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Volontariato: il crocevia del corpo

“Vengono sempre molte persone a trovarmi. Tante persone. Così diverse e con mondi apparentemente inconciliabili fra loro. Però con me ciascuno ha un rapporto. Sì, attorno a questo letto c’è il mondo rappresentato, il mio piccolo grande mondo”.
Chiara M., Crudele dolcissimo amore, Ed. San Paolo, Milano, 2005, p. 134.

Questo libro di Chiara M. racconta la storia di una ragazza attiva e vitale che si trova, giovanissima, a dover combattere contro una malattia degenerativa che la mina fortemente nel fisico, fino a renderla completamente non autosufficiente. Tutta la vicenda narrata è un esempio evidente di come la persona disabile riunisca attorno a sé persone completamente diverse l’una dall’altra. Chiara, infatti, negli anni della malattia sembra acquisire un carisma tutto particolare: ovunque vada trasmette a chi la incontra una serenità e un’energia che a lei, a sua volta, vengono dalla profonda fede, la quale le permette di affrontare con coraggio anche gli aspetti più gravi e dolorosi della sua malattia. La sua esclusione, derivata dal deficit, produce inclusione. Tante persone, completamente diverse, si ritrovano accomunate dall’affetto e dall’ammirazione per lei, ma anche dalla volontà di esserle d’aiuto nelle sue necessità quotidiane. Da lei, tuttavia, sono proprio questi amici e assistenti a ottenere i benefici maggiori, a essere realmente aiutati da Chiara nei momenti bui e nelle difficoltà quotidiane.
È proprio il desiderio di aiutare gli altri che poi diventa sentirsi accolti come si è, con tutti i propri deficit invisibili. Coloro che, aiutando la persona disabile, ne cercano il conforto e l’amicizia e sono arricchiti da tale conoscenza, sono spesso portatori di svariati deficit, anche se non altrettanto evidenti.
La persona con deficit ha bisogno di cure essenziali che tutti o quasi possono darle. Per dare da bere un bicchier d’acqua, ad esempio, è indifferente essere laureati in lingue orientali o fare il manovale. Ci sono casi in cui l’aspetto dell’assistenza è interamente curato dai genitori. La mamma o il papà sono gli unici “esperti capaci di manovrare” il figlio con deficit. Questo, tuttavia, porta all’isolamento, e anche al problema cosiddetto del “dopo di noi”, ovvero di cosa ne sarà del figlio disabile quando i genitori verranno a mancare. Nella maggior parte dei casi, tuttavia, quasi tutti gli amici possono aiutare. Sono proprio i genitori a doversi aprire per creare dei figli che sappiano accogliere e valorizzare personalità e caratteri tanto diversi l’uno dall’altro, che sappiano comprendere l’identità più profonda di ogni persona.
Infatti, tutti noi abbiamo molte identità, molte maschere intercambiabili che ci servono a entrare in relazione, con i diversi gruppi di persone, che compongono il nostro universo: con i colleghi di lavoro possiamo avere in comune un progetto, anche se ci stiamo reciprocamente antipatici; con altri possiamo condividere il tifo per una squadra di calcio anche se, politicamente, abbiamo idee opposte. Gli esempi potrebbero continuare all’infinito. Ognuno possiede tante maschere quanti sono i suoi interessi, ma queste maschere non sono tutte uguali tra loro: alcune ci stanno strette e le indossiamo di malavoglia, altre invece ci calzano a pennello, tanto che sembrano il nostro vero volto.
Tra le tante maschere che ci piace indossare c’è anche quella del “volontario”, del buon ragazzo che si occupa delle persone in difficoltà. Ma questa maschera ha una caratteristica: è più fragile delle altre, si rompe con maggiore facilità, lasciando così vedere il suo volto autentico. Se è vero che a ogni punto di aggregazione sociale, a ogni crocevia corrisponde un’identità e una maschera, al crocevia del corpo questa identità viene messa radicalmente in discussione, e ciò permette di scoprire chi si è veramente, consentendo anche agli altri di instaurare una relazione autentica.
Quando uno desidera “aiutare” gli altri, infatti, si scontra con delle difficoltà dovute anche al carattere di chi deve essere aiutato. Per questo le maschere cadono, e cadono le illusioni che assistere gli altri sia una cosa semplice e bella. Anche in questo, come in tutte le attività e in tutti i rapporti umani, ci sono molte complicazioni e motivi di scontro che non possono essere superati mantenendo la maschera di “volontario” di cui si tende a dotarsi. Questo, infatti, è un tipo di rapporto molto personale che richiede di mettersi in gioco per come si è veramente, senza ipocrisie, perché inevitabilmente si è a contatto con un’altra persona in un modo molto intimo. Ciò richiede la massima fiducia gli uni nei confronti degli altri, e quindi è necessario conoscersi molto bene, senza finzioni: insomma, è una questione di feeling. Se non si ha fiducia nel proprio operatore, per esempio, non si riesce neppure a permettergli di svolgere i compiti più semplici, come farsi dare da bere.
Le maschere possono essere portate solo fino a quando non si entra in contatto con ciò che c’è di più intimo nell’altro, con il suo corpo: a quel punto l’attore deve lasciare posto alla persona reale.




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