili dell’educatore professionale che esistono in Europa, dove si parla appunto di "Educatore Professionale" e non di "Tecnico dell’educazione"
A livello di titoli, e non di contenuto, credo non esista in nessun paese una figura simile, poi formata da medicina…Dalle informazioni, un po’ frammentarie che ho, comunque, in Europa esistono più formazioni che portano a più sbocchi (diversi anni di corso, varie qualifiche e specializzazione) e non solo un percorso che porta ad uno sbocco solo.

Il tema della formazione degli educatori oggi oscilla tra diversi paradossi: tra chi la formazione non l’ha mai incontrata ma lavora da tempo e chi dovrà misurarsi con quello che pare vada a costituirsi come diploma universitario della facoltà di medicina.
Ogni tanto mi viene da pensare a quando i corsi biennali erano appena partiti. In quel momento in varie sedi si era anche pensato, sfruttando l’esperienza di Scienze dell’Educazione che aveva messo a fuoco un’esperienza di formazione a distanza, di immaginare un percorso di riqualificazione per gli educatori che non fosse basato solo sulle modalità d’aula. Quindi l’ipotesi di avere una formazione sul lavoro per gli educatori professionali che fosse fatta di pochi incontri significativi e di lavoro poi su materiali per l’autoformazione. Quell’ipotesi fu perdente e si preferì piuttosto far partire una nuova formazione con la ripetizione, ad esempio, di 10 ore di psicologia dello sviluppo del bambino che invece potevano essere facilmente acquisite da testi.
Si e mantenuta una formula più tradizionale – anche se penso che poi comunque i bienni si sono rivelati una formazione poco tradizionale emolto interessante – ma avrebbero potuto essere più originali e flessibili, in questo modo, probabilmente più persone avrebbero potuto partecipare e non si sarebbero registrati i problemi ed il calo delle iscrizioni degli ultimi corsi che sono stati erroneamente interpretati come il segno che oramai tutti erano riqualificati; da qui la decisione di fermare i corsi di riqualifica che ci ha portato alla situazione di imposizioni che viviamo attualmente.
Invece io non vedo, tuttora, cosa ci vieti di pensare che la formazione possa continuare a seguire un doppio binario, per cui da un lato se uno vuole si fa l’università e consegue il suo diploma universitario, dall’altro si inizia a lavorare e poi si fa una formazione. Questo avviene anche in altri paesi, ad esempio la Danimarca, dove la diversa qualifica diploma universitario-riqualifica, da luogo a due qualifiche e a due stipendi diversi, ma permette comunque ad entrambi di lavorare.
Ora il tema della formazione, a mio avviso, nonostante questa ipotesi sul profilo rimane ancora aperto e spero che si possa sfruttare questa esperienza.

Il tema del riconoscimento degli educatori. Un ritornello che dura da anni e si muove tra le rivendicazioni – giuste – della categoria e la "richiesta di una immagine", una visibilità sociale. questo profilo sembrarenda nuovamente attuale questo tema riaprendo il dibattito, mai chiuso, su cosa debbano fare, in quali forme si debbano esprimere gli educatori per essere riconosciuti come professione, prima ancora che come categoria.
Sono molto sensibile a questo argomento. Sicuramente non si ottiene un riconoscimento protestando per il fatto che si e poco riconosciuti. Io questo l’ho imparato decisamente dal movimento delle donne e da una parte del movimento delle donne che e quella che per esempio rifiuta tutti i temi delle pari opportunità e delle quote con il ragionamento, molto importante, che non si può affermare una forma puntando sulla propria debolezza. Allora se il bisogno è che abbiamo bisogno delle quote per farci riconoscere ne consegue un procedere paradossale. Io pretendo qualcosa per affermare la mia forza in nome della mia debolezza. E’ un ragionamento, in cui pero c’è qualcosa che non va, e le azioni che ne conseguono sono altrettanto non funzionanti.
Per affermarsi sono necessarie azioni che contengono l’affermazione di se, del proprio stile, della propria identità. Queste affermazioni nascono dalle esperienze, mi verrebbe da dire quasi "di base" e non dai decreti scritti dall’alto, e dalle sperimentezioni spontanee di cose che riteniamo proprio noi stessi operatori. Se ne discusso spesso in corsi per educatori.
Un modello potrebbe essere questo: un gruppo di educatori che si organizza, ragiona sulla propria esperienza, vedendosi una volta alla settimana e discutendo, producendo cose e relazioni, per il proprio piacere, non per dovere istituzionale o rivendicazione sindacale, senza mettersi immediatamente alla ricerca di riconoscimenti istituzionali od altro. Facendolo perché così fanno qualcosa che interessa loro e nella quale fra di loro si attribuiscono responsabilità e importanza. Questo succede. Tutti noi abbiamo dei colleghi e delle colleghe che ci piacciono perché magari fanno il nostro stesso mestiere ma lo fanno un po’ meglio o hanno delle idee migliori: penso che creare dei gruppi dove ci sono queste persone e a queste persone riconoscere la capacita che hanno di animare gli altri, nella totale informalità istituzionale. Io credo che sia lì che si deve cercare una molla per il riconoscimento degli educatori. In questo modo si fa un’esperienza di esistenza, di forza, di significato, in prima persona. E poi si troveranno i modi per farla irradiare all’esterno.Certo questo non vuole dire che non bisogna fare tutti gli altri percorsi, ma piuttosto che bisogna farli entrambi, proprio per la vita quotidiana delle persone. Scrivere lettere alla Regione, ai sindacati, alle USL per rivendicare i propri diritti, condizioni migliori di lavoro, alla fine pero, nella vita quotidiana, finisce per portare ad uno stato d’animo che non è certo di benessere. Se ti vedi in un gruppo e fai qualcosa che ti piace il tuo stato d’animo e uno stato d’animo di soddisfazione.
io non riesco a metterlo subito in un discorso più politico di così. Però secondo me, è la dove io cercherei la forza con la convinzione che sia una forza anche istituzionalmente.

