Dice la favola: “E la regina mentre stava ricamando si punse un dito e una goccia di sangue bagnò il bianco lenzuolo. Allora la regina pensò: oh come vorrei avere una bambina con le labbra rosse come il sangue, la pelle bianca come la neve, i capelli neri come l’ebano”.
Sono proprio le fiabe a raccontarci così bene come un bambino nasce prima nei pensieri, poi nel cuore e infine nella pancia.
I desideri, i sogni, le paure e le preoccupazioni formano un’immagine interiore forte e radicata, anche se nascosta e spesso non detta che accompagna tutto il percorso fino alla nascita di un bambino/a.
È il “bambino della notte” che è ospite nei pensieri paterni e materni, ed è con questa immagine formata, costruita, sperata, che ogni bambino quando nasce o come si dice, quasi in contrapposizione, viene alla luce, fa in un certo modo i conti.
Le prime comunicazioni che alimentano la vita mentale e fisica sono presenti in questo periodo dell’attesa, oltre le parole possibili, attesa che accompagna il passare dei giorni e crea lo sfondo per il primo incontro tra il bambino e il mondo che lo accoglierà.
È in quel tempo che il genitore prepara il venire al mondo del proprio figlio tra aspettative e titubanze, tra la curiosità di sapere “come sarà”.
Il centro emotivo della casa si sposta: “Un bambino nasce e noi diventiamo padri e madri. Questo avvenimento è diverso da tutti gli altri perché è veramente irreversibile, senza possibilità di ritorno.
Possiamo cessare di essere marito e moglie ma resteremo sempre genitori”, scrive la psicoanalista Silvia Vegetti Finzi nel libro Il romanzo della famiglia.
Nella nostra società il venire al mondo è accompagnato da un carico di promesse di felicità, spesso enfatizzato, spesso anche esasperato da una difficoltà diffusa crescente e generalizzata a confrontarsi con i termini reali del vivere; vivere è sempre affrontare questa mescolanza di aspetti, attivi e passivi, pulsioni vitali e momenti di sofferenza e difficoltà. È come dire a un nuovo essere: ti aspetta un futuro solo di cose felici quando noi sappiamo che invece ci sarà un alternarsi di momenti di felicità e di disagio.
Quando la nascita però è segnata da un tratto diverso, come la presenza di deficit oppure da elementi di sofferenza evidente o anche di incertezza (situazioni non chiare, confuse, ma che comunque indicano qualcosa che non va), questo messaggio simbolico e culturale cambia dolorosamente di segno e ci si trova davanti alla prefigurazione di un futuro solo difficile. L’immagine del bambino “immaginato” e l’immagine concreta si divaricano e la distanza può diventare davvero pericolosa se i genitori non sono aiutati a vedere oltre il dato fisico, a dare parole al proprio dolore, ad aprirsi alla comunicazione possibile.
Perché è bisogno primario di ogni bambino di essere visto, raccontato, accolto in senso ampio come bambino tutto intero, come persona da subito piena di caratteristiche e modi propri. Ogni bambino, tutti i bambini, in un modo o nell’altro si sottraggono alle tabelle di marcia o alle attese precostituite. Si impongono nel mondo come una presenza nuova e imprevista.
Uno psicologo inglese, il dottor Laing, ha scritto: “Ogni bimbo è un essere nuovo, un profeta potenziale, un nuovo Principe dello spirito, una nuova favilla di luce caduta nelle tenebre esteriori. Chi siamo noi per poter decidere che per lui non ci sono speranze?”.
E ancora Silvia Vegetti Finzi: “Ciascuno nasce già inserito in un sogno altrui, già parlato da altri discorsi. Il nome proprio, ad esempio, esprime le fantasie, i desideri, le ansie, le speranze della famiglia. È la prima eredità che riceviamo dalla società e non è sempre facile accettarla”.
Per un bambino che ha anche dei deficit questo bisogno è ancora più forte; la ricerca di una sua identità personale vera si situa in un percorso che corre fra due gravi rischi: la negazione della sua situazione (“non ha niente, è uguale agli altri”), oppure all’opposto l’assimilazione totale con la sua condizione di deficit, malattia, difficoltà ( rimane “il bambino è il suo deficit, diventa tutto deficit”).
La strada principale per restituire a questi bambini il senso del loro posto nel mondo è quella di contribuire a costruire un’immagine di identità capace di tenere insieme il presente e il possibile, ciò che si vede e ciò che si intuisce, ciò che è definito (e anche definitivo) e ciò che è potenziale.
