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autore: Autore: di Valeria Alpi

Non esiste l’ingrediente segreto

“Non esiste l’ingrediente segreto”.
“Non importa la tua storia… L’importante è quello che tu scegli di essere ora”.
(Kung Fu Panda 1 e 2)

Gli affezionati lettori di “HP-Accaparlante” si aspettano da Il magico Alvermann una proposta di libro, un ripescaggio nei ricordi, uno stimolo a ritrovare delle pagine che si conoscevano o delle pagine nuove da esplorare. Questa volta, concedeteci, di partire da un’altra forma di racconto, quella cinematografica. Il racconto in questione riguarda il film d’animazione Kung Fu Panda, nella versione 1 e 2. Il panda Po è in qualche modo il prescelto per diventare il guerriero Dragone, per cui nonostante la sua diversità così prorompente (un “ciccione” che pratica uno sport notoriamente per magri e agili) riesce nell’impresa, è l’eroe voluto dal destino; della serie: anche se sono goffo ce la faccio comunque perché è il mio destino. Fin qui è l’eroe per eccellenza, come in tanti noti film dove esiste un prescelto. E la sua diversità fa ridere, fa simpatia, ma tutto qui. Invece c’è molto di più. Come guerriero Dragone il panda riceve una pergamena dove dovrebbe esserci scritto il segreto per essere un vero guerriero, invincibile. Bene, la pergamena è vuota, bianca, non c’è scritto niente. All’inizio sembra una presa in giro per un essere così buffo. Invece pian piano si capisce il “trucco”. Non esiste il segreto. La pergamena è vuota apposta. Non ci sono magie per essere invincibili, basta crederci. Basta credere in se stessi, nelle proprie capacità anche quando queste capacità si devono scontrare con limiti fisici evidenti.
La questione dell’ingrediente segreto ricorre anche nel capito 2 della saga. Il panda sta cucinando per i suoi colleghi e amici di kung fu, e sta cucinando una zuppa seguendo la ricetta di suo padre. Gli amici si complimentano per la bontà, ma il panda non è soddisfatto, dice che manca un ingrediente segreto che conosce e usa solo suo padre, e che solo suo padre è in grado di cucinare la zuppa perfetta. Si scoprirà che non esiste l’ingrediente segreto, che suo padre se l’era inventato, che la zuppa viene cucinata in maniera semplice senza aggiunte magiche e che la zuppa che cucina il panda è esattamente buona come quella del padre. Ma Po pensava che quella del padre come sapore fosse migliore. Torna quindi il tema della fiducia, di crederci. La zuppa di Po non era peggiore, era uguale. Eppure lui pensava di essere inferiore.
Devo ammettere che questo concetto mi ha colpito moltissimo, forse perché ero andata al cinema pensando semplicemente di divertirmi. Invece tutto il film mi sembrava un grande Centro Documentazione Handicap. In Kung Fu Panda ho ritrovato il nostro spirito di CDH. Il tema della fiducia per noi è fondamentale. Bisogna credere anche nelle piccole capacità residue che una persona possiede, bisogna accettarsi come si è e agire per come si è. Occorre, inoltre, un contesto di fiducia in cui crescere. E il panda cresce adottato da un’oca, ma un’oca che non lo fa sentire diverso dalla sua razza, un’oca che lo integra, lo accetta e gli vuole bene per come è, e crede in lui. Un genitore che mette il figlio nella condizione di autodeterminarsi, di scegliere chi e cosa essere, in base al suo fisico, a ciò che sa fare e a quello che non sa fare.
Anche gli altri personaggi di contorno mi fanno pensare alla diversità. Nella scuola di kung fu di Po ci sono animali di tutti i tipi che praticano quella disciplina: la tigre, il leopardo delle nevi, la mantide religiosa, la vipera, la gru, la tartaruga e il panda rosso. Ognuno di loro ha trovato un suo modo di praticare il kung fu. Ognuno di loro ha sviluppato la propria creatività per adattare le mosse del kung fu alla propria predisposizione genetica. E anche questo è uno dei nostri temi ricorrenti. La capacità di inventarsi delle soluzioni per superare le difficoltà, con un modo proprio, cucito addosso a se stessi, usando degli adattamenti oppure adattando quello che c’è. La questione non è superare i propri limiti a tutti costi, ma accettare questi limiti, conviverci e riuscire a sfruttarli con un po’ di creatività. Perché l’ingrediente segreto siamo noi stessi.

Da scrocconi a portasfortuna: il ritratto mass mediatico dei disabili

Vi dirò: dopo oltre 10 anni da quando mi occupo di informazione sociale, a volte fatico a trovare gli argomenti, più che altro perché non mi piace essere ripetitiva. Ma mentre questo numero di “HP-Accaparlante” veniva chiuso in redazione, si sono succeduti tre eventi “golosi” che riguardano mass media e disabilità. L’imbarazzo della scelta, il paese di Bengodi.
Il primo episodio riguarda la copertina del noto settimanale “Panorama”: ebbene sì, “Panorama” l’ha fatto di nuovo (cfr. “La diversità è glamour…o no?”, in “HP-Accaparlante”, n. 3/2003). Una copertina sulla disabilità che ha fatto discutere per settimane il mondo dell’associazionismo e non solo. Il numero, uscito in edicola il 24 marzo 2011, centrava l’attenzione sui falsi invalidi, tema tutto sommato giusto, da affrontarsi in questo periodo. Peccato che la copertina fosse decisamente poco elegante, con un pinocchio stilizzato e seduto su una carrozzina a rotelle, col naso lungo e la scritta “Scrocconi”. Incompleto e con dei dati scorretti il servizio all’interno. Le associazioni di categoria, offese per questa copertina, hanno inviato svariate lettere al settimanale, adducendo soprattutto il fatto che in un periodo di crisi economica, con la guerra in Libia e altri problemi mondiali, il settimanale poteva anche parlare d’altro e non aveva bisogno dei falsi invalidi. La mia opinione, invece, è che ci sarebbe bisogno di parlare di falsi invalidi proprio perché non si può fare un passo indietro sulle tante lotte che riguardano i diritti delle persone disabili. Di disabili veri ce ne sono tanti e devono poter continuare a godere di alcuni diritti (diritti, non privilegi) senza vedere intaccata la loro ragione dai tanti furbi che circolano nel paese. Un servizio serio e corretto per spiegare ai non adetti ai lavori cosa significa invalidi e falsi invalidi occorrerebbe. Occasione sprecata, dunque, ma soprattutto un episodio che ha rigettato uno stigma negativo sulla disabilità. Il disabile è lo scroccone di turno che ne approfitta.
Il secondo episodio, verificatosi dopo pochi giorni, è la pubblica offesa che l’onorevole Ileana Argentin ha subito in Parlamento durante una seduta. A quanto pare qualcuno le ha urlato “handicappata del c…” (non è difficile immaginare il contenuto). L’episodio si è verificato perché la Argentin, non potendo applaudire a causa del suo deficit motorio, ha fatto applaudire l’assistente personale in sua vece, il quale non avrebbe questo privilegio in Parlamento. Da lì un po’ di litigi, un po’ di animi scaldati e poi l’offesa. Ancora oggi se ci cerca su internet con Google News “Ileana Argentin” emergono decine e decine di risultati col resoconto dettagliato di quell’episodio e dei giorni successivi. Come era immaginabile, si è susseguito un tam tam di solidarietà verso la parlamentare offesa, sia da chi si occupa di disabilità, sia da chi non se n’è mai occupato. Soprattutto su Facebook molte persone hanno scritto “Sono anch’io un handicappato del c…”. Ileana Argentin, dal canto suo, ha cavalcato l’onda del vittimismo, dichiarando ai mass media di essersi sentita “violentata”. Ora, se dobbiamo rimanere nel politically correct, i termini dovrebbero rimanere al posto giusto e che compete loro, quindi usare il termine “violentata” non mi pare corretto verso tutte quelle donne che hanno subito davvero una violenza fisica. Forse esagero, forse sono troppo dura. Il punto è che nessuno si è preoccupato di dire che le offese in Parlamento non ci dovrebbero essere, punto e basta. Neri, disabili, non importa. Un microcosmo come il Parlamento dovrebbe dare il buon esempio al macrocosmo. Negli stessi giorni l’onorevole Fini si è preso un giornale in faccia lanciato da qualcuno durante una seduta, e Fini non è disabile. La regola del non offendersi vale per tutti quanti. L’occasione però avrebbe potuto permettere al mondo di categoria e alla stessa Ileana Argentin di fare un discorso più ampio sulla cultura della disabilità, spiegando le necessità di assistenza, e la possibilità di accesso alle stesse funzioni che hanno i “normodotati”. Ovvio che chi lavora nel settore ha diritto di arrabbiarsi per le offese volate in Parlamento, ma alla fine si è fatta solo polemica, e in molti sono quelli che hanno pensato “Che rottura questa Argentin”, perché poi alla fine il disabile vittima passa sempre da rompiscatole. Tra l’altro mi fa sorridere che tanta gente che su Facebook ha espresso solidarietà verso l’Argentin, è gente che quando vede Claudio Imprudente, proprio lui, quello che parla con la lavagnetta e ha sempre la lingua a penzoloni, non riesce a relazionarsi, ha timore, ribrezzo o quant’altro. Questo per ribadire che siamo lontani dalla cultura della disabilità, che l’episodio della Argentin, per come è stato gestito, non ha prodotto niente.
L’ultimo episodio riguarda una campagna pubblicitaria, promossa dalla Fondazione “I Care”, che è comparsa un giorno di fine aprile sui cartelloni di Fucecchio, un paese in provincia di Firenze. I manifesti sono quattro, messi a formare un quadrato. Su ogni lato c’è una Barbie: seduta mentre si fa pettinare i capelli, nelle vesti di ballerina, in quelle di tennista. In tutti i tre casi è accompagnata dalla scritta “Un giorno della mia vita. Yes I Care”. Nell’ultimo cartello Barbie è su una sedia a rotelle e lo slogan cambia: “Tutti i giorni della mia vita”. E poi “Tutti possiamo diventare disabili. Ma ognuno di noi può aiutare”. “Disabili, non diversi. Yes I Care”.
Ora… l’idea della Barbie in carrozzina non è nuova, già anni fa la Mattel produsse Becky, l’amica paraplegica di Barbie. L’idea di una Barbie disabile, icona per eccellenza della bellezza e della salute, non è malvagia. Ma il cartellone con quegli slogan è decisamente inquietante. I mass media e le polemiche per la campagna definita “choc” si sono incentrati sul fatto dell’immagine di una Barbie disabile. Ma è la scritta che accompagna il tutto, pur fatta a fin di bene e pur volendo fare riflettere sulla condizione della disabilità, richiama anche il concetto di – permettetemelo – sfiga. “Tutti possiamo diventare disabili”: certo, è vero, ma leggerlo a caratteri cubitali sui manifesti con tanto di bella bionda sotto in carrozzina, sinceramente fa fare tutti i riti degli scongiuri. La prima cosa che ho pensato quando ho visto il manifesto è stata: “ora il disabile verrà visto come il gatto nero che attraversa la strada”.
Quindi, ricapitolando, l’informazione sociale di un solo mese (tra fine marzo e fine aprile 2011) ha mostrato le persone disabili come scroccone, handicappate del c….., rompiscatole e portasfortuna. C’è di che stare allegri.