Al centro dell’attenzione

Il mondo attorno ai centri socio-riabilitativi per disabili in questi anni è profondamente mutato, occorre quindi ripensare e ripensarsi all’interno di queste nuove realtà, partendo però dalle esperienze di questi anni e dal valore che queste hanno.
Gli articoli che seguono vorrebbero tentare uno sguardo panoramico, una porta che lascia schiudere una fessura mostrando come attualmente, dietro a quelle etichette, si celino esperienze profondamente originali, ricche di contenuti, saperi professionali, linguaggi diversi ma con significativi punti di contatto. Abbiamo voluto accostare riflessioni sullo stato dell’arte dei centri socioriabilitativi, semiresidenziali provenienti da ambiti diversi (psichiatria, neuropsichiatria infantile, servizi sociali ecc.) e da persone impegnate a vario titolo nei servizi, dal livello organizzativo manageriale a quello dell’utente frequentatore. Tutti con la stessa dignità a testimoniare quanta strada è stata fatta.

Gli anni ’70 e la deistituzionalizzazione

I centri socio-riabilitativi, per persone handicappate nascono intorno agli anni 70, sull’onda della deistituzionalizzazione e della partecipazione attiva dei cittadini alla vita delle istituzioni. Inizialmente i centri hanno faticato a trovare un nome: centro gravi, centro diurno, centro medico sociale e tante altre etichette che definivano organizzazioni e progetti diversi, ma che con il tempo hanno assunto, pur nella originalità di ciascuno, alcuni punti di continuità.
Questi elementi di continuità hanno contribuito a far nascere un sapere, una cultura, costruita riflettendo sulle esperienze che venivano via via compiute. Questo sapere ha avuto, in tutti questi anni una forte ricaduta all’interno dei servizi socio-assistenziali e terapeutici, migliorando molto la qualità di vita nei centri, aumentando gli strumenti operativi degli educatori e anche di tutti coloro che con altre professionalità vi hanno lavorato. Queste esperienze si sono poi confrontate con altri settori: nella scuola, con altri servizi. Ci sono stati "travasi" tra i vari settori, ed ora il "centro diurno" non è più appannaggio solo dei servizi per l’handicap.
Sono passati quasi trenta anni dall’avvio dell’esperienza dei centri.
Le istanze che hanno portato alla nascita dei centri sono superate, date per acquisite forse, o comunque affiancate da altre esigenze, altre richieste "dell’opinione pubblica" che vengono vissute come più importanti o come più urgenti. Ma gli handicappati e i centri socio-riabilitativi rimangono e vivono di una vita propria, spesso semi sommersa, legata a contesti sociali ed a pratiche acquisite faticosamente con gli anni, con il tempo. Poco visibili forse ma non per questo meno importanti o svalorizzati.

La contrazione dei servizi

Oggi i centri, chi vi lavora e con loro le persone handicappate e le loro famiglie, devono confrontarsi con un momento di fortissima crisi e "contrazione" dei servizi. La richiesta di strutture, di posti, è forte ed i costi non riescono più ad essere sostenuti dagli enti locali e dalle Ausl. Inoltre i centri (o semiresidenze, stando alle nuove disposizioni legislative) essendo strutture che "curano" ma non dimettono (poiché i bisogni a cui rispondono non finiscono praticamente mai) rischiano di essere visti come strutture meramente assistenziali, quindi dove si possono ridurre le risorse necessarie per il loro funzionamento, azzerando così la loro storia ed il loro valore, facendoli così di fatto divenire centri assistenziali. E le questioni che si aprono non finiscono qui: i problemi legati all’invecchiamento degli utenti, l’offerta del volontariato, il bisogno da parte degli operatori di ridefinire i propri percorsi lavorativi affinché vi sia una continua crescita professionale e si potrebbe ancora continuare ad esporre le questioni che si aprono di fronte alla strada dei Centri.

A spasso con Elena

Federico Starnone, 28 anni, vive a Roma dove sta concludendo un dottorato diricerca in geometria algebrica e collabora alla rivista della sezione localedella Uildm. Recentemente ha pubblicato per la casa editrice Feltrinelli illibro Più leggero non basta – educazione alla diversità dove racconta la suaesperienza di obiettore di coscienza presso un’associazione che si occupa didisabili.

Perchè hai scelto di fare l’obiettore e perchè proprio in quel posto?

