di Ennio Sergio
psicologo di comunità, coordinatore Centro Diurno del Dipartimento Salute Mentale ASL Imola (BO)
L’idea di considerare la pratica sportiva all’interno dei servizi di salute mentale come uno strumento utile a conseguire una condizione di maggiore benessere per le persone con disagio mentale ha avuto in questi anni, dalla fine degli anni Novanta a oggi, un notevole impulso. In Emilia Romagna, lo sport, grazie soprattutto allo sviluppo del movimento sportivo targato ANPIS (Associazione Nazionale Polisportive per l’Integrazione Sociale) ha costituito, e costituisce attualmente, un importantissimo strumento per superare le vecchie pratiche di approccio al disagio mentale, ancora fortemente medicalizzate, che ancora oggi prevalgono all’interno del servizio di salute mentale e passare a una visione che inquadri la questione del disagio mentale all’interno di una cornice in cui la comunità, la promozione dei diritti di cittadinanza, il protagonismo di cittadini con o senza disagio mentale, costituiscono i perni attorno ai quali far girare le proposte per migliorare la qualità della vita delle persone.
In tutti questi anni abbiamo constatato, come operatori che lavorano all’interno dei Dipartimenti di Salute Mentale, che lo sport può aiutare la crescita delle persone con un disagio mentale affinché esse possano acquisire gli strumenti necessari a divenire soggetti consapevoli, responsabili, parte attiva nel processo di costruzione della propria identità sociale, capaci di rientrare nel gioco della vita, se si inserisce la pratica sportiva all’interno di un processo più complesso.
Ciò è possibile solo uscendo dagli spazi dei servizi, guardando i problemi in termini più generali, abbandonando le categorie diagnostiche delle malattie mentali, recuperando le biografie personali, le storie di ciascuno e, guardandoci attorno, far ripartire il pensiero critico che possa aiutarci a reinterpretare il ruolo delle persone all’interno delle dinamiche sociali.
In questa ottica le persone in difficoltà emergono come indicatori di un disagio che attraversa tutti i cittadini, i cui tutti siamo immersi e che le crisi personali pongono in evidenza. La crisi quindi come rivelazione che si pone davanti ai nostri occhi e che richiede l’attenzione di tutti. La crisi come un problema individuale che, però, cerca soluzioni collettive. E le crisi sono tante e parlano di tanta umanità sofferente che di volta in volta veste gli abiti dell’immigrato, del clandestino, dei giovani che vivono una vita senza orizzonti certi, una vita sempre più precaria, donne, studenti che spesso frequentano una scuola che fa fatica ad ascoltarli, anziani soli, persone diversamente abili, ecc. Tutte persone candidate a una sofferenza mentale
Quando ci si pone in questo modo, allorché ci si avvicina alle questioni relative alla salute mentale, ci si accorge che c’è qualcosa che non va. Ci si accorge che viviamo all’interno di rapporti sociali, all’interno di un modello economico di mercato orientato ad affermare logiche di sviluppo esclusivamente legate alla crescita del profitto. Ci si accorge che non siamo più proprietari del nostro tempo e che la nostra esistenza è strettamente legata al consumo degli oggetti. Che viviamo in città frammentate in cui le persone fanno fatica a incontrarsi e in cui gli oggetti e il consumo hanno sostituito le storie delle persone. Lo sport moderno è lo specchio di questa tendenza: abbiamo a che fare con discipline sportive che veicolano valori fortemente agonistici e competitivi e propongono modelli identificatori campionisti in cui l’individualismo diventa stile da premiare. Lo sport spesso diviene motore di quelle logiche consumistiche, ed è sempre più orientato a un processo di spettacolarizzazione in cui le persone divengono clienti liberi di scegliere tra le varie proposte che il mercato televisivo offre. Il sistema sport è un sistema che veicola valori antagonisti a valori quali la solidarietà e la mutualità tra le persone, esso è parte organica del sistema