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autore: Autore: Luca Giommi

Una straordinaria quotidianità

Priscilia, Cyril, Johan et les autres è un documentario semplice, lineare, che ha l’intento, esplicitamente dichiarato, di raccontare la vita quotidiana, e i principi che ne determinano ritmi e caratteristiche, così come si svolge nei centri di Allagouttes e Surcenord, in Francia. Qualità, quelle della chiarezza e non artificiosità espositiva, che ci sono di grande aiuto per avvicinarci a un modo di intendere la relazione e il lavoro con persone disabili per certi versi inedito in Italia, almeno sulla base delle esperienze conosciute da chi scrive.
L’Istituto Medico Educativo dell’Associazione “Le Champ de la Croix” opera nella regione dell’Haut-Rhin dal 1968, mettendo in opera, vivendo e cercando di far evolvere continuamente la pedagogia “curativa” proposta da Rudolf Steiner (rispetto alla quale, si rimanda per ulteriori approfondimenti alla curiosità dei lettori).
I due centri accolgono e ospitano bambini, adolescenti e adulti che presentano deficit vari e multipli. Il documentario ci permette di vivere i gesti quotidiani delle persone che abitano in queste residenze, gesti che, diversamente da quanto accade nella maggioranza dei casi, hanno la possibilità di applicarsi a una varietà di situazioni sorprendente. Le interviste agli utenti, ai loro genitori e alle figure educative di vario genere che lavorano presso questi centri ci permettono di capire il valore di questa eterogeneità di attività e mansioni, l’una, si passi il termine, funzionale all’altra, all’interno di un disegno articolato e composito.
Alla base c’è un approccio alla persona intesa nel suo complesso, ovvero nella sua complessità irriducibile. Una visione dell’uomo “globale” (per rifarsi a un termine utilizzato da uno degli operatori), che determina l’attenzione a non schiacciare la persona su piani e modelli già determinati, già scritti, previsti, magari sulla base del tipo di disabilità che questa presenta. Un tentativo, quindi, di spezzare l’ovvietà spesso innaturale del vincolo causa-effetto, troppo stretto e cieco per costruire (per noi stessi, in primo luogo) un’immagine credibile e, in ultima istanza, effettiva della persona, di ogni persona, che presenti un deficit o meno.
La varietà delle pratiche che si possono svolgere in questi centri è diretta conseguenza di questo approccio: si passa da quelle scolastiche, psicomotorie, laboratoriali, espressive, a quelle legate alla gestione comune della quotidianità (la preparazione dei pasti, della tavola, ecc.), a quelle, ancora, di dichiarata ricerca artistica: quest’ultima privilegiata, tra tutte, per la sua connaturata capacità di mettere la persona nella condizione di acquisire coscienza delle cose del mondo.
La musica, la pittura, gli spettacoli (previa costruzione delle stesse) di marionette, la manipolazione di materiali di diverso tipo: ognuna di queste forme artistiche, in base a caratteristiche intrinseche, attiva parti della persona e crea, per la stessa, la possibilità di intraprendere un percorso nel senso della trasformazione (un elemento, questo, che non a caso ritroviamo molto spesso tra gli obiettivi dei laboratori integrati o delle compagnie che operano in ambito teatrale con persone disabili).
Ma il valore dell’espressività e della creatività, che la frequentazione, persino “passiva”, dell’arte attiva, mette in movimento, permette di capire in modo più nitido anche le vere aspirazioni e le capacità latenti di ogni singolo utente, anche, e questo è un passaggio fondamentale, in vista di un impiego lavorativo, ovvero della costruzione di abilità professionali. Il lavoro è una parte fondamentale all’interno di questi centri, declinato prevalentemente come lavoro agricolo, di giardinaggio, di cura (anche disinteressata) degli animali: tre ambiti professionali che richiedono competenze, attenzione, puntualità, dedizione quotidiana, fatica.
In questo senso si capisce l’importanza che viene riconosciuta al rispetto del ritmo delle stagioni e, soprattutto, del ritmo della giornata (ai quali accordarsi in quanto elemento primordiale): si può essere più o meno d’accordo, ma, ad avviso di chi scrive, uno degli errori in cui più spesso si incorre in relazione a chi presenta deficit di vario genere è pensare la loro vita come qualcosa che dalla “pressione” della quotidianità possa prescindere (in termini di orari, mansioni, desideri) o che da quella non venga toccata, interessata. Senza vincoli di tempo.
Qui, al contrario, il contatto con il mondo, con i suoi ritmi, le sue cadenze viene facilitato, così come viene riconosciuta l’importanza di un accesso corporeo al mondo stesso, dimensione cui, in modo spesso colpevolmente inconsapevole, la vita di molti si distacca. Il rispetto di questi ritmi è il dato che la regista decide di proporre per primo, nella sequenza dei racconti degli operatori, quasi a proporcelo come una delle chiavi di lettura basilari dell’esperienza che di lì in avanti scopriremo. Principio rafforzato dal contesto in cui le residenze si trovano, una natura ricca, rigogliosa, che si impone con dolcezza sulla presenza umana. È dal rapporto con il mondo naturale che prende le mosse il racconto, per poi proseguire descrivendo le altre attività più strutturate e costruite, nelle quali, però, l’attenzione all’accesso sensoriale alle cose (e alle persone, all’altro) ricopre un ruolo fondante.
Il film inizia con una lunga introduzione priva di elementi narrativi esterni, i suoni e i rumori sono quelli prodotti dalla natura o dalle attività svolte da utenti e operatori: ci viene illustrata una giornata-tipo, dal momento del risveglio a quello del riposo serale. I momenti di vita in comune, quelli in cui le mansioni e gli impegni si diversificano, le pause. Il seguito è l’alternarsi delle immagini descrittive di quanto si svolge all’interno dei centri e delle testimonianze delle persone a vario titolo coinvolte. La presenza della regista, Anne Burgeot, è discreta, sensibile, capace di catturare momenti inattesi e spontanei, anche conflittuali. E sa tenersi a distanza da intenti celebrativi, fornendo piuttosto materia per una riflessione non solo educativa o riabilitativa, ma che può riguardare ognuno di noi nel rapporto con noi stessi e con quanto, da noi, è, o sembra soltanto essere, “fuori”, altrove.