La scelta di fare il servizio civile l’ho fatta appena ho saputo che esisteva lapossibilità di farla, intorno ai sedici anni. All’epoca durava due anni, ma misembrava che comunque non ci potessero essere dubbi. Poi, però, i dubbi mi sonovenuti. Mi sono trovato appena laureato, a ventitrè anni, con la prospettiva diestinguere i miei obblighi nei confronti della patria nel giro di un anno emezzo se avessi scelto il militare (sei mesi di attesa al massimo prima dellachiamata) o di due anni e mezzo se avessi scelto il servizio civile (perl’arrivo della cartolina agli obiettori serve un anno in più).
Per chi deve cercare lavoro e ha bisogno di scrivere "militesente" sulcurriculum un anno non è poco. Alla fine però mi sono reso conto che inrealtà non avevo scelta: non avrei saputo fare diversamente. E ho consegnato ladomanda.
Sei mesi dopo mi è arrivato il riconoscimento. E’ il foglio con cui lo Statoacconsente alla tua richiesta di svolgere il servizio civile. Con quello in unamano e la lista degli enti convenzionati nell’altra ho cominciato a girare pertutta Roma. Ho concordato la chiamata con l’opera universitaria, dove avreiassistito studenti disabili, ma ho contattato quasi tutti gli enti. Ne hotrascurati solo quattro o cinque, quelli più lontani da casa. Un anno dopo miè arrivata la cartolina che mi destinava a uno di questi.

"Educazione alla diversità": nel libro inizialmente ti descriviin modo ironico, con valori, motivazioni. Poi, lungo il percorso, hai cominciatoad incontrare il diverso, che era diverso anche da quanto ti aspettavi.

Anzitutto l’educazione alla diversità non è patrimonio di una minoranza: èuna cosa che hanno tutti. Infatti tutti hanno rapporti con la diversità (ciòche è altro da noi) e vi si confrontano secondo le linee proposte da un propriomodello (ostilità, curiosità, paura, attrazione…). Queste linee vengonomaturate elaborando le proprie esperienze, ovvero educando se stessi. Teniamopresente però che l’educazione alla diversità, come tutte le educazioni delresto, non si completa mai. Il nostro modello di riferimento nel rapporto conl’altro può – e deve – essere variato in continuazione. Questo perchè vivereè sinonimo di divenire: se restiamo identici a noi stessi, se i nostri modellinon cambiano, noi restiamo immobili. E l’immobilità è quanto di più lontanodalla vita. Quindi siamo oggetto di una continua educazione alla diversità peril semplice atto di campare.
Ovviamente vi sono educazioni più o meno proficue.

"Più leggero non basta"; mi sembra si riferisca, oltre che alleparole di Elena nel libro, a quella condizione, tipica dell’obiezione, in cui siè comandati a "prestare aiuto", essere disponibili. Nel tuo libroracconti di un percorso che ti ha portato da un primo momento in cui viveviquesto paradosso fino ad una situazione di grande coinvolgimento.

La voglia di vivere, direi. Ma mi spiego meglio. Essere oggetto di un obbligo,di un comando, non è che una delle situazioni di necessità della vita. Questesi susseguono, e in realtà sono la condizione più diffusa: spesso si odia ilproprio lavoro, bisogna fare la spesa, pulire la casa, eccetera. Necessità,obblighi. Possiamo decidere di assolverli abdicando a noi stessi, annullandocicome persone, cercando di non viverli. Oppure possiamo viverli intensamente,fino in fondo, come le cose che invece abbiamo scelto, sperando che quel poco dibuono che ne può saltar fuori compensi quanto di cattivo c’è nella necessità.Io sono stato fortunato.

Essere raccontati da un occhio esterno è uno degli arricchimenti datadalla presenza di un obiettore. Quali impressioni hai ricavato del mondo deiservizi per gli handicappati?

La stessa che si ricava dall’incontro con tutto ciò che risponde alla dicitura"mondo del…"; un universo tendenzialmente chiuso, che come taletende a vivere all’interno di se stesso autoalimentandosi: talvolta chi ci stadentro dimentica che sta lavorando per chi sta fuori (gli handicappati stessi) ecomincia a lavorare per raggiungere questa o quella posizione. Il che portaspesso a un grande spreco di risorse. Eppure c’è tanta gente in gamba…

Qual è stato il tuo rapporto con gli educatori?

Educatori, ne ho frequentati pochi. E quelli che ho conosciuto mi hanno datol’impressione di lavorare nei pompieri, non per qualche ente. Gente costretta afronteggiare solo emergenze, lavorando in condizioni di difficoltàinverosimili. La routine? Mai sentita nominare.

Quali sono le differenze tra gli ambiti e le competenze degli obiettori equelle degli educatori, ovvero, quale può essere l’impiego di un obiettore,quali le cose che è giusto che venga chiamato a fare e quali invece gli ambitiper cui è richiesta l’opera di un professionista come l’educatore?

La legge, saprai meglio di me, impone che l’obiettore non sostituisca nessunoche potrebbe essere pagato per il lavoro che fa. Per quello che ne so, questa èl’unica regola. Sistematicamente ignorata.

Quali sono state le motivazioni che ti hanno portato a scrivere di questaesperienza?

La gran voglia di raccontare quello che vivevo, le conquiste quotidiane. Soloche la realtà, raccontata allo stato puro, non ha senso quasi mai. Per scrivereil mio processo di crescita durante il servizio civile ho spesso dovutoreinventare ciò che mi succedeva, in modo che il "senso" che ne avevospremuto risultasse in maniera evidente da quello che raccontavo. Il libro,infatti, come tutto ciò che non è puramente giornalistico, è in gran parteuna rielaborazione della realtà.

La ritieni un’esigenza nata da una esperienza che "doveva"essere raccontata oppure è stata l’occasione per scoprirti scrittore?