Claudio Imprudente, del Centro Documentazione Handicap di Bologna ha una tetraparesi spastica che gli impedisce totalmente di camminare o correre, ma non di spostarsi; che gli impedisce totalmente di parlare ma non di comunicare, perché utilizza una lavagnetta trasparente sulla quale sono incollate le lettere dell’alfabeto e attraverso questa lavagnetta Claudio Imprudente ogni giorno incontra persone, lavora nelle scuole e con i bambini, comunica col mondo.
Ancora oggi Claudio Imprudente fa riferimento alla prima informazione reale che la sua famiglia ha avuto di lui, quindi anche la prima immagine data dalla società che si è incontrata/scontrata con il “bambino della notte” e si presenta ai convegni così: “Salve sono un geranio!”, spiegando poi: “Mi presento così facendo memoria di ciò che era stato detto a mia madre al momento della mia nascita dal famoso luminare di turno ‘Signora guardi, suo figlio è vivo ma resterà per sempre un vegetale’ e come vegetale allora ho scelto di essere un geranio”.
Della famiglia di Claudio Imprudente e in particolar modo della sua mamma mi ha sempre colpito la capacità di non fermarsi solo a quello che si vedeva e che si vede, e che è così forte: sua madre non ha mai rinunciato per lui a possibilità future e a capire, anche nel dolore e nella fatica, che c’era un bambino da accogliere, per cui valeva comunque la pena di fare dei pensieri pieni di futuro, anche se in quel momento sembrava più facile negargli questo futuro, soprattutto di fronte alla frase “Suo figlio è vivo ma resterà per sempre un vegetale”.
Il primo importante compito che la scuola dell’infanzia ha nell’incontro con il bambino o la bambina che ha anche dei deficit, che arriva prima nella scuola e poi nella singola sezione, è anche quello di accogliere un bambino nella sua interezza e contribuire a restituirgli un’immagine non monodimensionale ma pluridimensionale.
Scrive Andrea Canevaro, uno degli studiosi che più ha contribuito all’integrazione scolastica, lavorativa e sociale dei bambini e degli adulti con deficit: “Un bambino o una bambina disabile ha bisogno di essere riconosciuto per quello che è, accettando il deficit come un dato irreversibile e che va conosciuto, approfondito il più possibile. Ha bisogno di ridurre le sue difficoltà, trovando le risorse in sé, negli altri, nell’ambiente in cui vive, nei coetanei con cui ha amicizia, gioca, studia. È prima di tutto un bambino o una bambina”.
Nello stesso libro che si intitola Quel bambino là… Scuola dell’infanzia, handicap e integrazione si trova la testimonianza di un insegnante delle Scuole dell’Infanzia del Comune di Ravenna: “Ho conosciuto Dario quando si è presentato insieme ai suoi genitori per il colloquio iniziale al momento del suo inserimento a scuola. Con Sonia, la collega della sezione ho vissuto i tanti dubbi e i pensieri che ci premevano. Primo fra tutti il rapporto con l’insegnante di sostegno: è già faticoso andare d’accordo in due figurarsi in tre, e poi saremmo state in grado di gestire la situazione, ce l’avremmo fatta? Alla fine del percorso posso dire che ho imparato che Dario è un bambino, un bambino Down per mappa cromosomica, ma un bambino. È stato questo scoprirlo bambino, con il suo ritardo psicomotorio, con le sue paure ad affrontare le esperienze, con la sua difficoltà ad organizzare gli apprendimenti ma anche con il suo abbandonarsi fiducioso a chi gli si avvicinava con calore che mi ha aperto gli occhi: c’era Dario nella nostra sezione, non la sindrome di Down.”
Allora questo è il riconoscimento: stiamo incontrando un bambino, una bambina; sembra una situazione scontata, ma non lo è affatto in presenza di deficit e se non si dà per scontato questo riconoscimento, scopriremo che è il presupposto fondamentale per una buona comunicazione e risponderà anche a tutti i nostri dubbi, le nostre fatiche, le nostre domande: faccio bene, faccio male a fare così? Ma questo bambino lo posso toccare? Vorrà farsi coccolare? Mi capirà se parlo? ecc.
Senza negare il deficit possiamo riconoscere e scoprire l’essere bambini nonostante il deficit.
Crediamo e sentiamo di avere bisogno di indicazioni molto tecniche, specialistiche, “speciali” per metterci in relazione con i bambini che hanno anche dei deficit.
