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autore: Autore: a cura di Valeria Alpi

La diversità è uno sbatter d’usci

A cura di Valeria Alpi

Una sera, tardi, il cane si mise ad abbaiare dietro l’uscio del cortile, e lo stesso Alessi, che andò ad aprire, non riconobbe ’Ntoni il quale tornava colla sporta sotto il braccio, tanto era mutato, coperto di polvere, e colla barba lunga. Come fu entrato e si fu messo a sedere in un cantuccio, non osavano quasi fargli festa. Ei non sembrava più quello, e andava guardando un giro le pareti, come non le avesse mai viste; fino il cane gli abbaiava, ché non l’aveva conosciuto mai. Gli misero fra le gambe la scodella, perché aveva fame e sete, ed egli mangiò in silenzio la minestra che gli diedero, come non avesse visto grazia di Dio da otto giorni, col naso nel piatto; ma gli altri non avevano fame, tanto avevano il cuore serrato. Poi ’Ntoni, quando si fu sfamato e riposato alquanto, prese la sua sporta e si alzò per andarsene. Alessi non osava dirgli nulla, tanto suo fratello era mutato. Ma al vedergli riprendere la sporta, si sentì balzare il cuore dal petto, e Mena gli disse tutta smarrita: “Te ne vai?”.
[…]
Prima d’andarsene voleva fare un giro per la casa, onde vedere se ogni cosa fosse al suo posto come prima; ma adesso, a lui che gli era bastato l’animo di lasciarla, e di dare una coltellata a don Michele, e di starsene nei guai, non gli bastava l’animo di passare da una camera all’altra se non glielo dicevano. Alessi che gli vide negli occhi il desiderio, lo fece entrare nella stalla, col pretesto del vitello che aveva comperato la Nunziata, ed era grasso e lucente; e in un canto c’era pure la chioccia coi pulcini; poi lo condusse in cucina, dove avevano fatto il forno nuovo, e nella camera accanto, che vi dormiva la Mena coi bambini della Nunziata, e pareva che li avesse fatti lei. ’Ntoni guardava ogni cosa, e approvava col capo, e diceva: “Qui pure il nonno avrebbe voluto metterci il vitello, qui c’erano le chiocce, e qui dormivano le ragazze, quando c’era anche quell’altra…”. Ma allora non aggiunse altro, e stette zitto a guardare intorno, cogli occhi lustri. In quel momento passava la Mangiacarrubbe, che andava sgridando Brasi Cipolla per la strada, e ’Ntoni disse: “Questa qui l’ha trovato il marito; ed ora, quando avranno finito di quistionare, andranno a dormire nella loro casa”.
Gli altri stettero zitti, e per tutto il paese era un gran silenzio, soltanto si udiva sbattere ancora qualche porta che si chiudeva; e Alessi a quelle parole si fece coraggio per dirgli: “Se volessi anche tu ci hai la tua casa. Di là c’è apposta il letto per te”.
“No!” rispose ’Ntoni. “Io devo andarmene. Là c’era il letto della mamma, che lei inzuppava tutto di lagrime quando volevo andarmene. Ti rammenti le belle chiacchierate che si facevano la sera, mentre si salavano le acciughe? e la Nunziata che spiegava gli indovinelli? e la mamma, e la Lia, tutti lì, al chiaro di luna, che si sentiva chiacchierare per tutto il paese, come fossimo tutti una famiglia? Anch’io allora non sapevo nulla, e qui non volevo starci, ma ora che so ogni cosa devo andarmene”.
In quel momento parlava cogli occhi fissi a terra, e il capo rannicchiato nelle spalle. Allora Alessi gli buttò le braccia al collo.
“Addio”, ripeté ’Ntoni. “Vedi che avevo ragione d’andarmene! qui non posso starci. Addio, perdonatemi tutti”.
E se ne andò colla sua sporta sotto il braccio; poi, quando fu lontano, in mezzo alla piazza scura e deserta, che tutti gli usci erano chiusi, si fermò ad ascoltare se chiudessero la porta della casa del nespolo, mentre il cane gli abbaiava dietro, e gli diceva col suo abbaiare che era solo in mezzo al paese.
(G. Verga, I Malavoglia)

Mi ricordo di non avere amato I Malavoglia a scuola.
Forse per questo modo ossessivo per cui bisognava per forza parafrasare ogni riga: “cosa avrà voluto dire Verga qui”, “cosa avrà voluto dire Verga là”, con quella determinata parola, o aggettivo, o costruzione linguistica. Per curiosità ripresi il libro ai tempi universitari, e lo lessi come un romanzo qualunque, come se avesse una lingua scritta ai nostri giorni. E lo amai. Da allora il concetto di “verismo” per me è sempre stato il cane che abbaia quando vede avvicinarsi ’Ntoni,“ché non l’aveva conosciuto mai”.
Qui siamo al finale de I Malavoglia, rimasto nel mio cervello emotivo come se l’avessi vissuto io. Forse perché anche io ho una “casa del nespolo”, anche se al posto del nespolo c’è un giuggiolo; forse per- ché anch’io ho avuto una vita che ha ruotato e ruota ancora intorno a quella casa, che già penso con nostalgia prefigurandomi il giorno in cui le cose cambieranno: il giorno in cui il capofamiglia, un nonno che ora ha quasi 102 anni, non ci sarà più e la “casa del giuggiolo” avrà una nuova vita con altre persone.
Ma al di là della bellezza di questo brano, rileggendolo oggi con alle spalle l’esperienza del Centro Documentazione Handicap, ripenso al concetto di diversità. ’Ntoni è un diverso, è colui che rispetto alla sua famiglia e alle tradizioni culturali del paese ha rifiutato il sacrificio, il sudore del lavoro, per il desiderio della ricchezza e la vaga bramosia dell’ignoto. La scelta individualistica del giovane ’Ntoni, che contesta la mentalità patriarcale e l’ordine immutabile dei valori cui è fedele il nonno, lo separa dal proprio nucleo familiare e lo condanna all’esclusione e al fallimento.’Ntoni è andato nel mondo pesce vorace e non può sperare più nell’inclusione. Quanti diversi conosciamo che non sono inclusi? Per i quali non si mettono in atto strumenti e strategie di inclusione? Che cos’è la diversità? Chi nasce disabile, chi lo diventa, chi ha infamiglia una persona disabile, chi lavora con la disabilità sa o si sente sempre dire che il disabile è un diverso. Perché il suo corpo non risponde ai canoni standard, perché delle cose non sa farle o non riesce a farle nel modo tradizionale, perché a volte il suo ragionamento è strambo e fuori luogo, perché deve avere anche una diversa automobile attrezzata o un diverso bagno. E c’è chi non accetta di essere vissuto come diverso. Eppure siamo circondati dalla diversità e non esistono “solo” le categorie diverse: non ci sono, ad esempio, solo i disabili, o gli stranieri che raggiungono le coste di Lampedusa, o gli omosessuali. Può essere diverso un compagno di classe che decide di indossare sempre un cappello, quando tutti gli altri della sua età non lo fanno e quando il contesto non lo richiede; può essere diverso chi si veste sempre di nero tutto l’anno; può essere diverso chi si ribella alla cultura (spesso con pesantissime conseguenze) del proprio paese; può essere diverso chi fa scelte sbagliate e rovina se stesso e la sua famiglia, con la delinquenza, o col gioco d’azzardo; può essere diverso chi a scuola proprio l’area del triangolo non riesce a calcolarla, neppure se va a ripetizione e gliel’hanno spiegata centinaia di volte. Chi… chi… chi…
Chi vive una diversità, anche se piccola, è escluso dai “normali”: ha deviato dalla norma, e allora è fuori. Non importa se l’ha fatto come scelta consapevole o se è capitato. ’Ntoni l’ha fatto consapevolmente, “se l’è cercata”. Ma ’Ntoni non è un diverso solo quando ritorna e il paese non sarebbe culturalmente in grado di integrarlo di nuovo, ma è sempre stato un diverso fin dalle prime righe del romanzo. Uno predestinato all’esclusione a causa del suo carattere. Non voglio dire che l’essere disabile abbia lo stesso peso di un adolescente escluso dai suoi coetanei perché veste in maniera strana, però mi chiedo: quanti sono i normali? Forse, se ci pensiamo attentamente, sono la minoranza.
“Se volessi anche tu ci hai la tua casa. Di là c’è apposta il letto per te” , dice il saggio Alessi, che nel mondo di oggi sarebbe il nostro strumento di inclusione. Ma Aci Trezza non è pronta ad accogliere la diversità, lo sa ’Ntoni, lo sa Alessi, lo dice tutto il silenzio dietro le porte delle case. Ma se oggi provassimo a far tornare ’Ntoni dentro le mura domestiche? L’educatore-Alessi avrebbe un gran da fare, ma il processo culturale di accettazione della diversità inizierebbe il suo percorso.