Uscire dai labirinti

Osservò con diffidenza la sua immagine, finse di non osservarla, sentì che sembrava essere qualcosa che non era. Ne fu spaventato e incuriosito insieme. Arretrò, e così fece la sua immagine, e un po’ per volta scoprì di essere di fronte a se stesso. Cercò di fuggire ma ovunque si volgesse si trovava sempre di fronte a se stesso, era murato da se stesso, era ovunque se stesso, ininterrottamente se stesso, rispecchiato all’infinito nel labirinto.
Avvertì che non esistevano tanti minotauri, ma un minotauro solo, che esisteva un solo essere quale egli era, non un altro prima né un altro dopo di lui, che egli era l’unico, l’escluso e rinchiuso insieme, che il labirinto c’era per causa sua, e questo solo perché era stato messo al mondo, perché l’esistenza d’uno come lui non era consentita dal confine posto tra animale e uomo e fra uomo e dei, affinché il mondo conservi il suo ordine e non divenga labirinto per ricadere nel caos da cui era scaturito; e quando l’avvertì, come percezione senza comprensione, come un’illuminazione senza conoscenza, non come una nozione umana fatta di concetti ma come nozione di minotauro fatta d’immagini e di sensazioni, crollò a terra, e allorché giacque, raggomitolato com’era stato raggomitolato nel corpo di Parsifae, il minotauro sognò di essere un uomo. Sognò un linguaggio, sognò fratellanza, sognò amicizia, sognò sicurezza, sognò amore, vicinanza, calore, e contemporaneamente seppe, sognando, di essere un anormale cui non sarebbe mai stato concesso un linguaggio, mai fratellanza, mai amicizia, mai amore, mai vicinanza, mai calore, sognò come gli esseri umani sognano degli dei, con tristezza d’uomo l’uomo, con tristezza d’animale il minotauro.
(Brano tratto da Friedrich Dürrenmatt, Il minotauro, Milano, Marcos y Marcos, 2005, pp. 59-61)

Il mio “incontro” con Dürrenmatt avvenne tramite un simpaticissimo libro, La morte della Pizia, dove con ironia e arguzia l’autore prendeva in giro i miti greci. Dopo anni di liceo classico fu molto divertente ridere un po’ attraverso la Pizia, senza la seriosità che contraddistingueva i banchi di scuola. Pensavo, quindi, che l’altro libro di Dürrenmatt, Il minotauro, sarebbe stato altrettanto divertente. Invece è un minuscolo libro che lascia un senso di ansia notevole. È la storia del minotauro, quello che tutti abbiamo nell’immaginario. Ma Dürrenmatt rinchiude il minotauro in un labirinto di specchi, come se il minotauro fosse in un enorme luna park. Per molto tempo il minotauro ritiene che tutte le immagini che vede siano altri minotauri come lui, e quindi vive serenamente pensando di essere circondato dai suoi simili. Il brano che propongo qua è il momento del risveglio del minotauro, quando si rende conto di essere solo. Da questo momento in poi il lettore viene condotto a provare compassione per la bestia, nonostante il minotauro, proprio perché bestia, mantiene in tutto il libro l’aspetto anche crudele. È un po’ come nel film Arancia meccanica di Kubrick, dove lo spettatore alla fine si ritrova dalla parte del protagonista Alex, nonostante Alex non sia proprio un esempio di buon comportamento. Quello che mi ha colpito fin da subito in questo piccolo brano, però, è la parola “anormale”. Anormale è stato usato per svariati anni per contraddistinguere chi aveva una disabilità. Chi è disabile non è normale; che poi fa un po’ sorridere che questa tanto vantata normalità sia solo un dato statistico, numerico: la maggioranza delle persone è in un certo modo, se tu non sei così non sei normale. D’altronde, la maggioranza vince, si suol dire. Per la sua anormalità il minotauro non è integrato, è escluso, è isolato. Sogna di essere normale, di avere degli amici, di poter comunicare… Cosa che sogniamo tutti, perché al di là dei deficit derivati dalla patologia, qualche volta tutti quanti siamo stati degli anormali o ci siamo sentiti così, non accettati perché un po’ diversi dagli altri, magari anche solo in una breve fase della nostra vita, penso ad esempio alle famose “compagnie” di amici nel periodo adolescenziale. Ma il brano di Dürrenmatt mi fa pensare alle “condizioni” dell’integrazione: alla fine il minotauro non è stato messo nelle condizioni di provare l’integrazione, è stato escluso a priori perché nato bestia, perché la sua anormalità faceva paura. Da quanti anni andiamo dicendo che si possono in qualche modo superare gli handicap dettati dal deficit creando un contesto di integrazione e fiducia? Resta un sogno come quello del minotauro?