Priscilia, Cyril, Johan et les autres
(Francia, 2009)
V.O. in lingua francese
Durata: 50’
Regia: Anne Burgeot (anne.burgeot@orange.fr)
IMP-IMPRO Association Le Champ de la Croix

Una costante “novità”

Di Luca Giommi

Una cosa è certa, il Festival del Cinema Nuovo non è un nuovo festival di cinema. Giunto all’ottava edizione in sedici anni di vita (la manifestazione è a carattere biennale), il concorso lombardo risulta uno dei rarissimi, in Italia, in grado di garantire un elemento spesso sottovalutato, ovvero quello della continuità nel tempo, fondamentale non solo per chi dedica le sue energie per l’organizzazione e lo svolgimento del festival stesso, ma anche, e soprattutto, per chi decida di realizzare i film e per favorire la costruzione di un seguito di spettatori forte, fedeli o meno. E per chi, come chi scrive, ha l’opportunità di osservare l’evoluzione dell’evento e la crescita costante della qualità dei film selezionati (con l’accortezza di riportare nell’opuscolo i titoli di tutti i lavori iscritti), molti dei quali, peraltro, a opera di cooperative sociali ed enti che al festival partecipano da anni e che si confrontano con la produzione di un’opera filmica (cortometraggi in questo caso) con consapevolezza sempre maggiore in ogni momento della realizzazione di un film (scrittura, regia, montaggio, recitazione, ecc).
Questa consapevolezza “in divenire”, per molte di queste realtà, è possibile proprio perché esiste un luogo che quei lavori potrà ospitarli e mostrarli. La realizzazione di un’opera, l’esigenza di un’opera, certo, prescindono da uno scopo ben individuato, tanto più se, oltre al risultato finale, pesa in maniera così rilevante il processo della realizzazione (il coinvolgimento delle persone disabili in primo luogo), ma la certezza di un’occasione in cui rendere pubblico il frutto di un lavoro funziona da potente motore “motivazionale”, per non dire del piacere di rivedersi su un grande schermo condividendo il momento con altri, tanti, spettatori (circa 3.000 le presenze dall’Italia e dall’estero, un decimo circa quelle di persone disabili, un dato da ritenersi positivo).
Il Festival del Cinema Nuovo è un concorso internazionale di cortometraggi interpretati da persone con disabilità, questa la condizione minima per partecipare, ma sarebbe di sicuro interesse indagare, per ogni singolo lavoro, in quali e quante fasi della produzione dei corti le persone disabili abbiano avuto un ruolo attivo, con quali margini propositivi. Che ruolo giochi, per le varie cooperative, questa attività all’interno del lavoro che quotidianamente portano avanti. Nell’impossibilità di svolgere un lavoro analitico di questo tipo, riportiamo dall’opuscolo, molto curato, che accompagna i tre dvd dell’ottava edizione, il senso e le caratteristiche della proposta, così come pensata dagli organizzatori del festival, diretto, sin dagli esordi, dallo psicologo Romeo Della Bella.