4. Le donne di Edith

di Marion Van Renterghem

Marion Van Renterghem è giornalista per “Le Monde”. Si è occupata di conoscere e seguire alcune giornate di madri non vedenti che si rivolgono all’Istituto di Puericultura di Parigi, e sono seguite da Edith Thoueille.
Ci sono delle abitudini che resistono a tutto, non c’è che dire. Da quando Jacques e Chabba hanno perso la vista, a causa di una retinite pigmentosa, hanno continuato ad accendere le luci. Un piccolo colpo sull’interruttore una volta aperta la porta di casa, entrando in cucina, andando in bagno, e ogni volta non c’è dubbio che la rispengano. Quando comincia a farsi sera, accendono l’abat-jour del salone. “Sapere di essere al buio, a un orario come questo, ci metterebbe di cattivo umore”, dicono.
Nadia, la loro figlia, spunta correndo nel salone. Suo padre è andato a prenderla a scuola. Lei salta subito al collo di sua madre, si mette a fare delle coccole al suo criceto, poi si siede a tavola ed estrae i quaderni di scuola dalla cartella. Sua madre ci tiene a raggiungerla, e in fretta. Perché per Nadia si tratta di un vero rituale fare i compiti con sua madre. “È la prima della classe”, dichiara Chabba. Sospiro infastidito di Nadia: “La seconda, mamma”. Ed eccole faccia a faccia, ciascuna da un lato del tavolo, molto concentrate.
“Allora cosa abbiamo? Hai dei verbi coniugati?”
“Sì, bisogna mettere l’infinito”.
“Allora, mi dici la frase?”
“Aspetta mamma, scrivo e poi ti dico. Ecco: ‘Egli riflette’, verbo infinito riflettere”
“Sì, esatto”.
Quando sarà grande, Nadia difenderà le cause delle persone cieche. Cosa inventerà per semplificare loro la vita? Nadia esita. “Che l’autista dell’autobus annunci le stazioni. E anche, quando si va a far la spesa, che le persone siano più gentili”. Chabba sorride dolcemente. Non far pesare la loro situazione di deficit visivo sulla loro figlia è la preoccupazione costante di Jacques e Chabba.
Contro tutto e tutti hanno avuto una figlia. Contro il parere della famiglia di Jacques, non intenerita da una giovane e bella donna che però accumulava dispiaceri: era al contempo disabile e algerina. Contro le loro innumerevoli apprensioni. Alla fine hanno avuto un bambino come migliaia di altre persone cieche (sono circa 60.000 in Francia, e oltre un milione le persone ipovedenti, ma il numero delle madri è impossibile da stabilire).
Prima della nascita, le madri cieche sono inquiete e disarmate, come l’era Chabba. Sapranno fare il bagno al bebé senza annegarlo? Trasportarlo senza farlo cadere? Dare le medicine senza sbagliare le dosi? Dargli il biberon senza affogarlo? Portarlo al parco senza che scappi?
Alla fine si sono scambiate un passaparola: “Vai all’Istituto di Puericultura di Parigi, là c’è una donna che pensa a noi”.
Queste donne, avendo paura di sbagliare, non sanno di sapere fare le cose. E invece sanno. E guardano. Sanno riconoscere il loro figlio tra mille.
“È difficile da spiegare – dice Delphine – ma io vedo bene quando lui gira lo sguardo verso di me”. Delphine ha avuto tre figli. Quando vanno insieme al museo, “loro mi raccontano i quadri, io li commento. Le loro descrizioni sono molto precise”. Su questo fatto, Edith Thoueille, ha imbastito una piccola teoria personale, non scientifica. I figli di madri cieche verbalizzano meglio e prima. Sono bambini che imparano prima a sbrigarsela da soli, probabilmente perché le madri, non vedendo gli sforzi che fanno ad esempio per afferrare un oggetto, non accorrono subito in loro aiuto.
Al tempo stesso questa può essere un’arma a doppio taglio. La piccola Clara ha imparato infatti ad appena tre anni che può commettere qualche marachella restando invisibile. “Quando le chiedo cosa sta facendo, e lei mi risponde ‘Non lo so’, posso essere certa che sta facendo qualcosa di proibito”, racconta Anne, sua madre. “L’altro giorno ha dipinto il cane”.
Ora se ne sta in silenzio, io la vedo bene, sta cercando di vuotare il sacchetto di crocchette e darle al cane, il quale trova un evidente interesse a non dare l’allarme. Anne guarda sua figlia, le sopraciglia corrugate.
“Cosa fai Clara?”
“Non lo so”.
“Lo sai che non bisogna dare le crocchette a Jodie?”
“Sì, lo so”.
Siamo andati a prendere Clara a scuola. Si è precipitata verso sua madre con la sua aria birichina. “Mamma, guarda!”, ha detto senza aspettare, mettendo intanto un sacchetto in mano a sua madre e spiegandole il contenuto.
Le mamme cieche raccontano tutte la stessa cosa: ancora prima di comprendere che esse non vedono, i loro figli compensano in modo istintivo il loro handicap. Si avvicinano alla bocca il cucchiaio che esse tendono nel vuoto in maniera imprecisa. Per loro, “far vedere” significa mettere in mano, fare toccare. E non hanno bisogno di diventare grandi per sapere che questi gesti, riservati alle loro madri non vedenti, sono inutili con le persone vedenti.
In un piccolo appartamento di Belleville, Najat racconta la sua storia. Per terra, Mélodie fa dei versetti. Angélique, la figlia maggiore, è a scuola. Najat ha perso la vista quando era piccolissima. Dice che è una fortuna non avere la nostalgia di visioni che comunque non si hanno. Ha 41 anni, e le piace vestire in maniera appariscente. Non le piace ascoltare i consigli o i rimproveri di sua figlia (“Sei brutta così, mamma”), e ha delle idee tutte sue sulle forme e sui colori. “In questo momento, vai a sapere il perché, non sopporto il blu cielo”. A Casablanca, dove è nata, la sua famiglia non le ha mai perdonato di essere donna, e di essere cieca. Sua madre sognava che la Francia fosse un paradiso dove nessuno era malato né disabile. Quando la famiglia è migrata in Francia, Najat era la loro vergogna e la tenevano nascosta. È stata un’assistente sociale che ha obbligato i suoi genitori a mandarla a scuola, lei aveva già quasi 12 anni. “Angélique e Mélodie mi hanno riconciliato con la società. Le persone del quartiere sono gentilissime con me, grazie a loro. Anche la mia famiglia mi chiama ora per chiedermi dei consigli. Senza le mie figlie sarei rimasta trasparente”. Unico cruccio, espresso timidamente, così, en passant: “Il primo sorriso di mia figlia, è l’assistente sociale che l’ha visto. Lei sorrideva e non ero io che la vedevo. Si può anche dire che si fa l’abitudine a tutto, ma non è vero”.
(traduzione a cura di Valeria Alpi)

3. La maternità “visionaria”

di Edith Thoueille

Edith Thoueille è puericultrice e responsabile del Centro Protection Maternelle et Infantile (PMI) di Parigi, inserito all’interno del tradizionale Institut de Puériculture et de Périnatalogie (IPP). All’interno del PMI, Edith ha inoltre istituito da oltre vent’anni il Service Périnatal d’aide à la parentalité des Personnes Handicapés (SPPH), specializzato nell’aiuto alle future mamme non vedenti.
La creazione del servizio di accompagnamento SPPH presso il Centro Protection Maternelle et Infantile di Parigi risale al 1986, quando una puericultrice del settore ci ha indirizzato Anne, una mamma non vedente dalla nascita, e sua figlia, indenne dal deficit visivo. Come potevamo aiutare questa giovane mamma? Ingenuamente cercai di chiudere gli occhi per tentare di immaginare un nero infinito… la cecità. La mia reazione di allora, legittima in quel momento, oggi mi fa sorridere: il mondo di Anne non è in nero, del resto lei non sa cosa questo colore rappresenta, non ha mai visto i colori, il nero come il rosso. La nostra ignoranza sull’handicap era totale!
Abbiamo preso quindi contatto con l’Associazione Valentin Haüy e la nostra interlocutrice, Claudette Saonit, consulente in gestione sociale e familiare, felicissima di questo nostro passo, ci invitò a incontrare alcuni genitori. Ogni coppia ci raccontò la propria storia: dal desiderio di un figlio, al vissuto della gravidanza, alla nascita. Alcuni racconti erano strazianti: al di fuori dello spazio associativo, queste persone vivono la realtà della solitudine e della incomprensione. Niente viene loro risparmiato. Una giovane donna ci confidò la sua tristezza nel vedere associata la sua cecità a un deficit intellettivo. Isabelle viveva male la scarsa conoscenza che hanno le persone vedenti dei suoi bisogni, ma anche delle sue gioie: “Si può essere ciechi e felici, il nostro handicap l’abbiamo addomesticato da parecchio tempo”. Chaba, molto in collera, diceva che non sopporta che quando si trova nei negozi e pone delle domande, i commessi rispondono alle persone che l’accompagnano: “Non sono sorda, possono parlare direttamente con me!”.
Dopo questa riunione, abbiamo deciso di ritrovarci una volta al mese presso l’Istituto di Puericultura, per affrontare differenti temi, come lo sviluppo psicomotorio del bambino, soffermandoci soprattutto sull’importanza del sorridere rivolti al bambino, del toccare, della voce, dell’allestimento colorato dello spazio.
Una mamma cieca è capace di “accarezzare” con gli occhi il suo bambino.
Le stesse madri sottolineano molto bene questa nozione dello sguardo, quando come Giselle dicono: “Quello che apprezzo di più qua all’Istituto è il fatto che mi si guardi”.
Si contano in Francia circa 60.000 ciechi e un milione di persone ipovedenti; a partire da queste cifre è impossibile determinare il numero di adulti che sono diventati genitori o che potenzialmente potrebbero diventarlo. Creando questi incontri, noi pensiamo principalmente a rispondere a delle questioni pratiche. Non per sostituirci ai genitori, ma per cercare insieme la soluzione più adatta alle aspettative di ciascuno.

Puericultura adattata
Per realizzare tutto ciò abbiamo utilizzato tutti i supporti possibili: 

  • testi riscritti in Braille (questo non è possibile per tutti i temi, essendo la ritrascrizione troppo voluminosa: per una pagina di scrittura normale occorrono infatti quattro pagine in Braille); 
  • registrazioni audio dei vari temi come la prevenzione degli incidenti domestici; 
  • video con audio commento; 
  • calibrazione delle siringhe; 
  • preparazione delle etichette in Braille; 
  • adattamento dei giocattoli affinché i genitori partecipino direttamente alle diverse scoperte fatte dal bambino; 
  • preparazione del “buon” e del “cattivo” corredino, al fine di evitare gli indumenti che presentano troppi lacci da manipolare per preferire il velcro o i bottoni a pressione; 
  • consigli per l’allestimento dello spazio del bagno e del fasciatoio.

