Come già nella rubrica di marzo dello scorso anno, proponiamo in questo numero un confronto tra due film usciti in sala quasi contemporaneamente, verso la fine del 2010. Due pellicole molto diverse a ogni livello, ma che raccontano, entrambe, casi e vicende personali, sentimentali e familiari con l’intento di rendere anche qualcosa di quello che sta attorno. Anche qui, con proporzioni e modalità differenti. Se il titolo del primo film, Il mio nome è Khan, racchiude in sé questa tensione tra personale e politico (“il mio nome è Khan”, allo stesso tempo un’affermazione di identità nonostante la disabilità, e, seguìto da “…e non sono un terrorista”, un richiamo alla propria e altrui innocenza a priori e un invito a un rapporto e una convivenza interetnici più consapevoli e meno “sensibili” agli eventi del mondo, la cui distorta interpretazione e rielaborazione, in particolare in questi anni, ci portano a svolgere con troppa facilità discorsi che legano meccanicamente il caso e la qualità – etnici, religiosi, politici, ecc. – alla regola e alla costante comportamentale e culturale – terrorista, fondamentalista, antidemocratico, ecc.); se Il mio nome è Khan è essenzialmente questo, Dalla vita in poi tratteggia questo rapporto tra singolo e comunità in modo meno diretto e più articolato. Meno ingenuo.
Quale il primo motivo d’interesse dei due film in relazione alla nostra rubrica? Il fatto che i protagonisti di entrambi siano persone disabili e la disabilità, come tante altre figure narrative e retoriche cinematografiche, nel momento stesso in cui viene chiamata in causa, messa in condizione di operare, di produrre senso e azione, allora viene rappresentata, descritta, proposta secondo una data fisionomia, o distorsione, senza dare a quest’ultimo termine una connotazione univocamente negativa, essendo frutto (e produttore) di dinamiche più sottili e ricche. E i due film svolgono, sfruttano in modo molto diverso questo dato di partenza connotato dal deficit. Nuovamente, come un anno fa, vedremo che uno si pone come esempio più virtuoso dell’altro, sempre in base alle idee cinematografiche e culturali di chi scrive, ma anche in relazione alle caratteristiche e al metodo che questa rubrica cerca di conservare da quando è gestita dal sottoscritto, ovvero un continuo (e necessario) confronto tra forma e contenuto, al quale ci richiama ogni manifestazione artistica e creativa o, per intenderci, ogni manifestazione umana che si distingua dal fantomatico grado zero della comunicazione.
Il mio nome è Khan di Karan Johar (coproduzione significativa tra Bollywood, scusate la vaghezza, e 20th Century Fox) è un film che a livello tematico si inserisce nella linea ideale che va dal delizioso Oltre il giardino di Hal Ashby, al contraddittorio Forrest Gump di Robert Zemeckis, includendo anche Rain Man, in particolare per il tipo di disabilità (autismo- sindrome di Asperger) del protagonista, in questo caso interpretato dal famosissimo (in India) Shahruck Khan, e per le movenze cui questa costringe. Come i primi due film presi a termine di paragone, anche in questo caso il protagonista viene investito di o, meglio, si investe di una missione epocale a seguito di vicende che mantengono un forte grado di attualità e di aderenza a fatti reali recenti. In questo caso, dopo una prima parte giocata sul meccanismo del flash-back e flash-forward, che consente di raccontare origini e caratteristiche di Khan e del suo contesto sociale e familiare (immancabile la madre saggia e rispettosa), si fa riferimento all’atteggiamento di crescente e paranoica ostilità razziale verso la popolazione asiatica, in particolare se islamica, espressa da parte della società americana post-11 Settembre. E al tentativo di Khan di riferire al presidente degli Stati Uniti (dapprima Bush, tentativo vano, poi il subentrato Obama, a buon fine) che, pur essendo quello il suo nome, lui non è un terrorista, e pur essendo islamico (sposato peraltro a una induista, scalfendo quindi la diffusa segregazione identitaria tra hindu e musulmani), non è un fondamentalista. Ricompone così anche il legame con la moglie Mandira, legame molto forte, ma incapace di reggere alla morte del figlio, frutto del clima di violenza anti-islamica di cui si diceva e del quale lei (irrazionalmente, e ne è consapevole) imputa le colpe alla fede e al cognome “islamisti” di Khan. La separazione tra i due e l’obiettivo che Khan si pone creano il presupposto per dar vita a una fase on the road del film, che avvicina ulteriormente questo lavoro a quello di Zemeckis del ’94 (la corsa coast to coast di Forrest che fa proseliti), anche perché è questa peregrinazione che consente a Khan di conoscere e intervenire in alcune vicende americane significative, come l’uragano in Georgia (ovvio il riferimento a Katrina) o la denuncia di un imam integralista in procinto di replicare un attacco in terra statunitense. Ma, anche in questo caso, il modo è meno convincente e incisivo, anzi, a volte patetico: quantomeno il film di Zemeckis ci dava una rappresentazione ironica e politica del “sogno americano”, che pure nel film di Johar viene citato e, giocoforza, smentito, più volte (vedi il personaggio del fratello di Khan).