“Si ritiene utile ribadire la peculiarità della nostra proposta. Altri (anche registi illustri) hanno proposto film sulla disabilità, con molta profondità e suggestione, svolgendo un’opera altamente meritevole di sensibilizzazione e di approfondimento. Altri hanno presentato portatori di handicap protagonisti nel rappresentare se stessi, evidenziando le loro capacità e prospettando anche possibilità progettuali per alcuni di loro. Altri ci hanno presentato magnifici documentari su varie attività espressive. Noi non vogliamo percorrere queste strade, anche se le apprezziamo e le condividiamo. Noi vogliamo valorizzare esperienze cinematografiche che i nostri giovani attuano nelle loro piccole Comunità. E nei ruoli più vari: in storie comiche, romantiche, poliziesche, avventurose…: vere fiction!”. Logicamente appropriate le finalità: “Anche l’attività cinematografica, se ben gestita, può produrre quei processi benefici di autostima e gratificazione che si possono innescare attraverso ogni attività creativa. Basta riuscire a canalizzare le loro molte positività che spesso non vengono valorizzate. Anche loro (le persone disabili) hanno capacità di rischio, vitalità, voglia di immedesimarsi in ruoli diversi, gusto di sognare. Anche voglia di fare cinema. Vogliamo, insomma, offrire un’altra possibilità di esprimersi. […]  Non vogliamo cadere nella trappola di far diventare terapia ogni esperienza. Però quando il piacere della espansione creativa-emotiva dell’operatore si allinea e integra con il piacere dell’espansione creativa-emotiva del giovane disabile, ne scaturisce un contatto “incandescente”, che fa scoccare la scintilla della vera terapia. Naturalmente c’è vero effetto terapeutico e la positività si generalizza in ambienti e situazioni diverse e si prolunga nel tempo. Ma se far cinema aiutasse anche solo a far star meglio e ad avere gioia di vivere nel qui e ora, non sarebbe poi cosa da poco”.
Il Festival del Cinema Nuovo può contare su una fitta rete di soggetti e istituzioni che ne garantiscono la realizzabilità: oltre al Comitato Organizzatore composto dal Comune di Gorgonzola (MI), sede del concorso, ci sono Pubblicità Progresso, ANFFAS, Coop. Soc. “Il Sorriso”, riceve il patrocinio della Presidenza del Consiglio dei Ministri, della Regione Lombardia, della Provincia di Milano e di Mediafriends Onlus. Tra gli sponsor ufficiali, lo stesso Comune, la Banca di Credito Cooperativo, la Cooperativa di Consumo Nobile e Brambilla, ANFFAS Martesana, ACLI Gorgonzola e Trebosi.
Varia, come sempre, in maggioranza tendente a una sorta di “variegato” comico che invita alla riflessione, la proposta filmica del 2012. Si distinguono, a nostro avviso, per una pluralità di elementi intrinseci all’opera, Anche se piove non mi bagno (C.D.I. Dip. Sal. Mentale Az. Sanit. Provinc. – Catania); Francesco e Bjorn (Centro Studi sulla Comunicazione W.O.C.E. – Zoagli – GE); Nonsocheditte (Centro Riab. “Vaclav Vojta” Coop. Soc. – Roma); Sulla punta dei piedi (CSE Coop. Soc. “Il Sorriso” – Pessano c/Bornago – MI); Awakening (Coop. Soc. “Il Ponte” – Villa Carcina – BS); La Panchina (Assoc. Volontariato “Quelli del Sabato” – Bellinzago Nov. – NO).

Referente: dott. Romeo Della Bella
E-mail: tonodb@libero.it
Tel. e Fax: 02/951.44.67
Segreteria: 331/991.19.93