economico liberista che a oggi ha prodotto una forte divaricazione tra sud e nord del mondo e che alimenta i conflitti e le guerre per lo sfruttamento delle materie prime, produce seri danni all’ambiente mettendone a rischio la sua riproducibilità, sfrutta i lavoratori che prestano la loro opera in totale assenza di diritti. Ciò determina povertà materiale, malattie, rottura di legami sociali, politiche di mercato e produzione slegate dai bisogni delle popolazioni locali con conseguente abbandono delle colture locali e del sistema di relazioni umane che ruotano attorno a esse e la creazione di produzioni orientate al soddisfacimento dei bisogni delle popolazioni del nord. E conseguente esodo verso i paesi ricchi del mondo. Il sistema, sul piano globale e locale, può andare avanti solo attingendo alla logica del conflitto permanente del binomio amico-nemico sulla creazione artificiosa di un clima sociale in cui la percezione del pericolo è forte e nel quale solo logiche sicuritarie e di controllo trovano spazio come risposta all’allarme sociale. È proprio questo sentimento di paura diffuso che richiama a soluzioni emergenziali che smette di farci pensare e ci costringe all’angolo lasciandoci in compagnia di immagini stereotipate, utili a designare gli altri, che si sostituiscono a quelle reali compromettendo la possibilità di incontrarli fuori da categorie pregiudiziali. Ci si accorge che il modello di sviluppo economico che ha “scelto” l’Occidente nella sua versione liberista, un darwinismo sociale in cui solo chi ha determinate capacità sopravvive, è strettamente legato alla produzione di disagio mentale.
L’impegno sportivo per la ricerca del benessere
Queste riflessioni hanno permesso ad alcuni operatori e utenti dei Servizi di Salute mentale di orientare l’impegno sportivo alla ricerca di una condizione di benessere, percorrendo la strada della promozione umana, avendo come prospettiva l’affermazione dei diritti di cittadinanza insieme ad altri soggetti che fino a qualche hanno fa non avrebbero pensato di incontrare (gli immigrati, gli anziani, gli studenti, i precari, le donne, i disabili, ecc.) uscendo fuori da una lettura del proprio disagio all’interno di una cornice biomedica.
La pratica sportiva intesa in questo senso porta la vita delle persone al centro della scena, il loro essere peculiari, le loro differenti competenze e da esse si fa interpretare. Ciò diviene un’opportunità per gli operatori di mutare, contaminandole, le pratiche tradizionali dei Servizi di Salute mentale: non c’è alcuno che debba essere riabilitato ma ci sono persone che devono essere sostenute nella promozione dei loro diritti di cittadinanza.
Lo sport inteso in tal senso rappresenta per chiunque e non solo per chi attraversa, o ha attraversato, un momento critico nella sua vita, un’occasione per ripensare al tipo di rapporto che si stabilisce con gli altri, al ruolo che si gioca all’interno della comunità, di ripensare ai processi di inclusione e al fatto che questi passano attraverso la riformulazione dinamica delle regole a partire dai soggetti che di volta in volta si mettono in gioco. Restituire allo sport un ruolo centrale nella possibilità di costruzione di legami sociali e nella capacità di attivare processi di riconoscimento e rispetto delle differenze.
Uno sport che veicola modelli di relazione tra le persone competitivi e non cooperativi, che sottolinea gli elementi individualisti e prestazionali, che ripropone una visione darwinista del tipo “vince il più forte” rischia di diventare una fabbrica del disagio mentale. Diviene necessario rifondare le regole dello sport partendo però dai soggetti in campo. Ciò passa attraverso la valorizzazione delle differenze e quindi un’attenzione a quest’ultime allorché si formulano nuove regole. Regole che non possono essere date una volta per tutte ma che di volta in volta debbono essere rivisitate; di volta in volta, poiché le persone che si confrontano su un campo da gioco non sono sempre le stesse, cambiano di volta in volta.