Ma quali sono i motivi di questo bisogno così forte di rassicurazione e indicazione? Perché questo bisogno è così forte, al punto che manda in crisi tutte le nostre competenze, le nostre conoscenze abituali, proprio quelle che utilizziamo tutti i giorni nel nostro lavoro e che fanno parte del nostro bagaglio professionale, della nostra professionalità e da cui attingiamo spontaneamente in situazioni “normali”?
Perché facciamo così fatica tutti noi, genitori e insegnanti, tecnici e persone in generale, a porci nei confronti di chi ha un deficit con un atteggiamento educativo che riconosca la possibilità di essere prima di tutto bambini, adolescenti, adulti e poi anche anziani?
Lo psicologo genovese Carlo Lepri, che lavora da anni sull’inserimento lavorativo delle persone adulte disabili, si chiede: “Qual è il motivo vero che ci rende così maldestri? Lo dico partendo da me stesso, perché sono sentimenti ed emozioni che nonostante 25 anni di esperienza io ritrovo ancora nel mio cuore. Come mai facciamo così fatica a essere tranquilli nei rapporti con una persona disabile? Perché diventiamo tutti un po’ maldestri, non siamo più spontanei come normalmente si è nel momento in cui si incontra una persona “normale”? Io credo che questo sia uno dei temi che porta al centro di una complessità psicologica veramente importante.
Questa fatica, questa ‘maldestrezza’ relazionale, che ci coglie nel momento in cui ci confrontiamo con qualcuno che non è conforme, che non è normale, che non rispecchia la nostra normalità, è un’esperienza che bisogna riconoscere per potere gestire”.
Questo è un passaggio importante per tutti noi: riconoscere i nostri stati d’animo significa poterli gestire, non esserne troppo spaventati e quindi poter cominciare a ragionare del perché li viviamo.
Facciamo fatica perché il rapporto con la diversità rimanda e fa scattare dentro di noi una serie di rappresentazioni mentali che sono proprio dentro di noi, profondamente dentro di noi: sono immagini interne ma che hanno anche un risvolto di immagine sociale altrettanto forte.
Faccio un esempio che ci può aiutare a capire e quindi a riconoscere questa maldestrezza, questi timori e paure, a volte rifiuto, che investono tutta la nostra persona, la nostra comunicazione verbale e non verbale, che “agiscono”, anche contro la nostra intenzione, nelle nostre azioni e nei nostri atteggiamenti.
L’esempio riguarda la rappresentazione che “vede” il bambino disabile come “malato”.
Questa rappresentazione è il risultato di un approccio medico, pseudo-scientifico che considera la disabilità come una malattia.
È una rappresentazione che consente una costruzione parziale dell’identità perché se una persona è malata non può confrontarsi pienamente con i ruoli sociali della vita quotidiana.
Infatti ci sono moltissimi disabili che sono in cura perenne, sono in continua riabilitazione: fisioterapia, ippoterapia, musicoterapia, iniziano dalla primissima infanzia e non finiscono più.
Perché se una persona “normale” “va a cavallo”, va solo a cavallo, ma se lo fa una persona “disabile” fa “ippoterapia”, e se io vado in palestra faccio “ginnastica”, ma se lo fa una persona disabile fa la “fisioterapia”?
Allora cosa c’è dietro a questo tipo di atteggiamenti, che ci portano verso la costruzione di una identità di una persona che è sempre in riparazione, che è sempre malata, che deve continuamente fare delle cose per poter stare meglio?
Questa rappresentazione amplifica i meccanismi normali di cura e protezione che noi abbiamo nei confronti di tutti i bambini e però fa sì che per i bambini anche con deficit scattino meccanismi di iperprotezione che spesso durano ben al di là dell’età infantile. Quindi una rappresentazione di un bambino sempre da curare, assistere e proteggere. Che quindi corre il rischio di veder ridotte le proprie possibilità di fare esperienze e intrecciare relazioni in maniera anche casuale, non finalizzate a qualcosa, riconosciute come terapeutiche o di apprendimento, ma semplicemente come vivere anche casualmente le occasioni della vita. Pensiamo a quanto è stato importante il Ruolo della Casualità nella formazione della nostra identità.
Questa rappresentazione, così forte e che corre attraverso gli anni, attraverso le epoche temporali, ha una profonda influenza sui nostri pensieri e sulle nostre emozioni e ci limita nell’immaginare quei bambini là come bambini con un futuro possibile diverso che non sia quello del deficit e della malattia, quindi in cura continua.
