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La corsia degli incurabili

Di Lucia Cominoli

Corsia degli incurabili è un atto unico per un attore solo, composto in versi dalla poetessa Patrizia Valduga. Il protagonista, un malato su sedia a rotelle, vive e lotta contro l’immobilità, la sua e quella della società italiana, superficiale e corrotta, espressione manifesta della dittatura televisiva degli ultimi anni.
L’omonimo spettacolo, riletto e diretto nel 2010 da Valter Malosti, regista di Teatro di Dioniso di Torino, ha avuto per protagonista Federica Fracassi, attrice e fondatrice di Teatro I di Milano. Il Teatro dell’Elfo (MI) ne ha ospitato lo scorso gennaio una nuova replica, segnalata tra le migliori proposte della stagione nazionale.

… ora e nell’ora della nostra morte.
Ave Maria… Buongiorno, nuovo giorno!
E ave alla vita! … della nostra morte!

Piena di grazia, il Signore è con te…
Quello spicchio di luce è il nuovo giorno.
Il Signore è con te, luce, è in te…

… e nell’ora che passa la paura.
Mia dolce luce, gioventù del giorno,
tu spicchio di giustizia vera, giura

che qui, a noi, soldati del dolore,
non porterà troppo dolore il giorno,
che a tutti i giusti gemiti del cuore

si darà ascolto… ci sarà pietà…
almeno per un giorno, questo giorno…
Pura luce, misura d’umiltà,
giura che sarà giusto il nuovo giorno,
che sarà azzurro più di ogni altro giorno

(Allegramente)
Che programmi per oggi? Su vediamo:
un migliaio di cose a cui pensare.
Beh, un migliaio… non esageriamo!

Quello spicchio di luce è il nostro giorno:
l’azzurro lo dobbiamo immaginare;
alba e tramonto, aurora e mezzogiorno

stanno più su, da quelli col denaro.
E con tanto di stelle, luna e sole.
Ma mica se li godono, sia chiaro.

La chiamano così: democrazia.
(Con violenza)
Non c’è più rispetto per le parole!
si usano a vanvera!… Santa Maria…

madre di Dio! E ti credo che il mondo
è così stronzo! È questo vile oltraggio
alle parole il motivo profondo!

È il continuo oltraggiare le parole
che vede i furbi sempre col vantaggio
e lascia noi qui sotto senza sole!

Ma tu ora sole salpa, dai, coraggio,
fa vela verso loro, e fa buon viaggio.

Patrizia Valduga, poetessa veneta, quando scrisse questi versi diciotto anni fa, nell’agosto del 1995, lo fece pensando a Franca Nuti, attrice torinese. Un bel confronto quello tra la moglie del poeta e critico letterario Giovanni Raboni e una delle più popolari signore del teatro anni ’80,  premio Ubu come miglior attrice. Corsia degli incurabili, atto unico per un attore solo, non è certo una prova facile, nemmeno per lo spettatore più sensibile.
In scena una lotta alla sopravvivenza senza esclusione di colpi, protagonista un malato generico su sedia a rotelle impegnato a trascorre gli ultimi giorni tra il desiderio della fine e un’incurabile voglia di bellezza. La poesia, calmante e ansiolitico, ne è l’unica e inarrestabile esplosione segreta.
Scomodo e complesso, Corsia degli incurabili è un testo che si affronta con una buona dose di coraggio, proprio come hanno fatto altri due premi Ubu dei giorni nostri, il regista di Teatro di Dioniso di Torino Valter Malosti e  la lodatissima Federica Fracassi, attrice e fondatrice con Renzo Martinelli dello spazio Teatro I sulla cerchia dei Navigli milanesi.
Già composto nel 2010 e ripresentato a gennaio al Teatro dell’Elfo di Milano, lo spettacolo è stato accolto anche quest’anno con grande entusiasmo, capace ancora com’è di riversare lo sguardo sui morbi non solo del singolo ma dell’intera società contemporanea,  tra canto e grido, tra soavità e furia.
Endecasillabi, le parole, combinati in terzine e distici alla maniera sirventese, quella dei padri danteschi, scivolano in raffinate e ironiche litanie, rampogne, rimpianti delle montagne, ferite liriche in cui balenano il ricordo di amori tinti d’oro e d’azzurro, della giovinezza veneziana, di notti da trecento ore. Finché non si arriva al presente e la sofferenza lascia il posto all’indignazione.
Chi è davvero il terminale nell’Italia berlusconiana? – ci chiede la Valduga – il malato o il pubblico della dittatura televisiva? Che cosa resta a un poeta che non può più muoversi di fronte alla semplificazione, alla dimenticanza, allo svuotamento del corpo e del linguaggio? Il popolo ignora i suoi cantori e quel che è peggio è che anche li ammazza, lasciandone la voce solitaria e inascoltata.
Indimenticabile, l’interpretazione di Federica Fracassi si misura, sottile ed energica, tra i registri del sublime e la più banale attualità.
La disabilità è qui condizione simbolica di immobilità corporea, esistenziale e politica.
Un’icona volutamente patetica e stereotipata, quella della donna “soldato del dolore”,  che si ribalta nell’impetuosità della parola, nell’intensità dell’accusa e negli ironici commenti a margine del quotidiano.
Complice il volto pallido, il camice bianco e i capelli rossissimi dell’attrice,  dove anche l’immagine più consueta, la pianta-vegetale, si fa surreale e fantasmatica senza perdere di vista il concreto, il luogo comune, il trito e ritrito della “normalità”:

[…] Le tivù ci hanno fatto l’incantesimo…
Se non scarica il cielo una saetta,
tutti servi del secolo ventesimo!

Classifiche, sondaggi, lotterie…
siamo solo strumenti di collaudo
per i bordelli… o per le osterie…

Che cosa non si deve sopportare!
Se penso che c’è ancora Pippo Baudo
che son trent’anni che mi fa cagare…

Trent’anni? ma saranno anche quaranta…
E la paghiamo noi… ha certi prezzi…
lui munge le sue vacche lì… e ci canta

le canzonette… fa i pettegolezzi…
Se mai esco di qui mi fanno a pezzi!

La regia di Valter Malosti amplifica il romanticismo decadente della rappresentazione insieme alla sua vocazione più contemporanea in un contraddittorio di luci e di musiche, di suoni barocchi e inquieti, di riferimenti colti e  di omaggi popolari. Tra questi Gluck e Beethoven,  Chris Watson e Fausto Romitelli, Carmelo Bene e Uri Caine, Giovanni Lindo Ferretti e Caruso fino alle romanze da pianoforte di Francesco Paolo Tosti.
Sospeso tra tradizione e ricerca il Teatro di Dioniso di Malosti come al solito straborda, per arrivare alle radici del discorso, ambiguo, irriverente e sensuale, così come lo è la nostra protagonista immobilizzata.
Sul teatro di poesia la critica si è spesa moltissimo ma nulla, in questo caso, ci sembra più vicino alla sua origine dei punti 3 e 9 della Lode della scrittura. Dieci tesi per un teatro organico del drammaturgo, poeta e pedagogo Giuliano Scabia che così annota:

[…]
3) La scrittura di un testo è innanzitutto un atto di ricerca radicale e organica. Una ricerca spinta fino alle estreme capacità di tensione del linguaggio e delle visioni del mondo, dentro le strutture del proprio tempo.

[…]
9) Ciò tuttavia fa pensare che di fronte a forme diverse ma convergenti di conformismo uno degli elementi di validità della scrittura teatrale consista nello spingersi al limite estremo di tollerabilità nei confronti di tutta la situazione esistente, nell’essere il meno tattica possibile, nel ricercare il livello più alto di scontro. Ciò che rende rischiosa e verificante la scrittura è questo trovarsi in continuo stato d’assedio: assediante e assediata.

Radicale e organica è qui anche la ricerca sulla disabilità, una ferita acquisita, ostentata, non idonea, dichiaratamente non conforme. Quello della Valduga è un corpo estraneo che se lo vive sulla pelle, un sismografo capace di cogliere le dissonanze di un paese che non si prende più sul serio e che ha perso i vocaboli. Alla fine se qualcosa resta ai cantori è la responsabilità di un gesto esteso, l’agitazione delle idee, la trasformazione dell’immaginario, agli altri la necessità di scavare all’interno di quelle immagini fino alle loro fondamenta. 

Rimetteremo in moto cento cieli…
d’oro e d’azzurro… oh, d’azzurro e d’oro…
se staremi distesi e paralleli…

sì, mettimi una mano tra i capelli…
sto migliorando… vedi che miglioro…

Per informazioni:
www.teatrodidioniso.it
www.teatroi.org



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