Non c’è da perfezionare un gesto atletico avendo modelli esterni come riferimento ma misurare il gesto a partire da chi lo produce, abbandonare uno sport che frustra, che crea disorientamento con gravi conseguenze sulla propria autostima poiché fa volgere lo sguardo verso modelli irraggiungibili.
All’interno di questo riferimento culturale è la persona che viene messa al centro e non tanto facendo riferimento ai suoi punti di forza o di debolezza (categorie inadeguate in questo contesto) ma alla propria differenza e al gioco dialettico che si stabilisce con le altre differenze. È proprio da questa dialettica che nascono conoscenza degli altri e regole del gioco. È questo un processo che rende le persone protagoniste del cambiamento attraverso la valorizzazione di sé come persone che fanno una particolare esperienza esistenziale e non come malati disabili o “handicappati”. Ciò non può essere possibile farlo se si aderisce al sistema delle regole a cui fa riferimento lo sport tradizionale. Le regole dello sport tradizionale rispondono a una cultura che esclude (quella delle classifiche, retrocessioni, capocannonieri, pallone d’oro, ecc.) e non che include. Diviene necessario riformulare le regole fuori da una visione paternalistica stando all’interno di una logica delle pari opportunità. La ricerca di nuove regole non può passare che attraverso un sistema, un meccanismo che permetta la conoscenza attraverso l’applicazione di una metodologia che attivi un percorso di riconoscimento reciproco in vista della costruzione di un evento sportivo. Ciò lo si realizza concretamente preparando incontri conoscitivi a partire dai quali si stabiliscono le regole strutturali e adattando in tempo reale sul campo, durante gli incontri sportivi, le regole, prendendo atto delle differenze in campo e introducendo una serie di handicap per permettere alle squadre di confrontarsi su un piano di equilibri, senza concessioni paternalistiche.
La riflessione sull’andamento dell’evento con i soggetti che hanno partecipato all’impresa sportiva e, in conclusione, la premiazione per categorie fanno riferimento alle qualità che hanno caratterizzato il singolo o il gruppo. Si superano le categorie, adulti/ragazzi giovani/vecchi
donne/uomini, operatori/utenti, stranieri/italiani, in quanto si tratta di soggetti che hanno come unica discriminante il desiderio di partecipare a un evento che ha come finalità quella di creare nuovi luoghi all’interno della comunità. Luoghi trasversali, che possano favorire lo scambio tra
persone di provenienza geografica differente, di età e sesso differente e con abilità differenti evitando che ciascuno si ritrovi a cadere nel pregiudizio di dover necessariamente scambiare relazioni, rapporti, per omogeneità di età, sesso, abilità o provenienza geografica.
In conclusione riporto ciò che scrive Benedetto Saraceno, direttore dell’OMS nel suo La fine dell’intrattenimento. Manuale di riabilitazione psichiatrica (Milano, Etas libri, 2000, V capitolo, pag. 79): “[…] non esistono le disabilità né le abilità ‘in sé’, ossia decontestualizzate da quei complessi insiemi di determinanti costituiti dai luoghi degli interventi, dalle organizzazioni dei servizi, dalle interazioni con le agenzie sanitarie e sociali di un territorio, dalle risorse messe in campo. La riabilitazione non è la sostituzione delle disabilità con delle abilità ma un insieme di strategie orientate ad aumentare le opportunità di scambio di risorse e di affetti: solo all’interno di
tale dinamica degli scambi si crea un effetto ‘abilitante’ […] La riabilitazione è un processo continuo che implica l’apertura degli spazi negoziali per il paziente, per la sua famiglia, per la comunità circostante e per i servizi che del paziente si occupano: la dinamica della negoziazione è continua e non può essere codificata una volta per tutte in quanto gli attori (e i poteri) in gioco sono molti e reciprocamente moltiplicatisi”.
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