Riflette ancora Carlo Lepri: “Se uno è pensato come un bambino e se è rappresentato come un bambino malato, da proteggere difficilmente potrà diventare ‘grande’.
Alla lunga farà il bambino, cioè si adatterà a questa rappresentazione, a questo ruolo che in qualche misura gli altri pensano vada bene per lui. Allora i bambini e le bambine disabili non diventano grandi o fanno fatica a diventare grandi non perché non sono intelligenti o perché hanno difficoltà specifica o di settore, ma perché non sono immaginati dagli altri, da tutti noi, come possibili adulti. Perché non abbiamo dentro la testa questa possibilità, questo immaginario verso l’adultità. La costruzione dell’identità adulta comincia da quando uno è piccolo e comincia dalla capacità di immaginarlo che hanno gli educatori, in senso molto ampio, i genitori, il gruppo familiare, e tutti gli educatori che una persona incontra nella sua vita, gli insegnanti.
Alla capacità che tutte queste persone hanno di immaginare la persona disabile come persona che può diventare adulta, e di lavorare per questo, mi verrebbe da dire usando una bella immagine giapponese: ‘vedendo la foresta prima ancora che ci siano gli alberi’. E questo se ci pensiamo è quello che è accaduto a ciascuno di noi.
I nostri genitori hanno sognato la nostra crescita, il nostro diventare grandi. Quando un genitore chiede al proprio figlio ‘Cosa vuoi fare da grande’ che cosa gli sta dicendo? Gli sta dicendo ‘Io penso che tu puoi diventare grande, che puoi diventare adulto, che puoi avere un ruolo sociale’. Cioè apre un credito, apre una fiducia. Questa è una cosa che facciamo per i bambini normali, perché non lo facciamo con la stessa naturalezza per i bambini disabili?”.
Si apre un credito dunque, si dà fiducia e questo ci fa capire molto bene i bisogni primari che hanno tutti i bambini e le bambine, soprattutto in un contesto educativo e scolastico come la scuola dell’infanzia, bisogni che sono quelli di avere accanto adulti che li possano immaginare dentro un futuro possibile, che solamente allora è molto probabile che lo diventi.
Questa è responsabilità nostra, non c’entrano le intelligenze di ognuno o gli impedimenti psicomotori; la possibilità di tutti i bambini e le bambine di diventare grandi è legata agli atteggiamenti, alle esperienze, ai rapporti affettivi e a quelli educativi.
Si può diventare adulti anche essendo pochissimo intelligenti. Occorre però incontrare le persone capaci di mettere in atto delle “immagini” e una comunicazione che aiuti a costruire, e prima ad accettare, il percorso di crescita.
In comunicazione non esiste il “migliore”, o il “peggiore”. Esiste soltanto il “personale”: ogni comunicazione, infatti, è personale. E per questo, unica. Diversa.
E la presenza di un deficit-diversità può mettere in crisi qualsiasi struttura della comunicazione, a partire proprio dal linguaggio.
Da sempre per definire le persone che hanno anche dei deficit ci si situa tra un eccesso di attenzione e un eccesso di tecnicismi, spesso per la paura di offendere.
Proprio per la potenzialità del linguaggio di formare pensiero e come stimolo a ribaltare concetti, credo che il fuoco non sia tanto nella parola che cambia (handicappato, persona con bisogni speciali, disabile, persona con deficit, diversamente abile, ecc.) ma si trovi nel significato che la parola ha per ognuno di noi quando la usiamo.
E forse, come nel caso di persone con diverse abilità, si cercano termini e definizioni non tanto per sostituire quelli vecchi ma per sostituirne i significati, o almeno per cercare di indicarne altri, non validi forse in assoluto ma in quanto “stimolatori” di nuove percezioni, di nuove immagini, che con uno scarto linguistico spostano l’attenzione dal deficit alla persona.
Qualche volta la comunicazione, verbale e non verbale, può allontanare piuttosto che avvicinare: la paura di sbagliare, di comportarsi in un modo non appropriato, di ferire anche, portata agli eccessi, rischia di bloccare alla nascita la spontaneità di una qualsiasi relazione e dunque di bloccare anche la capacità di attingere dalla nostra professionalità, dalle nostre capacità dimostrate tutti i giorni con i nostri bambini nelle scuole.