Riprendere il tempo che resta

Quando questa rubrica verrà pubblicata, il film di cui parleremo non sarà più in sala da tempo: cercatelo, comunque, se possibile in modo legale, ma non negatevi la possibilità di vivere il racconto di Jacques Audiard, regista nei confronti del quale personalmente nutro una considerazione ambivalente, ma che con l’ultimo Un sapore di ruggine e ossa (De rouille et d’os) ci offre numerosi spunti di riflessione e “acuminate” ragioni d’emozione…
Un film in cui, “accidentalmente”, la disabilità/handicap si inserisce e “lavora” in uno dei modi che più ci convincono, ovvero come elemento costante, qui anche presente in modo esplicito sin dai primi minuti, ma non limitante e riferito a un singolo individuo. Anzi, come tratto che qualifica non tanto la persona, quanto il mondo che questa vive e sulla quale questo preme.
Come scrivono i due autori della sceneggiatura, Audiard stesso e Thomas Bidegain, nelle note di regia, riferendosi al libro (edito in Italia da Einaudi) da cui il film trae ispirazione, “C’è qualcosa di veramente coinvolgente nella raccolta di racconti Ruggine e ossa (Rust and bones) di Craig Davidson: il quadro di un mondo vacillante, all’interno del quale dei percorsi individuali, dei destini semplici, si trovano enfatizzati dal dramma e dagli eventi. Una rappresentazione degli Stati Uniti (ma il film è ambientato in Francia, n.d.r.) come un universo razionale dove i corpi lottano per procurarsi un loro spazio, per tentare di stravolgere il destino che gli è stato riservato”.
È questo “destino disabile/handicappato” che accomuna tanti personaggi del film e che non riguarda la sola Stephanie (un’ottima Marion Cotillard), che perde le gambe in seguito a un incidente di lavoro. Un elemento che imporrebbe uno scarto sofferto nelle vite di ognuno il quale può essere perseguito e raggiunto e, contemporaneamente al contrario, restare come possibilità inespressa. In entrambi i casi, attraverso un percorso che Audiard è abile a mostrarci in tutta la sua sofferente dolcezza e ambivalenza. Utilizzando una regia “espressionista” e, cito sempre le note di regia, esprimendo “un’estetica brutale e contrastata”: non si pensi però a una regia nervosa, adrenalinica o, peggio, voyeuristica, maliziosa, morbosa. Audiard, in questo lavoro, sembra capire i suoi personaggi e sa come restituirne il dolore, i limiti, i bisogni, gli errori, le tensioni reciproche. Delineando l’uomo come essere fallace e dolce, insieme di contraddizioni vissute ed espresse, subite e replicate, in un rapporto con la società che lo vede sempre come produttore e vittima delle contraddizioni e dei contrasti che quella determinano e informano. Mai, in definitiva, come semplice essere oppresso.
In questa realtà contrastata, indefinibile, si inserisce anche la condizione di disabilità di Stephanie che, da persona bisognosa di un aiuto per superare o almeno convivere con quella condizione imposta e acquisita, si rivela motore di conoscenza e cambiamento altrui. È convincente questo tentativo di narrare la “liquidità” dei rapporti e delle condizioni umane, mai date una volta per tutte, se l’individuo si mostra consapevole di poter modificare, in qualche modo, la sua sorte: e l’elemento liquido, introdotto già dai titoli di testa e relativo al lavoro svolto da Stephanie (istruttrice di orche), è un elemento formale costante, che partecipa alla costruzione di momenti esteticamente ed empaticamente molto coinvolgenti.
Convince anche la dolcezza con cui il regista “tocca” e racconta il corpo menomato di Stephanie, che, nel suo “mancare di qualcosa”, sempre secondo questa sorta di logica dell’imperfezione delle cose, paradossalmente compensa la prestanza e la compiutezza del corpo di Alì (Matthias Schoenaerts), il vero personaggio principale della pellicola. E il corpo di Stephanie, pur non subendo trasformazioni successive (protesi removibili a parte), si modifica nella misura in cui Stephanie stessa modifica il rapporto che ha con questo nuovo corpo che è stata costretta ad abitare. E poi, o insieme, libera di imparare ad amare e godere.
Anche a questo livello fisico, materico (il titolo restituisce bene anche questo senso) di notevole importanza nell’economia narrativa del film, il regista tesse una tela complessa di rimandi, contrasti, repulsioni, affinità, dolore e desideri. Una rigenerazione, una riscoperta fisica (un abuso consapevole, se volete, nel caso di Alì) che accompagna e sollecita (o può minacciare) una rinascita emotiva ed esistenziale.
Audiard pure sul punto, a volte, di “scivolare” nella costruzione di questo racconto naturalista, riesce comunque a mantenere una tensione dell’immagine forte e non compiacente o conciliata, e a descrivere quasi con rabbia i destini di persone intente a riprendersi il tempo che resta. 