Dalla vita in poi di Gianfrancesco Lazotti (commedia che si ispira a un fatto vero di cronaca) sembra una girandola di vite deboli, un po’ come avevamo descritto un anno fa l’ultimo Almodovar: debolezza e fragilità fisica (la ragazza in carrozzina), sentimentale (l’amica), esistenziale e biografica (il carcerato), di autorevolezza rispetto al ruolo e alla sua mascolinità (il capo della polizia penitenziaria del carcere), che convivono con o nascondono una “forza potenziale” (che in molti dei personaggi avrà modo di dispiegarsi e in altri no), ma non la presuppongono automaticamente, come invece sembra poter fare la disabilità-follia di Khan in Il mio nome…, caratteristica per cui il film indiano ci ripropone un’immagine del disabile e della condizione di disabilità anni ’80 e, in definitiva, quasi unicamente, e senza una ragione forte, strumentale alla successione degli eventi. In questo allontanando anche la pellicola indiana dai due modelli citati in precedenza (Oltre il giardino e Forrest Gump), nei quali le relazioni tra “il pazzo, l’inetto, il ritardato”, il mondo che lo circonda e il modo in cui riesce ad agirvi e a modificarlo si sviluppano in modo più contraddittorio, paradossale, quasi delirante. Soprattutto nella misura in cui l’umanità del protagonista disabile apre a una comprensione maggiore della realtà stessa, e non a un rapporto con il personaggio mosso più che altro da un sentimento di empatia ruvida e speranzosa. Insomma, per l’ennesima volta (l’elenco sarebbe lungo e non riguarderebbe solo le “grandi produzioni”) il disabile iper-protagonista difficilmente riesce a essere ancorato davvero alla (a una) realtà e a essere raccontato nel rapporto con essa, mentre, laddove il deficit si pone dentro a un flusso eterogeneo di vita, relativizzato, come nel film di Lazotti, paradossalmente esprime al meglio le sue potenzialità narrative e di significato (anche simbolico, senza per questo infastidire o semplificare). Per quanto sia piuttosto condivisibile la definizione di “individualismo democratico” utilizzata, a proposito del personaggio di Khan, da Mariuccia Ciotta (il Manifesto, 26 novembre 2010). Inoltre, Dalla vita in poi ci propone un interessante confronto tra due condizioni fragili dai tempi quasi inconciliabili, alla ricerca di un momento di intersezione e condivisione, convivenza: quella di Katia, in prospettiva negativa (la degenerazione della malattia, se non ricordo male) e quella di Danilo, il carcerato, in prospettiva positiva (la scarcerazione. Tanto da rinunciare a un tentativo di fuga orchestrato proprio con Katia e probabilmente destinato a buon fine). L’esito di questo confronto discrepante nel film non viene mostrato, ma la condizione di debolezza, anche reciproca, dei personaggi che compongono la coppia consente a Lazotti di impostare una regia molto meno didascalica e prevedibile del film di Johar. Non c’è spazio per la compassione tra due fragilità, piuttosto si apre quello per un racconto reciproco privo di infingimenti e pietismi, meno sentimentale, quindi più vicino a una espressione del sentimento. Mentre, tornando all’articolo di Ciotta, è proprio quanto lei scrive su Il mio nome Khan, “non consente distanze, nella purezza del ‘matto’ trascende ogni resistenza emotiva” a non convincermi. Peraltro Lazotti affronta l’intreccio con una regia allo stesso tempo pulita e attenta ai tanti particolari centrifughi che emergono dalla sceneggiatura, dedicando molta cura anche al montaggio, laddove il film di Johar procede piuttosto per giustapposizione e successione naturale e piatta degli eventi.

Il mio nome è Khan (India, 2010)
Durata: 128’
Regia: Karan Johar
Sceneggiatura: Shibani Bathija
Produzione: Dharma Productions, Fox STAR Studios, Red Chillies Entertainment
Distribuzione: 20th Century Fox

Dalla vita in poi (Italia, 2010)
Durata: 85’
Regia: Gianfrancesco Lazotti
Sceneggiatura: Gianfrancesco Lazotti
Produzione: Rosa Film, Facciapiatta in collaborazione con Rai Cinema
Distribuzione: 01 Distribution