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Lettere al direttore – Risponde Claudio Imprudente

Caro Claudio… non ho resistito a scriverti quando, in un tuo articolo, ho letto "note (o pause) in una composizione musicale". Ecco! Hai detto bene: chi mai considera la pausa in una composizione musicale? Forse chi suona uno strumento o legge musica: io ho cominciato ad apprezzare le pause oltre che le note di una composizione quando ho scoperto, "cambiando contesto", la mia anima musicista, nascosta o forse sopita per troppi molti anni. Però… c’è un però, carissimo Claudio! È vero che è un problema di contesto, ma cambiare contesto significa che anche gli altri, che già ti conoscevano, devono vederti o ri-vederti nel nuovo contesto. Come si fa? Come possono fare? Come puoi fare? Ti ringrazio di questo scritto, delle parole, della punteggiatura che è come una bella pausa musicale! Ti auguro davvero un Natale assolutamente “in-contestuale” e mi auguro di poter dire quanto prima di essere felice come una Pasqua, anche se è Natale! Maria Grazia Ponziani, mgp per gli amici.

Cara Maria Grazia,
devo complimentarmi con te, perché di un articolo piuttosto lungo e che aveva come protagonista del muschio natalizio, ti è rimasto impresso proprio il dettaglio della pausa, relegato com’era in un “angolino”… Non era facile, anzi, era tutt’altro che scontato, ma era un dettaglio al quale tenevo parecchio. Perché?
Per due ragioni: intanto perché il silenzio e le pause non sono assenza di comunicazione, né vuoti da riempire necessariamente. Sono invece più eloquenti delle parole e dei suoni stessi… Infatti ci imbarazza tantissimo stare in silenzio in presenza di qualcun altro, proprio perché non è vero che in quel momento non si dice niente, si dice tanto e, se non siamo abili maneggiatori del “nulla”, pure troppo… Classico esempio è quello dell’ascensore, in cui, a un “pieno” di corpi pigiati corrisponde spesso un “vuoto” di suoni che ci fa sentire scoperti, più deboli.
Nel silenzio, nel vuoto le cose sembrano sfuggirci di mano, abbiamo meno riferimenti. A volte mi sembra che la percezione che abbiamo del buio e del silenzio si assomiglino, anche se essi interpellano sensi diversi.
Peraltro, è difficile accettare il silenzio anche quando siamo soli.
In secondo luogo, come scrivevo nell’articolo, perché, anche se non ci pensiamo mai, senza di essi la musica sarebbe un’accozzaglia informe (certo, c’è chi ha lavorato artisticamente proprio sull’assenza di pause e vuoti…) e siccome io sono un appassionato ascoltatore di melodie, sempre rendo grazie all’“invenzione” del silenzio.
Mi viene in mente, poi, che anche in altre situazioni il silenzio è necessario, o almeno avvertito come tale: esso connota, ad esempio, l’interno di una cattedrale o di un monastero, luoghi in cui il rumore non aumenterebbe, anzi, ridurrebbe l’eloquenza di quella calma.
Non male, per un elemento così sfuggente e fantomatico che faremmo prima a definire per quello che non è. E si potrebbe continuare, ma l’importante è capire che per tutto e per tutti c’è spazio e importanza in questo mondo, che la cosa fondamentale è riconoscere la bellezza di questa necessità e capire che, se a volte i conti non tornano, il problema non sta nella natura delle cose (se ne hanno una), ma nelle relazioni reciproche che le definiscono, nelle posizioni di tempo e spazio in cui le mettiamo e nel tipo di rapporto che noi riusciamo a instaurare con loro.
E che dire? Non sottraetevi all’arduo compito di imparare a… stare zitti!