5. Alcune specificità: dal bambino immaginario al bambino reale

I primi testi di psicanalisi insistono sull’importanza dell’immagine visuale non solo per la costruzione del pensiero e della curiosità, ma per tutto il processo di identificazione. È un’immagine visuale quella che il bambino scopre nello specchio e che anticipa, secondo Lacan, la dialettica dell’essere e dell’avere che è alla base del suo essere soggetto.
“L’occhio come specchio dell’anima”, si dice spesso. Questa metafora di Leonardo da Vinci ci porta a descrivere quello che la persona che vede sente quando guarda il viso della donna non vedente: ha l’impressione di non avere accesso al pensiero intimo o profondo dell’interlocutore, come se non fosse possibile “vedere dalla finestra ciò che succede all’interno”. Questa impressione è aggravata quando esiste una malformazione agli occhi o alle orbite, quando la cornea è opaca, ecc. Le persone non vedenti devono ricevere un’educazione per disfarsi di alcuni gesti stereotipati e per apprendere a guardare in faccia l’interlocutore.
Questi elementi sono da prendere in considerazione durante la presa in carico delle madri non vedenti, proprio in virtù dell’importanza degli scambi di sguardi nella relazione madre/figlio.

Cosa succede nella madre con deficit visivo privata delle immagini di suo figlio, e nel figlio che non riceve in cambio dalla madre la conferma del suo proprio sguardo? In che modo, dopo la nascita, si stabilirà lo scambio strutturante dello sguardo della madre che vede quello di suo figlio? In che modo questa relazione, descritta come fondamentale per le basi psicofisiche del bambino, sarà sostituita e amplificata quando uno dei due partner della diade madre/figlio non ci vede, o entrambi non ci vedono?
I lavori di ricerca in questo campo così specifico sono molto rari, anche se esiste una letteratura molto importante sul deficit visivo. Il fatto è che la maggioranza dei testi trattano di ricerche su diadi dove solo il figlio ha un deficit visivo.
Esistono due momenti molto importanti nel percorso gravidanza, dove la vista è elemento essenziale: l’ecografia e l’allattamento. Sull’allattamento dedichiamo un paragrafo a parte. Sull’ecografia vanno fatte alcune semplici considerazioni, forse banali, ma questa tappa ormai costante quando si affronta una gravidanza crea numerose difficoltà alle donne non vedenti.
Per le madri vedenti, questa tappa è fondamentale nel processo di “maternalizzazione”: è il primo incontro tra il bambino immaginario e il feto reale, prefigurazione del futuro bebé.
Per la madre non vedente, tutto questo si trova ribaltato dall’assenza di immagini visive. Il ruolo esplicativo di colui che esegue l’ecografia si trova accresciuto.
Una componente dell’équipe di Edith Thoueille ha elaborato delle tavole anatomiche in rilievo che permettono l’esplorazione tattile. Sono così spiegati l’utero e tutto il suo contenuto: l’embrione, la placenta, il cordone, ecc. Tutte le tappe della gravidanza sono così presentate all’esplorazione delle future mamme. Sono in corso di realizzazione delle altre tavole anatomiche che riprodurranno l’immagine dell’ecografia, cioè lo sviluppo dei vari organi e del bambino, in modo da permettere una conoscenza tattile di quello che si vede nello schermo. Queste tavole potranno essere utili anche alle mamme vedenti.
I sogni delle donne non vedenti dalla nascita hanno alcune particolarità: “lo schermo del sogno” non è visuale, e non è neppure nero, e le figure del sogno non sono visive. Tutte le caratteristiche del sogno sono costituite da altre impressioni: olfattive, gustative, acustiche, ecc. Alla domanda di descrivere un sogno, non si ottengono né delle immagini né un racconto dello sviluppo visivo delle azioni, ma un insieme di parole, metafore, sensazioni, senza descrizioni.
Segnaliamo che il nero è un colore e che è impossibile tradurre col linguaggio dei vedenti l’assenza di immagini.
Presso l’Istituto di Edith Thoueille è stata indagata la rappresentazione nelle donne del loro bambino immaginario. Nelle madri vedenti, essa è costituita per la maggior parte da immagini visuali. Inoltre sia prima che durante la gravidanza, il bambino immaginario suscita numerose immagini che saranno sempre evocate anche dopo la nascita. Per le madri non vedenti invece? Se la cecità è acquisita, la mamma non vedente può utilizzare delle immagini per costruire questo bambino immaginario, ma per chi è cieca dalla nascita la questione è completamente diversa. Le immagini vengono elaborate a partire dai contatti che si sono avuti in passato con altri bambini, e spesso il bambino immaginario viene costruito come un bambino che ha già due o tre anni.
La nascita marca la linea di confine tra il bambino immaginario e la realtà del bebé. La madre che non dispone immediatamente di tutte le informazioni su suo figlio reale, cosa che consente invece la vista, deve costruire poco a poco il suo bambino attraverso diverse strategie di esplorazione: sentire, leccare, palpare, valutare col tatto la sua morfologia, il suo peso, la sua taglia, i suoi contorni. Per questo motivo occorre concedere una certa proroga in sala parto, in modo che la madre possa imprimersi tutte le caratteristiche fisiche di suo figlio, compreso il suo sesso, se questo non è stato rivelato durante l’ecografia. Una stretta collaborazione tra le équipe della sala parto deve permettere di rispettare questo tempo necessario alla scoperta, che sfugge alla nostra rappresentazione e comprensione classica della maternità.

La vita del bambino
Lo svezzamento costituisce nelle madri e nei bambini un tempo chiave di aggiustamento reciproco della distanza di sicurezza, ma questa prova è nettamente amplificata nella madre non vedente. Per lei, l’acquisizione della motricità da parte del figlio è un secondo svezzamento perché le fa perdere il contatto col bambino.
Si commette un errore quando si crede che il bambino sia solo con sua madre, quando invece vive a contatto con altri adulti vedenti. Questa situazione, riscontrata nel periodo infraverbale, lo porta a stabilire un “bilinguismo”. Quest’ultimo si stabilisce senza dubbio dal confronto con le cure e le interazioni di altri membri della famiglia (nonna, zia,…), vicini di casa o professionisti della crescita, o consulenti. Se il padre è vedente, questo confronto inizia molto presto.
Il bambino seleziona molto presto i gesti e i comportamenti propri della comunicazione con sua madre, una specie di lingua materna. In un secondo tempo, comprende la “intenzionalità” del gesto materno, e può aiutarlo e guidarlo.
L’opposizione può manifestarsi sotto forma di rifiuto nell’aiuto apportato alla madre. È in questi momenti che il bambino “si nasconde” nel silenzio. La volontà di testare i limiti dell’handicap della madre diventa manifesta.
Importante per il bambino è anche il ruolo di interesse che riveste il comportamento materno sugli oggetti e i giochi durante il primo semestre. In quei mesi infatti il bambino comincia a condividere il suo interesse tra uno sguardo per l’oggetto e una verifica visuale sul viso della madre. Una madre non vedente non fornisce sufficienti elementi informativi agli sguardi che il bambino le riversa. Bisogna dunque prendere in considerazione il fatto che lui continua, malgrado tutto, a gettare colpi d’occhio come sguardi di rassicurazione, che sarebbero la base del contatto di cui ha bisogno per proseguire nelle sue esplorazioni del mondo.

Una annotazione particolare: la depressione del cane
L’osservazione ha permesso di notare come spesso la nascita di un bambino porti il cane guida della madre non vedente a una sorta di depressione. Questa depressione si traduce in una domanda eccessiva di attenzioni e di carezze, e in un rallentamento delle attività del cane. Questa depressione viene mal sopportata dalla madre che è totalmente assorbita dal figlio. Allo stesso tempo, lei continua ad aver bisogno, per la sua autonomia, di ciò che le apporta il cane, che però, come reazione emotiva, fallisce nel suo ruolo di guida.
Ormai le scuole dei cani-guida hanno stabilito una politica di prevenzione che permette dei “riaggiustamenti” prima e dopo la nascita del bambino. Questo intervento di specialisti deve essere previsto e far parte dell’azione psicosociale in favore della maternità delle donne non vedenti. Soprattutto perché questa triade (donna/cane/bambino) ha delle specificità completamente diverse dal vissuto abituale di una famiglia dove coesistano bambino e cane.

