La tematica della comunicazione al paziente è oggi particolarmente attuale e riveste sempre più un ruolo cruciale all’interno della pratica medica e della relazione medico-paziente. Questo tanto più nel caso in cui il compito del clinico sia comunicare informazioni cosiddette “infauste”, altrimenti conosciute con l’appellativo di cattive notizie. Le seguenti riflessioni nascono a partire da un’esperienza condivisa all’interno di un Corso di Formazione alla Comunicazione delle Cattive notizie, promosso all’interno dell’Azienda Ospedaliera S. Orsola-Malpighi, giunto nel 2004 alla sua seconda edizione. Comunicare cattive notizie rappresenta uno dei compiti più difficili della professione medica. Esso richiede sia conoscenze tecniche da parte del medico, sia la padronanza di modalità comunicative che sappiano adeguarsi ai diversi tipi di pazienti e alle diverse situazioni di cui essi sono portatori. Le competenze psicologiche costituiscono un attributo importante delle professioni d’aiuto ed è noto l’impatto che il tipo di relazione può giocare tanto nella cura del malato quanto nel decorso del trattamento. Dati dalla letteratura dimostrano che una buona capacità comunicativa del medico è in grado di migliorare sia l’aderenza del paziente alle cure, sia il decorso della malattia. Questi ragionamenti sembrano ovvi e banali, ma diventano cruciali in particolare nel momento in cui la comunicazione al paziente diventa il compito principale del clinico e quando la comunicazione si fa portatrice di notizie cosiddette “cattive”. In ogni modo, riferendoci strettamente al problema della comunicazione delle cattive notizie, è bene precisare che: 1. la comunicazione della cattiva notizia non coincide necessariamente o esclusivamente con la cosiddetta “diagnosi infausta”, ovverosia senza speranza di vita; 2. lo spettro delle cattive notizie che il personale medico si trova a comunicare è molto ampio e include tutte quelle situazioni che, pur non pronosticando il decesso del malato, ne possono alterare drammaticamente le prospettive di vita, con effetti peggiorativi della vita sia per il malato che per i suoi congiunti. Da quanto detto risulta evidente come la formazione del medico alla comunicazione e alla relazione con il paziente sia un aspetto fondamentale di questa identità professionale. Tale formazione può essere svolta, sia in ambito universitario, durante la laurea, sia successivamente, come miglioramento delle capacità relazionali. Quanto attualmente proposto sembra però non essere sufficiente e molti medici e studenti condividono la necessità di una maggiore formazione proprio in questo campo, di per sè difficoltoso e complesso. Comunicare con il paziente significa infatti relazionarsi contestualmente con un ampio spettro di variabili e comprendere (o almeno tenere in considerazione) i contenuti emotivi che della relazione fanno parte. Ciò non significa che il medico debba trasformarsi in psicologo, ma sottolinea ancora una volta l’importanza di saper “maneggiare” alcuni fondamenti psicologici alla base della comunicazione e della relazione terapeutica con il paziente. Di sicuro possiamo affermare che una buona comunicazione passa attraverso una buona relazione e che è importante come l’informazione viene presentata, compresa e elaborata. È in questo contesto, in particolar modo, che disciplina medica e psicologica sembrano essere particolarmente interconnesse. Ed è in questo ambito che si colloca il corso di formazione alla comunicazione, punto di partenza delle riflessioni esposte in queste pagine. Il tentativo che si è fatto è stato quello di descrivere alcuni degli elementi che giocano un ruolo primario nella comunicazione, sia per come essi sono considerati dalla letteratura, sia per come essi sono emersi e sono stati discussi dai medici che hanno preso parte alla nostra formazione.

