I padri del Nord. Avere un figlio con disabilità in Islanda e Norvegia
- Autore: Massimiliano Rubbi
Di Massimiliano Rubbi
Quando si parla di famiglie con un figlio/figlia con disabilità, la figura del padre spesso rimane sullo sfondo, mentre in piena luce c’è quella della madre. Questo squilibrio è un probabile riflesso del fatto che, almeno nel contesto sociale italiano, ci si attende che alla cura per il bambino con disabilità, con i suoi bisogni speciali, provveda principalmente la madre entro la famiglia, e la famiglia entro la società – e tutto ciò si inserisce in una difficoltà più generale, per i padri di oggi, nel trovare una posizione educativa capace di rifiutare i modelli autoritari del passato senza appiattirsi su un “ruolo di seconda madre”. Come può essere allora l’essere padre di un bambino con disabilità nei contesti sociali nordici, dove la parità di genere è molto più avanzata che nei Paesi dell’Europa meridionale, e ci si attende che un servizio sociale ben strutturato (il mitico “welfare scandinavo”) sostenga efficacemente il ruolo di entrambi i genitori?
Un tandem è fatto per pedalare in due
Dóra S. Bjarnason è professoressa di Sociologia e Educazione inclusiva presso l’Università di Islanda a Reykjavik, e il suo libro Social Policy & Social Capital: Parents & Exceptionality 1974-2007, pubblicato nel 2010, è uno dei pochissimi studi a trattare le opinioni di entrambi i genitori di figli disabili. Bjarnason conferma la sostanziale parità nella cura dei figli nelle famiglie islandesi odierne, fin dal concepimento e dalla gravidanza: “la maggior parte dei potenziali padri in Islanda partecipano ai servizi prenatali con le loro mogli o compagne, fanno gli esercizi di respirazione, imparano ad avere a che fare con un neonato. Quando parlavo con i padri, in realtà mi dicevano ‘eravamo incinti’, non ‘mia moglie o la mia fidanzata erano incinta’”.
La prima legge sul congedo indipendente di paternità in Islanda è stata approvata nell’anno 2000, e una grande maggioranza di padri ha usufruito da allora del congedo di paternità di 3 mesi riservato loro dalla legge islandese (con 3 mesi riservati alla madre e altri 3 disponibili per entrambi): nel 2008, prima del crollo economico dell’Islanda (vedi oltre), quasi il 91% dei padri lo usava, e a fine 2012 il diritto dei genitori al congedo di maternità e paternità è stato esteso a 5 mesi ognuno più 2 mesi da dividere tra loro (in un percorso graduale che si completerà nel 2016). Per avere un termine di paragone, i dati ISTAT mostrano che nel 2010 solo il 6,9% dei padri italiani di bambini fino a 8 anni aveva mai fatto uso del congedo parentale facoltativo, contro il 45,3% delle madri. Questa responsabilità condivisa non viene meno quando nasce un bambino con disabilità, il che dà diritto ai genitori a 7 mesi ulteriori di congedo parentale.
La ricerca di Bjarnason indica che quasi tutte le madri di figli disabili fruiscono del Centro Nazionale di Valutazione e Sviluppo a Reykjavik, e la maggior parte dei padri partecipano ad almeno alcuni degli incontri. I padri si sentono a volte meno a proprio agio delle madri nel Centro, gestito da personale prevalentemente femminile, a seconda della propria età e posizione sociale – mentre padri più giovani e della classe media spesso vanno con le proprie compagne alla maggior parte degli incontri e delle sessioni di valutazione, è più probabile che padri più anziani e impiegati in posti di lavoro prevalentemente maschili (qualificati o meno), ad esempio pescatori, si sentano fuori posto, e vadano a meno incontri, affidandosi alle loro mogli quanto a ciò che vi avviene.