Per ogni donna che inizia una gravidanza proponiamo anche delle sessioni di “puericultura adattata”. In media sei sessioni di tre ore, cui si aggiungono due sessioni di preparazione all’allattamento, e una sessione di manipolazione dei diversi materiali (biberon, sterilizzatore, misurini per il latte in polvere, ecc.), e infine una sessione per imparare a portare la fascia porte-enfant. In totale dieci sessioni di puericultura adattata, ripartite prima della nascita del bambino e seguite anche dopo l’arrivo del bambino.
Inoltre la dimostrazione di alcune cure in una sorta di svolgimento a tre (il bambino, la mamma e la puericultrice).
C’è stato bisogno di micro-analizzare attentamente tutti i nostri gesti per poterli meglio descrivere e trasmetterli.
In queste dimostrazioni, la futura madre prende coscienza di quello che può fare per acquisire una certa autonomia, e anche limitare così la differenza che sente rispetto a una madre che vede. Dobbiamo quindi essere in grado di darle gli strumenti perché riesca a fare questo passaggio.
Di solito si tratta di strumenti molto pratici, ma certe volte ci capita di dover convincere queste madri, con dolcezza, dell’irrealismo di certi desideri, come per esempio voler spingere un passeggino sui marciapiedi. Durante queste sessioni cerchiamo di far accettare alle madri i propri limiti. In casi più seri ricorriamo al versante della psicoterapia con dei nostri esperti.
Le nostre conoscenze si basano sulla pratica del gruppo di auto-aiuto delle madri e dei genitori non vedenti. Il gruppo è composto da una quindicina di famiglie che si incontrano ogni mese per due ore. All’interno partecipano anche, quando possono, i parenti vedenti o non, e i bambini appena nati o che devono nascere (certe donne partecipano durante la gravidanza). I cani sono accucciati in mezzo o nelle vicinanze. Spesso ci sono anche degli ospiti invitati, come gli accompagnatori o altri specialisti dell’handicap.
Ci sono anche capitati vari aneddoti, e abbiamo avuto situazioni inconcepibili in altri reparti tradizionali. Ad esempio immaginate nella stessa camera, e nello stesso tempo, i due genitori, il neonato e… due labrador!
Le nostre équipe si sono adattate ad avere la stessa qualità di relazione tra mamme “tradizionali” e mamme non vedenti.
Qua non ci poniamo tanti problemi se la testina del biberon va a finire un po’ troppo vicina all’orecchio del neonato, né sgridiamo la mamma se tocca con le dita la testina del biberon. Il servizio di dietologia informa le madri sui metodi di sterilizzazione più appropriati, sulla scelta del biberon, della testina, ecc. Per quelle madri che non desiderano allattare (ma sono casi rari), sollecitiamo i laboratori per ottenere del latte liquido e non in polvere.
Nel nostro Istituto, la dottoressa Marie Anne Lepez, pedopsichiatra, ricevendo precocemente le future mamme, le aiuta anche a formulare tutte le paure e inquietudini derivate dal conflitto del desiderio di essere “una madre ideale”, a gestire gli effetti dolorosi che derivano dal ricordo di una infanzia fatta di dipendenza, a resistere ai commenti violenti e che feriscono della famiglia e dell’entourage in senso largo.
Nella maggioranza dei casi, da quando una donna cieca annuncia ai suoi cari di essere incinta, si espone a una serie di commenti devalorizzanti: “Come farai? Non ce la farai mai! E se tu trasmettessi il tuo deficit al bambino? Quando si è già ciechi, perché complicarsi ulteriormente la vita con un figlio?”.
Alcune colleghe, animate dal nostro stesso spirito, si sono rese disponibili all’ascolto, non esitando ad assicurare l’accompagnamento di queste madri dove si rivela necessario, e a preparare il ritorno a casa affinché sia realizzato nelle condizioni più adeguate possibili.
Il bagno, momento di piacere condiviso tra la madre e il bambino, può diventare un vero incubo per una mamma cieca. L’allestimento del bagno e della cameretta deve essere fatto prima della nascita sia dalla nostra équipe sia dalla puericultrice del settore.
La difficoltà di prendersi cura è tale, proprio per il deficit visivo, che anche l’uso delle parole con loro diventa difficile.
Banalizzare l’handicap di queste madri non è il mio obiettivo, perché esso rende quotidianamente la loro vita più complicata della nostra: il mondo è stato predisposto per degli individui che vedono. Ma nonostante tutto, mi piace considerarle come delle visionarie, che hanno la loro maniera specifica di guardare il mondo e il loro bambino, e soprattutto di arricchire coloro che le guardano e sanno ascoltarle con un’attenzione particolare.
(traduzione a cura di Valeria Alpi)

Per saperne di più sul Centro Protection Maternelle et Infantile (PMI) di Parigi:
www.ipp-perinat.com

Il valore sociale delle persone con disabilità: la provocazione di Immaginabili Risorse

a cura di Valeria Alpi

C’è una rete nata a Milano, dal nome “Includendo”, che ha dato vita a “Immaginabili Risorse”. Includendo si propone come laboratorio di ricerca-azione strutturato attorno alle strategie e alle metodologie efficaci per una reale inclusione sociale delle persone con disabilità nei contesti del territorio. In pratica delle “immaginabili risorse”. Anche il Centro Documentazione Handicap e la cooperativa Accaparlante fanno parte di questa rete, condividendo i motivi di partenza e gli obiettivi raggiungibili. Per saperne di più, abbiamo intervistato Maurizio Colleoni, psicologo ed esperto di politiche e servizi nell’ambito della disabilità, nonché responsabile scientifico di Includendo.

Come nasce la rete?
Immaginabili Risorse nasce da un circuito di realtà prevalentemente della Lombardia che volevano provare a discutere la possibilità di incrementare la concretizzazione dell’inclusione della disabilità attraverso la capacità di generare valore sociale.
Le diverse realtà, i diversi servizi, sia di tipo diurno che di tipo residenziale, avevano già uno scambio mutualistico con altre realtà rispetto ad esempio le scuole, gli anziani, la gestione del verde, la gestione della filiera alimentare, e discutendo si è fatta l’ipotesi che questi scambi potessero essere interessanti anche per altre realtà. Si è scoperto che sono molti i soggetti di natura diversa e dimensioni diverse, e anche di orientamento di lavoro diverso, che però si muovono tutti dentro questa prospettiva.
Che poi, se ci pensiamo bene, è la scoperta dell’acqua calda: i servizi sono anche dei depositi di capitale perché ci sono competenze, professionalità, attrezzature, strutture, gruppi di lavoro, reti e connessioni con l’esterno. Allora il fatto che tu ti rendi disponibile a dare una mano a chi ti sta intorno non fa altro che favorire l’inclusione tra i servizi e l’esterno.
L’altra faccia della medaglia è che questa logica è sporadica, occasionale, legata a contingenze particolari.
L’obiettivo di Immaginabili Risorse è fare in modo che questa logica diventi sostanziale e non solo occasionale. Costruire un circuito che alimenti esperienze e riflessioni, un contenitore di soggetti, di esperienze, di logiche che possa aiutare tutti a risolvere problemi che sono comuni a tutti.

Come crescere come rete? Qual è la vostra funzione e quella dei servizi?
Immaginabili Risorse ha organizzato il suo primo meeting a novembre del 2014, cui hanno partecipato più di 400 persone.
Non ci aspettavamo un’affluenza così consistente, e questo è stato un ulteriore stimolo e anche una provocazione perché ci siamo detti “C’è una domanda dietro, c’è un interesse, cosa possiamo fare noi? Andare avanti”.
Abbiamo fatto un’assemblea nell’aprile del 2015 e la decisione è stata: non vogliamo dare vita a un altro soggetto formale come ad esempio la Fish, ma vogliamo mantenere un profilo di informalità. Siamo così andati a costruire un secondo appuntamento nell’aprile del 2016 all’Università Bicocca di Milano, con ancora più affluenza e più adesioni alla rete.
Il coordinamento è costituito da una dozzina di realtà di diverse province della Lombardia per una questione puramente logistica; poi però dall’assemblea di aprile 2015 altre realtà si sono dette interessate a essere dei referenti esterni, tra cui Accaparlante. Inoltre sta per uscire con la FrancoAngeli il libro con gli atti del meeting di aprile 2016 e a novembre 2016 faremo un’altra assemblea.
La nostra logica è quella di un movimento di idee, non di un soggetto che intende candidarsi a gestire dei servizi o delle politiche. Si potrebbe anche dire che la nostra funzione è quella di essere un enzima cul- turale. Noi poniamo una domanda: “È possibile che i servizi siano generativi di vita migliore per tutti? Fattori di crescita vitale in maniera ecologica e non solo in sostegno a una categoria di persone con minori risorse di altri?”. Questa un po’ è la provocazione.
I servizi hanno tre funzioni: una emancipativa nei confronti delle persone con disabilità, cioè il loro compito è fare in modo che i disabili tirino fuori tutte le risorse che hanno; una restitutiva, nei confronti della società, che significa che i disabili per vivere meglio devono stare dentro i processi dei territori, quindi vanno restituiti al proprio territorio, ovviamente tutelando chi rischia di essere messo ai margini. Se però vuoi essere emancipativo e restitutivo devi avere anche una funzione trasformativa.

Uno dei vostri punti di forza è che l’inclusione passa dal fatto che la persona disabile deve avere un ruolo attivo, di piena cittadinanza. Tanto è vero che il meeting di quest’anno si intitolava “Il valore sociale della persona con disabilità”…
L’inclusione è il cambiamento reciproco di storie e biografie che si incontrano. Cioè non è “io sono generoso e ti accetto”, ma è “io faccio delle cose per te e tu fai delle cose per me, nei tuoi limiti e nelle tue potenzialità”.
A livello teorico inclusione vuol dire che le differenze di soggettività devono tutte avere diritto di esistenza. Però vuol dire anche che tutti si prendono qualche responsabilità. In questa logica l’operatore non è più colui che deve gestire la persona con disabilità, ma colui che rende possibili dei movimenti, delle compatibilità tra forme di esistenza diverse. Il suo ruolo diventa più quello di un garante piuttosto che di gestore diretto. Di uno che guarda da un altro angolo, regola le relazioni, aiuta, interviene ma non è lui che fa le cose col disabile. Questa è un’altra provocazione di Immaginabili Risorse.

