Untitled
- Autore: Roberto Parmeggiani
Una fotografia è un segreto che parla di un segreto, più essa racconta, meno è possibile conoscere.
Diane Arbus
Ci sono persone, che con il loro agire, fanno la differenza. Permettono alla storia di fare un passo, un salto in avanti. E spesso lo fanno senza saperlo, senza quella consapevolezza che porterebbe a dire più che a fare, facendo perdere forza proprio all’azione.
Diane Arbus è una di queste persone.
Cresciuta in una ricca famiglia ebrea, ha una sorella e un fratello. Si sposa giovane contro il parere dei genitori e dal marito apprende la tecnica fotografica.
Base di partenza per il suo percorso artistico, che trasforma ogni scatto in uno specifico punto di vista, nel racconto della realtà. Almeno di quella che lei riconosce come realtà, spesso nascosta agli occhi dei più.
Soggetto delle sue foto diventa l’umanità, non quella normale, accettabile, conosciuta per cui controllabile. Bensì l’umanità che vive in un quartiere parallelo, nascosto: i freaks, i nani o i giganti, omosessuali e travestiti, ritardati mentali, gemelli. Considerati, quando va bene come fossero un gioco, uno scherzo della vita. Non ai suoi occhi però. Proprio quelle persone diventano per lei e, quindi, per noi, il dizionario attraverso cui leggere la realtà. Quelle fotografie diventano, a loro volta, un obiettivo dal quale osservare la realtà. Certo, questo provoca sconcerto e un momento di perdita di equilibrio, ci troviamo senza punti fermi, come se, a un certo punto, 2 + 2 non facesse più 4.
Perché? Non è possibile! Cos’è successo? Cos’è cambiato negli ultimi trenta secondi?
Proprio questo smarrimento è alla base delle opere della Arbus.
Non conoscevo il lavoro di Diane fino a che, quest’estate, sono entrato al Martin Gropius Bau, bellissimo museo di Berlino. Duecento scatti in bianco e nero, un’emozionante retrospettiva intitolata solo “Diane Arbus”, senza nessun altro nome a definire il contenuto delle foto.
La pioggia fuori scendeva copiosa e il cielo grigio non faceva filtrare molta luce. Si era creata così una strana intimità tra il fuori e il dentro del museo, tra il bianco e nero delle foto e il grigio del cielo. Un’intimità che mi ha pervaso e mi ha fatto entrare nelle fotografie, come se le persone ritratte non mi fossero davvero estranee, come fossero il racconto di una realtà parallela ma che mi apparteneva.
Il bianco e nero, il formato quadrato e sintetico liberano le immagini di inutili suppellettili e mettono al centro i protagonisti, favorendo in questo modo un incontro personale ed eterno, diverso per ogni paio di occhi che lì si posano. Ecco come il punto di vista dell’artista costruisce un nuovo modo di approcciare la realtà, soprattutto quella nascosta, che viene così sdoganata, raccontata come qualcosa di contemporaneo, cioè presente nello stesso momento e nello stesso spazio di tutto il resto.
Diverso ma non per questo escludibile dal contesto.
Untitled
L’ultima serie di scatti di Diane, pubblicata postuma con il titolo Untitled, ritrae un gruppo di persone con disabilità che vivono in istituto.
“I giochi, i travestimenti di Halloween delle donne giovani e vecchie, i loro lineamenti toccati dalla malattia, gli abiti, le maschere, prendono in questo contesto particolare il valore di un’ebbra danza funebre, impregnata di una comicità folle, di fronte alla quale ci ritraiamo come di fronte a uno spettacolo troppo autentico, indiscreto. Ci vergogniamo, ma non possiamo vincere l’impulso che ci obbliga a guardare. Lì, Arbus ritrovava una sorta di impossibile innocenza, di oblio del tempo e della morte”.