Mi piacerebbe molto poter rispondere "sì, mi sono scopertoscrittore". In realtà gli scrittori sono bravi, molto più bravi di me. Iofaccio matematica, nella vita, e forse sono uno di quelli che non amano illavoro che fanno. Pazienza. E quindi, per necessità, ripiego sulla primaipotesi: un’esperienza che doveva essere scritta. Forse da un vero e proprioscrittore. Giudica tu.

Perché lo fai?

Si ha sempre l’idea che un operatore sociale faccia un lavoro che è"impagabile", che le ricompense vengano da "un’altra parte",un altrove non bene identificato, personale, per ciascuno diverso. La fede,"il paradiso", la stima di sé, lavorare per il bene comune, per lasocietà, per gli "emarginati"…
Gli operatori lavorano, ma per chi e per quali ricompense lo fanno? Molte sonole rivendicazioni degli educatori. Una delle più pressanti è certo quella delsalario che, specie per chi lavora nelle cooperative sociali, è assai basso. Maappiattire le rivendicazioni alla retribuzione è sicuramente un errore:chiudersi la bocca con uno stipendio più lauto non è certo l’aspirazione dellamaggioranza degli operatori. Il nostro è un lavoro, una professione.
Di fronte alle condizioni difficili in cui si opera a volte la scelta è quelladi cambiare lavoro, altre di lanciarsi in discorsi che si concludono con frasigià sentite o con un generico "ci vorrebbe". Pochi protestanoapertamente, scendono in piazza, fanno sentire la loro voce; gli scioperiindetti hanno riscosso scarse adesioni (con alcune lodevoli eccezioni) ed ilpiù delle volte più che proteste erano momenti di festa, anche se orientataverso la provocazione. Tutto molto lontano dalla rappresentazione"classica" della protesta per le condizioni di lavoro.
Evidentemente lo scontro o richiamare le attenzioni sulle proprie condizioni dilavoro attraverso i cortei e gli scioperi vengono ritenuti strumenti poco utili,poco adeguati. Oppure le condizioni di lavoro, precarie, difficili, vengonoconsiderate come inevitabili, dati di fatto legati al ruolo marginale che gli"utenti" hanno nella società.
Allora perché farlo, per chi? Si torna al punto di partenza.
Viene da pensare che nel lavoro di operatore sociale ci siano elementi che lorendono un lavoro "speciale" o comunque diverso da molti altri lavoriche vedono, ad esempio, la lotta sociale come momento costruttivo, di confronto.
Evidentemente nell’essere operatori le motivazioni giocano un ruolo nonsecondario: l’assunzione di un ruolo comporta delle responsabilità che fannoriferimento anche ad ambiti personali, della propria vita. Per questo èsignificativo proporre un’esperienza che è comune e particolare al tempostesso. Si tratta di una intervista ad un educatore che lavora all’interno diuna cooperativa sociale. Quest’ultima si è interrogata su quali requisitidovesse avere un buon educatore, affinché potesse lavorare con continuità inmodo adeguato. Una riflessione etica ed anche "economica"; o forse èmeglio definirla "ecologica".

Intervista a Giulio Vaccari (educatore della cooperativa "L’Ulivo")

All’interno della vostra cooperativa attraverso quali criteri scegliete glioperatori? Parole come "motivazione" e "professionalità"come vengono coniugate in un educatore?
La prima discussione all’interno della cooperativa è stata di tipo quantitativoe qualitativo: quante e quali risorse si possono utilizzare per la ricerca dieducatori? Era meglio privilegiare le persone con una forte motivazione, maanche con un bisogno di formazione, per lavorare nei servizi oppure erano daricercare figure che presentassero già una determinata esperienza,professionisti, senza entrare nel merito della motivazione?
Questo ci ha portato ad interrogarci sul nostro lavoro, sul nostro ruolo: se illavoro che noi facciamo è solo una professione in senso stretto e quindi se inrealtà la funzione educativa che noi interpretiamo si riduce ad una mansione,in un determinato tempo, in un determinato luogo. Oppure se l’aspettofondamentale è essere "motivati" ad assumere un certo ruolo in questasocietà.
Chi sostiene la tesi del "professionismo ad oltranza", chiamiamolocosì, è convinto della necessità di un distacco e della necessità di averedeterminati strumenti, utili anche per preservare gli operatori da un certo tipodi stress, dal "burn-out". E’ vero che maggiori capacitàprofessionali garantiscono una maggiore "resistenza" all’interno deiservizi ma non è detto che sia qualitativamente adeguata: la relazioneeducativa comporta dei rischi (che toccano anche altre professioni del sociale),come ad esempio perdere il senso del lavoro che si sta facendo, finendoall’interno di un "tecnicismo burocratico". D’altro canto spingendotroppo sulla motivazione si corre il rischio di dare tutto per scontato, cadendoin un certo tipo di spontaneismo che finisce con il dare per scontati glistrumenti.
Sono un sostenitore della motivazione, e quindi un po’ di parte. In cooperativanon è stata fatta una scelta chiara e precisa in un senso piuttosto che in unaltro, si preferisce però di solito correre il rischio sul versantemotivazionale. In questo modo si vede anche la differenza culturale dellepersone, una differenza che sta proprio nel concepire la base della professione,che nasce, secondo me, dalle diverse impostazioni della persona umana.

Quindi non è solo una questione di un "saper fare" o di averedeterminati strumenti, perché nel contesto ha un ruolo importante la personastessa che entra all’interno della relazione con la sua visione della vita, lasua storia e la sua esistenza.
La relazione educativa è soprattutto intenzione, per questo spingo soprattuttoper l’importanza della motivazione nella scelta degli educatori: laprofessionalità, gli strumenti e la definizione di un ruolo, sono elementiimportanti, però in realtà il contenuto della relazione derivadall’intenzionalità del soggetto che usa gli elementi a sua disposizione comemeglio crede.