2. L’immagine collettiva della donna disabile con figli

Il desiderio di occuparmi di maternità di donne con deficit è sempre scaturito per me dal fatto che esiste una produzione molto ampia sul tema della genitorialità, ma ci si riferisce sempre a genitori normodotati che hanno figli disabili. Di libri su questo tema ne vengono scritti continuamente, ma quasi nulla esiste invece sul tema opposto, cioè su genitori disabili che hanno o desiderano dei figli.
Il mio desiderio non è solo provare a coprire questa lacuna, per quanto è possibile, e con tutti i limiti del caso, ma fornire anche dei consigli.
Nei primi tempi del mio lavoro, cinque anni fa, mi capitò di chiedere consigli a varie persone che lavorano nel campo della disabilità. Dato infatti che non trovavo materiale sul tema, cercai consigli in chi lavora nel settore da molto più tempo di me. E ogni volta che raccontavo il mio progetto sulle madri disabili, mi veniva risposto che dovevo cambiare idea, perché l’idea che volevo realizzare era troppo macabra. Perché io volevo raccontare anche le varie azioni quotidiane di una mamma, quindi come sollevare il figlio, come fargli il bagnetto, come allattarlo, come metterlo nel lettino, ecc. E volevo raccontare le difficoltà di una donna disabile a compiere queste azioni e le possibili soluzioni. Ma secondo molti era un modo di raccontare macabro. E mi dispiace che questo aggettivo provenisse proprio da chi lavora nella disabilità.
Quando poi iniziai a realizzare le interviste (la prima monografia si era basata infatti sulle interviste dirette a mamme disabili con deficit motori), mi capitava di raccontarle ad alcuni colleghi o a persone che si occupano di disabilità, e quando raccontavo che queste donne avevano trovato, dopo varie difficoltà, un punto di equilibrio nel rapporto mamma/figlio, mi veniva risposto: “Si vedrà quando il bimbo sarà più grande, quando i compagni di scuola lo prenderanno in giro perché ha la mamma disabile, quando per lui avere una mamma disabile sarà un peso”. Anche qui rimanevo stupita che affermazioni simili provenissero da chi lavora nell’handicap. Soprattutto mi spaventavano un po’, perché si davano per scontati dei meccanismi causa-effetto come: disabilità della mamma = peso per il figlio. E si sa che meccanismi mentali simili sono poi quelli che generano i pregiudizi. Tra l’altro, come ripeto sempre, il fatto di vivere su di sé una diversità o di occuparsi di una diversità, non salva dai pregiudizi su altre diversità. Devo ammetterlo, io stessa avevo pregiudizi per le mamme non vedenti: occupandomi di disabilità motoria, davo un po’ per scontato che tutto sommato le madri non vedenti avessero meno problemi nell’accudimento del figlio. Il che è assurdo, perché una madre che non vede ha ovviamente delle difficoltà notevoli. Pensavo che il tatto potesse bastare finché il neonato è piccolo, mentre una donna con deficit motorio può avere tutta una serie di problemi a sollevare il bambino, o a cambiarlo, o a vestirlo. Pensavo che una madre non vedente avesse più problemi quando il figlio diventa più grande, quando corre e può sfuggire al controllo. Devo davvero ringraziare Edith Thoueille per avermi fatto comprendere nei più minimi dettagli cosa significa essere una madre non vedente e quali ripercussioni ha sul bambino. Per avermi fatto comprendere la delicata fase dell’allattamento, da me – ignorante del deficit visivo – decisamente sottovalutata. Sono contenta di avere potuto, grazie a lei, aggiungere un altro tassello al tema della maternità delle donne disabili.

Limiti fisici, psicologici, sociali
Passando ai contenuti, posso dire che attraverso le interviste realizzate all’epoca, erano state individuate tre categorie di limiti che possono ostacolare o comunque influenzare la maternità, sia nel momento precedente, cioè quando ancora c’è solo il desiderio di un figlio, sia durante la gravidanza vera e propria, sia nel post partum quando la donna viene dimessa dall’ospedale e si trova a casa ad accudire un neonato.
Le tre categorie di limiti sono di tipo fisico, psicologico e sociale. Li riprendiamo anche qua, perché a parte alcune piccolissime differenze per quel che riguarda ad esempio le barriere architettoniche, i discorsi fatti per le donne con deficit motorio valgono anche per quelle con deficit visivo.
Per quanto riguarda i limiti di tipo fisico, ci possono essere ovviamente dei problemi di salute che potrebbero compromettere la gravidanza. Come ci potrebbero essere delle malattie trasmissibili geneticamente, ma qui si entra in scelte etiche sui cui non mi sento di esprimere giudizi. Ma come limiti fisici intendo anche il tema delle barriere architettoniche. Ovviamente per la donna con deficit visivo non si tratta per esempio dell’impossibilità a salire sul lettino ginecologico, ma anche per lei esistono numerose barriere architettoniche, date soprattutto dall’impossibilità di orientarsi nei reparti ospedalieri. Anche la stanza in cui si soggiorna prima e dopo il parto può rappresentare un luogo scarsamente accessibile per chi non vede. Edith Thoueille fa inoltre notare che per la donna non vedente esistono dei tempi diversi, tempi che un reparto di maternità deve tenere in considerazione. Ad esempio permettere alla donna di avere più tempo, subito dopo il parto, di esplorare il bambino con le mani. Il personale medico e paramedico di solito non è preparato ad accogliere donne con disabilità. Le barriere architettoniche possono poi ritrovarsi anche in casa, quando la mamma viene dimessa col piccolo. Possono infatti esserci esigenze di adattamenti per quanto riguarda la cura del figlio: quindi per esempio adattare il fasciatoio, organizzare la cameretta del bambino in un certo modo, ecc. Per le mamme non vedenti occorrono anche tutta una serie di adattamenti tattili.
Per quanto riguarda i limiti psicologici, la donna disabile può avere tutta una serie di paure e tabù sul proprio corpo e la propria sessualità. Inoltre l’immagine collettiva è quella di una donna abile a prendersi cura del figlio, e la donna disabile può sentirsi non abile in questo senso.
Infine c’è il problema della propria autonomia. Nel senso che una donna disabile nel corso della vita può avere acquisito determinati spazi di autonomia per se stessa, ha imparato a convivere col proprio deficit. Mentre può risultare molto faticoso scoprire che l’autonomia che si è acquisita per se stesse non è più valida in relazione a un figlio. Mi spiego meglio: in relazione a un figlio – che è una persona totalmente dipendente da altri – la donna disabile può scoprirsi non autonoma nei gesti in cui prima era autonoma, e quindi deve compiere una rielaborazione di se stessa e del proprio essere.
Infine, per quanto riguarda i limiti sociali, molte delle donne raccontano che i genitori hanno reagito molto male quando hanno rivelato loro: “Sono incinta”.
Per i genitori di figli disabili, i figli restano sempre “piccoli”. Questi genitori fanno fatica a percepire i figli disabili come adulti, e quindi scoprire che la propria figlia diventerà a sua volta madre li mette davanti all’obbligo di dover accettare l’adultità della loro “piccola”. Inoltre sembrano aver paura di dover sviluppare strumenti di protezione doppia: prendersi cura della propria figlia disabile e dei suoi figli. I genitori, ma soprattutto la società in genere, l’entourage (vicini di casa, amici, colleghi di lavoro, ecc.) non sono preparati all’idea di una donna disabile con figli e soprattutto il fatto che una donna disabile voglia un figlio viene considerata un po’ una follia.
In generale mancano nella società delle immagini culturali di riferimento, non c’è l’immagine collettiva della donna disabile con figli.
E anche per le donne disabili mancano dei modelli di riferimento.
Vorrei aggiungere una cosa: quando scrissi la prima monografia, la intitolai “Mamme”. Mettendoci un punto dopo la parola mamme e aggiungendo “Nessun aggettivo dopo il punto”. Questo per dire che non volevo per forza porre l’accento sulla disabilità come a dire: queste donne ce l’hanno fatta nonostante il deficit. Non volevo vittime o eroine come di solito vengono descritte le persone disabili nei mass media. Volevo che queste donne si raccontassero, come mamme, e basta.
Nello stesso tempo però, per poter procedere in questo ambito, per poter continuare a lavorare sul tema delle madri disabili e magari un giorno arrivare anche in Italia a costituire qualcosa di analogo ai modelli esteri, bisogna anche considerare il deficit. E avere quindi delle attenzioni particolari in relazione proprio alla disabilità, che non va negata.