Ci si potrebbe aspettare che la nascita di un bambino con disabilità conduca a una rottura più probabile tra i suoi genitori, a causa delle tensioni generate da aspettative frustrate e dell’onere di cura aggiuntivo caricato su di loro. I dati raccolti da Jan Tøssebro, professore nel Dipartimento di Lavoro Sociale e Scienze Sanitarie all’Università Norvegese di Scienza e Tecnologia a Trondheim, in uno studio longitudinale (condotto fino al 2012) su famiglie norvegesi di bambini con disabilità nati nel 1993-95, contraddicono questa aspettativa: “La ricerca norvegese sul divorzio in famiglie con figli disabili suggerisce un tasso di divorzio leggermente più basso per tutta l’infanzia. Questo potrebbe essere dovuto all’effetto di legame di un compito comune, ma anche al fatto che le persone sentono di non poter gestire il lavoro di cura da sole. La principale differenza dalle altre famiglie è che i genitori di figli disabili tendono a formalizzare prima la loro relazione (matrimonio piuttosto che convivenza)”. Sia i padri che le madri di bambini con disabilità conciliano i bisogni familiari e lavorativi su una base di parità, così che “il modello tipico in Norvegia è due breadwinner [lavoratori che “portano il pane in famiglia”, NdT], e sebbene le madri ritornino al lavoro più tardi e spesso part-time, “la differenza con le altre famiglie è inaspettatamente piccola”. Le conclusioni di Bjarnason confermano ciò anche per l’Islanda, benché basate su uno studio qualitativo e un campione più piccolo.
Il welfare come sollievo sociale
Secondo il sociologo danese Gøsta Esping-Andersen, i tre pilastri di qualunque sistema di Welfare State sono il governo, le famiglie e il mercato, e i sistemi si diversificano in base al pilastro sul quale poggiano di più (benché sempre come un mix). Mentre nei sistemi di welfare italiano e dell’Europa meridionale il peso principale è sulle famiglie, il modello scandinavo si caratterizza per una preponderanza del pilastro del governo, che di conseguenza alleggerisce il peso sotto cui potrebbero cadere le famiglie con un membro con disabilità. Nelle parole di Bjarnason, il welfare nordico “ha spostato alcune delle responsabilità per il welfare dalle famiglie allo Stato, al fine di rafforzare le famiglie sollevandole da certi obblighi, e di rafforzare il programma di indipendenza individuale e uguaglianza di genere. Non solleva completamente le famiglie, ma le sostiene, e aiuta a rendere più uguali i ruoli delle madri e dei padri”.
Un approccio orientato alla prestazione, mirato a massimizzare l’occupabilità e la produttività, è probabilmente alla base della resistenza delle istituzioni di educazione speciale nell’Europa settentrionale. Bjarnason è una fiera sostenitrice dell’educazione inclusiva: “Penso che le persone debbano stare insieme da quando nascono a quando muoiono, e anche nei cimiteri – non si hanno cimiteri diversi per i neri, per i maschi, per i grassi o per i timidi”. La studiosa riferisce che in Islanda quasi tutte le scuole speciali sono state chiuse, e l’integrazione è il principio guida sin dal pre-scuola, che accoglie oltre il 90% dei bambini islandesi da 2 a 5 anni di età e quasi ovunque include bambini con disabilità. Il sostegno del welfare “mira ai bisogni del singolo bambino o adulto con disabilità, e dovrebbe concentrarsi di più sull’ascolto delle voci dei singoli genitori dei bambini e ragazzi disabili. Queste persone possono esprimere i propri bisogni, dovremmo accettare che la maggior parte delle persone sanno di cosa hanno bisogno: per esempio, non chiedi pannolini o una persona di supporto se non ne hai bisogno”. Anche le inevitabili preoccupazioni a proposito del “dopo di noi” e dell’età adulta di chi ora è bambino con disabilità (preoccupazioni su cui padri e madri non sembrano divergere) devono essere messe in questa prospettiva, che Bjarnason riassume: “dovete ricordare che state parlando a un’europea del Nord, con i valori nordici, e le persone sperano davvero di poter confidare che lo Stato e la comunità locale se ne prendano cura e gestiscano quel carico”.
Certo, non tutto è perfetto nella fornitura di supporto sociale alle persone disabili – e un esempio concreto viene dall’esperienza personale della professoressa Bjarnason, madre di un uomo di 34 anni con deficit multipli che ora vive con i suoi tre assistenti nel suo appartamento a Reykjavik. Per i suoi bisogni quotidiani di assistenza, Bjarnason e suo figlio raccontano che dal 2001 hanno “assunto giovani, soprattutto stranieri, che volevano venire in Islanda per andare all’Università, e che si sono trasferiti da mio figlio come assistenti; vivono con lui, sono parte della sua casa, si pensano per la maggior parte come una famiglia; lavorano con lui tutto il tempo, fanno turni ma hanno anche abbondanza di tempo per studiare e fare le proprie cose”. Il Comune di Reykjavik tuttavia non sostiene economicamente i turni di notte nel modello di assistenza che la famiglia ha ideato, così Bjarnason ora vuole che il Municipio “accetti che mio figlio è disabile 24 ore al giorno”, e lo ha citato in giudizio. La famiglia ha perso la causa nel tribunale di primo grado e sta ora portando il caso alla Corte suprema, la cui pronuncia è attesa entro alcuni mesi, e che si auspica apra un’opportunità per la vita indipendente ad altre persone adulte disabili che ora vivono in case-famiglia: “se vinceremo, ciò costituirà un precedente e cambierà la vita di circa 45-50 persone nella necessità di servizi simili”.