Un sapore di ruggine e ossa (De rouille et d’os)
(Belgio, Francia, 2012)
Durata: 120’
Regia: Jacques Audiard                                                                                                             Sceneggiatura: Jacques Audiard, Thomas Bidegain
Fotografia: Stéphane Fontaine
Montaggio: Juliette Welfling
Musiche: Alexandre Desplat
Interpreti: Marion Cotillard, Matthias Schoenaerts, Céline Sallette, Bouli Lanners, Corinne Masiero, Jean-Michel Correia, Armand Verdure
Produzione: Page 114, Why Not Productions, France 2 Cinéma, Les Films du Fleuve
Distribuzione: BIM

Il ciclista-pensatore: quando la disabilità è solo un tratto imprescindibile come gli altri

È sempre difficile determinare quello che fa di un film un bel film. Anche quando usciamo da una proiezione con un senso di soddisfazione “estetica” pieno, è complicato stabilire quali siano stati, tra i tanti che compongono un prodotto cinematografico, quegli elementi che ci hanno catturato e convinto. L’operazione, peraltro, sarebbe inopportuna, dal momento che è il modo in cui questi vengono combinati, “sintetizzati”, a restituirci la verità di quello che abbiamo visto. Lo sguardo analitico, pure interessante per indagare la struttura e la composizione di un film, non è sufficiente. Le cose si complicano ancora di più se il film nasce quasi “per caso”, ovvero se al regista la materia filmica capita tra le mani involontariamente, senza che ci sia dietro una volontà esplicita, un progetto ragionato. Perché, in questo “caso”, si tratta di avere quell’intuito, non solo cinematografico, che ti permetta di capire quell’oggetto e di renderlo sotto forma di immagini in un modo che sia, al tempo stesso, rispettoso dell’oggetto e significativo per chi vedrà quelle immagini. A Great Macedonian rientra in questa categoria di film, e il regista, Renato Giugliano, sicuramente in quella categoria di autori che sanno porsi di fronte alla casualità senza timore, con pazienza conoscitiva, con la capacità di mettersi “al servizio” della materia, senza piegarla o enfatizzarla, aprendosi ad essa. Caratteristiche e attitudini che, anche a questo livello forse del tutto casualmente, condivide con il protagonista del documentario nel suo approccio all’esistenza e alle sue “crepe”. Ecco, sembra esserci un’assonanza di fondo, anche precedente alla creazione delle immagini, tra autore e soggetto, ed è forse questa che, con sguardo sintetico appunto, potremmo indicare come elemento di forza e di equilibrio di questo film. Solido nella dolcezza che sa esprimere e nella fluidità mai spettacolare delle sue immagini.
La trama del documentario è molto semplice: nell’estate del 2009 Dejan parte in bicicletta da Skopje, nel cuore macedone dei Balcani, per un lungo viaggio solitario verso la Francia. Un grande impegno, un’avventura contro i propri limiti, alla ricerca di un’armonia interiore, ma allo stesso tempo della prova che la vita può continuare a essere la stessa nonostante tutto. Dejan, infatti, indossa una protesi al posto della gamba sinistra, persa, quattro anni prima, a causa di un incidente con una macchina agricola in una fattoria organica in Francia nella quale lavorava. Anche il piede sinistro, peraltro, ha subito lesioni che non gli consentono un’articolazione perfetta. Sappiamo poi che nel 2010, forte di questo successo, ha attraversato Cile e Argentina, e nel 2011 ha portato la sua bicicletta in Cina per una nuova e più ambiziosa avventura. Ma questo sta fuori dal film che riprende Dejan in occasione del suo primo tentativo di viaggio in solitaria.
In un’intervista, il regista racconta di aver scoperto solo dopo tre giorni la protesi indossata da Dejan, in occasione del loro primo incontro in Macedonia. Una “svista” densa di significato, che Giugliano sembra voler condividere con noi spettatori: è solo al diciottesimo minuto che viene esplicitata la presenza di una gamba artificiale, solo da quel momento la disabilità di Dejan irrompe nel film anche a livello tematico. E, in parte, forse in modo improprio, siamo spinti a re-interpretare quanto detto e raccontato da Dejan fino a quel momento alla luce di questo nuovo dato. In modo improprio perché il suo discorso, anche senza l’“ombra” di questo stato di cose (la disabilità), non solo ha solide basi, ma è rivelatore di verità e portatore di suggestioni ed emozioni di grande intensità. Fino a quel momento possiamo intuire la presenza di un deficit soltanto attraverso piccoli dettagli disseminati dal regista (il più “beffardo”, perché apparentemente insensato, è il cartello all’interno di un centro commerciale che invita a dare precedenza, alla cassa, a persone disabili e donne incinte), cui però attribuiamo rilevanza solo ex post.
