Luca Francioso ormai da anni porta in viaggio la sua musica, anzi… è la sua musica che porta in viaggio lui, anche in luoghi insoliti o insospettabili per un concerto, come le case delle persone, entrando in contatto con la diversità delle vite altrui. “Cosicché la musica non sia prerogativa esclusiva di convenzioni inadatte, ma di ogni occasione che un cuore curioso sa creare”.
Tra le varie case che lo hanno ospitato, anche la Comunità Marana Tha, dove vive Claudio Imprudente.
Ho sempre voluto vivere di musica. In effetti, nei miei ricordi, anche quelli più lontani nel tempo, la musica è sempre presente, come una specie di onnipresente sottofondo alle istantanee sparse nella memoria. Da piccolo passavo ore ad ascoltare i vinili di mia sorella – raccolta di un significativo spaccato del cantautorato italiano – e quando potevo raggiungevo nella piazza del paese i ragazzi più grandi di me, persi tra gli accordi di una chitarra appena corrosa dal sale, di fronte al mare calabrese che si stringe tra Messina e Reggio.
È proprio da qui che il mio viaggio è partito. Da questo avamposto sul Tirreno – Bagnara Calabra, la mia culla – ho cominciato a seguire la corsa della musica, rivelatasi col tempo veloce e imprevedibile, a volte irraggiungibile. Sì, perché per quanto un musicista si convinca del contrario, è la musica che ti porta in giro e non viceversa. Un musicista può solo provare a rimanere in scia, solo questo e niente di più. Chi pensa di poter viaggiare al suo passo o addirittura di superarla si inganna. E credo anche che lo sappia, in fondo.
Così, scelto piuttosto presto lo strumento da utilizzare, quello più vicino alle mie corde (e di corde in effetti si tratta), ho da subito avuto la necessità di scrivere e condividere con la mia chitarra, stringendo tra le dita la tecnica del fingerstyle e spesso anche una timida penna carica di storie da raccontare. Per anni non ho fatto che comporre musica e scrivere racconti, ogni giorno, in qualsiasi luogo mi trovassi!
Mai ho scartato una melodia e mai ho cestinato un’idea. Ho sempre raccolto e conservato con cura qualsiasi nota e qualsiasi parola dentro i cassetti e gli scaffali sistemati in fila tra la mia testa e il mio cuore, perfino le intuizioni più deboli e rattoppate, così da poterne usufruire al bisogno, in momenti diversi.
È per quest’indole da bibliotecario impavido che amo suonare dal vivo, forse più che registrare dischi. Perché dal vivo, quando la musica compie la sua natura, l’interazione è attiva e mutabile come non mai e ogni cosa vive di possibili e forse necessari – pur minimi – cambiamenti emotivi, da gustarsi a più riprese senza un reale flusso temporale. Così come quando si sfogliano le pagine di un romanzo senza un senso preciso, ma solo per il gusto di leggere.
Musica e scrittura si sono intrecciati amoreggiando su questo sentiero confuso e affascinante a lungo, tanto da generare in me un insolito e quanto mai impopolare desiderio di unicità, la voglia cioè di non cedere mai e per alcun motivo alla praticità di repliche in serie delle idee altrui, spettacoli messi in scena da masse di brulicanti tributari che altro non fanno che rinnegare se stessi pur di somigliare ai loro idoli.
Anche se poco redditizia e men che meno furba, la scelta di suonare solo musica originale si è rivelata una sorta di missione per me. Tuttavia, la sfida non è mai stata distinguersi a tutti i costi, magari fingendo con me stesso e con gli altri, ma quella di trovare la mia voce fra tutte, ingenua o matura che fosse, purché mia. Ricerca ancora in atto.
E allora, di concerto in concerto, di storia in storia, ho assecondato sempre il mio istinto e la sua brama di bellezza. Le mie scelte sono sempre state mosse dall’amore per quello a cui ambivo e non dal denaro che se ne poteva ricavare. Azzardato in effetti come modus operandi, specie se si condivide il proprio cammino con moglie e figli.
Il fatto è che l’arte del compromesso non mi appartiene. Sì, mi capita di dovermi cimentare in tali giocolerie, ma ne esco sempre smunto e scarico. Sono cocciuto e direi anche permaloso – caratteraccio, insomma! – e ho sempre agito rimanendo fedele all’inequivocabile fattore X del popolo calabrese: la testa dura (o “capatosta”, come si vuole). Pagandone spesso il prezzo.
Ecco che, dopo i tanti anni di gavetta concertistica nei buchi più caciaroni e inospitali che abbia mai visto, ho cominciato a selezionare con una certa cura i luoghi in cui esibirmi. Certo, il numero dei concerti è diminuito, così come quello delle persone in platea, ma è aumentata l’intimità della condivisione e si è accorciata la distanza tre le note e il cuore di chi ascolta, specie da quando non è stato più solo il sipario ad aprirsi sulla mia musica, bensì anche la porta di un appartamento.
Ai luoghi più improbabili e meno formali divenuti lentamente i primi scenari delle mie esibizioni (sale dimenticate, cantine, fienili, vigneti, boschi, prati montani), infatti, si è aggiunto il sacro spazio di una casa, la mia e quella degli altri. A pensarci bene una casa è il luogo ideale per fare musica, considerata l’infinità degli intimi gesti che custodisce ogni giorno, a volte per generazioni intere.
Insomma, alla stregua di un venditore ambulante che citofona a ogni civico, ho iniziato a portare la mia musica nelle case per poi decidere, due volte all’anno, di aprire le porte anche della mia. L’empatia che si crea ogni volta è così appagante che quasi preferisco queste situazioni ai più canonici scenari concertistici. Naturalmente non disdegno un teatro gremito, della cui energia mi sono nutrito più volte grazie al cielo, tuttavia i salotti sanno donare una diversa gratificazione, di cui non sarò mai sazio.
Nel frattempo, tenendo la rotta, ho continuato a incidere e a scrivere, album e libri, e continuo a farlo come se il mio corpo non riuscisse a contenere nulla di quanto sento e gusto, di quanto vivo e sogno, tutti i giorni. Avverto l’urgenza della condivisione e con essa il piacere di assistere alla lenta evoluzione che tramuta un’emozione in un’opera, alleggerendomi e al contempo arricchendomi. Amo questo processo, sebbene non lo capisca fino in fondo.
Ed eccoci a oggi, al presente. Con un mare di progetti da realizzare, le gambe un po’ stanche per il troppo vagare e le spalle cariche di gioie e delusioni collezionate e messa in fila, ma sempre pronto ogni mattino a ripartire da zero.
Il mio viaggio e la mia storia – umana e artistica – non si sono certo conclusi e credo (diciamo che ci spero vivamente) che non si consumeranno neppure dopo quest’ultimo capoverso. Di fatto continuo ogni giorno a rimanere proteso a chiappe scoperte e con il profilo basso verso l’ammaliante luce della bellezza, tentando con il mio contributo di poter cogliere almeno uno dei suoi lampi, almeno uno, uno soltanto della sua sconfinata portata. Non sarebbe una vita sprecata se in una vita intera ne riuscissi a scorgere appena una scintilla.
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