Molti operatori sociali si lamentano delle proprie condizioni di lavoro.Però, rispetto al malessere che viene generalmente espresso, sono poche leoccasioni di sciopero o comunque di espressione pubblica di disagio. Perché?
L’errore che si fa adesso è quello di analizzare il nostro lavoro con lecategorie con cui sono state portate avanti altre battaglie per altri tipi dilavoro nel passato. Vedo che anche nella mia cooperativa si fa fatica a spiegareagli operatori che questo lavoro non lo si rende "nobile" attraversole stesse rivendicazioni che vengono fatte da altre categorie di lavoratori. Nelsettore industriale è facile definire il compito, la mansione, il tempo e diconseguenza il valore sociale, il salario, ecc…
Per questo tipo di lavoro secondo me la rivendicazione va fatta su altre cose.Sono convinto che "l’economia del dono" sia una parte importante dellanostra professionalità, perché effettivamente la relazione educativa non ètutta monetizzabile: una parte va sicuramente retribuita, altrimenti siperderebbero le caratteristiche del lavoro, ma il percepimento di un salarioadeguato, che è uno strumento tipico delle rivendicazioni salariali nel mondoindustriale a cui vengono legate istanze di "riconoscimento sociale"della professione, non è efficace perché non garantisce il riconoscimento dellavoro in sé, ma garantisce solo una piccola parte dell’effettiva portata deiproblemi.

Può spiegare meglio la definizione di "economia del dono"?
E’ sempre legata al discorso della motivazione. Quando uno si avvicina a questotipo di lavoro (ci si può avvicinare anche per caso, ma poi si decide dirimanerci) da qualsiasi tipo di approccio culturale egli provenga, secondo mealla fine fa questo tipo di lavoro perché pensa di poter fare qualcosa per glialtri, e vi riesce solo se entra in un legame in empatia con le persone con cuilavora, una relazione intima con "l’altro".

Quindi per l’operatore il ritorno non è solo nei termini economici dellaretribuzione, ma anche nel suo bisogno di essere utile per qualcuno che nellavoro trova un appagamento.
E’ un appagamento di tipo umano, legato alla propria visione della vita, allapropria specificità e questo fa parte della retribuzione, ma all’interno deicanoni usuali non è compreso. E’ un ritorno in termini di "economia deldono": non è quantificabile né identificabile con lo stipendio.

Se Superman è il simbolo del volontario, quale ritiene sia il personaggiocon cui si identificano gli educatori?
L’Uomo di gomma dei Fantastici Quattro: innanzitutto perché è uno scienziato,quindi sottolinea l’importanza degli strumenti, del metodo scientifico comestrumento per fare il nostro lavoro. Poi è un personaggio che non lavora dasolo, collabora con altri colleghi, un’equipe, appunto i Fantastici Quattro.C’è il discorso dell’elasticità, del sapersi adattare alle varie situazioni ebisogni che incontra, senza trascurare la possibilità che ha di cambiare formae identità pur restando sempre se stesso, a seconda dei diversi contesti. E’una capacità importante questa per un operatore.

Le Usl sono state trasformate in "aziende" gestite da manager.All’interno di questo nuovo modo di intendere i servizi come si modifica lafunzione dell’operatore. E’ un operaio, un impiegato, un artigiano o cosa?
In questo caso il discorso è un po’ complesso, nel senso che se l’operatorerimane solo, non vedo un grande avvenire per lui… Nel Welfare State deimanager una figura come la nostra ha poco futuro, poco peso sociale. Vedo meglioun ruolo come "associato", un operatore "imprenditore" di sestesso, insieme ad altri, in una forma che potrebbe essere quella cooperativa.
In questo modo può assumere un ruolo propositivo, di indirizzo verso lo Statovisto che questo ha perso la capacità di pensare ed elaborare delle risposteefficaci. Le persone che lavorano alla base hanno la responsabilità di farlo,visto anche che non ci sarà mai un riconoscimento di questo ruolo che partadall’esterno. Comunque va sottolineato che l’utilizzo della forma cooperativasottintende una ripresa dei concetti alla base della cooperazione: molti oralavorano in apparati che della cooperazione non hanno più nulla, mentre inveceoccorrono forme di lavoro collaborativo.

Considerazioni finali

Se l’intenzionalità caratterizza l’agire degli operatori ciò deve esserevero sia quando questi sono a contatto con gli "utenti" sia quando ilcontatto è con i committenti del nostro lavoro. Ma chi sono costoro? Ireferenti delle cooperative o associazioni, i responsabili AUsl o delleistituzioni per cui lavoriamo, i genitori, gli utenti stessi. Ma a questi èbene che se ne aggiungano altri, in primo luogo noi stessi. Non possiamoprestare lavoro in un servizio che non vede anche noi stessi come committentidel nostro lavoro, altrimenti diventiamo meri esecutori di mansioni che pocohanno a che vedere con l’agire degli operatori che è caratterizzatodall’intenzionalità.
Con questo non ci si riferisce alle fatiche che, più o meno grandi, sononaturali in qualunque lavoro, ma al versante più istituzionale del nostrolavoro, che spesso viene sottovalutato perché ritenuto impermeabile alleesigenze del servizio ("non lo sa nessuno cosa si prova"). In realtàil versante istituzionale è fondamentale nel determinare le condizioni dilavoro ed anche questo versante deve essere coinvolto e responsabilizzatorispetto alle conseguenze delle proprie scelte.
Un buon livello di soddisfazione del "committente interno" ovvero noistessi, è il segnale che agiamo con intenzionalità, da operatori. Soddisfareanche i nostri bisogni all’interno dell’ambito lavorativo non è egoismo, mapiuttosto fa parte dell’agire in modo professionale e responsabile,"ecologico". Le recriminazioni, che si levano da più parti, fannopensare che vi sia un numero molto grande di operatori non soddisfatti che simuovono solo per dare luogo ad una mansione anziché una professione: che siagiunta l’ora di farsi ascoltare? Se non ora, quando?