Come scrive Chiara Checcaglini su mediacritica.it, “la scelta del regista è lasciare completamente la parola a Dejan, che parla con la voce e col corpo, e con entrambi comunica le sue convinzioni: che il limite è lì per essere superato, che ogni privazione può trasformarsi in stimolo, che la vita non è altro che il continuo trasformare in opportunità gli incidenti di percorso, di qualsiasi entità essi siano”. Un ragionamento complesso sulla necessità della normalità e della sua riconquista, da intendersi, però, soltanto come punto di partenza per modificare quella stessa normalità. La macchina da presa segue Dejan da vicino, lo “accompagna” nello svolgimento di gesti legati alla quotidianità e di azioni legate al suo viaggio, le pedalate, le soste, gli esercizi… Un sottofondo di immagini che valorizza, nella loro intensa e gioiosa sobrietà, le differenze dei movimenti e della gestualità di Dejan e lascia spazio alla forza del suo racconto, sempre in bilico tra “diario di viaggio”, cronaca di quanto fatto e incontrato sino alla breve pausa nella città di Bologna e riflessione sulle ragioni e l’urgenza, non solo personali, di questo mettersi alla prova.
È articolata e ricca di sfumature la sapienza di Dejan: “Negli ultimi due anni, quando sogno, non ho più due gambe come è sempre stato, ma sono così come sono adesso, ma per qualche motivo ho trovato il modo di camminare. È come se fossi su un campo magnetico e riesco a camminare e a correre. È strano. È come se mi accorgessi che è così facile camminare, senza intoppi, regolare”. Poi un ritorno alla dimensione reale, senza smentire quella onirica descritta poco prima: “Non posso dire di godere dei problemi della vita. Godere non è la parola esatta… ma fanno sì che tutto l’insieme appaia… reale, che ne valga la pena”.
Da segnalare la colonna sonora, composta da brani “classici” in voga al tempo della Jugoslavia unita e del regime di Tito, che replicano nel documentario la colonna sonora che accompagna mentalmente Dejan lungo il percorso; rispetto al pedalare da solo, in strade spesso trafficate, Dejan racconta sorridendo: “È così che la vedo, una lunga meditazione. È questione di concentrazione, non di ciclismo. Guardi il tuo spazio sulla carreggiata, di solito è un piccolo spazio, in cui non dovresti dar fastidio alle macchine, altrimenti loro si innervosiscono e ti innervosisci anche tu. Invece ti concentri su una cosa e vai, e ti mette pace. Non penso a niente in particolare, è solo… calma. Non so, pedali… semplicemente… di solito ho delle canzoni in testa, che si ripetono, pezzi famosi della ex-Jugoslavia, forse perché ho attraversato parti della ex-Jugoslavia da cui mancavo da molto tempo, e tutte queste canzoni che non ricordo neanche bene, saranno almeno di venti anni fa. E mi vengono in mente, sono diverse canzoni, e mi si ripetono per tutto il viaggio, come in un jukebox”.
A Great Macedonian è un lavoro difficile da raccontare, ricorrere alle parole di Dejan aiuta solo in parte, perché il regista è molto abile a inserirle in una successione di immagini che svolgono un ruolo più complesso del semplice corredo: non invadono mai il campo, non tendono ad attribuire tratti mitici al protagonista, ma dimostrano, fotogramma dopo fotogramma, che saper raccontare, saper restituire un racconto altrui presuppone sempre una pregressa capacità di accoglienza e di ascolto. A partire da questa, assumendola come irrinunciabile punto di partenza, Renato Giugliano trova la forma più incisiva per disegnare il ritratto di questo solare e affabile ciclista-pensatore, del quale la disabilità è solo un tratto imprescindibile come gli altri.