Caro Claudio,
ti scrivo una lettera che potrei intitolare “Mettere come limite il non limite”.
Il mestiere di genitore non si impara in una scuola di formazione alla genitorialità ed esserlo di un bambino con handicap è ancora più difficile. Non approfondiamo qui le diverse problematiche dell’handicap e di cosa esso sia in grado di suscitare nell’animo di un genitore. In particolare nel dover gestire il negativo che tali stati d’animo possono determinare sulla personalità del bambino, che ha in sé tutta la forza della sua fanciullezza che lo spinge a correre incontro alla vita, con strumenti che non sono proprio come quelli di qualunque altro bambino. Le ore trascorse insieme, quando non sono sovrastate dall’ansia, dalla paura di non farcela, ritrovano un loro svolgersi sereno. I momenti dedicati sono ricchi di dialogo, di parole accompagnate da gesti, da carezze, da contatti affettivi, che rendono ancora più forte la volontà di costruire la vicinanza col bambino.
Accrescono la necessità di accompagnarlo nel percorso dell’esistenza, affinché possa trovare, all’incontro con il mondo esterno, un contatto buono. Il genitore affida alla scuola il proprio figlio, la cosa più importante, e si preoccupa di trovare in essa un dirigente che faccia la differenza, che abbia voglia e capacità di accettare una sfida. Quel signore sicuramente c’è, basta cercarlo, forse non si troverà nella scuola sotto casa, ma vale la pena scovarlo, se non si vuole correre il rischio di ritrovarsi in una scuola con semplici e demotivati insegnanti. Ci vogliono “maestri” sufficientemente onesti da addossarsi personalmente il peso delle proprie responsabilità, rivestendo a pieno il proprio ruolo, per affrontare così agevolmente il difficile compito affidato. Un ruolo che richiede ed esige comprensione, prudenza, capacità di insegnare e l’impegno a dare buon esempio per condurre il bambino a un contatto sereno col mondo. Il genitore apprezza i sacrifici e riconosce i problemi che gli insegnanti devono affrontare, sa che possono farcela a dare al bambino l’ispirazione giusta per sfruttare appieno il suo potenziale. Se solo insegnassero, oltre alla sociologia, nozioni preziose per i rapporti con gli altri, l’autostima oltre all’ortografia, il senso civico oltre alle scienze, la tolleranza oltre alla grammatica e l’entusiasmo per la conoscenza oltre alla maestria nella materia. Se fossero disponibili a mostrarsi come consulenti, amici, moderatori esperti di dinamiche di gruppo, specialisti in difficoltà dell’apprendimento, oratori specializzati in motivazione, oltre che maestri esperti della materia che insegnano. Se solo preparassero le lezioni con creatività e dinamismo in modo da mantenere l’attenzione di un gruppo numeroso, con metodi di insegnamento fatti “su misura” per singoli studenti ognuno con i suoi modi diversi di imparare e difficoltà di apprendimento. Certo! Hanno scelto la professione che presenta più sfide ma anche quella che offre più soddisfazioni di qualunque altra.
Anche se il loro lavoro non paga granché in termini di denaro, le gratifiche psicologiche ed emotive sono enormi. Si parla della luce negli occhi di uno studente che ha ritrovato la motivazione per studiare, del sorriso che compare quando un concetto impossibile è finalmente afferrato, della risata gioiosa di un bambino rifiutato che è accettato dal gruppo, dei sorrisi pieni di gratitudine, degli abbracci e dei “grazie” di genitori riconoscenti, di un biglietto di ringraziamento scritto da uno studente “perduto” che invece decide di continuare e di farcela, della soddisfazione interiore che si prova sapendo di aver fatto la differenza, di aver fatto qualcosa che conta veramente, di aver lasciato un segno indelebile per il futuro, per così tante persone, per così tanto tempo. A volte nella vita, mettere come limite il non limite, induce ad andare avanti oltre l’apparente confine, e scoprire, con gioia, che al di là della lotta tra il bene e il male c’è molto di più: C’è la vita.
Saluti, Giuseppe Felaco

Caro Giuseppe,
la tua lettera, che riporto per intero, è un bombardamento di stimoli, e il “problema” è che condivido tutto quello che scrivi. Per cui mi sono lasciato bombardare con piacere vero…
E che dire? Riprendendo il tuo titolo e tornando a quarant’anni fa: “Siate realisti, chiedete (o sognate) l’impossibile”.
 




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