di Nicola Rabbi
Sfogliandoli distrattamente possono sembrare dei "giornalini" semplici e con poche pretese, ma attenzione, dietro queste pagine a volte strampalate e ricche di immagini si celano storie di persone e di rap¬porti, progetti di lavoro, montagne di emozioni che interi libri "scientifici" non riuscirebbero a descrivere adeguatamente. Ne parliamo con Andrea Canevaro, del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna.
Sono ormai diverse le esperienze di piccole riviste, “giornalini” che vengono composti all’interno dei centri per disabili, esperienze che si possono incontrare in varie parti d’Italia: ma qual è il loro valore educativo?
II maggior valore credo sia quello che riguarda la memoria; ci sono spesso tendenze a “ridurre” chi ha un deficit molto grave, ridurlo ad una persona che ha giornate sempre uguali, che fa le stesse cose; in questo siamo aiutati anche da una letteratura scientifica che ci racconta che il ritardato mentale grave ha una “viscosità”, una ripetitività, ha bisogno di fare le stesse cose. Io penso che abbia bisogno come tutti di avere delle sicurezze, quindi c’è del vero in quello che si dice, però è anche vero che hanno una vita con una dinamica e questa dinamica bisogna saperla leg¬gere, non dimenticarla; i giornalini possono essere uno strumento utile
per mantenere un’attenzione a un qualcosa che può essere raccontato. La ripetitività fa sì che gli operatori che lavorano all’interno di un centro pensino di non aver niente da raccontare agli altri, mentre il giornale è fatto anche per gli altri. Allora farlo può diventare un impegno con se stessi a scoprire quello che può essere raccontato agli altri e che non è la fotocopia della stessa giornata per 365 giorni all’anno.
Queste esperienze hanno un valore molteplice; da una parte hanno un significato interno, nel rapporto tra operatore e utente, dall’’altro hanno anche un valore esterno, nel rapporto tra il centro riabilitativo e l’Usl e il territorio che lo circonda; infine possono avere un valore anche tra i diversi centri e servire come collegamento.
Sì, hanno un intreccio di diversi valori; specialmente alcuni “giornalini” quando sono fatti con cura, servono come mediatori di rapporti, come possibilità che il rapporto non si esaurisca nell’assistenzialismo; lasciando una "traccia" e avendo una funzione di mediazione le riviste possono essere molto significative proprio per la qualità della relazione tra operatori e utenti, volendo proprio usare questi termini così burocratici.
Attraverso i giornali c’è inoltre una definizione progressiva, aperta e non imbalsamata dell’identità di un centro. Ecco un’altra utilità, quella di pensa¬re la propria identità in rapporto a quella degli altri centri, ognuno dei quali ha una propria identità.
Fare una rivista per un centro significa allora scoprire la propria identità, mettere in luce le proprie valenze culturali e operative. Ci sono centri che sono legati per la loro storia al cinema, alla scrittura o al teatro, tutte caratteristiche che si riscontrano poi nei "giornalini". Ricordo il caso di un "utente" del Centro Galassia di Lugo di Romagna che da anni s’interessa alla scrittura; ora è possibile che non sia immediatamente una scrittura maggiorenne per un’editoria da grande pubblico, ma potrebbe essere molto importante per un "giornalino", se questo non è riduttivo e non diventa uno strumento da dopolavoro ferroviario, ma diventa un biglietto da visita, una sorta di carta d’identità che è sempre in farsi. Potrebbe essere giusto allora che ci siano delle vite da raccontare, in modi diversi, attraverso la poesia, la fotografia…
I "giornalini" servono proprio per scoprire la propria identità e metterla in contatto con l’identità degli altri centri e per co¬struire poi una rete che permetta delle valorizzazioni reciproche.
Come si presentano, come si strutturano queste esperienze? Hai in mente qualche caso particolare?
L’esperienza che conosco meglio è quella di Ravenna; la rivista "Percorsi" ha proprio questa funzione di collegare le diverse identità.
Fatta con mezzi modesti, il "giornalino" esiste orma da una decina di anni e con il
tempo si è affinato, coniugando le esigenze interne con dei fini più alti. "Percorsi" ha cercato di dare dei contributi di grande serietà, evitando di essere noiosa, di avere un tono dimesso, per farsi leggere da un numero maggiore di persone.
Prima ho parlato di giornalini da dopolavoro ferroviario, anche con un tono di simpatia, perché hanno il difetto di non raggiungere il lettore esterno, ma hanno un senso più di informazione interna; è proprio ciò che le esperienze di cui stiamo trattando devono evitare. Vorrei ricordare che questi "giornalini" non sono un patri¬monio solo del nord Italia, in quanto ricevo continuamente nuove riviste e alcune di queste provengono dal sud.
Sei a conoscenza di espe¬rienze analoghe all’estero?
Sì, ho visto pubblicazioni simili in Francia, nella Svizzera francofona, in Belgio, nel Ca¬nada.
Quali sbocchi possono avere queste riviste, come si possono sviluppare per diffondersi meglio o diventare più incisive?
Per rispondere a questa domanda bisogna parlare anche dei Centri di documentazione, perché questi materiali sono sicuramente dei materiali fragili che vanno persi, si buttano via.
La funzione maggiore la dovrebbero avere i Centri di documentazione che non sono inerti ma che dovrebbero essere attivi, salvando il materiale prodotto e rendendolo anche consultabile. Poi dovrebbero consentire che qualcuno ogni tanto ci mettesse mano per riorganizzarlo; sarebbe interessante fare delle antologie o delle comparazioni antologiche, mettere insieme il meglio di quanto è stato prodotto. E per non renderli deperibili occorre trasformarli; ad esempio con alcuni numeri di “Percorsi” abbiamo fatto un libro.
(*) Ripubblichiamo questo articolo ancora attuale apparso sulla rivista HP17 del 1993 facente parte di una monografia (“Stampati in fronte” reperibile su internet a questo indirizzo www.mangoni.net/cdh-bo/informazione/hp/archivio/libro.asp?ID=444) dedicata ai “giornalini” dei centri diurni.
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