Incrinature nel diamante della parità
Studi citati dalla ricercatrice italiana Alessia Cinotti su inclusione/esclusione dei padri di bambini con disabilità sostengono che “le teorie psicologiche propongono assi relazionali all’interno della famiglia dove la relazione madre/figlio si fa potente, sino a escludere e a marginalizzare il padre”, che si sente espulso dalla nuova “diade” e la cui figura viene resa “sfuocata” da una “madre onnicomprensiva”. Come abbiamo visto, questo sembra lontano dal ritrarre correttamente le famiglie nordiche – e tuttavia, rimangono indizi per ipotizzare una posizione dei padri diversa e più chiusa verso i loro figli con disabilità. Bjarnason riferisce che i padri a cui ha parlato “erano assai preoccupati, ma al contempo non volevano gravare sulle loro mogli, per cui a volte erano molto soli. I loro amici venivano e portavano una birra o una bottiglia di vodka, o aiutavano a costruire una rampa, ma sostegno nel dialogo lo ottenevano soprattutto dalle loro mogli”. Mentre Bjarnason collega ciò a una caratteristica del “maschio islandese”, Tøssebro tratteggia un fenomeno più generale: “la ricerca internazionale tende a mostrare che i padri hanno meno reazioni psico-sociali quando un bambino ha una disabilità, rispetto alle madri. Non si sa in quale grado questo sia il caso in Norvegia, ma il ‘sentito dire’ suggerisce che i padri esprimano meno emozioni”.
Un’altra incrinatura nell’immagine di una perfetta parità di genere è la sostanziale preminenza delle donne nei compiti domestici, che sia Bjarnason (“a casa, la donna è il capitano della nave della famiglia”) che Tøssebro riportano, e che mette i loro compagni maschi in una posizione più marginale, sebbene “partecipe”. Di conseguenza, nella routine pratica familiare richiesta dai bisogni speciali dei bambini, i padri nello studio di Bjarnason “in certo modo avevano un ruolo meno conscio, facevano ciò che la madre non poteva fare o per cui lei non aveva tempo o che non poteva aspettare”. Similmente, sia Bjarnason che Tøssebro rilevano che i servizi proposti per supportare le famiglie di bambini con disabilità, benché formalmente dedicati a entrambi i genitori, in pratica tendono a rivolgersi soprattutto alle madri come principali fornitrici di cura, così che alcuni dei padri intervistati da Bjarnason “sentivano che le dottoresse, o le psicologhe, o le responsabili della valutazione, stavano parlando ‘sopra la loro testa’ alle loro mogli”.
Queste potrebbero apparire questioni marginali, che riflettono tanto una sorta di “empatia femminile” tra le donne nel personale di cura e nelle famiglie quanto un trascurabile residuo di un passato non così lontano in cui la cura familiare era in effetti demandata alle donne. Le cose si fanno più difficili quando si parla di coppie che hanno deciso di non dare alla luce bambini il cui deficit è stato identificato nella (socialmente diffusa) diagnosi prenatale. Bjarnason ha intervistato 9 coppie che hanno optato per un aborto, e ha riscontrato “quanto terribilmente difficile fosse prendere una decisione sull’abortire o meno il feto apparentemente ‘danneggiato’. Le coppie non erano sempre in accordo, ma se l’uomo decideva di volere che la donna non abortisse, e la donna diceva che avrebbe abortito, tutta la famiglia era a rischio”. La studiosa islandese, oltre ad aprire gli occhi metodologici sul “parlare ai genitori separatamente, non a madri e padri insieme”, conclude che i padri “erano davvero costretti a essere d’accordo con le loro mogli su parecchie questioni rilevanti collegate alla nascita e alla cura del loro figlio disabile”.