“Anche l’assistente di base è un educatore”

Lavorare per anni con uno stesso disabile che invecchia; la “strana” differenza tra l’educatore e l’assistente, l’importanza di una rete di servizi sociali. Intervista a Massimo Manferdini, educatore in un centro diurno di Bologna.

Domanda. Lavorare per anni con le stesse persone e trovarsi di fronte al problema che una persona, un utente, prima sa fare e poi non sa più fare; le abilità, le competenze che cambiano ma in negativo. Come vive questo aspetto un educatore, addetto invece al cambiamento in positivo?
Risposta. Questa è una domanda che si apre ad altri quesiti. Quando ci dobbiamo prendere cura di persone che non danno appigli comunicativi, quando il deficit è molto grave o ci ritroviamo di fronte a persone adulte, che hanno già parecchi anni, come muta la relazione pedagogica, come va strutturata, qual _ il senso e come lo inquadriamo dal punto di vista epistemologico? E’ ancora sensata la dimensione delle abilità, delle competenze e delle autonomie? Diventa un lavoro che ha a che fare con il versante di cura più materno, ma che materno non può essere per persone di 50 anni. E’ qualcosa che ha a che fare con un’alterità radicale che molte volte non siamo proprio in grado di sostenere. Sei portato a contatto con un piano di esistenza primordiale, che è vero che appartiene ad ognuno, ma che alcune volte diventa anche insostenibile, proprio dal punto vista della "presa in carico". Questo tipo di lavoro ci pone in una logica per cui si ha un contatto con una persona di questo tipo un paio di mattine la settimana per poi dedicare un certo tempo alla rielaborazione: in questo modo la cosa è sostenibile. Se invece la dimensione è quella della vita di tutti i giorni diviene insostenibile. La dimensione della rielaborazione, della ricerca, sono le uniche che ti possono permettere di fare questo lavoro per molti anni.

D. La degenerazione o il peggioramento delle competenze della persona disabile potrebbe essere semplicemente considerata come una evoluzione, una occasione di cambiamento…
R. Diciamo evoluzione. Che sia un peggioramento è certo. Ma tutti peggioriamo e tutti ci riadattiamo e non mi sembra che questo faccia eccezione per una persona handicappata. Se il peggioramento è più vistoso si faranno degli adattamenti più vistosi. Il problema è semmai per un educatore che si trova a dovere passare ancora altri anni con questa persona dopo averne magari già trascorsi dieci o dodici.

D. Spesso gli educatori si trovano davanti a utenti di 60 anni per cui il centro per gravi non va più bene e la domanda è: vale la pena di spendere la risorsa "educatore" per lavorare con una persona di quella età o è meglio utilizzare altre figure come ad esempio l’assistente di base?
R. Effettivamente c’è nei nostri servizi una curiosa consuetudine per cui quando gli handicappati diventano anziani non si sa più cosa sono, cioè non si riesce più ad identificare cosa sono perché si sovrappongono due problemi.
Preliminarmente dovrei dire che questa differenza tra educazione ed assistenza è una divisione sulla quale bisognerebbe ragionare, nel senso che non c’è giustificazione al dire che l’assistenza è di grado inferiore all’educazione anche perché bisognerebbe prima definire i vari campi: cosa è l’assistenza? Cos’è l’educazione? L’assistenza viene identificata con l’insieme di mansioni che sono relative, così come di solito si dice, alla cura della persona, alle autonomie di base, all’andare in bagno, lavarsi mangiare e così via. Questo però, con persone che hanno una vita di relazione legata solo a quei momenti, è a tutti gli effetti un livello educativo di relazione. Quindi non capisco perché l’educatore debba essere messo in antagonismo con l’assistente; semmai l’assistenza potrebbe essere una parte specifica, un tipo specifico di relazione dell’universo educativo, non però di grado inferiore. Eventualmente di grado superiore nel senso che tutto quello che riguarda la sfera intima del proprio corpo non credo che rappresenti un tipo di relazione più semplice, bensì più complesso, più delicato. L’altro luogo comune, simmetrico, è che più il deficit diventa grave e più è sufficiente che ci sia una persona che tutto sommato fa il "badante". Invece è proprio il contrario: più il deficit è grave e più è richiesta competenza. Ne segue quindi che la figura dell’assistente di base viene ad essere una specie di artificio non motivabile in termini pedagogici ed epistemologici, ma motivabile in termini di risparmio economico. L’assistente di base infatti viene ad essere sostanzialmente un educatore pagato di meno e che non ha responsabilità di progetto. Se fosse pagato di più sarebbe comprensibile vista la specializzazione in "assistenza", ma essendo pagato meno la distinzione a mio avviso non è più chiara.