Si fa fatica a immaginare la persona disabile come adulta, e quindi in grado di mettere delle risorse in tutti i settori, dal turismo all’economia, una persona che può produrre valore non solo sociale ma anche economico come gli altri…
Eh, questo è un retaggio culturale. Noi veniamo da una cultura di secoli dove le persone con disabilità sono sempre state viste come un mistero, come una minaccia, come una colpa divina. La Convenzione ONU finalmente introduce l’idea che le persone con disabilità sono prima di tutto persone. Un grande passo avanti è avvenuto negli anni ’60 col movimento di lotta per i diritti civili e lotta contro l’emarginazione: in quella fase almeno è passata l’idea che le persone con disabilità avessero diritto a delle attenzioni specifiche, e non venissero semplicemente isolate e emarginate. La Convenzione introduce un passo ulteriore. Quindi si chiede ai servizi di deutentizzare le persone. È una sfida impegnativa che chiede di lavorare sugli spazi di autodeterminazione, chiede ad esempio che anche i disabili psichici possano prendere parte alle decisioni che riguardano la loro vita. Chiede il riconoscimento di diritti soggettivi che finora erano preclusi, quelli legati alla sfera affettiva, sessuale, relazionale. E chiede anche la possibilità per le persone disabili di prendersi delle responsabilità, per quello che riescono. Le persone sono quel qualcuno che ha diritti e doveri, e questo va riconosciuto anche alle persone con disabilità psicofisica, cosa che finora era poco presente.
È complicato perché dalle famiglie – da un punto di vista teorico – questa cosa è subito accettata, ma da un punto di vista concreto è problematico. Così come per molti è difficile pensare che una persona con sindrome di Down possa avere una vita sessuale. È un po’ come la sessualità nella terza età: ora si accetta ma per tanto tempo veniva percepita come una sorta di distorsione, una perversione.

Progetti per il futuro?
Nel futuro immediato l’assemblea, e il volume con gli atti del meeting, ma soprattutto l’obiettivo è che si attivi un laboratorio di riflessione metodologica attorno a cosa significa produrre valore sociale, al come si fa e alle sue valenze inclusive. Come si fa in concreto a produrre valore sociale, cosa significa, quali sono i problemi, quali sono le questioni che si incontrano, come cambia il lavoro degli operatori, cosa significa essere registi e meno attori. Su questo credo che dobbiamo fare un passo avanti come rete.
Per saperne di più: http://www.includendo.net

 

La contraddizione del particolare

A cura di Valeria Alpi

Allora, tesoro, ti è piaciuta la storia?
Non era male.
La stavo tenendo da parte, questa storia. Ho aspettato che fossi grande.
Vuol dire che sono grande?
Be’, a otto anni non si è proprio grandi grandi. Solo… più grandi di sei, ecco. Perché non ti è piaciuta?Non lo sopporto quando mi fai questa domanda. Ho detto che non era male.
D’accordo.
Mettiamola in maniera un po’ diversa. Che cosa non ti è piaciuto della storia?
Posso andare?
Un minuto solo. Prima rispondi alla domanda, per favore?
A Trevor questa storia non l’hai letta. Trevor è fuori a giocare a pallone.
Volevo leggerla soltanto a te. Cosa non ti è piaciuto?
E va bene. Perché il soldatino aveva una gamba sola?
Perché al giocattolaio era finito il piombo.
Mi sembra stupido. E lo stesso il soldatino che si innamora della ballerina perché pensa che abbia una gamba sola pure lei.
Ne vedeva una sola, l’altra era sollevata.
Ma come faceva a non saperlo? Non l’aveva mai vista una ballerina?
Magari no. O magari era il desiderio che fosse così. Se tu avessi una gamba sola, non vorresti conoscere altre persone come te?
Non ha senso. Che cosa?
Il soldatino cade dalla finestra, due ragazzacci lo mettono in una barchetta fatta con la carta di giornale e la barchetta viene trascinata via dal rigagnolo.
A me sembra che il senso ce l’abbia.
Poi però viene inghiottito da un pesce, il pesce viene comprato dalla cuoca della stessa famiglia di prima e quando lo apre ci trova dentro il soldatino.
Perché non ti è piaciuto questo?
Eh, forse perché è una stupidaggine? Parla del destino. Lo sai che significa “destino”?
Sì.
Era impossibile che il soldatino di stagno e la ballerina restassero lontani l’uno dall’altra. Questo è il destino.
Lo so che significa. È una stupidaggine lo stesso.
Forse potremmo pensare a un’altra parola…
Poi il bambino che butta il soldatino nella stufa. Senza motivo. Dopo che il soldatino è tornato, nella pancia del pesce. Il bambino lo butta tra le fiamme.
Un troll aveva lanciato un incantesimo su di lui.
I troll non esistono.
Giusto. Va bene, diciamo che non gli piaceva che il soldatino fosse particolare.
Tu dici sempre “particolare” quando qualcuno non è normale.
“Non è normale” non mi fa impazzire come espressione.
E ancora. Sai che cos’è veramente stupido? Che anche la ballerina voli dentro la stufa.
Possiamo parlare di quello che significa davvero “destino”?
La ballerina aveva tutte e due le gambe. La ballerina se ne stava tranquilla su una mensola. La ballerina non era “particolare”.
Ma amava qualcuno che lo era.
E che sarà mai, essere particolare? Da come parli sembra una specie di premio.
(Michael Cunningham, Un cigno selvatico, La nave di Teseo, Milano, 2016)

Finalmente è successo… Finalmente ne Il magico Alvermann, la rubrica che ha accompagnato la storia della rivista per oltre trent’anni, posso inserire il mio scrittore preferito. E non perché ho deciso di inserirlo ad ogni costo, ma semplicemente è successo. Quello che sta dietro alla logica dei magici Alvermann, infatti, è che si è lì tranquilli a leggere sul divano, o in treno, o su un autobus, o in un prato, un libro di qualunque natura e genere e… zac! All’improvviso arriva una folgorazione, all’improvviso si legge una frase o più frasi, o una poesia, e istantaneamente si pensa all’idea di disabilità e/o diversità.
Il brano proposto questa volta fa parte del nuovo libro di Michael Cunningham, Un cigno selvatico, dove lo scrittore Premio Pulitzer rielabora dieci favole della tradizione, aggiungendo toni dark, ma soprattutto adattando i protagonisti alle esperienze della contemporaneità. Trasformando così i personaggi di terre molto molto lontane – le figure mitiche della nostra infanzia che tanto ci hanno incantato – in protagonisti che rivelano molto del nostro presente.
In questa storia, in particolare, due giovani si conoscono a una festa universitaria, lei ha bevuto troppo e deve dimenticare un amore finito male e decide di passare una notte con lui che è molto bello e appare molto spavaldo. Segue una bellissima scena dove viene svelata la disabilità di lui, la sua protesi per una gamba monca, ma soprattutto segue la naturalezza di questa accettazione del momento imbarazzante da parte di entrambi. Subito la mente va a quel soldatino di stagno con una gamba sola che faceva parte delle nostre storie dell’infanzia. E infatti, a un certo punto della storia, quel soldatino viene proprio fuori, nella favola raccontata alla figlia Beth. Eh sì, perché i due, dopo il college, si sposano e hanno dei figli. “A volte – scrive Cunningham – il tessuto che ci separa si strappa quel tanto che basta a far passare la luce dell’amore. A volte lo strappo è sorprendentemente piccolo.
Lei sposa non solo un uomo, ma una contraddizione; si innamora dello iato tra il suo fisico e la sua sofferenza. Lui sposa la prima ragazza che non ha trattato la sua menomazione come se fosse un nonnulla; la prima che non ha bisogno di eludere il suo dolore e la sua rabbia o, peggio, cercare di lenirli con le parole”.
Come tutte le storie della contemporaneità, e non delle favole, i due vivono momenti felici e altri molto tristi, scoprono cose dell’uno e dell’altro fastidiose e insopportabili, si amano un po’ di meno per via di comunissimi particolari che appartengono a tutte le coppie e che non hanno nulla a che fare con la disabilità.
Hanno due figli, Trevor e Beth, che sentono le difficoltà dei genitori a continuare a stare insieme ma avvertono anche i momenti in cui i due protagonisti sanno ritrovarsi e ripartire come coppia, fino alla vecchiaia. Circondati da una domestica semplicità e da tanti piccoli lieto fine quotidiani. Ma è la figlia Beth che mi trasporta immediatamente dentro la cultura della disabilità, con quella sua frase quando la mamma le ha letto la favola del soldatino di stagno: “E che sarà mai, essere particolare?”.
Si pensa spesso che i bambini vedono la realtà a modo loro, ma tante volte vedono semplicemente la realtà, senza fronzoli, senza condizionamenti, senza gli orpelli di giudizi e pregiudizi. Vedono semplicemente che una cosa è: e non è strana, orribile, bizzarra, paurosa, difficile da accettare, ma è normale. Talmente normale che non è necessario porvi sempre l’accento sopra né lodarsi per avere fatto qualcosa di particolare, o potremmo dire speciale. Il padre non è particolare o speciale per via della sua gamba che non c’è, è un papà come tutti e un marito come tutti, con i pregi e difetti, con le cose che sa portare avanti bene e con quelle in cui fallisce. La gamba non lo rende così superiore o inferiore agli altri, ma neppure così diverso nella sua natura di uomo, padre, sposo. Né la madre è così superiore o inferiore alle altre donne per avere sposato un uomo danneggiato.
Attenzione, non si sta negando il limite, che nella disabilità c’è e di cui bisogna avere cura. Ma occorre anche vedere le persone con disabilità come tutti, senza quella caratteristica di specialità che le fa sempre essere un po’ distanti dagli altri. La distanza non aiuta.