Una casa domotica? No, didattica!

Una villetta a schiera come tante altre, su tre piani, in una via di Bologna. Ho appuntamento a casa di Valentina Zincati, una giovane donna con disabilità, che mi aspetta per mostrarmi la sua abitazione domotica. Arrivo, e il cancello si apre, percorro un breve percorso con una rampa, e non mi stupisco perché so che Valentina usa la carrozzina per muoversi. Finita la rampa mi si apre davanti una porta blindata, senza che io debba toccare niente, ed eccola, Valentina, nella sua casa. Ci eravamo conosciute allo sportello del Centro Risorse Handicap del Comune di Bologna, quando era venuta per presentare il bando per ottenere un rimborso sulle spese per le automazioni domotiche della sua nuova casa, dove sarebbe andata a vivere da sola. Ero incuriosita da questa casa di cui avevo seguito il percorso sulla carta, e ora eccomi, una casa domotica vera, di quelle che si leggono nelle riviste.

Una casa adattata ma normale
Mi guardo intorno, e la casa mi piace subito. È bella, accogliente, sembra una casa normalissima, chissà cosa mi aspettavo… forse sensori e fili che uscivano dappertutto… e invece mi trovo in un bilocale arredato con gusto e semplicità, con alcuni oggetti etnici. Mi piace anche la scelta degli oggetti, dei quadri, è una casa giovane, che rispecchia l’età di Valentina e anche la mia. Pensare a una casa “adattata” per una persona disabile in carrozzina forse fa pensare a un ambiente che debba rinunciare a essere una casa normale per essere una casa appunto con degli adattamenti, e quindi “diversa”. Mi viene subito mostrato il terrazzo, che in realtà è una sorta di giardinetto interno, a piano terra con la casa. Il terrazzo è circondato da muri e su uno di questi è dipinto un grande murales, con Charlot e il disegno di una pellicola cinematografica e, sotto, la scritta “Vale”. È una dedica degli amici a Valentina, un progetto per lei che – scopro – è laureata al Dams, sezione Cinema, e nella vita fa la sceneggiatrice e la regista di video e cortometraggi. “Credevo che fare un murales fosse una cosa semplice, e invece è durato per giorni. Sembrava dipingessero la Cappella Sistina”, mi racconta. E inizia anche il racconto del percorso di questa casa. “Io ho avuto un trauma neonatale, e ora mi muovo con la carrozzina anche se riesco un po’ a stare in piedi e a fare qualche movimento; ho tanti movimenti involontari e delle difficoltà anche alle braccia. La mia casa è su più piani e questo era un problema, prima facevo le scale gattonando. Poi anche la mia camera non era comoda, il letto era troppo alto e avevo sempre bisogno di aiuto. Volevo un po’ di indipendenza, uno spazio per me. La casa era grande, anche se siamo una famiglia numerosa e ci abitiamo in tanti. Questa che vedi come mio appartamento, in realtà era la tavernetta. Insieme a mio padre e a mia madre abbiamo iniziato il progetto nel 2005, ma ci è voluto tanto tempo. Innanzitutto il primo anno lo abbiamo passato esclusivamente a documentarci: abbiamo un dossier alto come un grattacielo!”. Poi sono iniziati i lavori veri e propri. I primi contatti sono stati con Vaccari, di “HelpICare”, un team che già faceva impianti domotici per privati e ospedali. “Vaccari mi propose subito l’utilizzo di comandi vocali, ma per me era fantascienza! Pensavo che non sarei mai riuscita adusarli, perché ho un po’ di difficoltà nella voce…”. E invece ora tutto a casa di Valentina è comandato vocalmente con la sua voce. Da settembre 2006 sono iniziati i lavori grossi di muratura: un suo amico architetto ha riprogettato lo spazio della tavernetta, spostando innanzitutto la collocazione del bagno e inserendo un muro divisorio, ma non del tutto chiuso, tra la zona giorno e quella notte. A un’estremità della tavernetta prima c’era il bagno, lungo e stretto, e senza doccia, ed era molto scomodo per il passaggio della carrozzina. Ora il bagno è stato spostato al centro dell’estremità, costruendo un ambiente nuovo e ampio, con la doccia. Ai due lati di questo nuovo ambiente, sono stati ricavati da un lato l’armadio praticamente a muro con ante scorrevoli e dentro semplici carrelli Ikea, e dall’altro il punto cucina. Al centro dell’appartamento c’è la zona soggiorno e la zona studio/lavoro, e al di là del muro divisorio la camera da letto. “Il mio amico Bellei ha idee moderne ed essenziali e per me è molto meglio avere una casa con spazi comodi anziché una casa piena di roba. Anche il piano di lavoro l’ha studiato sospeso, sembra una mensola, ma alla fine è una scrivania, però senza gambe, così non solo ci passo sotto con la carrozzina, ma mi posso girare dappertutto senza andare a sbattere contro le gambe del tavolo”.

“Quante cose in più riesco a fare”
Terminati i lavori murari, sono iniziati quelli domotici: “Sotto il pavimento passano una quantità enorme di fili, sembra una centrale nucleare!”. Di tutti questi fili ora non restano che alcuni “occhi” inseriti nel soffitto. In realtà potrebbero sembrare dei faretti di luce, invece sono ricettori a raggi infrarossi. Chiedo a Valentina se ha già scoperto l’utilità di questa casa, se è vero che può fare cose in più e da sola, cosa è cambiato nella sua vita. “La casa è nuova e la inizio a vivere adesso, ma mi rendo già conto di quante cose in più riesco a fare. Innanzitutto l’accesso al terrazzo: prima non era così, c’era un gradinone enorme e per me impossibile. Poi per esempio posso bere da sola: nel lavello ho fatto mettere un bicchiere con cannuccia e io mi avvicino e bevo, senza dover prendere in mano il bicchiere perché non riuscirei. Da quando ho questa casa ho trovato tante piccole idee per essere più autonoma, ma sono idee che ti vengono in mente se hai l’ambiente adatto”. Mi faccio allora raccontare cosa può fare in questa casa e come funziona. “Innanzitutto se suonano il campanello, si accende la tv, vedo chi è, e se voglio apro, oppure no. Poi con la voce riesco a gestire le luci, ad aprire tutte le porte, il cancello, la porta blindata, e pure la porta del bagno. Le porte esterne poi hanno dei tempi di apertura e di chiusura, per il discorso della sicurezza. La porta blindata, quando la chiudo, si chiude in automatico anche a chiave, sempre per la sicurezza. C’è un impianto di allarme che neanche a Fort Nox hanno! Anche quello lo comando con la voce. Tutto quanto funziona sia con la mia voce, perché il riconoscimento vocale è su di me, sia attraverso i comandi manuali di una pulsantiera. Anche la tv e il lettore dvd sono gestiti dalla voce, anche se la televisione fa rumore e purtroppo interferisce con i comandi vocali, perché i sensori con il rumore di fondo mi sentono poco. Allora il telecomando domotico, anziché lasciarlo sulla mensola al centro della casa dove è ora, lo attaccherò alla carrozzina, così la mia voce sarà sentita meglio e potrò limitare il margine di errore. Se sono fuori e devo entrare in casa, ho una sorta di chiave fatta a sensore per cui basta che l’avvicini alla porta e questa si apre. Tutte le tende oscuranti alle finestre e alla porta- finestra del terrazzo sono automatiche e le controllo con la voce”.

