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La diversità è uno sbatter d’usci

A cura di Valeria Alpi

Una sera, tardi, il cane si mise ad abbaiare dietro l’uscio del cortile, e lo stesso Alessi, che andò ad aprire, non riconobbe ’Ntoni il quale tornava colla sporta sotto il braccio, tanto era mutato, coperto di polvere, e colla barba lunga. Come fu entrato e si fu messo a sedere in un cantuccio, non osavano quasi fargli festa. Ei non sembrava più quello, e andava guardando un giro le pareti, come non le avesse mai viste; fino il cane gli abbaiava, ché non l’aveva conosciuto mai. Gli misero fra le gambe la scodella, perché aveva fame e sete, ed egli mangiò in silenzio la minestra che gli diedero, come non avesse visto grazia di Dio da otto giorni, col naso nel piatto; ma gli altri non avevano fame, tanto avevano il cuore serrato. Poi ’Ntoni, quando si fu sfamato e riposato alquanto, prese la sua sporta e si alzò per andarsene. Alessi non osava dirgli nulla, tanto suo fratello era mutato. Ma al vedergli riprendere la sporta, si sentì balzare il cuore dal petto, e Mena gli disse tutta smarrita: “Te ne vai?”.
[…]
Prima d’andarsene voleva fare un giro per la casa, onde vedere se ogni cosa fosse al suo posto come prima; ma adesso, a lui che gli era bastato l’animo di lasciarla, e di dare una coltellata a don Michele, e di starsene nei guai, non gli bastava l’animo di passare da una camera all’altra se non glielo dicevano. Alessi che gli vide negli occhi il desiderio, lo fece entrare nella stalla, col pretesto del vitello che aveva comperato la Nunziata, ed era grasso e lucente; e in un canto c’era pure la chioccia coi pulcini; poi lo condusse in cucina, dove avevano fatto il forno nuovo, e nella camera accanto, che vi dormiva la Mena coi bambini della Nunziata, e pareva che li avesse fatti lei. ’Ntoni guardava ogni cosa, e approvava col capo, e diceva: “Qui pure il nonno avrebbe voluto metterci il vitello, qui c’erano le chiocce, e qui dormivano le ragazze, quando c’era anche quell’altra…”. Ma allora non aggiunse altro, e stette zitto a guardare intorno, cogli occhi lustri. In quel momento passava la Mangiacarrubbe, che andava sgridando Brasi Cipolla per la strada, e ’Ntoni disse: “Questa qui l’ha trovato il marito; ed ora, quando avranno finito di quistionare, andranno a dormire nella loro casa”.
Gli altri stettero zitti, e per tutto il paese era un gran silenzio, soltanto si udiva sbattere ancora qualche porta che si chiudeva; e Alessi a quelle parole si fece coraggio per dirgli: “Se volessi anche tu ci hai la tua casa. Di là c’è apposta il letto per te”.
“No!” rispose ’Ntoni. “Io devo andarmene. Là c’era il letto della mamma, che lei inzuppava tutto di lagrime quando volevo andarmene. Ti rammenti le belle chiacchierate che si facevano la sera, mentre si salavano le acciughe? e la Nunziata che spiegava gli indovinelli? e la mamma, e la Lia, tutti lì, al chiaro di luna, che si sentiva chiacchierare per tutto il paese, come fossimo tutti una famiglia? Anch’io allora non sapevo nulla, e qui non volevo starci, ma ora che so ogni cosa devo andarmene”.
In quel momento parlava cogli occhi fissi a terra, e il capo rannicchiato nelle spalle. Allora Alessi gli buttò le braccia al collo.
“Addio”, ripeté ’Ntoni. “Vedi che avevo ragione d’andarmene! qui non posso starci. Addio, perdonatemi tutti”.
E se ne andò colla sua sporta sotto il braccio; poi, quando fu lontano, in mezzo alla piazza scura e deserta, che tutti gli usci erano chiusi, si fermò ad ascoltare se chiudessero la porta della casa del nespolo, mentre il cane gli abbaiava dietro, e gli diceva col suo abbaiare che era solo in mezzo al paese.
(G. Verga, I Malavoglia)