L’incontro con i deficit, o con una forma di “diversità” percepita come tale, ci chiama in causa però ben oltre le parole che usiamo, siamo immersi in una comunicazione profonda (per le parti di noi che vengono chiamate in causa), complessa (per tutti gli elementi di diversa natura che la compongono) e estremamente coinvolgente.
E non si può non comunicare, comunicare è un verbo che non ha il suo opposto: la nostra immagine è informazione. Questa comunicazione può non essere intenzionale, eppure esiste. Generalmente, quando si parla di “comunicare” si pensa subito alle parole: in realtà, non esiste una comunicazione verbale isolata, è sempre accompagnata dalla comunicazione non verbale che può rafforzare le parole che pronunciamo, ma anche renderle ambigue o perfino smentirle. Sono i metalinguaggi, il tono della voce, il nostro sguardo, la gestualità a comunicare per noi, anche ciò che non diciamo.
Una comunicazione metalinguistica che comunica ciò che siamo anche in modo indipendente da ciò che vogliamo. E tale comunicazione fa riferimento ai nostri modelli interiori, coscienti e inconsci, alle nostre emozioni, alle nostre rappresentazioni mentali.
Ed è questo il primo nodo da sciogliere: essere consapevoli che nel nostro modo di comunicare, noi trasmettiamo, in aggiunta a ciò che razionalmente pensiamo, una parte del nostro mondo interiore, delle emozioni che le persone e le situazioni suscitano in noi.
Fare i conti con questo spazio emotivo, saper riconoscere quando siamo attraversati da aspettative e curiosità, da tensioni o preoccupazioni ci permette di evitare il più possibile il rischio di irrigidire o rendere stereotipato il nostro stile comunicativo.
È questo che un insegnante mette in gioco di sé quando si fa carico/incontra un bambino/a anche con dei deficit o in difficoltà: la capacità di ascolto e accoglienza inizia dal riconoscimento di ciò che un incontro di questa natura “muove” nei propri pensieri e nelle proprie immagini mentali ed emotive.
Occuparsi di un bambino/bambina anche con deficit è un compito impegnativo e forte perché costringe a occuparci di ciò che questo provoca in noi, non solo di ciò che il bambino o la bambina porta nella scuola, in sezione, nel gruppo dei coetanei.
Questo è un grande tema da condividere, che tocca la sfera professionale e quella emotiva, personale: ciò che provoca in noi.
È un compito che tocca il nodo centrale della professionalità dell’insegnante e del ruolo della scuola dell’infanzia.
Altro compito importante che la scuola ha è quello di favorire l’apprendimento e la crescita evolutiva, in senso lato. Il processo di apprendimento però è insieme di ordine cognitivo ed emotivo, questo vuol dire che anche le emozioni che un bambino vive e sente condizionano le sue possibilità di crescere e di apprendere: se sono emozioni difficili, immagini negative, senza un futuro immaginato e possibile, questa crescita sarà rallentata e, nei casi più gravi, del tutto impedita. Ecco come il ruolo delle emozioni personali è sempre fondamentale in un processo d’apprendimento, anche quando sono gli adulti a percorrerlo.
Compito della scuola è permettere anche un’elaborazione collettiva di queste esperienze.
Allora proviamo a dare un senso al perché ci si occupa di bambini e bambine che segnalano e hanno, vivono, dei disagi, dei deficit.
Gli insegnanti se ne occupano non in nome del fatto che sono brave persone (anche se si spera che lo siano) o perché animate da spirito caritatevole. Né perché debbano diventare quasi terapeuti, quindi con il compito di prendere in carico il problema, sanare una situazione o riparare qualcosa di rotto, ma proprio per poter svolgere il ruolo di accompagnamento, supporto alla crescita e allo sviluppo cognitivo ed emotivo che è lo specifico di questa professione.
Giuseppe Pontiggia ha scritto nel libro Nati due volte: “Questi bambini nascono due volte. Devono imparare a muoversi in un mondo che la prima nascita ha reso più difficile. La seconda dipende da noi, da quello che sapremo dare”. E, vorrei aggiungere, potremo dare anche a partire dalla nostra disponibilità ad accettare che l’incontro con un bambino o una bambina che ha anche dei deficit inizia prima dell’incontro fisico, della prima volta che vedo quel bambino là, ma inizia dall’immagine di diversità che abbiamo dentro.