I costi emotivi dell’autonomia
Mi accorgo però che sia le finestre che la porta-finestra sono rimaste “normali”, cioè si aprono a mano. “Le abbiamo lasciate così un po’ per una questione di costi, un po’ perché riesco a gestirle anche da sola. La porta del terrazzo riesco ad aprirla da sola, e poi sto aspettando una nuova carrozzina, che avrà anche la possibilità di alzarsi, per cui arriverò anche ad aprire le finestre”. Noto allora che anche la cucina non è adattata, a parte lo spazio sotto il lavello per la carrozzina, per il resto è una cucina normalissima. “I mobili della cucina non sono adattati perché sono tarati su di me” – mi risponde Valentina. E la cosa subito mi colpisce, perché di solito avviene il contrario: si fa l’adattamento proprio perché il mobile viene tarato sulla persona. “Bisogna calcolare bene le azioni che una persona riesce a fare e non fare. Io comunque non potrei prendere ad esempio giù i piatti da una mensola, e apparecchiare la tavola. La cucina è un luogo in cui avrò sempre bisogno di aiuto, per cui perché adattarla? Invece nel bagno sapevo che c’era un margine per imparare delle dinamiche nuove, magari anche strane, ma mie, per poter fare delle cose in autonomia, e quindi ho voluto un bagno tarato su di me. L’altezza del lavandino, per esempio, è stata studiata appositamente in modo che io possa utilizzarlo sia da seduta che da in piedi Con il wc abbiamo fatto delle vere e proprie sedute di ore per fissare le altezze giuste e la posizione delle doccine, il fontaniere ha avuto una pazienza assoluta”. Ridiamo a pensare alle “sedute”, ma subito Valentina torna seria: “Una casa come questa ti pone in modo nuovo davanti a te stesso, soppesando quello che vuoi fare e quello che puoi fare. È una casa che io definisco didattica! Ma la cosa bella è che tutte le persone che ci hanno lavorato sono state bravissime perché sentivano che era una casa sperimentale, che era didattica anche per loro”. Mi piace questo ragionamento, perché coloro che si occupano di adattamenti domestici non hanno la soluzione magica ai problemi, non promettono la piena autonomia. Ma suggeriscono soluzioni per l’autonomia, là dove il concetto di autonomia viene relativizzato alla persona, a quelli che sono i suoi desideri, a quello che spera di ottenere, alle abilità residue che ha. Parlare di autonomia in questo senso significa che la persona deve avere già fatto un percorso su stessa, o deve essere disposta a farlo. Deve in qualche modo essere in pareggio con i conti tra sé e il proprio deficit, i propri limiti, le proprie risorse. Mentre parlo con Valentina mi accorgo che forse una casa domotica non è per tutti, non solo per i costi economici, ma per i costi emotivi, per il fatto di essere disposti a mettersi di nuovo in gioco con l’handicap.
Ci spostiamo in camera da letto, e a parte il letto che si inclina attraverso un motore comandato anch’esso con la voce, la camera non ha niente di tecnologico. Mi aspettavo un sollevatore e invece, attaccato al muro divisorio costruito per la separazione giorno/notte, è stato costruito un altro muretto con una serie di misure strategiche e maniglioni, cui Valentina si appoggia per alzarsi e andare a dormire da sola. “Mi era stato proposto il sollevatore a soffitto, ma ho voluto la soluzione delle maniglie perché volevo sfruttare quello che riesco a fare, non volevo una casa per rimanere immobile, ma attiva. Ci è voluto molto tempo però, circa un anno, per fare delle prove e per inventarmi la soluzione più adatta. Adesso sono allegra, ma è stato un percorso complicato. In pratica questa casa è stata anche una palestra! Il sollevatore inoltre avrebbe vincolato la casa, non avrei potuto fare il muro divisorio, il bagno avrebbe dovuto essere vicino al letto, e avrei avuto meno spazi per la zona giorno. La mia casa invece deve diventare anche la sede della mia associazione “Teorema”, per cui volevo un ambiente confortevole e spazioso”. Come ultima cosa notiamo il pavimento, simpatico e colorato. Valentina mi spiega che è di un materiale che attutisce i colpi, per cui se uno cade si fa meno male. È anche antiscivolo, duro, resistente, e tiene il peso, cosa importante perché le carrozzine elettriche pesano tanto. È anche antincendio, si lava con facilità, difficilmente si graffia. Francamente penso che un pavimento del genere farebbe comodo in qualsiasi abitazione! Al termine dell’esplorazione della casa mi rendo anche conto che comandare una casa con la voce non è così semplice come avevo pensato, ci sono tutta una serie di comandi da memorizzare e delle parole specifiche da usare. “Addirittura alcuni vocaboli i sensori li capiscono meglio, altri peggio, per cui c’è voluta pazienza per studiare i vocaboli migliori sia per me che per i sensori. All’inizio avevo un po’ di caos in testa, ma poi diventa abitudine”. Mi congedo e Valentina, urlando, chiama sua madre, che vive al piano di sopra. Ci fa ridere questa cosa: in un appartamento con tutte queste tecnologie, non sono interessate ad avere un comando anche per chiamarsi da un’abitazione all’altra: “Meglio i vecchi metodi!”. Ringrazio Valentina e sua madre per l’ospitalità e per avermi accolta con tanta disponibilità (e un vassoio di pizzette!). Lascio Valentina con una battuta: ha faticato tanto per andare a vivere da sola, ma ora difficilmente avrà il tempo per stare da sola, perché tutti vorremo frequentare casa sua.

Un giardino del benessere e dell’integrazione

Spesso quando si pensa al concetto di viaggio si immaginano sempre delle mete turistiche lontane da casa. Eppure a tutti sarà capitato di dover pensare a qualche gita più breve e più vicina, magari la famosa “gita fuori porta”, per trascorrere un pomeriggio domenicale o una giornata festiva. Spesso, per fuggire alla città, si ama trascorrere qualche ora all’aperto, nei parchi, nei sentieri, a contatto con la natura. Il Giardino del Benessere, nato dal progetto Diversambiente, e inaugurato il 20 giugno presso il Centro Parco San Teodoro in via Abbazia 28 a Monteveglio (BO), può essere un’idea, non solo per una domenica con gli amici o con la famiglia, ma anche un’idea da copiare.