Mi ricordo di non avere amato I Malavoglia a scuola.
Forse per questo modo ossessivo per cui bisognava per forza parafrasare ogni riga: “cosa avrà voluto dire Verga qui”, “cosa avrà voluto dire Verga là”, con quella determinata parola, o aggettivo, o costruzione linguistica. Per curiosità ripresi il libro ai tempi universitari, e lo lessi come un romanzo qualunque, come se avesse una lingua scritta ai nostri giorni. E lo amai. Da allora il concetto di “verismo” per me è sempre stato il cane che abbaia quando vede avvicinarsi ’Ntoni,“ché non l’aveva conosciuto mai”.
Qui siamo al finale de I Malavoglia, rimasto nel mio cervello emotivo come se l’avessi vissuto io. Forse perché anche io ho una “casa del nespolo”, anche se al posto del nespolo c’è un giuggiolo; forse per- ché anch’io ho avuto una vita che ha ruotato e ruota ancora intorno a quella casa, che già penso con nostalgia prefigurandomi il giorno in cui le cose cambieranno: il giorno in cui il capofamiglia, un nonno che ora ha quasi 102 anni, non ci sarà più e la “casa del giuggiolo” avrà una nuova vita con altre persone.
Ma al di là della bellezza di questo brano, rileggendolo oggi con alle spalle l’esperienza del Centro Documentazione Handicap, ripenso al concetto di diversità. ’Ntoni è un diverso, è colui che rispetto alla sua famiglia e alle tradizioni culturali del paese ha rifiutato il sacrificio, il sudore del lavoro, per il desiderio della ricchezza e la vaga bramosia dell’ignoto. La scelta individualistica del giovane ’Ntoni, che contesta la mentalità patriarcale e l’ordine immutabile dei valori cui è fedele il nonno, lo separa dal proprio nucleo familiare e lo condanna all’esclusione e al fallimento.’Ntoni è andato nel mondo pesce vorace e non può sperare più nell’inclusione. Quanti diversi conosciamo che non sono inclusi? Per i quali non si mettono in atto strumenti e strategie di inclusione? Che cos’è la diversità? Chi nasce disabile, chi lo diventa, chi ha infamiglia una persona disabile, chi lavora con la disabilità sa o si sente sempre dire che il disabile è un diverso. Perché il suo corpo non risponde ai canoni standard, perché delle cose non sa farle o non riesce a farle nel modo tradizionale, perché a volte il suo ragionamento è strambo e fuori luogo, perché deve avere anche una diversa automobile attrezzata o un diverso bagno. E c’è chi non accetta di essere vissuto come diverso. Eppure siamo circondati dalla diversità e non esistono “solo” le categorie diverse: non ci sono, ad esempio, solo i disabili, o gli stranieri che raggiungono le coste di Lampedusa, o gli omosessuali. Può essere diverso un compagno di classe che decide di indossare sempre un cappello, quando tutti gli altri della sua età non lo fanno e quando il contesto non lo richiede; può essere diverso chi si veste sempre di nero tutto l’anno; può essere diverso chi si ribella alla cultura (spesso con pesantissime conseguenze) del proprio paese; può essere diverso chi fa scelte sbagliate e rovina se stesso e la sua famiglia, con la delinquenza, o col gioco d’azzardo; può essere diverso chi a scuola proprio l’area del triangolo non riesce a calcolarla, neppure se va a ripetizione e gliel’hanno spiegata centinaia di volte. Chi… chi… chi…
Chi vive una diversità, anche se piccola, è escluso dai “normali”: ha deviato dalla norma, e allora è fuori. Non importa se l’ha fatto come scelta consapevole o se è capitato. ’Ntoni l’ha fatto consapevolmente, “se l’è cercata”. Ma ’Ntoni non è un diverso solo quando ritorna e il paese non sarebbe culturalmente in grado di integrarlo di nuovo, ma è sempre stato un diverso fin dalle prime righe del romanzo. Uno predestinato all’esclusione a causa del suo carattere. Non voglio dire che l’essere disabile abbia lo stesso peso di un adolescente escluso dai suoi coetanei perché veste in maniera strana, però mi chiedo: quanti sono i normali? Forse, se ci pensiamo attentamente, sono la minoranza.
“Se volessi anche tu ci hai la tua casa. Di là c’è apposta il letto per te” , dice il saggio Alessi, che nel mondo di oggi sarebbe il nostro strumento di inclusione. Ma Aci Trezza non è pronta ad accogliere la diversità, lo sa ’Ntoni, lo sa Alessi, lo dice tutto il silenzio dietro le porte delle case. Ma se oggi provassimo a far tornare ’Ntoni dentro le mura domestiche? L’educatore-Alessi avrebbe un gran da fare, ma il processo culturale di accettazione della diversità inizierebbe il suo percorso.



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