D. Il livello di qualità dei servizi per persone handicappate ha creato forti attese rispetto ai bisogni legati all’handicap e alla terza età. Che giudizio dai della situazione attuale dei servizi?
R. Adesso tutti parlano di rete ma c’è una grande ambiguità di fondo: se la rete viene organizzata mantenendo i servizi solo come capacità di accoglienza non c’è rete in realtà ma c’è semplicemente un inventarsi i progetti sugli utenti che rimarranno sempre lì "fino a che morte non ci separi"; la discriminante invece dovrebbe essere l’offerta di prestazioni. In questo modo gli utenti possono cambiare: perché ad un certo punto può darsi che un utente non voglia più fare un tipo di attività oppure che questa non sia adatta a lui/lei. In questo senso anche il problema del lavorare per tanto tempo con gli stessi utenti subisce una certa modificazione proprio a partire da un cambiamento di logica di gestione dei servizi sociali.
Il più delle volte i servizi sociali non sono organizzati con una logica di rete: in questo modo i centri diurni e i vari servizi vengono a configurarsi come isolette o binari morti dove non c’è una prospettiva di percorso, diciamo di "progetto personalizzato".
Se si pensano i servizi sociali in termini di accoglienza, per cui ogni servizio si configura per la sua capacità di accogliere utenti, allora i servizi diventano più o meno piccole isole che tendono a saturarsi. Se si ragiona sul tipo di utenza con cui ci si trova a lavorare allora vengono ritagliati, inventati dei progetti facendo affidamento sulla creatività e la professionalità degli educatori, sulla loro capacità di non frustrarsi. L’altra prospettiva potrebbe vedere i servizi configurarsi per le prestazioni, per quello che offrono: ad esempio il tal centro giovanile si è specializzato sul cinema o sull’arte, un altro centro fa lavori di falegnameria, all’interno di un centro per anziani si è organizzata una attività connessa al ballo ecc. Allora chi ha compiti di gestione dei servizi si trova ad avere di fronte un menù, una mappa di opportunità con cui l’equipe – che dovrebbe esserci – può organizzare un progetto individualizzato inventandosi degli itinerari flessibili.
In questo modo non avremmo più strutture dove per quindici anni ci sono gli stessi utenti; in questo modo la vita degli utenti assomiglierà maggiormente a quella di tutte le persone che passano da una istituzione all’altra, senza essere assorbite da un unico luogo per sette od otto ore al giorno.

Educatori, santi e levrieri

Essere educatori è un lavoro difficile, faticoso. Certo non è l’unico ma rispetto ad altri presenta una particolarità che a prima vista può sembrare un vantaggio: chi conosce poco e nulla degli educatori ama rappresentarsi questa attività come un lavoro di pura dedizione e sacrificio, di sofferenza, silenzio e comprensione. “Bisogna proprio esserci portati” alzi la mano chi non se lo è mai sentito dire, assieme al corollario “Io non ce la farei”. Si è scambiati per missionari o idealisti, si ottiene all’istante una patente di “bontà e purezza” spendibile anche in altri settori.

Questo ha certo qualche lato utile, ma alla fine ci si ritrova racchiusi in uno stereotipo, santificati e quindi considerati "pronti al sacrificio".
Non sono solo gli educatori ad essere scambiati per santi. Jean Claude Schmitt ha ricostruito la storia di San Guinefort. La storia è quasi incredibile. Siamo nel dodicesimo secolo, all’interno di un "castrum" signorile. Un cane salva un bambino ancora in fasce che mentre dorme nella culla viene assalito da un serpente. All’arrivo del padrone, un nobile cavaliere, il cane viene scambiato per l’assalitore e ucciso all’istante a colpi di spada. Più tardi viene scoperto il corpo del serpente ed il padrone, colto da rimorso, seppellisce il cane con grandi onori.
Il luogo della sepoltura diviene in seguito luogo di guarigione per i bambini "scambiati", ammalati di malattie sconosciute, diversi dalla nascita. Questi venivano sottoposti ad alcune prove, quali l’immersione nell’acqua gelida del fiume o il "lancio" attraverso gli alberi. Si pensava infatti che quei bambini fossero stati "scambiati" da demoni maligni: se sopravvivevano venivano riconosciuti come i bambini reali, se morivano invece significava che i demoni se li erano ripresi. Alla leggenda, con il passare degli anni, si sostituì mano a mano il culto di San Guinefort, santo, martire, guaritore di bambini. Sette secoli dopo troviamo il cane rappresentato sotto sembianze umane e venerato come santo.
Il tema dei bambini scambiati, "changelins" è interessante. E’ facile riconoscere nei bambini scambiati dei bambini handicappati. E’ una figura che si presenta spesso anche nelle fiabe e che ci fa supporre che, durante il medioevo, il trattamento riservato ai bambini handicappati non fosse molto "tenero".
San Guinefort potremmo allora con un po’ di fantasia pensarlo come un educatore del medioevo: a lui ci si rivolgeva, un po’ come accade oggi, per la "diagnosi" del bambino e al tempo stesso per la "cura" che poteva solo avere esiti fausti o infausti, senza mediazioni.
Il mio parere è che le cose da allora siano cambiate di molto. Certamente ci si prende cura dei bambini handicappati in modo assai diverso, molto più civile e rispettoso. Ma allora come oggi c’è l’idea che solo santi-educatori possano e debbano pensare al problema. Uno dei modi per affrontarlo è "girare il mondo" alla ricerca di una magia miracolosa. Ai santi-educatori si chiede di far guarire…
Non è solo agli educatori che ci si rivolge, anzi di solito questo avviene solo dopo diversi tentativi. Si parte dai medici, ricercatori, psicologi, psichiatri, istituti, guaritori, persone che assicurano di avere trovato il metodo rivoluzionario che va bene per tutti. Gli educatori arrivano dopo e sono più spesso legati alle funzioni di custodia, di vita quotidiana, di apprendimento, magari scolastico. Vengono chiesti risultati valutabili, visibili, tangibili, per arrivare poi a dire di lui: "E’ così bravo… ha una gran pazienza… non so come faccia… si vede che c’è portato!".