7. Tra prove, aiuti e conquiste

Valérie ha due figli, di quattro e sette anni, e vive da sola con loro.
Nei primi sei anni, mio marito era ancora vivo. Lui ci vedeva, per cui alcune faccende erano facilitate dalla sua presenza. Ad esempio, per assicurarmi che i vestiti dei bambini fossero adatti, o coordinati armoniosamente, mi bastava chiedere a mio marito, che poteva rispondermi in qualche secondo senza interrompere la sua attività.
La differenziazione dei ruoli tra me e lui era sicuramente legata alle nostre competenze, ma anche alla mia cecità. Era lui che guidava la macchina, che tagliava le unghie ai bambini, che correggeva i compiti (soprattutto l’ortografia), che apprezzava i disegni.
Oggi devo avere un’organizzazione molto rigorosa: approfittare della presenza delle persone vedenti per ottenere quelle informazioni che i miei occhi non possono darmi.
Ho una persona che mi aiuta un’ora al giorno, la chiamo il mio “aiuto educativo-visuale”. Lei mi assicura che i quaderni di scuola mi sono stati letti bene; fa coi bambini delle attività più visive come i disegni, la pittura, i collages, ecc.; mi aiuta a compilare i documenti amministrativi; verifica la sistemazione dei giocattoli; legge dei libri che non possono essere ritrascritti in Braille; mi mette al corrente se i bambini hanno qualche reazione allergica alla pelle, o comunque di quello di cui non potrei accorgermi da sola.
Preciso che io svolgo un lavoro a tempo pieno, che i miei figli seguono delle attività sportive e culturali, che si sono adattati molto presto al mio handicap, ad esempio mi aiutano a identificare i prodotti nei supermercati.
Tuttavia, ho passato una fase di rigetto del mio handicap. A volte mi si mette alla prova, come se gli altri volessero vedere fino a che punto mi rendo conto di cosa fanno i miei figli nonostante il mio deficit. I miei amici mi segnalano alcuni comportamenti “non udibili” in modo che io possa aiutare i miei figli a correggerli. Ad esempio a tavola, se si puliscono la bocca con la manica della maglietta piuttosto che con il tovagliolo. Percepisco delle cose in ritardo, è vero, e a volte questo infastidisce i vedenti. Ad esempio se un bambino sparpaglia del cibo sulla tavola, una persona che ci vede può subito rimproverarlo di sporcare. Io invece me ne accorgo solo al momento di sparecchiare.
Ad ogni modo la cecità non esclude di poter essere una madre che si assume tutte le sue responsabilità. Questo richiede degli adattamenti a volte semplici, a volte complessi, ma si tratta di azioni che noi non vedenti siamo abituati a fare, sia che siamo genitori o no.
(racconto apparso sul sito svizzero dedicato alle persone non vedenti www.blindlife.ch; traduzione di Valeria Alpi)

1. Introduzione

Essere mamma non è un mestiere. Non è nemmeno un dovere. È solo un diritto tra tanti diritti.
(O. Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, Milano, Rizzoli, 1975)

Non è la prima volta che mi occupo di maternità di donne disabili. Esattamente cinque anni fa, proprio in questo periodo, stavo preparando il numero di dicembre 2005 di “HP-Accaparlante”, dal titolo Mamme. Nessun aggettivo dopo il punto, dove, per la prima volta in Italia, affrontavo in maniera organica i percorsi che portano le donne disabili a intraprendere una gravidanza, tra paure, limiti, adeguamenti di sé e possibili soluzioni. Quella volta mi ero occupata solo di disabilità di tipo fisico, perché erano tipi di deficit che conoscevo molto bene, con i quali lavoro tutti giorni, e con i quali convivo da sempre avendo anch’io una disabilità motoria. Mi era sempre rimasto lo scrupolo di pensare anche alle altre disabilità, soprattutto quelle sensoriali, di mamme non vedenti e non udenti.
Ricordo molto bene quanto fu difficile quel primo numero. Il terreno era nuovo, mi sentivo un pioniere, non esisteva pressoché nulla in lingua italiana che mi aiutasse, mentre all’estero c’erano tante esperienze di accompagnamento alla maternità per le donne disabili. All’estero, insomma, se ne parlava. Da noi no, e questo aveva provocato la mancanza di immagini sociali di riferimento. Le stesse donne disabili non avevano immagini di altre donne disabili con figli, con cui potersi paragonare o da cui attingere. Ma soprattutto la società non considerava l’immagine della donna disabile con figli.
Dopo cinque anni, una cifra che sembra meritarsi un anniversario, rieccoci su questo terreno, ma su un deficit, quello visivo, molto specifico, davvero poco conosciuto dalla sottoscritta, e con il quale ho avuto non pochi problemi. Infatti, come già la prima volta, non esisteva niente di scritto in lingua italiana che mi potesse aiutare. Sono passati cinque anni, ma sembra tutto come allora. Al Centro Documentazione Handicap, dove lavoro e dove abbiamo la biblioteca nazionale più fornita sul settore della disabilità, non esistono testi su genitori non vedenti, e continuano a non esisterne sui genitori disabili in generale.
L’unico segnale positivo in questi cinque anni sono state delle tesiste dell’Università di Bologna, una in Scienze della Formazione e una in Ostetricia, che mi hanno consultata per delle tesi sulla maternità delle donne disabili. Devo ammettere quella di Ostetricia mi ha fatto particolarmente piacere, proprio perché si tratta di un settore non dedicato esclusivamente all’handicap. Il terreno si è mosso anche con qualche convegno, in questi anni, in tutta Italia, uno in particolare a Bologna, nel 2007, sulle donne disabili, da cui partì anche una collaborazione coi Consultori cittadini, non pronti ad accogliere donne con disabilità. Cinque anni li ha compiuti anche il primo consultorio italiano, “Al Quadraro” di Roma, specializzato nell’accoglienza di donne disabili: ma il loro bilancio di attività ha rivelato che in questi cinque anni le loro utenti sono state con deficit fisici o intellettivi, mai sensoriali.
Perché la scelta delle donne non vedenti per “HP-Accaparlante”, un tema apparentemente così di nicchia? A chi interessa, se non alle donne non vedenti stesse, che desiderano avere figli, ma che si fanno prendere da ansie e paure? Credo fortemente che ragionare su un tema così specifico possa evidenziare varie tematiche sul mondo della disabilità in generale: i tabù, i pregiudizi, gli stereotipi, l’immagine sociale, l’educazione, l’integrazione… Inoltre c’è il desiderio di continuare a coprire delle lacune su un tema, quella della maternità delle donne disabili, su cui si continua a parlare molto poco. Infine, passare dai deficit motori ai deficit sensoriali permette di verificare ed eventualmente scardinare alcuni luoghi comuni che circolano all’interno del grosso tema disabilità, luoghi comuni che a volte si creano le stesse persone disabili le une con le altre, soprattutto quando si “appartiene” a deficit differenti.
Auspichiamo anche che questo lavoro possa rappresentare un punto di riflessione per i vari operatori del settore sociale, e soprattutto sanitario. Anche il settore educativo dovrebbe sentirsi coinvolto in un tema del genere, anche se apparentemente molto distante dalla propria specificità. Questo perché è soprattutto nella scuola che si formano le generazioni future, e ci auguriamo che le generazioni future possano considerare l’immagine della donna disabile con figli non solo come una follia, ma come eventualmente un diritto tra tanti diritti (ovviamente, come già cinque anni fa, non si vogliono negare le difficoltà, o le ripercussioni sui figli della disabilità dei genitori e della madre in particolare).

Gli strumenti usati
Questa monografia può apparire un po’ insolita perché nasce prevalentemente sul web.
La carta stampata infatti ha prodotto pochi risultati come si diceva prima. Non esistono libri, o articoli di riviste. Anche l’Istituto dei Ciechi “F. Cavazza” di Bologna non ha materiale documentativo sull’argomento. Le stesse associazioni di categoria non hanno prodotto dossier o ricerche sulla maternità delle donne non vedenti.
Lo stesso web, all’inizio della ricerca, non era stato particolarmente esaltante.
Su un canale come Youtube, ad esempio, dove ormai si trova la spiegazione di qualunque cosa venga in mente di consultare (dalle ricette di cucina, ai consigli per il trucco, a come usare certi medicinali, a come risolvere i giochi sui cellulari, ecc.) non esistono video che descrivano anche solo pochi minuti di vita di genitori non vedenti, neppure facendo delle ricerche tra i video stranieri.
I forum italiani dedicati alle discussioni sulla disabilità non parlano mai di questo tema.
In lingua italiana non si trova nulla su internet, neppure un solo racconto, magari in un blog.
La ricerca on line ci ha portato a “incontrare”, per fortuna, Edith Thoueille, responsabile del Centro Protection Maternelle et Infantile di Parigi, che da tanti anni si occupa della gravidanza di donne non vedenti, e ormai è una vera esperta in tutta la Francia e anche oltre confine.
Avevamo già parlato di lei su “HP-Accaparlante” (cfr. “Sostenere la genitorialità delle donne non vedenti: l’esperienza di Parigi”, rubrica Europa Europa, in “HP-Accaparlante” n. 2, 2010), ma purtroppo non abbiamo trovato in Italia un’esperienza analoga, e crediamo quindi che l’esperienza francese, raccontata direttamente dai protagonisti, possa portare molti spunti anche nel nostro Paese. Sempre tramite web siamo venuti in contatto con alcune donne che ha seguito Edith. Conoscere la lingua francese mi ha permesso di avere numerosi scambi con Parigi e di costruire quindi la monografia attraverso questi scambi.
Sono state aggiunte, inoltre, alcune esperienze, francesi e inglesi, sempre reperite tramite forum e blog sul web. I racconti delle mamme descrivono alcune strategie che hanno messo in atto nella cura dei figli. Conclude la monografia un testo di una donna americana, una sorta di racconto “rovesciato”: si tratta cioè di un intervento su un blog tenuto da una figlia di madre non vedente, e ci sembra molto interessante riportare alla fine del lavoro anche l’altro punto di vista (scusate il gioco di parole).
Prima di entrare nel merito, però, è necessario fare un passo indietro, tornare a cinque anni fa quando le mie ricerche cominciarono, e riparlare di limiti fisici, psicologici e sociali che erano emersi in quel primo numero di “HP-Accaparlante”.