La complessità della comunicazione

Vogliamo considerare qui la complessità, dal punto di vista del medico, che caratterizza la comunicazione con il paziente e in particolar modo la comunicazione delle cattive notizie. Si tratta di un compito certamente articolato che viene influenzato da diversi fattori fra i quali il sistema organizzativo che contraddistingue l’istituzione ospedaliera, le rappresentazioni mentali degli attori coinvolti (medico e paziente) e gli automatismi relazionali e rappresentazionali dei medesimi. Abbiamo usato questi termini poiché ciascuno contiene un significato specifico e dà ragione della complessità del fenomeno in sé. Il momento della cattiva notizia mette in gioco molte variabili e può essere visto come una specie di “precipitato relazionale”; una situazione in cui “vengono al pettine”, diremmo in un gergo, “i nodi” di situazioni che, in realtà, sono già state impostate attraverso le vicende precedenti. Per vicende precedenti intendiamo sia la possibile storia della relazione tra quel medico e quel paziente, sia il sistema di relazioni che non si limita alla sola diade medico-paziente ma include un contesto fatto di molti elementi, elencati di seguito. La nostra descrizione intende inoltre mostrare gli aspetti trasversali di una identità, quella del medico appunto, troppo spesso “ridotta” a un solo significato e a una sola funzione (medico come colui che guarisce), rischiando di generare distorsioni anche nel sistema relazionale tra i medici stessi. I principali elementi che influenzano, secondo la nostra prospettiva, la relazione con il paziente e quindi la comunicazione stessa sono: Gli elementi strutturali, istituzionali e culturali Rappresentano per così dire “la cornice di riferimento” all’interno della quale la relazione si colloca. È uno schema dichiarato: la cura implica un’interpretazione diversa e specifica, compatibilmente con i significati e i valori culturali della società in cui si realizza. Intendiamo con questo non solo elementi di tipo concreto, ma anche elementi di soggettività legati al sistema di rappresentazioni che in ogni individuo si formano per quanto concerne la cura, in relazione all’istituzione, al suo ruolo e al ruolo delle figure che ne fanno parte. Questo appare particolarmente attuale quando il medico deve “scontrarsi” con pazienti provenienti da culture diverse, contraddistinte da diversi rapporti fra utente e istituzione, fra medico e istituzione ospedaliera e soprattutto fra medico e paziente. Risulta necessario in questo caso calarsi nei modi di pensare e di vivere la malattia dei diversi soggetti. Senza questo sforzo non è possibile, come riportano i medici, “creare un ponte comunicativo con il paziente”. Spesso inoltre si lavora a compartimenti stagni, senza la conoscenza di quello che gli altri in realtà fanno e di come affrontano situazioni problematiche simili. “Un sentimento largamente condiviso è il senso di solitudine che si vive in relazione alle diverse unità operative all’interno della stessa organizzazione e nei confronti dei livelli più alti delle gerarchie”. Questo genera e aumenta il senso di anomia e può creare difficoltà nella gestione multidisciplinare del paziente. Il bisogno di base è in questo caso quello di riconoscersi in stretto rapporto coordinato con altre responsabilità istituzionali e organizzative. Emerge in questo caso l’esigenza di una forma di “responsabilità compartecipata” e l’équipe di riferimento diventa qui fondamentale. Oltre che al supporto tecnico e gestionale, la gestione in équipe può infatti facilitare i passaggi per la presa in carico del paziente, creando un ponte di collegamento fra tutte le figure professionali coinvolte, contraddistinte, a loro volta, da differenti tipologie di modelli comunicativi. Il sistema delle rappresentazioni mentali Si intende con questa espressione l’idea che ciascuno si fa degli altri, ovverosia una costruzione mentale in cui si concentrano elementi di conoscenza precedente, aspettative e motivazioni. L’idea che il paziente si fa di quel medico e di quell’ospedale è influenzata dalle esperienze pregresse del paziente in relazione a quel medico o quella istituzione, ed è influenzata anch’essa dagli elementi culturali che caratterizzano la sua vita. La stessa cosa vale per il medico. Nella categoria delle rappresentazioni mentali includiamo quindi anche quegli elementi pregiudiziali che spesso rendono spinose le relazioni e, quindi, di conseguenza, anche la comunicazione al malato. Tali rappresentazioni contribuiscono a produrre quelli che chiamiamo automatismi relazionali e costituiscono il nostro bagaglio culturale di riferimento. Automatismi relazionali e rappresentazionali Nella costruzione della nostra personalità e funzionamento mentale acquisiamo modelli di comportamento, che mettiamo in atto quando ci relazioniamo con gli altri come forme spontanee e riflesse. La consapevolezza di questi automatismi è importante. Essi vanno riconosciuti affinché il nostro modo di relazionarci non sia la semplice applicazione o replicazione di modi acquisiti e consolidati, ma il frutto di quanto si sviluppa nella relazione con quel particolare paziente, nei confronti del quale il modo di comunicare e i tempi del medico dovrebbero adeguarsi. Il sistema organizzativo Ci riferiamo all’organizzazione e alla gestione che caratterizzano all’interno dell’istituzione ospedaliera la cura e il trattamento e all’impatto che essi hanno sulla relazione/comunicazione con il paziente. Questo punto è particolarmente associato alla qualità del servizio erogato e sarà ripreso in seguito. Tutti gli elementi descritti sopra si calano in un sistema di relazioni che dai medesimi è fortemente influenzato e determinato. Ognuna di esse mostra un aspetto delle varie sfaccettature che entrano in gioco nella comunicazione delle cattive notizie.