Su tutto questo ha un impatto la crisi economica in cui ci troviamo – quasi impercettibile in Norvegia, molto più rilevante in Islanda, che nel 2008 ha subito il più grande crollo finanziario nella storia mondiale in rapporto alle dimensioni dell’economia nazionale. Secondo Bjarnason, il governo di sinistra entrato in carica nel 2009 “ha messo l’accento sul proteggere il più possibile il lavoro socialmente utile”, ma i tagli sono stati profondi e non ancora rimarginati. Come conseguenza della crescita della disoccupazione (con la paura collegata di perdere il lavoro) e della riduzione dell’importo pagato ai padri e alle madri in congedo, meno padri hanno preso l’intero congedo di paternità negli ultimi anni, scendendo dal 91% del 2007 al 77% del 2013. Bjarnason è tuttavia ottimista sul futuro nel sostegno genitoriale nel suo Paese: “ci sono meno soldi nei servizi, ma allo stesso tempo c’è molta competenza, ce n’è più ora di quanta ce ne fosse nei primi anni ’90”.
Perché conta la cultura
Una fondata ragione per essere ottimisti, nonostante le riduzioni nei livelli di welfare imposte in tutto il mondo (e i Paesi nordici non fanno eccezione) sin dall’inizio della crisi economica, va trovata nel modo in cui il modello nordico di welfare e la parità di genere sono sorti tra loro intrecciati in Islanda. Fino a 40 anni fa, ricorda Bjarnason, “i padri avevano un ruolo diverso dalle madri, ed erano i principali e a volte gli unici breadwinner, ma questo è cambiato molto rapidamente dopo gli anni ’70, quando le donne sono emerse nel mercato del lavoro e sono state più attive politicamente – negli anni ’80 e ’90 abbiamo avuto la prima donna democraticamente eletta Capo di Stato – e ora le donne sono probabilmente più attive economicamente in Islanda che in qualunque altra nazione occidentale”. I servizi di welfare per i bambini con disabilità sono stati costruiti quasi da zero negli stessi anni e quasi dalle stesse forze (i genitori piuttosto che le sole donne, in realtà), come Bjarnason ricostruisce in Social Policy & Social Capital. I genitori di figli nati nel 1974-1983 sono denominati nel libro “Esploratori”, primi oppositori di una visione medica della disabilità e della segregazione che essa generava; i “Pionieri” hanno goduto dei primi servizi di supporto con i loro figli nati nel 1984-1990, e quindi i “Coloni”, genitori di figli nati nel 1991-2000, hanno sollevato la questione a un livello pubblico e politico, così che i bambini con disabilità nati dal 2001 potessero essere “Cittadini” titolati a ricevere servizi in un quadro di diritti umani. In entrambe queste dinamiche sociali, che hanno trasformato la società islandese negli ultimi 30 anni del XX secolo, piuttosto che un’illuminazione venuta dall’alto, è stato un cambiamento culturale portato avanti insieme e presentato dal basso nel dibattito politico (in una comunità numericamente molto ristretta, va detto) a innescare cambiamenti nella politica di welfare.
L’importanza della cultura emerge anche da quanto Bjarnason ha scoperto sulle famiglie immigrate con bambini con disabilità giunte in Islanda: benché fondamentalmente aventi diritto agli stessi servizi sociali, “questi genitori stranieri, con un tipo diverso di cultura, un tipo diverso di visione, possono essere preoccupati, perché la disabilità potrebbe oscurare il fatto che abbiano un figlio o una figlia”, Ecco come il “carico” diventa più pesante, quando potrebbe invece essere percepito dai genitori come semplice “lavoro aggiuntivo” se si ricordassero che “se hai un bambino con disabilità, significa che hai un bambino, un figlio o una figlia, questa è la cosa principale”.
La “cultura”, nel senso ampio ed etnografico che Bjarnason utilizza, “ha del tutto a che fare con come pensi, con te stesso come uomo, come donna, come genitore. Le famiglie di ragazzi con disabilità hanno davvero bisogno di sostegno aggiuntivo, è chiaro. È tanto lavoro, con un ragazzo che ha bisogno di tanto di più degli altri ragazzi, ma dipende da quanto è grande la tua rete, quanto sono buoni i servizi, e dalla tua visione sull’avere un figlio in primo luogo, il che credo sia la chiave per le differenze”. Gli atteggiamenti culturali verso la genitorialità di bambini con disabilità, quindi, meritano probabilmente una ricerca qualitativa più specifica, mirata a comprendere “il significato che le persone danno al proprio agire, alla propria vita” – e ai padri raramente si è chiesto questo finora, specialmente in sessioni tenute separatamente dalle loro partner, in cui le specificità (e le frizioni, così come i potenziali inespressi) potrebbero venire alla luce.
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