Fotoromanzi, belletti e reggiseni imbottiti

Nel marzo del 2007, in occasione della Festa della Donna, si tenne a Bologna un importante convegno intitolato “Al silenzio…, all’imbarazzo…, all’invisibilità. Tra femminile e disabilità”. Importante perché declinava al femminile alcune tematiche riguardanti il deficit, soffermandosi su aspetti propri dell’essere donne: la cura di sé e del proprio corpo, la bellezza, la maternità, il rapporto con la propria madre… Importante perché fece emergere come tanti aspetti fossero comuni a tutte le donne, e non specifici delle donne disabili: ad esempio il rapporto conflittuale con la madre, o il rapporto conflittuale con lo specchio, o l’ansia di non saper gestire un neonato…
Accanto alla promozione del convegno, voluto dall’AIAS di Bologna insieme al gruppo donne disabili “Nessun’Altra”, fu lanciato anche un concorso letterario, aperto alle donne disabili che volessero raccontarsi.
Oggi, quel convegno è scaturito in un volume, dal titolo omonimo, dove è possibile reperire materiale di documentazione per chi si occupa di disabilità e dove tutte le donne (disabili e non) possono confrontarsi con le altre, per uscire dal silenzio, dall’imbarazzo, dall’invisibilità.
Vogliamo proporre, allora, uno dei racconti selezionati attraverso il concorso di scrittura, e pubblicato nella seconda parte del volume (l’intera raccolta degli atti e dei racconti è consultabile on line sul sito www.aiasbo.it, alla voce “Pubblicazioni”).

Fotoromanzi, belletti e reggiseni imbottiti
Mi chiamo Liliana.
Sono nata 51 anni fa; la mia disabilità risale probabilmente a un trauma da parto, e sono rimasta spastica lieve.
Ho frequentato una scuola elementare in provincia di Torino. Qui c’era una sezione speciale per i bambini come me, ma non c’era integrazione: i genitori dei “normali”, quando venivano a prendere e portare i loro figli, ci guardavano con disprezzo, e non volevano che ci fosse la sezione speciale
all’interno di quella scuola. Ma mio padre e altri genitori di bimbi “disgraziati”, come ci chiamavano, avevano lottato per ottenere che anche noi potessimo frequentare la scuola, seppur separatamente. Fatto sta che ho portato a termine le elementari, e ho imparato a leggere e scrivere.
Da grande ho frequentato un centro di lavoro protetto, poi sono passata a un Centro Diurno dove da anni svolgo attività ricreative, e da dove vi sto scrivendo.
Da giovane, non avevo nessun amico, sono sempre stata con i genitori e un fratello. Andavo in giro con i miei genitori, a trovare parenti e a ballare.
Una mia cugina mi portava spesso al cinema. Io stavo bene per alcuni versi, però stavo male perché vedevo mio fratello che aveva un’altra vita. Ero gelosa di lui perché lui aveva tre fidanzate. La terza infine l’ha sposata, e ha avuto tre figli.
Invece, io leggevo i fotoromanzi. Mi piacevano le storie d’amore, perché ero giovane e mi piaceva sognare.
Guardavo questi due attori che si baciavano e che si amavano e io sognavo che prima o poi sarebbe successo anche a me.
Avrei voluto farmi bella, truccarmi un po’, ma anche qui non ho potuto decidere di me da sola, perché mia madre non era d’accordo. Anche il taglio dei capelli e la scelta dell’abbigliamento non dipendevano da me, era sempre mia madre a scegliere. Io non sono mai andata d’accordo con lei. Volevo decidere io. Volevo scegliere quello che volevo fare, ma lei era quella che “comandava”. Io a volte le rispondevo male e lei si arrabbiava. Diceva sempre che io ero la “cocca” di papà, e che mio padre mi copriva di vizi. Lo ripeteva sempre, forse non le piaceva che mio padre fosse molto legato a me. Mio padre e io eravamo “un’anima sola”. Lei invece non è mai stata affettuosa né con me né con mio fratello.
Speravo di avere anch’io una famiglia tutta mia, e avere dei figli miei. O almeno un compagno. Appendevo poster di tramonti romantici e cartoline raffiguranti un uomo con una donna, e tutto mi portava a sognare ancora di più. Ma il compagno non arrivò.
Quello che mi successe invece, una ventina d’anni fa circa, fu di innamorarmi di un operatore del vecchio Centro Diurno dove allora trascorrevo le mie giornate. Costretta a vederlo tutti i giorni, ma anche costretta a soffocare questo sentimento. Mi aveva regalato alcune sue foto. Per lui, diceva, era un “amore platonico”; ogni tanto mi baciava sulle guance, ma per me era un sogno e una tortura.
Per di più, i suoi colleghi, che erano a conoscenza di questo amore impossibile, ci prendevano in giro entrambi con canzoni accompagnate persino alla chitarra. Tante volte, quando potevo, me ne rimanevo a casa per evitare tutta questa sofferenza. Mia mamma sapeva quello che mi stava succedendo.
L’avevano chiamata dal Centro per dirle la situazione in cui mi trovavo. Lei piangeva. Odia quest’uomo ancora oggi, come se lui fosse il colpevole del mio essermi persa. C’era ancora mio padre allora, anche lui l’aveva saputo. Lui mi diceva teneramente “Al cuor non si comanda…”, e
riusciva anche a consolarmi un po’. Alla fine lo allontanarono dal Centro, andò a lavorare in un altro posto, e io mi ripromisi di non affezionarmi più a nessuno.
A 40 anni ho cominciato ad avere dei problemi al seno, mi avevano riscontrato la presenza di ghiandole e avevo anomalie al capezzolo. Con due operazioni separate mi hanno asportato l’utero, a causa di un polipo, e i seni. L’idea di rimanere senza seni mi faceva sentire più disabile di quel che ero. Mia madre avrebbe voluto che mi limitassi a portare un reggiseno imbottito, invece io volevo un seno “vero” a tutti i costi.
Così parlai al mio ginecologo e, qualche anno dopo, mi feci ricostruire i seni con il silicone. Dopo mi sono sentita bene, proprio bene; potevo vestirmi come prima. Mi sentivo una donna “completa”; prima della ricostruzione non uscivo più di casa perché non riuscivo a convivere con la mia aumentata disabilità.
Ogni anno aspetto l’8 marzo. Una volta aspettavo S. Valentino. Mi aspettavo un regalo da un Principe Azzurro che sarebbe giunto in quel giorno dal mio mondo dei sogni. Ma non arrivava mai. Allora ho abbassato le mie pretese, e mi accontento di qualche mimosa per la Festa della Donna. Meno preziosa ma più probabile. Comincio a pensarci a febbraio e so che arriveranno mimose e la cena fuori con gli operatori del Centro. Fino all’anno scorso ci hanno accompagnato le donne, quest’anno ci hanno accompagnato gli operatori maschietti e ci hanno regalato un po’ di allegria e poesie.
Io sono comunque contenta di come sono oggi; una volta avrei proprio voluto essere “normale”. Oggi, a 51 anni, la mia vita è fatta di tempo al Centro dove sto bene e mi diverto, qualche gita, qualche volta a teatro, qualche mimosa, e parlare d’amore… sono tutte stupidaggini…

“Dove si va, papà?”

Caro Mathieu,
Caro Thomas,
Quando voi eravate piccoli, ho avuto qualche volta la tentazione, a Natale, di regalarvi un libro. […] Non l’ho mai fatto, non ne valeva la pena, voi non sapevate leggere. Non saprete mai leggere. Fino alla fine, i vostri regali di Natale saranno dei cubi o delle macchinine…
Ora che Mathieu è partito alla ricerca del suo pallone in un angolo dove non lo si potrà aiutare a recuperarlo, ora che Thomas, ancora sulla Terra, ha sempre di più la testa tra le nuvole, io vi regalo un libro. Un libro che ho scritto per voi. Affinché non ci si possa dimenticare di voi, affinché voi non siate solo una foto su un certificato di invalidità. Un libro per scrivere delle cose che non ho mai detto. Forse dei rimorsi. Non sono stato un gran buon padre. Spesso, non vi ho sopportato, eravate difficili da amare. Con voi, occorreva una pazienza d’angelo, e io non sono un angelo. […] Quando si parla di bambini disabili, si assume un’aria di circostanza, come quando si parla di una catastrofe. Per una volta, vorrei cercare di parlare di voi con il sorriso. Mi avete fatto ridere, e non sempre involontariamente.
Grazie a voi, ho avuto alcuni vantaggi rispetto ai genitori di bambini normali. Non ho avuto preoccupazioni riguardo ai vostri studi, né sul vostro orientamento professionale. Non abbiamo dovuto decidere tra la filiera scientifica o letteraria. Non ci siamo dovuti inquietare su che cosa avreste fatto dopo, abbiamo saputo molto presto quello che avreste fatto: niente.
E soprattutto, nei numerosi anni, ho potuto beneficiare di un contrassegno handicap per l’auto.
(Brano tratto da Jean-Louis Fournier, Où on va, papa ?, Paris, Éditions Stock, 2008, pp. 7-9, traduzione dal francese di Valeria Alpi)