La complessità relazionale

Secondo quanto emerso dagli incontri fatti con i medici questa complessità relazionale può essere così riassunta: Relazione del medico con: – se stesso – con il paziente – con i parenti – con l’organizzazione – con i colleghi e altro personale Tale schema è il risultato del tentativo di sistematizzare i dati provenienti dal lavoro di gruppo svolto con i medici che hanno partecipato in forma volontaria al nostro percorso di formazione ed è illustrato in maniera più dettagliata all’interno di un documento aziendale “La comunicazione di cattive notizie”, ospedale S. Orsola-Malpighi. Questi elementi sono fra loro interconnessi e hanno un peso diverso a seconda delle varie situazioni.

Relazione fra il medico e se stesso La storia personale di ciascuno e l’elaborazione psicologica che di questa storia abbiamo fatto costituiscono lo strumentario di base con cui comprendiamo le relazioni e interagiamo con il resto del mondo. Su questa base concettuale diventa comprensibile l’estrema utilità di saper distinguere, nelle risonanze emotive particolarmente coinvolgenti, quelle che corrispondono a parti legate alla propria esperienza da quelle di competenza del paziente. Può capitare, infatti, che un proprio modo di vivere situazioni familiari o amicali rischi di indebolire il confine tra il personale e il professionale e finisca per interferire nella relazione medico-paziente. Alcuni medici ad esempio riferiscono di sentirsi in difficoltà quando la situazione rispecchia eventi personali vissuti o ancora in corso e non totalmente superati. Spesso al medico è attribuita una capacità sciamanica e egli è visto da parte dei pazienti come il “padrone della vita e della morte”, dal quale molti si aspettano miracoli. In alcuni casi i medici si rendono conto di non essere stati in grado di soddisfare le attese dei pazienti e questo può creare o aumentare il senso di solitudine. “Abbiamo fatto i medici per curare, e il dare la cattiva notizia ci fa sentire impotenti e rappresenta concretamente il fallimento della nostra disciplina”. È così che si rinforza un senso di impotenza di fronte alla malattia e il senso di precarietà e di frustrazione per non essere riusciti a prevedere o a fronteggiare un evento come la morte. Un vissuto comune in questo caso sembra infatti derivare da una rappresentazione di sé riferita a un senso di immortalità e di morte (che il medico si è costruita o che gli altri gli hanno attribuito) e che viene intaccata proprio nel momento in cui egli deve comunicare la cattiva notizia e si imbatte in diagnosi infauste e ineluttabili. Ci sembra in questo ambito particolarmente pertinente introdurre il concetto di “medico sufficientemente buono”, rifacendoci al concetto di Winnicot di “madre sufficientemente buona”. Si tratta di un concetto che ci pare molto pertinente e si riferisce in questo caso al concetto di un medico che, come la madre nella diade madre-figlio, si adatta al paziente, consapevole dei propri limiti, in una distanza relazionale e attraverso modalità che devono essere non “ottimamente né scarsamente buone”, ma sufficienti e adeguate a quel particolare tipo di paziente. Spesso inoltre il medico si trova a comunicare ai pazienti da solo, senza la possibilità di condividere con colleghi il carico emotivo di situazioni di per sé drammatiche. Ciò rischia di aumentare il senso di frustrazione e di stress, come riportato in molte delle esperienze descritte dai medici. La relazione fra il medico e il paziente I pazienti presentano caratteristiche diverse, sia cliniche che personali, con contesti familiari diversi alle spalle. Per molti medici i casi più difficili sono quelli che coinvolgono bambini. In questi casi la difficoltà a comunicare si affianca a un senso di disperazione, di colpa e di inadeguatezza. Alcuni pazienti si affidano completamente al medico, altri sembrano preferire una posizione di distacco. Alcuni vogliono sapere