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IL MAGICO ALVERMANN/Meglio morto che in manicomio

“Buone  notizie! – attaccai, disponendo il documento appena firmato in un’apposita cartella – Tentiamo con l’infermità mentale!”.

Alla donna si spense il sorriso sulle labbra.

“Più che un tentativo – incalzai constatando la delusione dei suoi occhi – Ho parlato con il professor Puligheddu, lui è disponibile a studiare il nostro caso!”.

Le mani di Franceschina Pattusi presero a sfregare un panno invisibile sulle sue ginocchia.

“L’estraneità è fuori discussione! – arrancai – L’orologio del Solinas è stato trovato in tasca a vostro nipote. Se la cava con un ricovero. Volete la forca?” esagerai. Stavo perdendo la pazienza.

Franceschina Pattusi trattenne un singhiozzo. 

“No” disse semplicemente.

“No?” feci eco come se non avessi capito.

“No! – ripetè lei dopo essersi schiarita la gola – Meglio morto che in manicomio”.

“Ma vi rendete conto? – mi sgolai – vi rendete conto di quello che state dicendo? Abbiamo l’assoluzione a portata di mano!”.

Franceschina Pattusi continuava a scuotere la testa.

“Guardate che così non risolviamo niente – provai, calmandomi un poco – Bisogna che lavoriamo con quello che abbiamo. L’ho studiato bene questo caso: non ci sono alternative: vostro nipote se la può cavare solo in… quel modo”.

“E che vita gli prepariamo, s’abbocà? Una vita sulla bocca di tutti ca est unu maccu? A farsi ridere dietro dai ragazzini?”.

[…]

Da solo, nel mio ufficio ero infuriato. Maledetta ignoranza. Mi faceva imbestialire il pensiero che tutto quanto era spacciato per affetto non era nient’altro che bieco egoismo. Sa zente. Quello che dice la gente. Quello che pensa la gente. Ero infuriato: un malato rischiava il massimo della pena perché la gente non sapesse che era malato. Per questo. Che a ripetermelo mi faceva salire il sangue al cervello.

Franceschina Pattusi era stata chiara. Disse che era un marchio che si sarebbero portati tutti, come un segno a fuoco sulla fronte. Pattusi sos maccos. Anche i fratelli sani: Elias e Ruggero, che avevano diritto a una vita in mezzo agli altri, senza vergogna. Che la malattia è roba da custodire dentro casa, non roba da esporre a tutti. E Clorinda? Sua sorella minore, che marito avrebbe trovato con un matto in famiglia? Così andava, non era mica semplice affrontare gli sguardi della gente! Franceschina Pattusi disse che parlavo bene io, che problemi non ne avevo grazie a Dio, che non dovevo vergognarmi di niente grazie a Dio”.

(Marcello Fois, Sangue dal cielo, Frassinelli, 1999, pp. 44-45)

Ambientata alla fine dell’800, questa seconda indagine dell’avvocato Bustianu si muove intorno a Filippo, giovanissimo e orfano, affidato alle cure delle zie, insieme ai due fratelli maggiori. È solo scavando con ostinazione e sbattendo ripetutamente contro i muri di silenzio della zia, che viene a sapere, e noi con lui, dei problemi (psichiatrici? di comportamento?) che il nipote ha manifestato fin da bambino. Eppure, pur nella certezza della sua innocenza, la zia è disposta a lasciarlo condannare per omicidio. Meglio morto che matto.

In queste poche righe, ritroviamo tutto un mondo, un insieme di sentimenti e di convinzioni che fino a poco tempo  fa accomunavano tante famiglie di persone con un qualche tipo di disabilità. Ora, forse, abbiamo fatto un passo avanti e i genitori non provano più vergogna di fronte al deficit del figlio o della figlia.
Ma se invece di un deficit questo figlio, o questa figlia, avessero l’Aids? Oppure, più semplicemente, il loro orientamento sessuale si discostasse da quello che comunemente si ritiene normale? Siamo sicuri che non ci siano ancora delle Franceschina Pattusi a lottare con le unghie e con i denti per mantenere il segreto fra le mura di casa? Negando, in questo modo, la stessa essenza della persona, non riconoscendone l’identità e l’unicità di cui anche tutto questo fa parte.



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