L’antefatto
Diversambiente nasce da un incontro fortunato e quasi fortuito. L’incontro tra storie ed esperienze individuali e l’intreccio di un’attenzione e di una curiosità tutta speciale hanno dato origine a un progetto complesso che vuole unire i valori della relazione, la scoperta della diversità e la conoscenza dell’ambiente.
Tutto cominciò così… da una passeggiata di Paolo Degli Esposti (Centro Documentazione Handicap di Bologna) nel Parco Regionale dell’Abbazia di Monteveglio: “Era l’autunno di alcuni anni fa, il 2006. A San Teodoro, inciampando in un ciottolo del Sentiero dei Sensi (sentiero per non vedenti) e guardando su verso l’abbazia oltre la viminata un po’ malmessa che circondava quel che una volta era l’orto didattico… mentre sbucavo tra le fronde del brollo ecco alcune domande un po’ imbarazzanti: ‘Se qui ci fosse Mario che si porta dietro a fatica le gambe, chissà come sarebbe stato possibile muoversi su quel fondo sconnesso, o piegarsi per raccogliere un fiore, o entrare nell’orto…’. Oppure: ‘Come raccontare il volo di una piccola poiana giù dal campanile dell’abbazia verso la Cucherla a chi, come Nadia, non ha una vista d’aquila…’. Diversambiente nasce così, pensando se un’area protetta, un giardino, un orto, un prato potessero trasformarsi da luogo dove emerge la difficoltà a occasione per accogliere la diversità, incontrarla, farsi interrogare anche quando questa assume il volto della persona disabile”.
Daniela De Matteis (coordinatrice Progetto Diversambiente) ricorda: “Circa tre anni fa ho avuto l’occasione di organizzare un’uscita per un gruppo di disabili provenienti da Savignano sul Panaro, dal centro I Tigli. Fu la prima occasione di sperimentare attività con gruppi di questo tipo. Siamo stati alcune ore pomeridiane a osservare e ‘giocare’ con la natura lungo e attorno al sentiero dei sensi. Tutto è andato bene e siamo rimasti contenti. In seguito è arrivata l’occasione di avere Marco Di Brino come tirocinante per il Master in Educazione Ambientale e così ho pensato bene di metterlo al lavoro sulla creazione di attività da proporre a persone con difficoltà motorie o cognitive. Nel frattempo i contatti si espandevano. La direttrice del Parco dell’Abbazia di Monteveglio, Raffaella Leonelli, ci ha messo in contatto con Paolo Degli Esposti. Da subito ci siamo scambiati alcune informazioni sulle reciproche attività e ho conosciuto Roberto e Patrizia, Lorella e Mario, educatori e animatori del Progetto Calamaio. In occasione della festa del Parco, nel maggio del 2006 abbiamo organizzato un giro che coinvolgesse i bimbi presenti con la storia del trenino Arturo… È stato divertente….Da allora il contatto è rimasto. Nel frattempo iniziava a maturare l’idea di fare qualcosa di più consistente e duraturo, così Paolo ha cominciato a coinvolgere il CDI di Crespellano e la cooperativa sociale Valle del Lavoro, proponendo il progetto Diversambiente, che presentò in occasione di un bando provinciale. Poiché l’approvazione arrivò, nell’anno scolastico 2006/07, abbiamo pensato di sperimentare la collaborazione tra Centro Documentazione Handicap e Parco dell’Abbazia in occasione di alcuni incontri organizzati con classi terze elementari di Bazzano che lavoravano alla riqualificazione del giardino scolastico. Del resto l’idea del Giardino del Benessere ben si collegava a questa magnifica occasione formativa. Abbiamo realizzato un unico incontro, ma è stato bello e interessante. L’incontro era sulla semina in semenzaio. Per questa occasione Roberto e i suoi collaboratori avevano inventato storie, animazioni e giochi che potessero inserirsi all’interno del progetto formativo di quella classe. Il progetto Diversambiente stava prendendo forma ed era difficile immaginare quanti risvolti vi avremmo scoperto…”.

Il Progetto
Dalla collaborazione di alcune realtà locali, è nata l’idea di realizzare il progetto Diversambiente nel quale l’ente capofila, l’associazione Volhand, ha coinvolto alcuni partner che lavorano in campo ambientale e sociale: il CDH di Bologna, che ospita la cooperativa Accaparlante e il Progetto Calamaio con animatori disabili; il CDI di Crespellano, che lavora sull’integrazione; la Valle del Lavoro, cooperativa sociale che offre opportunità di lavoro a ragazzi con problemi psichici; il Parco Regionale dell’Abbazia di Monteveglio, l’Area Protetta dove far nascere il Giardino e coinvolgere nel progetto disabili e bambini attraverso l’educazione ambientale.
Nato dall’idea di rendere accessibili i parchi a tutti, Diversambiente ha portato alla realizzazione di un’area del Parco fruibile anche da persone disabili grazie ad alcuni accorgimenti strutturali. Poiché spesso le difficoltà fisiche impediscono anche l’accesso alle esperienze, sono state pensate semplici attività emozionali a contatto con la natura centrate sulla valorizzazione delle abilità.
Grazie al contributo della Provincia di Bologna nel 2006 e della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna in seguito, si è dato avvio al lavoro. Il Parco Regionale dell’Abbazia di Monteveglio, fin dalla sua istituzione, si occupa di educazione ambientale lavorando con numerose classi delle scuole dei comuni limitrofi.
La collaborazione con alcune di queste classi – seguite da operatori del Parco, del CDI e da persone disabili nel ruolo di animatori – ha portato alla ideazione del Giardino del Benessere e alla sperimentazione di un nuovo rapporto con l’ambiente naturale che, da semplice luogo in cui trascorrere il tempo con piacevolezza, si è rivelato ideale luogo di integrazione.
Il posto scelto per la realizzazione del Giardino si trova alle spalle dell’attuale sede del Parco, il
Centro San Teodoro. Tale scelta è stata motivata dalla presenza di un comodo parcheggio e di un preesistente Sentiero dei Sensi (sentiero per non vedenti) che conduceva a un orto didattico.
L’attuale Giardino del Benessere comprende l’ex orto didattico convertito in orto-giardino, un sentiero che ne consente l’accesso, due piazzole di sosta attrezzate e una macchia arbustiva con specie autoctone. Tale percorso si raccorda all’esistente Sentiero dei Sensi, abbracciando ad anello il nucleo rurale di San Teodoro.
Per la realizzazione del progetto Diversambiente è stato determinante la collaborazione dell’Istituto Comprensivo Bazzano-Monteveglio. In particolare l’idea è stata accolta con favore da alcune insegnanti delle due Scuole di Primo Grado che, pur considerando importante la realizzazione di un luogo accessibile in prossimità della sede del Parco, erano tuttavia interessate a lavorare nei rispettivi giardini scolastici. Così, in fase di programmazione, insegnanti e operatori del Parco hanno pensato che i giardini delle scuole potessero essere, per colture e fruibilità, “gemelli” di quelli del Benessere. Le insegnanti hanno riconosciuto una grande valenza educativa nel confronto dei bambini con persone che quotidianamente hanno problemi motori di vario tipo. Questi momenti hanno sviluppato nei bambini la consapevolezza che tutti noi abbiamo limiti e difficoltà legati alla fisicità – a volte solo temporanei o dovuti all’età – e che siamo tutti uguali nel desiderio di contatto con gli elementi naturali, nei sogni e nelle aspettative.

Quando la bellezza non è un fotomontaggio

A volte ritornano, si è soliti dire. Bene, questo è il mio caso di ritorno, pure fortunato.
Ho passato giorni e giorni a pensare a cosa poter scrivere questa volta sulla rubrica Informazione sociale, ma dopo tanti anni di giornalismo – proprio nel sociale – gli argomenti sembrano scontati e le idee ripetitive. Speravo in un evento esterno, in qualcosa che colpisse la mia esperienza in questo campo, che mi facesse lodare una riuscita informazione sociale oppure criticarla. Nel frattempo occupavo il mio tempo libero con Facebook (sì, lo ammetto), il potente social network che sta raccogliendo sempre più proseliti, grazie al quale ho ritrovato amicizie del passato e anche qualche docente universitario che “ai miei tempi” era “solo” un dottorando di ricerca. Mentre sbirciavo nel profilo web di uno di questi docenti, ho ritrovato vecchi stimoli cerebrali di qualche anno fa, quando lo studio delle nuove tecnologie era la mia materia preferita. Questa persona, ho scoperto, continua a leggere “Wired”, la rivista sempre attenta al futuro.
“Wired”… Se devo essere sincera me l’ero dimenticata… Il lavoro, gli impegni quotidiani, la realtà reale, contrapposta a quella virtuale che studiavo, mi hanno negli anni allontanata da certe materie e da un certo modo di interpretare la società.
Incuriosita ed emozionata per questi ricordi, ho aperto il sito web di “Wired Italia” e lì in bella mostra appariva con tutta la sua potenza la copertina del numero di giugno. In primo piano, una bellissima ragazza, con un vestito bianco cortissimo da cui escono delle gambe mozzafiato, salvo dal ginocchio in giù dove ha innestate due protesi ipertecnologiche modello powerfoot. Inginocchiato ai suoi piedi, un giovane uomo, vestito di un abito grigio metallico, sembra uscito da un film di fantascienza e, sorridendo, sta facendo manutenzione a un arto sintetico della ragazza. Anche lui al posto dei piedi ha due powerfeet, anche se di modello differente.
Lei è Aimee Mullins, ex campionessa di velocità e salto in alto, oggi modella e attrice. Da bambina ha perso le gambe, ma non è stato un problema per lei farsene costruire di tutti i tipi: ne ha di cristallo per le serate eleganti, di legno decorate con scarpe con il tacco incorporate, realistiche da indossare sotto alle gonne, tecnologiche di vari modelli. Lui è Hugh Herr, un professore che dirige il dipartimento di biomeccatronica del MIT (Massachusetts Institute of Technology) di Boston, costruttore delle protesi di entrambi; per capirci, è quello che ha “inventato” il fenomeno Pistorius. Appassionato da sempre di montagna e scalate, quando aveva 17 anni per un brutto incidente si congelò gli arti inferiori che gli furono amputati.
Si sono fatti fotografare assieme, sotto al titolo “Evoluzione in corso”, in pieno stile della rivista.
La mia prima esclamazione è stata: “Bello!”. Bella la copertina patinata, bella la foto, belli i protagonisti, bellissime le protesi, e bello ritrovare “Wired” e la disabilità unite insieme, i “miei” due argomenti di nuovo intrecciati. Bello, soprattutto, trovare la disabilità in contesti che non trattano solo di disabilità.
Incuriosita ancora di più, ho fatto qualche ricerca in rete e ho scoperto che la sensazione comune che molte persone hanno provato davanti a questa copertina è stata: “Si tratta di un fotomontaggio!”. Gli opinionisti hanno subito commentato che nella percezione comune sembra impossibile che due disabili veri possano assumere un atteggiamento così vincente. Il direttore di “Wired”, Riccardo Luna, ha così successivamente scritto un editoriale, “Storia di una copertina (non di un fotomontaggio)”, ribadendo il messaggio dei due ragazzi post-umani: “Quello che gli altri percepiscono come carenze sono il combustibile della nostra creatività”. Creatività e vittoria schiacciante sui limiti, è solo questo il messaggio? Se così fosse non sarebbe una buona informazione sociale, siamo stanchi di disabili solo eroi o solo vittime. Non potrebbe invece essere che si “grida” al fotomontaggio perché la copertina è semplicemente – senza fronzoli e doppi sensi – bella? Forse due disabili veri non possono essere una bella copertina?