Per questo diventa importante avere spazi e tempi per comunicare tra noi queste immagini, mettersi intorno a un tavolo e avere la possibilità di parlare, di ascoltare, condividere e confrontare le proprie emozioni, la fatica e la gioia: questa è una delle prime strade conoscitive che abbiamo per aiutarci a capire cosa stiamo facendo e perché lo facciamo; quindi anche cosa trasmettiamo con la nostra comunicazione non verbale.
Penso in questo momento a difficoltà o risorse che hanno a che fare con noi come persone e che come persone mettiamo in gioco nell’incontro e nel lavoro con la diversità.
È in questa dimensione che si situa la creazione di momenti di riflessione sulle difficoltà che si incontrano nel gestire quotidianamente la disabilità; fare un lavoro sulle nostre immagini vuol dire cercare di capire che cosa si sta vivendo e avere più chiaro possibile questo quadro emotivo significa anche trovare delle piste concrete operative, nonché elementi arricchenti per altri colleghi.
Suggerisce Gianfranco Staccioli, docente di Tecnologie dell’apprendimento dell’Università di Firenze: “La via d’uscita sembra essere quella di accettare l’idea che la realtà non sta nelle cose, né nella mente che le elabora, ma nell’atto stesso di discuterle e di confrontarsi con il loro significato.
Per far questo occorre da una parte porre in discussione il famoso proverbio ‘vedere per credere’ e cambiarlo in ‘credere per vedere’. Insomma come dice Goodman: ‘La realtà si crea, non si trova’”.
È questo il primo strumento di lavoro per tutti noi che condividiamo spazi, tempi di vita e lavoro con bambini e adulti che hanno anche dei deficit: l’attivazione di una riflessione su quello che si fa e si vive. Molte cose si sanno, poche diventano esperienza vera. Sta in questo passaggio, dal fare quotidiano all’avere un’esperienza di questo fare, la possibilità di un vero apprendimento che non ci lasci ogni volta con la sensazione di non essere adeguati o di stare sulla difensiva.
Per concludere vorrei fare una riflessione su un punto che mi sta molto a cuore, uno fra gli strumenti fondamentali per chi lavora in ambito educativo e scolastico: la documentazione. Forse è anche la meno amata ma dobbiamo fare il possibile per allontanarci dal concetto di documentazione come un’azione inutile, noiosa.
Io penso a una documentazione attiva, e che diventa attiva proprio perché può rimandare alle nostre esperienze, anche e soprattutto emotive, parla di noi, su di noi, delle nostre fatiche, delle nostre difficoltà e degli eventuali piaceri che abbiamo incontrato nelle nostre modalità di lavoro concreto.
Una documentazione costruita giorno dopo giorno, che possa raccontare le situazioni, positive o negative, confuse o particolari, per esempio la prima volta che abbiamo incontrato una bambina o un bambino che ha anche dei deficit o che ha anche altre abilità, nella nostra scuola o nella nostra sezione.
È la possibilità di costruire “un’intelligenza collettiva e reticolare”, da cui attingere, e che si compone delle esperienze e degli scambi con altri nella nostra situazione, strumento ancora più necessario a mio avviso dell’aspettarsi le indicazioni da parte di un’intelligenza superiore, l’esperto che dovrebbe saperne di più. E credo che tutte le istituzioni scolastiche dovrebbero impegnare sempre più risorse e strumenti per favorire questo tipo di documentazione.
Non parlo solo di conoscere i possibili progetti che hanno funzionato, che pure sono importanti anche se difficilmente replicabili in contesti diversi, penso soprattutto a una documentazione chiamata a curiosare, a indagare, a mettere in relazione la propria situazione e a come si è affrontato le situazioni che di volta in volta abbiamo incontrato, il nostro contesto e come le abbiamo vissute noi personalmente, altrimenti si rischia di farle rimanere conoscenze e modalità che sopravvivono solo nella memoria dei protagonisti e poi si disperdono.
Proprio per non dover ricominciare tutto da capo, ogni volta, sapendo e ignorando al tempo stesso, che a pochi chilometri di distanza da noi altri colleghi si sono o si stanno confrontando con difficoltà ed emozioni così simili alle nostre.
Relazione “Comunicare oltre le parole” presentata al Seminario Abilità-Disabilità in Età Evolutiva, Comune di Roma, Dipartimento XI°-III^ U.O, Piano di aggiornamento rivolto al personale docente della Scuola dell’Infanzia del Comune di Roma, 19 marzo 2005, 8° Municipio di Roma.