A Great Macedonian (2009)
Durata: 58’
Regia: Renato Giugliano
Sceneggiatura: Renato Giugliano
Fotografia: Renato Giugliano
Montaggio: Renato Giugliano
Produzione: RLP

Raccontare la debolezza e raccontare con debolezza

Come già nella rubrica di marzo dello scorso anno, proponiamo in questo numero un confronto tra due film usciti in sala quasi contemporaneamente, verso la fine del 2010. Due pellicole molto diverse a ogni livello, ma che raccontano, entrambe, casi e vicende personali, sentimentali e familiari con l’intento di rendere anche qualcosa di quello che sta attorno. Anche qui, con proporzioni e modalità differenti. Se il titolo del primo film, Il mio nome è Khan, racchiude in sé questa tensione tra personale e politico (“il mio nome è Khan”, allo stesso tempo un’affermazione di identità nonostante la disabilità, e, seguìto da “…e non sono un terrorista”, un richiamo alla propria e altrui innocenza a priori e un invito a un rapporto e una convivenza interetnici più consapevoli e meno “sensibili” agli eventi del mondo, la cui distorta interpretazione e rielaborazione, in particolare in questi anni, ci portano a svolgere con troppa facilità discorsi che legano meccanicamente il caso e la qualità – etnici, religiosi, politici, ecc. – alla regola e alla costante comportamentale e culturale – terrorista, fondamentalista, antidemocratico, ecc.); se Il mio nome è Khan è essenzialmente questo, Dalla vita in poi tratteggia questo rapporto tra singolo e comunità in modo meno diretto e più articolato. Meno ingenuo.
Quale il primo motivo d’interesse dei due film in relazione alla nostra rubrica? Il fatto che i protagonisti di entrambi siano persone disabili e la disabilità, come tante altre figure narrative e retoriche cinematografiche, nel momento stesso in cui viene chiamata in causa, messa in condizione di operare, di produrre senso e azione, allora viene rappresentata, descritta, proposta secondo una data fisionomia, o distorsione, senza dare a quest’ultimo termine una connotazione univocamente negativa, essendo frutto (e produttore) di dinamiche più sottili e ricche. E i due film svolgono, sfruttano in modo molto diverso questo dato di partenza connotato dal deficit. Nuovamente, come un anno fa, vedremo che uno si pone come esempio più virtuoso dell’altro, sempre in base alle idee cinematografiche e culturali di chi scrive, ma anche in relazione alle caratteristiche e al metodo che questa rubrica cerca di conservare da quando è gestita dal sottoscritto, ovvero un continuo (e necessario) confronto tra forma e contenuto, al quale ci richiama ogni manifestazione artistica e creativa o, per intenderci, ogni manifestazione umana che si distingua dal fantomatico grado zero della comunicazione.
Il mio nome è Khan di Karan Johar (coproduzione significativa tra Bollywood, scusate la vaghezza, e 20th Century Fox) è un film che a livello tematico si inserisce nella linea ideale che va dal delizioso Oltre il giardino di Hal Ashby, al contraddittorio Forrest Gump di Robert Zemeckis, includendo anche Rain Man, in particolare per il tipo di disabilità (autismo- sindrome di Asperger) del protagonista, in questo caso interpretato dal famosissimo (in India) Shahruck Khan, e per le movenze cui questa costringe. Come i primi due film presi a termine di paragone, anche in questo caso il protagonista viene investito di o, meglio, si investe di una missione epocale a seguito di vicende che mantengono un forte grado di attualità e di aderenza a fatti reali recenti. In questo caso, dopo una prima parte giocata sul meccanismo del flash-back e flash-forward, che consente di raccontare origini e caratteristiche di Khan e del suo contesto sociale e familiare (immancabile la madre saggia e rispettosa), si fa riferimento all’atteggiamento di crescente e paranoica ostilità razziale verso la popolazione asiatica, in particolare se islamica, espressa da parte della società americana post-11 Settembre. E al tentativo di Khan di riferire al presidente degli Stati Uniti (dapprima Bush, tentativo vano, poi il subentrato Obama, a buon fine) che, pur essendo quello il suo nome, lui non è un terrorista, e pur essendo islamico (sposato peraltro a una induista, scalfendo quindi la diffusa segregazione identitaria tra hindu e musulmani), non è un fondamentalista. Ricompone così anche il legame con la moglie Mandira, legame molto forte, ma incapace di reggere alla morte del figlio, frutto del clima di violenza anti-islamica di cui si diceva e del quale lei (irrazionalmente, e ne è consapevole) imputa le colpe alla fede e al cognome “islamisti” di Khan. La separazione tra i due e l’obiettivo che Khan si pone creano il presupposto per dar vita a una fase on the road del film, che