Quando la disabilità non è annunciata

Di Valeria Alpi

La scorsa stagione cinematografica è stata contraddistinta da un film italiano che ha vissuto un grande successo di critica e di pubblico. Il film è La ragazza del lago, di Andrea Molaioli, liberamente tratto dal romanzo Lo sguardo di uno sconosciuto della scrittrice norvegese Karin Fossum. Esistendo già su “HP-Accaparlante” una rubrica di cinema, non si vuole, parlando di informazione sociale, descrivere il film in senso stretto. Merita attenzione, invece, il modo in cui, del film, si è parlato attraverso i mass media. Trattandosi di un film giallo, ovviamente gli articoli di giornale apparsi nei giorni successivi alle prime proiezioni, e anche le varie recensioni che ancora oggi si trovano su Internet nei maggiori siti dedicati al cinema, non potevano e non possono svelare completamente la trama. Prendiamo due articoli come esempi.
Roberto Nepoti, su “la Repubblica” del 14 settembre 2007, scriveva: “Un giallo che ha da dirci molto di più sui delitti della provincia italiana dei cento servizi televisivi sull’ennesimo, ‘inspiegabile’ delitto di paese. In una località di montagna, il corpo di una bella fanciulla è ritrovato ai bordi di un lago. I primi sospetti cadono sul fidanzato; ma per il commissario Sanzio, poliziotto taciturno e tormentato appena trasferito al Nord, le cose non sono così semplici. Soprattutto quando si apprende che la giovane aveva una neoplasia cerebrale e che un bimbo, affidato alla sua custodia, è morto in circostanze mai chiarite. Si intravedono ombre prestigiose dietro le immagini del film di Andrea Molaioli, già collaboratore di Nanni Moretti: quella di Friedrich Dürrenmatt, soprattutto per il soggetto; quella di Georges Simenon, per la rappresentazione della provincia e dei suoi sepolcri imbiancati. Però il merito de La ragazza del lago è di non imitare nessuno; personaggi e ambienti sono molto italiani, molto contemporanei nel loro egoismo, nell’indifferenza, nel potenziale di violenza verso i più deboli e indifesi. Così, i presunti mostri si rivelano innocenti, scambiandosi il ruolo con la parte perbene, agiata e rispettata, della comunità”.
Su “Il Messaggero” del 3 settembre 2007, Leonardo Jattarelli commentava: “Un caso misterioso, una scomparsa, poi il ritrovamento del cadavere di una ragazza sulla sponda di un lago in un piccolo paese del Friuli. Uno dei tanti gialli insanguinati ai quali la cronaca ci ha abituati e dei quali i media si nutrono ogni giorno, con voyeurismo spesso, con accanimento. In La ragazza del lago, film d’esordio di Andrea Molaioli applaudito in concorso alla Settimana della critica ieri alla Mostra del cinema, ciò che manca è invece proprio il contorno mediatico e la pellicola prende il sapore di certi racconti alla Simenon. ] Una storia con diversi sottinsiemi (quello su tutti del rapporto tra il commissario e una moglie in crisi) e che in qualche modo, come sottolinea Servillo, rappresenta una sfida personale: […] ‘Volevo restituire il disorientamento nei riguardi delle responsabilità familiari, il pudore di fronte a certi fatti tragici evitando lo show dei sentimenti cui siamo stati abituati dallo scandalismo mediatico. Uno dei pregi del film è proprio che evita di sbattere il mostro in prima pagina. Qui l’umanità vince su tutto’”.
Articoli tutto sommato simili, generici, e nello stesso tempo allettanti per andare a vedere il film. Un film presentato, lo ripetiamo, come film appartenente al genere giallo. Anche il tam tam che circolava in quei mesi tra i vari spettatori si soffermava solo sul fatto che si trattava di un giallo molto ben riuscito, con un ottimo cast.
Devo ammettere che non amo particolarmente il genere giallo, ma sono contenta di essere andata al cinema a vedere questo film con le aspettative di un film giallo. In questo modo tutto quello che ho visto è stata una sorpresa: non sarò certo io a svelare la trama se per caso qualcuno ancora il film non l’ha visto, ma la storia è costellata di personaggi disabili, che spesso non intervengono neppure nelle vicende dell’omicidio, e restano solo come contorno generico per caratterizzare i vari personaggi. C’è il pazzo del paese, c’è il padre del pazzo che è in carrozzina, c’è la moglie del commissario che ha una malattia degenerativa, c’è la vittima che ha una neoplasia che l’avrebbe portata all’invalidità, c’è lo stesso commissario che ha una dermatite atipica che gli procura vari handicap… E c’è una famiglia, che con assoluta sobrietà mostra quanto è difficile a volte convivere con la disabilità.
La disabilità è quindi trattata non in contesti dedicati alla disabilità, ma semplicemente come fattore che può esistere in alcune famiglie di un paese o di una città, senza che per questo la vicenda venga necessariamente a intrecciarsi con essa. Esemplare, tra tutte, la scena in cui il commissario chiede all’uomo in carrozzina se il furgone è il suo, e l’uomo risponde: “Certo! Non ha visto che è adattato con i comandi di guida al volante?”. Esemplare perché viene finalmente reso pubblico che anche la persona in carrozzina può guidare, e che esiste una patente speciale con degli adattamenti per chi ha qualche deficit, e che questi adattamenti non sono poi così introvabili o fuori dal mondo. Il tutto raccontato in maniera perfettamente normale, come se a qualsiasi altro “normodotato” in qualsiasi altro film giallo o film generico venisse chiesto: “È sua quella macchina?”.
Ma la cosa bella è che i mass media, nei vari mesi, non hanno mai descritto quanta disabilità ci fosse nel film. L’essere inserito nel genere giallo ha preservato il film da tutto il pietismo o eroismo che contraddistingue i commenti di film sulla disabilità. Se si sa già che si va a vedere un film sulla disabilità, si è già portati a vedere il tutto con occhi diversi. Quando invece la disabilità non è annunciata, essa entra in scena in maniera talmente sobria che non si rimane turbati dalla diversità. O impietositi da essa. O costretti a pensare: “Però! Che coraggio”. E la cosa ancora più bella è che quando la disabilità in un film non è annunciata, è proprio la volta che la disabilità è raccontata bene.