Quando l’educatore si trasforma in assistente di base

Questo modello funziona bene con i bambini, quando la crescita e le aspettative di cambiamento che gli sono connesse vengono soddisfatte. Le competenze così sono riconoscibili, si riesce a capire quale è il lavoro che l’educatore svolge: aiuta il cambiamento. Ma poi, quando l’età adulta o la gravità nascondono i cambiamenti – che comunque ci sono – oppure con il sopraggiungere della vecchiaia l’educatore perde di significato. Si trasforma e nell’immaginario diventa "l’assistente" che pulisce a dà da mangiare. Il legame con la quotidianità resta, ma le mansioni riconosciute si riducono.
Da santi martiri che combattono per strappare un individuo a quell’oscura malattia a cui corrisponde il deficit si diventa addetti alla sussistenza fisica, annoiati esecutori di un lavoro che è pura manualità. Credo che anche dal tono delle mie parole si capisca che io non condivido – so di non essere il solo – questa lettura del problema che però non è propria solo dei "non addetti ai lavori". Mi sembra invece con profonde radici nella nostra cultura, quindi anche in quella degli stessi educatori.
La divisione delle competenze, ad esempio educatore-assistente di base; insegnante di classe-insegnante di sostegno-educatore ecc. è per molti un elemento indiscutibile, tanto da essere riconosciuto a livello legislativo. La persona diventa utente ed è sottoposto ad una serie di "trattamenti" da diverse persone: le competenze si separano. L’importante è il "trattamento", poca invece l’attenzione al progetto e alla sintonia tra i vari interventi. Quando poi l’utente è anziano o con un deficit grave l’attenzione è ancora più mirata sui "trattamenti", come ad esempio può accadere in alcune case di riposo, dove la persona vive perfettamente servita, pulita e riverita, avendo però attorno il deserto di relazioni umane. Si finisce cioè con lo spostare l’attenzione tutta sul fare, perdendo di vista la responsabilità verso l’individuo.

Responsabili per il contingente e per il progetto

Il lavoro in questo tipo di servizi è molto faticoso e difficile da sostenere per molto tempo. C’è il problema del ricambio frequente del personale, dei turni, del passaggio delle consegne, della fatica e "restare sensibili" in situazioni così difficili. La mia ipotesi è che la lettura del lavoro sociale "alla Guinefort" origini poi sia organizzazioni di questo tipo che i conseguenti problemi a viverle ed a lavorarci all’interno.
"Con ogni bambino che viene partorito, l’umanità ricomincia il suo cammino sotto il segno della mortalità; e in tal senso è in gioco qui anche la responsabilità per la sopravvivenza dell’umanità (…). All’insegna di quella responsabilità (di chi lo ha generato, nda) (…) sussisteva sì (supponiamo) il dovere di generare un bambino, ma non il è proprio a questo, nella sua unicità assolutamente contingente che si rivolge adesso la responsabilità" (Hans Jonas, 1994, p. 167).
Hans Jonas suggerisce il paradigma del lattante per comprendere la responsabilità: accudire, allevare un lattante comporta delle responsabilità che partono da un dover essere immediato, contingente. Il lattante ha bisogno di cure, da effettuare nel momento in cui sono richieste, che non possono attendere (la delibera, la malattia, le ferie, la finanziaria ecc.), altrimenti muore. La responsabilità del genitore è su due piani che tiene presente comunque: il piano del dover essere presente in quel momento e con quel bambino, suo figlio, condizione necessaria (ma non sufficiente) alla realizzazione del secondo piano, la crescita di un individuo adulto autonomo.
Per ottenere questo la presenza di "santi educatori" è poco utile, necessitano piuttosto tante, piccole e grandi, quotidiane e costanti assunzioni di responsabilità. Una presa in carico… col cuore che però non si deve limitare a fare le cose che sono migliori per il proprio "utente" rispetto al quotidiano. Questo è solo un piano dell’esempio, quello legato all’essere, al contingente. Oltre a quello c’è il piano del progetto. E’ un piano che riguarda entrambi, educatori e utenti. Facciamo un esempio: continuare a lavorare nelle condizioni precarie in cui tante volte ci troviamo costretti, subirle silenziosamente perché "tanto non cambia niente" mi sembra sia anche un segnale di poca responsabilità verso i propri "lattanti" costretti a vivere assistiti da "santi" ed insieme a loro relegati fuori dalla società vera, relegati al ruolo quasi di "icone", senza spessore e senza l’identità di persone.

Bibliografia

– Francoise Dolto, "Le parole dei bambini", Mondadori, Milano, 1988
– Hans Jonas, "Il principio di responsabilità", Einaudi, Torino, 1994
– Jean Claude Schmitt, "Il santo levriero", Einaudi, Torino, 1982