Buongiorno signor Claudio, 

Le scrivo per chiederle un consiglio. Ho letto sul sito di Accaparlante la lettera di una mamma di un bambino con QI di 78. Anche mia figlia è una bambina borderline, con lo stesso QI, 78 per l’appunto. Le è stato diagnosticato due anni fa, ma mi era anche stato detto che con questo punteggio, visto che il disturbo era minimo, non le spettava l’insegnante di sostegno. Durante le scuole elementari ha fatto un po’ di fatica, soprattutto con gli scritti mentre nell’orale se la cavava egregiamente. Ora frequenta la prima media, le difficoltà ci sono così come alle elementari soprattutto con gli scritti mentre con gli orali continua a prendere i suoi bei 7/8. La sua insegnante di Italiano, tuttavia, mi ha recentemente detto che la soluzione migliore sarebbe comunque quella di richiedere per lei la presenza di un insegnante di sostegno. 

Mi piacerebbe avere un suo parere a riguardo, in particolare anche rispetto a quel “bollino” del quale parlava nella risposta alla lettera che ho citato all’inizio. Il mio pensiero riflette il suo, considerando anche il fatto che la bambina è in prima media, con tutti i risvolti dell’età. Da un lato sarebbe un bene per lei usufruire di programmi differenziati, perché mi rendo chiaramente conto della sua fatica, dall’altro mi continua a frullare in testa quel famoso bollino e penso alla reazione della bambina che si sentirebbe inferiore agli altri, a come verrebbe affrontata questa cosa nel gruppo classe vista sempre la particolare età, e penso anche al suo futuro lavorativo. Al di là delle difficoltà scolastiche, mia figlia non presenta infatti difficoltà nella vita quotidiana. La prego, mi dia un consiglio perché la confusione è tanta. Sostegno sì o sostegno no?

L.M

Carissima L.M, innanzitutto la ringrazio molto per la fiducia che mi dà nel chiedermi un consiglio così importante.

È sempre molto difficile, per me, dare dei consigli “giusti” in situazioni del genere e ho sempre un po’ il timore di fare considerazioni inappropriate. 

Capisco molto bene il discorso che fa riguardo al bollino, credo anche che il problema relativo a questo argomento sia riferibile a chi si preoccupa di imprimere il termine bollino piuttosto che la persona stessa vittima dell’etichettamento. Cercare il più possibile di far sì che lo scomodo bollino possa diventare la risorsa intrinseca di sua figlia è un lavoro complesso ma che dà frutti soddisfacenti.

Tutti noi abbiamo un bollino addosso, c’è chi è magro, c’è chi è grasso, c’è chi è pelato e c’è chi è basso ma credo che in questo caso sia un atto di coraggio domandare aiuto tramite un’ammissione di deficit, piuttosto che finire vittima dello sguardo altrui dal quale ci si può riscattare. Ovviamente queste considerazioni lasciano il tempo che trovano e ognuno di noi è libero di decidere come agire. Vero è, però, e questo mi sento di ripeterlo e sottolinearlo, che il chiedere aiuto è il primo passo verso il miglioramento e verso la soluzione; la “mano altrui”, in questa situazione, ha, secondo me, una posizione prioritaria.

Un altro consiglio che mi sento di darle è quello di mettersi in rete e chiedere, informarsi con tutte le persone che come lei hanno avuto questo dubbio facendosi dire, consigliare e confortare da chi in prima persona ha vissuto la stessa confusione.

 

