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Autore: admin

Più terme e meno badanti! Superabile, Luglio 2012

Vento caldo, sole rovente, acqua a trenta gradi…quasi quasi me ne vado alle terme! Ho pensato proprio così, qualche settimana fa, mentre facevo i conti con l’afa bolognese, e in men che non si dica mi son ritrovato a mollo nella frescura di Montegrotto Terme…

Che dire, quel posto me lo sono proprio goduto, non solo per la bellezza del luogo ma anche per la sua comodità, completamente accessibile e circondato da personale disponibile e accogliente.
La cosa più interessante però è stata per me la battuta che tre clienti hanno improvvisamente rivolto a un cameriere. Alla domanda di questi "perché, dopo tanti anni, siete ancora così affezionati alle nostre terme?", i tre han seraficamente risposto "perché sono un ottimo investimento per il nostro futuro". In che senso? Vi chiederete voi… "Così"- han continuato gli affezionati- "ritardiamo il tempo della badante!".

Al di là della battuta divertente, credo che nella sua semplicità i vacanzieri abbiano toccato un nodo fondamentale e mi sono subito posto un’altra domanda: la disabilità che strategia può investire per il futuro? E soprattutto quante persone disabili possono permettersi di andare oltre le loro esigenze primarie? Il valore della qualità della vita e la lungimiranza nel cercarla sono le prime risposte che vengono in mente, risposte che, tuttavia, non per tutti risultano tanto immediate. Credo che la capacità personale di affrontare il deficit con uno sguardo verso il futuro sia un punto indispensabile per la crescita, nonché l’invecchiamento, di una persona con disabilità. Spesso infatti si pensa che la disabilità sia una condizione priva di mutamenti e che la qualità della vita possa incidervi solo in parte, dimenticando quanto questo vada a coinvolgere l’autostima e l’umore della persona.

Avere la possibilità di entrare alle terme è così il primo passo per oltrepassare le nostre barriere architettoniche e mentali ma scegliere di farlo con consapevolezza è un passaggio più complesso e successivo. Si tratta di imparare a separare la persona dal suo deficit e cominciare a intraprendere un percorso di accettazione e cura verso se stessi, una cura però che deve essere continuativa, un investimento appunto, come ci han ricordato i nostri simpatici clienti. Insomma, bisogna andare alle terme per restare longevi… E voi, quante volte andate alle terme, in piscina, a fare i fanghi, a spassarvela un po’ per investire sul vostro futuro?

Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook.

Claudio Imprudente

La bottega di Luigino, Superabile, Luglio 2012

Mi sono sempre chiesto se San Giuseppe, intorno all’anno zero, in quelle calde e afose giornate di luglio a Nazareth, continuasse imperterrito a lavorare nella sua bottega, a scolpire il suo legno da bravo falegname.
Me lo chiedevo perché in queste giornate, pur con il ventilatore puntato in faccia, è difficile persino pensare e scrivere… figuratevi Giuseppe che di certo non poteva disporre di certi ausili!
Questi strani pensieri mi sono venuti dopo aver conosciuto la storia di Luigino. Voi vi chiederete: “Chi è Luigino?”.
Ve lo presento subito, perché credo che la sua vita e la sua esperienza meritino di essere conosciute da tutti, rappresentando valori di cui io stesso vi parlo frequentemente poiché mi sembrano in via d’estinzione.
La volontà di rimettersi in gioco, la creatività, la tenacia, la voglia di porsi ancora in relazione senza chiudersi in se stessi.
Tutti ingredienti, questi, che ho ritrovato nella vicenda di Luigino.
Sposato, con due meravigliosi figli e un lavoro nel settore della distribuzione elettrica, Luigino si trova all’improvviso a convivere con la disabilità e con la sua nuova carrozzina.
In molti a questo punto si darebbero per vinti, rifiutando di accettare la realtà e rischiando di vivere una vita passiva, inerme. Niente di tutto questo. Luigino prende pialla, lima e legna ed inizia a dare sfogo alla sua creatività, rimettendosi in gioco, reinventandosi.
Icone ed immagini Sacre, paesaggi e presepi ma non solo, utilizzando varie segature provenienti da diverse specie arboree, il nostro scultore, tutt’altro che improvvisato, riesce a creare delle vere e proprie meraviglie.
Un suo amico ci scrive di lui queste bellissime parole, importanti secondo me anche come metafora della disabilità stessa, per riuscire a tirare fuori le potenzialità (in questo caso capolavori) anche da situazioni (in questo caso residui d’alberi…) che ci appaiono inutili ed inutilizzabili:
“Luigino, con i suoi occhi indagatori, riusciva a scorgere un embrione di vita nascosto nelle tortuosità di quel legno secco e mettendosi a scolpirlo gli ridonava letteralmente la vita, facendone emergere un Cristo come fosse una nuova resurrezione”.
Una resurrezione appunto. Una nuova vita. Che bello sarebbe entrare nella sua bottega…

E voi, cari amici lettori, quante volte vi siete reinventati? Quali sono le vostre botteghe?

Scrivete a claudio@accaparlante.it o sulla mia pagina facebook.