Chiedo scusa ai lettori, ma non ho saputo resistere alla tentazione di proporre questo piccolo e meraviglioso libro, uscito alla fine del 2008 in Francia e purtroppo non ancora tradotto in lingua italiana. Mi auguro che presto tutto il mondo possa leggerlo, e non solo chi conosce il francese. La tentazione è anche di tradurlo tutto e pubblicarlo su “HP-Accaparlante”, perché davvero ne vale la pena. Ma lo spazio non lo consente. Ne propongo alcuni brani, allora. Difficili da commentare, perché si presentano da soli, da soli sanno autocommentarsi e far parlare di sé.
Jean-Louis Fournier è scrittore, umorista e autore per la televisione. Ma è anche papà, ormai anziano, di due figli disabili gravi, con deficit motori e psichici. Uno dei due, Mathieu, il più grande, è morto adolescente in seguito a una operazione chirurgica. Thomas invece è cresciuto e in qualche modo invecchiato. Où on va, papa ? ci racconta di loro, ma ci racconta soprattutto di Jean-Louis Fournier e del suo ruolo di padre “diverso”, “non come gli altri”. Potrà sembrare troppo diretto il suo stile, a volte pure sarcastico, facilmente ironico. Potrà turbare in qualche modo chi è abituato ai sentimentalismi, a parlare dei figli disabili solo con amore incondizionato. L’amore, in questo libro, c’è. Ma, con il candore che contraddistingue Mathieu e Thomas, c’è anche la descrizione delle difficoltà, dei momenti amari, della voglia di prendersela contro un destino che ha donato per ben due volte la disabilità a questa famiglia. Perché nascondersi e non dire come stanno le cose? È scomodo, e brutale, dire agli altri, che i propri figli non faranno mai niente, non cresceranno, non si sposeranno, non avranno a loro volta dei figli, non andranno al cinema, ai musei, a teatro, non capiranno la musica, non leggeranno dei libri, non avranno un lavoro. Ma è scomodo, e brutale, dirlo anche a se stessi, come questo libro fa. Eppure Jean-Louis Fournier ha già fatto i conti con i suoi limiti e quelli dei suoi figli, e sa trasmettere a noi un ricco patrimonio sulla finitudine umana, ma anche sulla straordinaria capacità di trovarne un motivo per ridere. È difficile commentare, dicevo. Meglio lasciare la parola a Monsieur Fournier.

Dopo che è salito in macchina , Thomas, dieci anni, ripete, come fa sempre: “Dove si va, papà?”. All’inizio, io rispondo: “Si va a casa”.
Un minuto dopo, con lo stesso candore, lui mi rifà la domanda, proprio non riesce a imprimersi la risposta. Al decimo “Dove si va, papà?” io non rispondo più…
Non so più molto bene dove si va, mio povero Thomas.
Un figlio disabile, poi due. Perché non tre…
Non mi aspettavo che mi succedesse.
Dove si va, papà?
Si va a prendere l’autostrada, in contromano.
Si va in Alaska. Si va a carezzare gli orsi. Ci faremo divorare. […]
Si va in piscina, ci si va a tuffare in un bacino dove non ci sia acqua. […]
Si andrà a camminare nelle sabbie mobili. Si va a impantanarsi. Si andrà all’inferno.
Imperturbabile, Thomas continua: “Dove si va, papà?”.
(pp. 10-11)

Come padre di due figli disabili, sono stato invitato a partecipare come testimone a una trasmissione televisiva.
Ho parlato dei miei figli, insistendo sul fatto che loro mi fanno ridere spesso con le loro stupidità e che non bisognerebbe privare i bambini disabili del lusso di farci ridere.
Quando un bambino si sporca tutta la faccia mangiando della crema al cioccolato, tutti ridono; se è un bambino disabile a farlo, non si ride. Un bambino disabile non farà mai ridere nessuno, non vedrà mai dei visi che ridono guardandolo, tranne forse qualche risata di imbecilli che lo prendono in giro.
Ho riguardato la trasmissione, che avevo registrato. Avevano tagliato tutta la parte sul riso. La direzione aveva valutato che occorreva pensare ai genitori. Quella parte avrebbe potuto scioccarli.
(p. 41)

Degli sforzi vengono fatti oggi per permettere l’integrazione delle persone disabili nel mercato del lavoro. […] Non posso fare a meno di immaginare Mathieu e Thomas nel mercato del lavoro. Mathieu, che fa spesso “vroum-vroum” con la bocca, potrebbe fare il camionista, attraverserebbe l’Europa al volante di un semi-rimorchio di parecchie tonnellate, con il parabrezza ricoperto di orsetti di peluche.
Thomas, che ama giocare con dei piccoli aerei e metterli nelle scatole, potrebbe fare l’aviatore, sarebbe incaricato di atterrare sulle grandi portaerei.
Non ti vergogni, Jean-Louis, tu, il loro padre, di prenderti gioco di due piccoli marmocchi che non si possono difendere?
No. Questo non impedisce i sentimenti.
(pp. 46-47)

Mathieu e Thomas dormono. Io li guardo.
Che cosa sognano?
Fanno dei sogni come tutti gli altri?
Forse, la notte, sognano di essere intelligenti.
Forse, la notte, prendono la loro rivincita […]
Forse, la notte, scoprono delle leggi, dei principi, dei postulati, dei teoremi.
Forse, la notte, sanno fare dei calcoli complicati che non finiscono più.
Forse, la notte, parlano il greco e il latino.
Ma quando arriva il giorno, affinché nessuno abbia dei dubbi e per avere la pace intorno, essi riassumono l’apparenza di bambini disabili. Purché li si lasci tranquilli, fanno finta di non saper parlare. Quando gli si rivolge la parola, fanno come se non comprendessero, per non essere obbligati a rispondere. Non hanno voglia di andare a scuola, di fare i compiti, di imparare le lezioni.
Bisogna comprenderli, sono obbligati a essere seriosi tutta la notte, hanno bisogno, di giorno, di rilassarsi. Allora fanno delle stupidaggini.
(pp. 53-54)

Etichetta e preferenze

A cura di Valeria Alpi 

Sono sempre stato convinto che la caratteristica della nostra famiglia sia la riservatezza. Portiamo il pudore a estremi incredibili, tanto nel nostro modo di vestirci e di mangiare come nel modo di esprimerci o di salire sul tram. I soprannomi, per esempio, che con tanta noncuranza vengono affibbiati nel quartiere di Pacifico, sono per noi motivo di estrema cura, di riflessione e persino di inquietudine. Ci sembra che non si possa attribuire un nomignolo qualsiasi a qualcuno che dovrà farlo suo e portarlo come un attributo per tutta la vita. Le signore di via Humboldt chiamano Toto, Coco e Cacho i loro figli, e Negra e Beba le bambine, ma nella nostra famiglia questo tipo di corrente di soprannome non esiste, e tanto meno altri ricercati e abominevoli come Chirola, Cachuzo o Matagatos, che abbondano in quartieri come quello di Paraguay o di Godoy Cruz. Come esempio della nostra prudenza in queste cose basterà citare il caso di mia zia, la seconda. Visibilmente dotata di un sedere dalle imponenti dimensioni, mai ci saremmo permessi di cedere alla facile tentazione dei soprannomi abituali; così, invece di darle il brutale nomignolo di Anfora Etrusca, fummo tutti d’accordo su quello più decente e familiare di Culona. Procediamo sempre con lo stesso tatto, anche se ci capita di dover far baruffa con i vicini e gli amici che insistono nei tradizionali appellativi. A mio cugino primo, il secondo, il minore, decisamente dotato d’una gran testa, gli negammo sempre il soprannome di Atlante che gli avevano appioppato nella rosticceria dell’angolo, e preferimmo quello infinitamente più delicato di Zuccone. E così via.
Vorrei che fosse ben chiaro che non facciamo così per distinguerci dagli altri del quartiere. Vorremmo soltanto modificare, gradualmente e senza urtare i sentimenti di chicchessia, la routine e le tradizioni. Non ci piace la volgarità in nessuna delle sue manifestazioni, ed è sufficiente che uno di noi si senta dire al bar frasi come: “Hanno fatto un gioco pesante” […] perché immediatamente noi si rivendichi la vitalità delle espressioni più pure e consigliabili in tali occorrenze, e cioè: “Han menato duro che dovevi vedere” […] La gente ci guarda con sorpresa, ma non manca mai qualcuno che raccolga la lezione che si nasconde in queste frasi delicate.
(Brano tratto dal racconto “Etichetta e preferenze”, in J. Cortázar, Storie di cronopios e di famas, Torino, Einaudi, 2005, pp.30-31)

