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Il magico Alvermann – Uscire dai labirinti

 
Osservò con diffidenza la sua immagine, finse di non osservarla, sentì che sembrava essere qualcosa che non era. Ne fu spaventato e incuriosito insieme. Arretrò, e così fece la sua immagine, e un po’ per volta scoprì di essere di fronte a se stesso. Cercò di fuggire ma ovunque si volgesse si trovava sempre di fronte a se stesso, era murato da se stesso, era ovunque se stesso, ininterrottamente se stesso, rispecchiato all’infinito nel labirinto.

 Avvertì che non esistevano tanti minotauri, ma un minotauro solo, che esisteva un solo essere quale egli era, non un altro prima né un altro dopo di lui, che egli era l’unico, l’escluso e rinchiuso insieme, che il labirinto c’era per causa sua, e questo solo perché era stato messo al mondo, perché l’esistenza d’uno come lui non era consentita dal confine posto tra animale e uomo e fra uomo e dei, affinché il mondo conservi il suo ordine e non divenga labirinto per ricadere nel caos da cui era scaturito; e quando l’avvertì, come percezione senza comprensione, come un’illuminazione senza conoscenza, non come una nozione umana fatta di concetti ma come nozione di minotauro fatta d’immagini e di sensazioni, crollò a terra, e allorché giacque, raggomitolato com’era stato raggomitolato nel corpo di Parsifae, il minotauro sognò di essere un uomo. Sognò un linguaggio, sognò fratellanza, sognò amicizia, sognò sicurezza, sognò amore, vicinanza, calore, e contemporaneamente seppe, sognando, di essere un anormale cui non sarebbe mai stato concesso un linguaggio, mai fratellanza, mai amicizia, mai amore, mai vicinanza, mai calore, sognò come gli esseri umani sognano degli dei, con tristezza d’uomo l’uomo, con tristezza d’animale il minotauro. 
 
(Brano tratto da Friedrich Dürrenmatt, Il minotauro, Milano, Marcos y Marcos, 2005, pp. 59-61)
 
Il mio “incontro” con Dürrenmatt avvenne tramite un simpaticissimo libro, La morte della Pizia, dove con ironia e arguzia l’autore prendeva in giro i miti greci. Dopo anni di liceo classico fu molto divertente ridere un po’ attraverso la Pizia, senza la seriosità che contraddistingueva i banchi di scuola. Pensavo, quindi, che l’altro libro di Dürrenmatt, Il minotauro, sarebbe stato altrettanto divertente. Invece è un minuscolo libro che lascia un senso di ansia notevole. È la storia del minotauro, quello che tutti abbiamo nell’immaginario. Ma Dürrenmatt rinchiude il minotauro in un labirinto di specchi, come se il minotauro fosse in un enorme luna park. Per molto tempo il minotauro ritiene che tutte le immagini che vede siano altri minotauri come lui, e quindi vive serenamente pensando di essere circondato dai suoi simili. Il brano che propongo qua è il momento del risveglio del minotauro, quando si rende conto di essere solo. Da questo momento in poi il lettore viene condotto a provare compassione per la bestia, nonostante il minotauro, proprio perché bestia, mantiene in tutto il libro l’aspetto anche crudele. È un po’ come nel film Arancia meccanica di Kubrick, dove lo spettatore alla fine si ritrova dalla parte del protagonista Alex, nonostante Alex non sia proprio un esempio di buon comportamento. Quello che mi ha colpito fin da subito in questo piccolo brano, però, è la parola “anormale”. Anormale è stato usato per svariati anni per contraddistinguere chi aveva una disabilità. Chi è disabile non è normale; che poi fa un po’ sorridere che questa tanto vantata normalità sia solo un dato statistico, numerico: la maggioranza delle persone è in un certo modo, se tu non sei così non sei normale. D’altronde, la maggioranza vince, si suol dire. Per la sua anormalità il minotauro non è integrato, è escluso, è isolato. Sogna di essere normale, di avere degli amici, di poter comunicare… Cosa che sogniamo tutti, perché al di là dei deficit derivati dalla patologia, qualche volta tutti quanti siamo stati degli anormali o ci siamo sentiti così, non accettati perché un po’ diversi dagli altri, magari anche solo in una breve fase della nostra vita, penso ad esempio alle famose “compagnie” di amici nel periodo adolescenziale. Ma il brano di Dürrenmatt mi fa pensare alle “condizioni” dell’integrazione: alla fine il minotauro non è stato messo nelle condizioni di provare l’integrazione, è stato escluso a priori perché nato bestia, perché la sua anormalità faceva paura. Da quanti anni andiamo dicendo che si possono in qualche modo superare gli handicap dettati dal deficit creando un contesto di integrazione e fiducia? Resta un sogno come quello del minotauro?
 

 




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