avvicina ulteriormente questo lavoro a quello di Zemeckis del ’94 (la corsa coast to coast di Forrest che fa proseliti), anche perché è questa peregrinazione che consente a Khan di conoscere e intervenire in alcune vicende americane significative, come l’uragano in Georgia (ovvio il riferimento a Katrina) o la denuncia di un imam integralista in procinto di replicare un attacco in terra statunitense. Ma, anche in questo caso, il modo è meno convincente e incisivo, anzi, a volte patetico: quantomeno il film di Zemeckis ci dava una rappresentazione ironica e politica del “sogno americano”, che pure nel film di Johar viene citato e, giocoforza, smentito, più volte (vedi il personaggio del fratello di Khan).
Dalla vita in poi di Gianfrancesco Lazotti (commedia che si ispira a un fatto vero di cronaca) sembra una girandola di vite deboli, un po’ come avevamo descritto un anno fa l’ultimo Almodovar: debolezza e fragilità fisica (la ragazza in carrozzina), sentimentale (l’amica), esistenziale e biografica (il carcerato), di autorevolezza rispetto al ruolo e alla sua mascolinità (il capo della polizia penitenziaria del carcere), che convivono con o nascondono una “forza potenziale” (che in molti dei personaggi avrà modo di dispiegarsi e in altri no), ma non la presuppongono automaticamente, come invece sembra poter fare la disabilità-follia di Khan in Il mio nome…, caratteristica per cui il film indiano ci ripropone un’immagine del disabile e della condizione di disabilità anni ’80 e, in definitiva, quasi unicamente, e senza una ragione forte, strumentale alla successione degli eventi. In questo allontanando anche la pellicola indiana dai due modelli citati in precedenza (Oltre il giardino e Forrest Gump), nei quali le relazioni tra “il pazzo, l’inetto, il ritardato”, il mondo che lo circonda e il modo in cui riesce ad agirvi e a modificarlo si sviluppano in modo più contraddittorio, paradossale, quasi delirante. Soprattutto nella misura in cui l’umanità del protagonista disabile apre a una comprensione maggiore della realtà stessa, e non a un rapporto con il personaggio mosso più che altro da un sentimento di empatia ruvida e speranzosa. Insomma, per l’ennesima volta (l’elenco sarebbe lungo e non riguarderebbe solo le “grandi produzioni”) il disabile iper-protagonista difficilmente riesce a essere ancorato davvero alla (a una) realtà e a essere raccontato nel rapporto con essa, mentre, laddove il deficit si pone dentro a un flusso eterogeneo di vita, relativizzato, come nel film di Lazotti, paradossalmente esprime al meglio le sue potenzialità narrative e di significato (anche simbolico, senza per questo infastidire o semplificare). Per quanto sia piuttosto condivisibile la definizione di “individualismo democratico” utilizzata, a proposito del personaggio di Khan, da Mariuccia Ciotta (il Manifesto, 26 novembre 2010). Inoltre, Dalla vita in poi ci propone un interessante confronto tra due condizioni fragili dai tempi quasi inconciliabili, alla ricerca di un momento di intersezione e condivisione, convivenza: quella di Katia, in prospettiva negativa (la degenerazione della malattia, se non ricordo male) e quella di Danilo, il carcerato, in prospettiva positiva (la scarcerazione. Tanto da rinunciare a un tentativo di fuga orchestrato proprio con Katia e probabilmente destinato a buon fine). L’esito di questo confronto discrepante nel film non viene mostrato, ma la condizione di debolezza, anche reciproca, dei personaggi che compongono la coppia consente a Lazotti di impostare una regia molto meno didascalica e prevedibile del film di Johar. Non c’è spazio per la compassione tra due fragilità, piuttosto si apre quello per un racconto reciproco privo di infingimenti e pietismi, meno sentimentale, quindi più vicino a una espressione del sentimento. Mentre, tornando all’articolo di Ciotta, è proprio quanto lei scrive su Il mio nome Khan, “non consente distanze, nella purezza del ‘matto’ trascende ogni resistenza emotiva” a non convincermi. Peraltro Lazotti affronta l’intreccio con una regia allo stesso tempo pulita e attenta ai tanti particolari centrifughi che emergono dalla sceneggiatura, dedicando molta cura anche al montaggio, laddove il film di Johar procede piuttosto per giustapposizione e successione naturale e piatta degli eventi.

Il mio nome è Khan (India, 2010)
Durata: 128’
Regia: Karan Johar
Sceneggiatura: Shibani Bathija
Produzione: Dharma Productions, Fox STAR Studios, Red Chillies Entertainment
Distribuzione: 20th Century Fox

Dalla vita in poi (Italia, 2010)
Durata: 85’
Regia: Gianfrancesco Lazotti
Sceneggiatura: Gianfrancesco Lazotti
Produzione: Rosa Film, Facciapiatta in collaborazione con Rai Cinema
Distribuzione: 01 Distribution