tutto. Altri invece preferiscono non sapere la verità e delegano altre persone. La questione della distanza emotivo-relazionale (“distacco dal paziente” vs “contatto con il paziente”) diventa qui cruciale. Il rischio è quello di essere troppo coinvolti, da una parte, o di essere troppo distaccati dall’altra. “Alcuni pazienti dichiarano di essere nelle nostre mani. Questo ci gratifica, ma a volte può diventare soffocante e non si sa mai come raggiungere una distanza emotiva ottimale”. Il coinvolgimento emotivo, inteso come risorsa utile per comprendere alcuni aspetti importanti della relazione, deve essere trasformato in modo da tradursi in professionalità. Inoltre, il contatto diretto e prolungato con il paziente, proprio per una mancanza di “pratica” a comprendere e a “elaborare” l’emotività, può diventare logorante. Ci si dovrebbe chiedere a questo punto chi si debba prendere cura del medico e del suo modo di metabolizzare contenuti emotivi di sofferenza, i quali, se non trattati, sono potenziali produttori di sofferenza per ambedue i protagonisti della relazione. Una delle domande più ricorrenti a questo proposito è infatti “Chi pensa a chi si occupa degli altri? E chi si cura dei curatori?”. La relazione fra il medico e i parenti “Le comunicazioni vanno date prima ai parenti o ai pazienti, e c’è una regola valida in tutti i casi?” si chiedono alcuni medici, “E poi qual è la distanza giusta?” . I famigliari costituiscono una presenza più o meno influente all’interno della relazione medico-paziente e nel contesto della comunicazione. In alcuni casi essi facilitano il compito e la gestione del paziente e si rivelano una risorsa. In altri casi essi costituiscono una variabile di disturbo che rischia di creare complicazioni. Si riconosce che pazienti e familiari costituiscono comunque elementi che il medico deve sempre tenere in considerazione nel suo rapporto con il paziente. In questo contesto si calano inoltre spesso questioni di carattere legale, con le quali, oggi più che mai, il medico si trova ad avere a che fare. La relazione fra il medico e l’organizzazione La relazione medico-paziente sembra essere fortemente influenzata dai fattori “spazio temporali”, entro i quali la comunicazione ha luogo. È infatti opinione condivisa che la comunicazione adeguata passa attraverso la considerazione del tempo e degli spazi adeguati. Molti medici lamentano di non avere a disposizione spazi sufficienti e adeguati per parlare con serenità, all’interno di uno spazio “psicologicamente protetto”. “Gli spazi sono inadeguati, sia quelli per i pazienti, sia quelli per i medici, e non sempre è possibile offrire un livello di privacy adeguato”. Questi due elementi qualificano in maniera marcata il contesto ospedaliero e il lavoro che al suo interno viene svolto, e rappresentano alcune delle questioni più sentite e dibattute dai medici che abbiamo incontrato. La relazione fra il medico, colleghi e altro personale Anche la relazione del medico con i colleghi gioca un ruolo chiave nella comunicazione al paziente e si può affermare che “il destino del paziente è condizionato anche dal rapporto fra i colleghi all’interno del reparto”. “Mi è capitato di dover lavorare con un collega e mi è stato molto utile avere uno scambio di idee, per consigliarci e per condividere la problematicità dei casi”. “Una volta mi hanno chiamato per rianimare un paziente che era già morto. Ho chiesto ‘Perché?’ e mi sono sentita dire: ‘Avevo bisogno di conforto’”. Anche in questo caso la presenza di colleghi può costituire una forma di risorsa o una “complicazione”, a seconda dell’utilizzo che se ne fa. Si inserisce in questa riflessione l’importanza riconosciuta del lavoro d’équipe e della condivisione delle responsabilità. “È meglio non trovarsi da soli e condividere le responsabilità e far sì che le decisioni siano il frutto di un lavoro di gruppo, in particolare di quel gruppo che ha seguito quel caso”.