Mi ritrovo perfettamente nel commento di Stefano Chiodi. Quando ho visto gli scatti alla mostra di Berlino, ho provato anche io un senso di vergogna e, allo stesso tempo, il desiderio di guardare, indagare, conoscere. Per certi versi era come se le persone ritratte fossero spogliate, come se fosse messa a nudo la loro più intima identità. Ciò non risultava volgare, nemmeno offensivo. La fatica richiesta allo spettatore era quella di uscire da uno schema perbenista, superare il pregiudizio e approcciarsi a quelle immagini, belle, come fossero la foto di una classe di bambini felici alla fine della scuola oppure un gruppo di amici al tramonto sulla spiaggia o degli avventurieri nella savana.
Guardare e vedere quelle foto per ciò che erano, il racconto di una realtà contemporanea e viva.
Ovviamente, tale racconto non nega i limiti e le sofferenze, anzi li svela, li mostra semplicemente perché ne fanno parte, e non raccontarli significherebbe celarli quindi mentire. Ciò che succede ormai troppo spesso grazie all’uso di programmi che permettono di ritoccare, cambiare, eliminare, ricreare.
Un’empatia non sentimentale
“Nonostante si voglia continuare a credere, nella migliore tradizione romantica, che Arbus non potrà salvarsi da una partecipazione emotiva, che la consumerà nell’anima, sta di fatto che nel suo lavoro colpisce proprio l’evidente esistenza di ‘un’empatia non sentimentale’: una forma di reciproca accettazione, in virtù della quale la fotografa non mostra compassione per i fotografati, che non la chiedono, perché non esprimono disagio o sofferenza per il proprio esser ‘strani’, quasi lo apparissero solo ai nostri occhi”.
Porre lo sguardo su certe realtà senza compassione è fondamentale.
La compassione, intesa come desiderio di bene per gli esseri viventi, è assolutamente augurabile, ma quando diventa atteggiamento pietistico, non accetta e definisce una distanza di sicurezza oltre la quale diventa difficile andare. Le fotografie dell’artista annullano proprio questa distanza e ci permettono una relazione empatica ma non devota, esageratamente emotiva. Guardando quegli scatti ti sembra veramente di entrare nei loro panni, di sentire il loro stato d’animo, percepisci persino l’allegria o lo smarrimento. Non ti senti uno spettatore distaccato ma non provi nemmeno il desiderio di piagnucolare, come fosse il modo migliore per dimostrare che certe situazioni di vita ti interessano.
Nelle foto, come nella quotidianità di ognuno di noi, l’altro, chiunque esso sia, non è strano perché diverso. Questo senso di estraneità è dato dal nostro sguardo. La diversità, intesa come definizione di vincitori e vinti, di migliori e peggiori, di assistenti e assistiti, è data proprio dal modo in cui noi “guardiamo” l’altro, in cui ci poniamo nella relazione con l’altro.
L’accettazione reciproca, forse anche mediata dalla presenza di una macchina fotografica, che la Arbus definiva con i soggetti che voleva fotografare, ribalta ancora una volta il senso comune.
Non c’è chi deve accettare e chi deve essere accettato. In una relazione che funziona entrambi i protagonisti sono chiamati e autorizzati a fare un piccolo sforzo. Mi vengono allora in mente tante storie di educazione nelle quali insegnanti o educatori o assistenti si arrogano il diritto della fatica dell’accettazione dell’altro/assistito, bambino o anziano o disabile, come fosse un privilegio donato, un’approvazione che viene concessa dall’alto. Mentre l’assistito deve stare zitto, non ha diritto di domandarsi, di capire, di affrontare la fatica dell’accettazione. Uno vale l’altro, comunque, a qualunque condizione.
“Voglio fotografare i rituali degni di nota del nostro presente, dato che tendiamo, vivendo qui e ora, a percepirne solo la parte casuale, arida, informe. E mentre lamentiamo che il presente non somigli al passato e disperiamo che possa mai diventare il futuro, i suoi innumerevoli e imperscrutabili aspetti giacciono in attesa del loro significato”.
Il 26 luglio 1971 Diane Arbus muore.
Si toglie la vita. Troppa depressione, insopportabile compagna di vita.
Ci lascia con una ferita, non poteva farci regalo migliore.
Una ferita come una feritoia, una fessura dalla quale guardare l’interno oltre l’involucro, un invito ad andare oltre, a non accontentarsi dell’apparenza e preferire la sostanza.
Quella che lei ha tentato, ogni volta, di fissare sulla pellicola.
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