Caro Claudio,

leggendo il tuo articolo nel Messaggero di S. Antonio di dicembre mi sono tornati alla mente due aneddoti. Il primo riguarda la trasmissione televisiva “Il testimone” in onda su MTV, in cui in una puntata il presentatore, Pif, intervista alcune persone affette da varie forme di nanismo. Un uomo affetto da acondroplasia racconta in modo molto ironico ma senza nascondere un pizzico di giustificabile irritazione, che quando parla con persone che non lo conoscono, queste si stupiscano che possa avere un’intelligenza normale, come se il suo mancato sviluppo osseo fosse in qualche modo riconducibile a un mancato sviluppo intellettivo e cognitivo. L’altro aneddoto riguarda una signora africana che ho conosciuto quest’estate, la quale mi raccontava che il figlio di una sua amica italiana una volta le ha chiesto “Perché sei marrone?”. Adoro la superficialità dei bambini! Un adulto avrebbe detto “nera” invece nell’aggettivo che ha usato quel bambino non c’è nessuna connotazione di carattere razziale, o peggio ancora razzista. Si limitano a vedere le caratteristiche oggettive, senza collegare a esse un giudizio critico. Molto spesso invece noi adulti tendiamo a fare finta di non vedere le differenze tra le persone in nome di una presunta apertura mentale, soprattutto quando queste differenze ci disturbano. Quando non è possibile far finta di non vedere le differenze facciamo finta di non vedere le persone, come è capitato che facessero con te. Un adulto vedendoti pensa che tu sia un vegetale, un bambino vedendoti viene a chiederti perché sei in carrozzina. Un adulto non ti chiederebbe mai perché sei in carrozzina con la giustificazione che teme di metterti in imbarazzo, come se tu in tutti questi anni non ti fossi mai accorto di essere disabile e il fatto che improvvisamente qualcuno te lo faccia notare possa sconvolgerti. È ovvio invece che l’imbarazzo c’è solo da parte di chi ti guarda senza conoscerti, e che quella di non metterti a disagio è solo una scusa. È comprensibile che a volte non sappiamo bene come comportarci di fronte a una persona che non conosciamo, ma se non iniziamo a chiedergli “perché” e a limitarci a notare solo le differenze reali, non arriveremo mai a capire una realtà diversa dalla nostra. Un esempio di come la percezione della diversità sia molto soggettiva lo porta spesso Alex Zanardi quando parla del suo bambino. Suo figlio è nato dopo l’incidente in cui lui ha perso le gambe e Zanardi racconta che al ritorno dal suo primo giorno all’asilo gli abbia chiesto “Ma perché gli altri papà hanno le gambe?” come se essere senza gambe fosse normale e tutti i papà degli altri bambini fossero strani.

Un forte abbraccio,

Elena

Carissima Elena,

grazie per la tua bella lettera e le tue parole. Ti volevo raccontare quello che mi è capitato. L’Università di Bologna mi ha conferito pochi mesi fa la Laurea honoris causa in formazione e cooperazione. Un riconoscimento che, come già scritto, per quanto indirizzato alla mia persona, ho subito interpretato come frutto di un lungo lavoro collettivo e, ed è questo che qui ci interessa, anche come parziale segno dei tempi (almeno dello sviluppo delle cose negli ultimi cinque decenni). Un disabile riconosciuto nelle sue capacità e nella sua professionalità. E il riconoscimento (dapprima come uomo, poi come singolo dotato di particolari abilità, ecc.) è il risultato di un processo, di una successione, un’evoluzione (certo, costruita dalle azioni e riflessioni umane) che mi sembrava innegabile, evidente. Ma, e questo passaggio dalla storia alla cronaca non deve sembrare inopportuno, dal giorno del conferimento della laurea mi è capitato, nella comunità di famiglie in cui vivo, Maranà-tha, di subire tre o quattro “non-riconoscimenti”, che mi hanno colpito e fatto dubitare: avventori occasionali che, pur vedendomi in giardino o nell’atrio d’ingresso, si sgolavano in cerca di qualcuno (che non c’era o non rispondeva) in grado di dare informazioni, senza nemmeno provare a interpellare me che ero lì a due passi e disponibile. Un salto indietro di trent’anni nel giro di una settimana… A ben vedere, la cosa si faceva involontariamente ironica perché chi chiama un qualcuno generico solitamente usa questa espressione interrogativa: “C’è nessuno?”. Mentre io ero fisicamente lì, un qualcuno c’era, anzi ero l’unico a esserci, presente, senziente, e non venivo affatto tenuto in considerazione come persona in grado di fornire delle informazioni. Di nuovo un’ironia dolorosa: proprio a pochi mesi di distanza da un riconoscimento accademico per le mie capacità formative e informative. Questo a segnare in maniera evidente quante contraddizioni possano coesistere non solo nel medesimo arco di tempo, ma anche nella stessa area geografica e probabilmente prodotte o rese manifeste da persone simili per cultura e grado di studio. Ma questo dato non ci spinga a riconoscere queste contraddizioni come una condizione immodificabile!