Ciò che ha contraddistinto la rubrica Il magico Alvermann fin dai suoi esordi è l’emozione. Non cerchiamo di “piegare” i nostri ricordi narrativi alla ricerca di un brano che parli di diversità, ma di solito avviene il contrario. Ci capita un testo tra le mani, per vari motivi, proviamo un’emozione sulla diversità e ci viene voglia di commentarlo ne Il magico Alvermann. L’incontro con Cortázar non è stato casuale, però. Un collega, un amico, del Centro Documentazione Handicap è venuto da me con questo libro di racconti e – con frasi di manzoniana memoria – mi ha intimato: “Cortázar s’ha da fare su ‘HP-Accaparlante’!”. C’era già un’idea da parte sua: utilizzare un racconto con una strana storia di capelli che finiscono nel lavandino, una storia talmente surreale che sprigionava diversità da ogni parola! Ma poi eccola, l’emozione. Ecco il racconto, un altro, non quello dei capelli, che sarebbe stato su “HP-Accaparlante”, e non perché mi venisse chiesto, ma perché non poteva essere altrimenti. Perché quando si trova la cosa giusta, non la si può far scappare. Questo racconto, con molta ironia, cinismo forse, ma anche con una dose di onesto equilibrio, comunica, anzi è come se gridasse, ciò che da tempo penso sui termini che riguardano la disabilità. Diamo il nome alle cose, anche il nome più brutale, non vergogniamoci, il problema non sta nel nome, ma negli aggettivi sottintesi che il nome si porta dietro. Vengo da un mondo in cui si è lottato per anni per non parlare più di handicappato, di portatore di handicap, ma di persona disabile, anzi meglio: di persona diversamente abile. Ma ciò che mi ha sempre lasciato perplessa è che i termini, essendo noi degli esseri umani con la necessità di definire e di indicare il mondo circostante, servono, non ne possiamo fare a meno. Ma sono appunto termini, come dire: strumenti. Abbiamo la parola “tavolo” per definire l’oggetto sopra cui per esempio apparecchiamo per il pranzo, ma per descrivere il tavolo dobbiamo aggiungere degli aggettivi: alto, basso, bello, moderno, antico, di legno, laccato, ecc. La parola “tavolo” e basta non ci dice molto, tranne un’idea che comunque abbiamo nelle nostre definizioni. La parola “handicappato”, allora, non sarebbe così sbagliata se non portasse con sé tutta una serie di aggettivi negativi che la cultura vi ha sedimentato: e quindi persona sfortunata, incapace, per non dire di peggio. La parola “diversamente abile” ha il vantaggio di portare alla luce le qualità positive che comunque permangono nella persona, nonostante il deficit. Ha anche il vantaggio di “pareggiare” un po’ i cosiddetti normodotati con i disabili, perché alla fin fine siamo tutti diversamente abili in qualcosa. Spesso, non posso non ammetterlo, il termine diversamente abile funziona, e davvero alle persone che non si trovano a contatto con la disabilità, o a volte anche alle stesse famiglie di persone disabili, si apre un mondo fatto di possibilità anziché di negazioni. Ma, a volte, questo termine è solo di facciata. È politically correct, anzi è di moda, è trendy. E nello stesso tempo, a volte, è vuoto di significati, oppure, peggio, resta ancorato alla cultura del passato. Perché indica, definisce una persona con deficit, ma non sempre cambia gli aggettivi che ci stanno dietro. E quindi capita che chi usa diversamente abile continui a guardare le persone disabili come dei marziani, si schifi vedendole imboccare da altri, non sappia come relazionarsi, se non con un dislivello asimmetrico, della serie “io sono quello che ti potrebbe aiutare, tu sei quello che ha bisogno di aiuto”. Allora mi viene voglia di essere nel racconto di Cortázar. E preferisco chi usa ancora “handicappato”, ma lo fa in modo genuino, ruspante, senza ambiguità, senza sedimenti culturali, ma solo per indicare una situazione di diversità, semplicemente perché essa è. Ma che poi accetta la disabilità nella sua concretezza, ti porta a fare un giro in città, ti imbocca se ce n’è bisogno, ti sorride, ti abbraccia, ti solleva; ti parla più lentamente se devi leggere sulle labbra; prova ad ascoltarti anche se non riesci a esprimerti bene; prova a farti esperire il mondo, anche se non lo vedi. Preferisco “handicappato” se non si porta dietro nulla, piuttosto che “diversamente abile” e pensare ancora “poverino”. Come preferirei che non ci fosse bisogno di termini più “giusti” per cambiare la mentalità; sarebbe bello cambiarla anche stando sui termini brutti. Forse m’illudo. Ma non manca mai qualcuno che raccolga la lezione che si nasconde in queste frasi delicate.

Il segno è una metafora meravigliosa

A cura di Valeria Alpi

Il corpo è per l’artista un Teatro di Operazioni, l’ambito di una ricerca, un modello sempre a portata di mano e a buon mercato, un Robot, l’avvio d’una investigazione, la verifica del gesto, il veicolo dell’Arte e le arti altre. Perciò, io NON amo il mio corpo in quanto di serie A, ma per la tenerezza che mi fa quando mi saluta denutrito un mattino allo specchio che non mi guardavo da molto tempo. I muscoli, drappeggiati come veline sulle ossa.
Il giorno dopo l’espressione del mio corpo è cambiata, totemica, o vetro senza speranze, ma mai più giovane come una volta, a meno di non condurre una vita sostanziosa, che mi ingrassa psicologicamente e sottende salute, ma mi inurbana la faccia, questo sì.
Quando disegno un corpo, io disegno o il mio antenato Arcadio Paz, o un corpo degradato, o migliorato, o flamenchizzato, o insensualito, ma sempre il mio corpo.
Nelle occasioni sociali convinco il mio corpo a sembrare meno alto e se ci sono delle ragazze ballo e mi dimeno per attirare la loro attenzione. Ma i miei veri grandi ammiratori sono i miei amici maschi con i quali il gioco delle valutazioni sullo stato delle cose nel corpo è schermaglia molto amata nell’ovunque ritrovarsi.
Mi apprezzo di più vestitissimo ma tendo a finire in mutande al primo gioco della bottiglia, o al primo accenno di caldo.
Belle ho le mani, per le quali aborro lavori pesanti o pericolosi.
E le spalle. La carnagione invernale è colore dell’olio d’oliva, d’estate un india molto scuro. Nel complesso sono sempre un pelo sotto peso e anche sotto tono, c’è da dire che il corpo tutto è sotto sequestro.
(Brano tratto da Andrea Pazienza [a cura di Vincenzo Mollica], Paz, Torino, Einaudi, 1997, pp. 149-150)

Un giorno stavo riordinando la mia camera, e tra i mucchi di foglietti sparsi con vecchi appunti di cose da fare e già realizzate o forse mai veramente realizzate, ho trovato un foglio dove, in una data x, avevo ricopiato una frase di Andrea Pazienza: “Il segno è una metafora meravigliosa”. La memoria è subito corsa a quell’anno di Università in cui ebbi la fortuna di conoscere i fumetti del Paz, e fu empatia immediata. Con un po’ di nostalgia, ho ripreso in mano il catalogo di una mostra antologica che nel 1997 Bologna dedicò a uno dei suoi più celebri fumettisti (o forse bisognerebbe dire che uno dei più celebri fumettisti dedicò molti anni a Bologna pur non essendo un bolognese doc). C’era un Pazienza inedito in quella mostra, una persona che aveva fatto non tanto del fumetto quanto della capacità espressiva di usare forme e colori una sintesi di comunicazione sociale sugli anni ’70 e ’80.
Quel giorno, il giorno del ritrovamento del foglio con la frase, era il 16 giugno 2008 e appresi dai mass media di lì a poche ore che ricorreva l’anniversario della morte di Andrea Pazienza: 16 giugno 1988. Vent’anni, e come ogni cifra che termina con uno zero, è d’obbligo la commemorazione a opera dei più. Ammetto che mi ha un po’ sorpreso ritrovarmi a pensare al Paz proprio nel giorno esatto dell’anniversario della sua morte, ma ancora più sorprendente è stato scoprire che sul sito di Youtube esiste una quantità piuttosto consistente di filmati di Andrea Pazienza: alcuni in bianco e nero, molti a colori, stralci di interviste, riprese di lui che disegna o dipinge. Il Paz è on line, pur essendo scomparso quando Internet era lontanissimo dalle nostre case e dal nostro modo di vivere. E così mi è venuta voglia di inserire il Paz anche su “HP-Accaparlante”: lo so, lo so, sembra una forzatura, ma se si leggono con attenzione i suoi fumetti tanti discorsi sulla diversità potrebbero scaturirne. E se si legge con attenzione questo brano che propongo, si può trovare un parallelismo con la disabilità. Certo, il corpo di Andrea Pazienza era sotto sequestro non per motivi di disabilità, ma per una vita un po’ disordinata. Ma quella frase, io NON amo il mio corpo in quanto di serie A, ma per la tenerezza che mi fa quando mi saluta denutrito un mattino allo specchio che non mi guardavo da molto tempo, mi fa pensare alla disabilità.
Siamo prima di tutto un corpo, fatto in un certo modo, con dei confini fisici ben precisi con i quali esperiamo ciò che ci circonda. Molto di ciò che siamo come persone deriva anche dal corpo, è il corpo il nostro primo “strumento” di conoscenza della realtà. Essere estroversi, vivaci, allegri, tristi, depressi, rinchiusi in se stessi, avere fiducia in sé e negli altri, sono tutti modi di essere e di agire che ci derivano dall’avere un corpo fatto in un certo modo o dalla percezione che abbiamo del nostro corpo. Quando su un corpo intervengono dei limiti oggettivi come i deficit, la persona può per esempio avere meno fiducia in se stessa, o essere un po’ demotivata, o provare un senso di rifiuto per il proprio corpo percepito come non bello perché non simile ai corpi degli altri. La disabilità passa prima di tutto dal corpo, è un corpo diverso; e valorizzare ugualmente il proprio corpo, nel senso di dargli comunque un valore per quello che ci fa essere, può risultare un’operazione non molto semplice per una persona disabile. Lo stesso guardarsi allo specchio, e piacersi, sembra spesso impossibile. Che poi, quest’ansia da specchio o il non sentirsi a proprio agio nel proprio corpo o il desiderare un corpo diverso non è solo di chi è disabile; si tratta di percezioni che accomunano molte persone. Invece – à la Paz – bisogna amare il proprio corpo non in quanto di serie A, oggettivamente bello e perfetto e piacevole, ma in quanto è il nostro corpo, pur denutrito, ossuto, storto, grasso, manchevole… Dobbiamo provare tenerezza, che non significa compassione. E magari trovarvi alcune cose che ci piacciono molto, anche piccole cose: il sorriso, la forma delle labbra, il taglio degli occhi, le ciglia lunghe, la forma del naso, i capelli, le ginocchia, i piedi…
Belle ho le mani […] E le spalle.
Ciao Paz, grazie per il tuo segno