Considerazioni conclusive

Gli elementi descritti rappresentano i punti nodali del difficile e delicato compito della comunicazione delle cattive notizie. Come ci aspettavamo il problema della comunicazione è molto sentito e in particolar modo dai medici con maggiore attenzione e sensibilità a questi aspetti della loro professione. Quanto riportato ribadisce come sia complesso il compito della comunicazione e sottolinea allo stesso tempo come insufficiente sia ancora, in molti casi, la formazione fatta ai medici in materia di comunicazione e di relazioni con il paziente. Un elemento costate e condiviso è che diversi sono i livelli di attivazione personale negli operatori sanitari coinvolti nel momento della comunicazione. Fra questi un ruolo primario ricoprono l’elevato carico di lavoro e il coinvolgimento emotivo, fonte in molti casi di forti stati di disagio e di insoddisfazione per il medico stesso, che rischiano di influenzare inevitabilmente la relazione con il malato e con coloro che lo circondano. Il problema che si pone in questo caso è quindi quello di cercare di trasformare questo bagaglio emotivo, e le risorse ad esso connesse, in potenzialità professionali, partendo dal presupposto che le “relazioni non sono qualcosa di innato ma si possono apprendere e si possono migliorare”. Si può infatti imparare a riconoscere i contenuti emotivi e cognitivi che si attivano nelle relazioni e cercare di utilizzare la relazione nel modo migliore per affrontare i diversi problemi che possono emergere, consapevoli delle numerose variabili già descritte prima. Questo è vero nel caso di ogni forma di comunicazione ed è particolarmente pertinente nel caso della comunicazione di cattive notizie. Ci sembra quindi evidente che il lavoro di formazione, sia per il livello di gradimento mostrato (dati di gradimento), sia per le carenze emerse in ambito formativo, dovrebbe essere incoraggiato da parte di tutta l’istituzione ospedaliera, al di là dei settori specifici di competenza. Una strategia potrebbe essere quella di far ricorso a incentivi di tipo economico, come già accade negli Stati Uniti: le compagnie assicurative praticano sconti sostanziali sui prezzi per le polizze di responsabilità professionale per quei medici che hanno partecipato a corsi di formazione sulla comunicazione con il paziente. Questo sottolinea ancora una volta il peso dei fattori economici nella professione e nella gestione dell’utenza ospedaliera e ripropone lo stretto rapporto tra elementi economici e etici, non sempre facile da dipanare e da comprendere. La questione del contenzioso legale entra qui a pieno diritto e risulta essere correlata, secondo quanto riportato dai medici, al tipo di comunicazione e alla qualità della relazione instaurata con il paziente. Di sicuro essa rappresenta una questione molto attuale e sentita e costituisce un’area per ulteriori approfondimenti e discussioni.

*L. Brunori e C. Raggi, Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna R. D’Alessandro, responsabile del Progetto formativo della Azienda Ospedaliera di Bologna

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