Claudio Imprudente

 

9. Ridere è un nostro diritto

Concludiamo questo lavoro sui percorsi di maternità per le mamme non vedenti, con un divertente, ma anche significativo racconto apparso in un blog. A raccontare non è una madre, ma una figlia di una signora non vedente.

Un giorno al lavoro, mentre camminavo nell’atrio, una collega, proprio dietro di me, mi chiese se uno dei miei genitori fosse cieco. Naturalmente le risposi di sì, ma le domandai anche il perché di una domanda così insolita. Lei replicò che mostravo di possedere molte delle abitudini comuni anche ai non vedenti.
Non ci avevo mai pensato fino a quell’istante. Mi accorsi che ne avevo abbastanza, da potere essere scambiata, da chi non se ne intende, per una con disturbi ossessivo compulsivi. Faccio scivolare il retro della mia mano, mentre cammino lungo i corridoi. Conosco il numero esatto dei passi necessari per muovermi ovunque in casa mia (non importa in quale casa). Sono una fanatica del tenere chiusi gli sportelli delle credenze e dei cassetti. Il mio dito finisce nella tazza, quando verso qualcosa, e appena raggiunge la punta del mio dito, so che la tazza è piena. La notte non accendo le luci per andare in bagno o a bere un bicchiere d’acqua.
A mia madre diagnosticarono una Retinite Pigmentosa all’età di 12 anni, ma divenne poi un glaucoma a trent’anni. La sua cecità era aumentata lentamente negli anni, peggiorando con l’età. Durante la mia crescita, a causa, in parte, della sua cecità e in parte delle nostre tradizioni culturali, mi occupavo sempre di più dei lavori domestici.
Quando si cresce con un genitore disabile, non si pensa che la propria famiglia, o la casa, siano molto diverse dalle altre, ma piuttosto che ogni famiglia sia un mondo a sé. Tuttavia alcune cose sono decisamente diverse. Mia madre non crede che un deficit sia una scusa per non provare a fare ciò che si desidera. Il suo modo di dire preferito è “Tutto può fare da stampella”. Non si accettano scuse. È addirittura riuscita a entrare nel Chi è Chi delle Businesswomen Americane grazie alla sua determinazione.
Da noi la sua cecità era vista come normale, di conseguenza c’erano cose che faceva per cui la prendevamo in giro, ad esempio come quella volta in cui comprò per cena una scatola di mais bianco messicano anziché una di mais giallo normale. Questo accadeva quando ancora riusciva a delineare le forme ma non a leggere le scritte. Un’altra volta in un negozio, sbattendo contro un manichino, chiese scusa.
Non andò a una scuola per non vedenti/ciechi, fino a quando non ho compiuto venti anni, ma solo dopo aver capito che, una volta cresciuti i figli, aveva bisogno di imparare a fare certe cose da sola. A quel punto aveva scoperto i libri su nastro, e capito anche quanto dipendesse su di noi a casa e sulla sua segretaria al lavoro.
Un giorno in un negozio di alimentari, mi allontanai davanti a lei, dimenticando di controllare che si tenesse al carrello o alla mia borsetta. Feci solo pochi passi in avanti prima di realizzare che l’avevo lasciata indietro. Mi sono girata e scherzando le ho chiesto “Dai mamma su, sarai mica cieca?”. Una donna nella corsia successiva nel frattempo mi lancia un’occhiata disgustata e afferma “Non ho parole!”, io la riguardo e dico “Ci scommetto che non ne ha” e ho continuato sulla mia strada.
Chi ha detto che bisogna essere politicamente corretti con i propri famigliari? Chi ha detto che è vietato prenderli in giro, anche se si tratta di una disabilità? Su certe cose bisogna riderci sopra, o si diventa rabbiosi e risentiti. Mia mamma non ha chiesto di diventare non vedente ma lo è; poter scegliere la maniera in cui lei e noi affrontiamo la cosa è una nostra prerogativa.
Il lato migliore del crescere in una casa con un genitore cieco è la seguente: l’unico colore che conta nelle persone è il colore della loro anima.
(Post apparso sul blog traduzione a cura di Graziano Paolicelli)

8. “Ma Lei non ci vede, come fa ad avere dei figli?”

A., donna inglese, ha perso la vista nel 1997 e ha allevato le sue figlie solo con il tatto. Assicura che è più facile di quello che ci si aspetterebbe. L’essere cieca non la rende una madre incapace, eppure la gente dà per scontato che debba essere così.

Il duro lavoro, come scelta di vita, è maggiormente auspicabile di quel che avrei mai immaginato. Ne sono diventata una sostenitrice, da quelle prime, poche ore in cui tenevo in braccio Sophia, la mia primogenita, raggomitolata nel mio avambraccio, imparando ad allattarla, fino all’ultimo “Totò cavallo” prima di colazione, con due “gentildonne” sulle mie ginocchia spossate.
Ma ho sempre saputo che essere un genitore mi avrebbe posta di fronte a diverse sfide, rispetto a madri più standard, poiché sono rimasta cieca fin dal 1997.
Nella realtà quotidiana dell’allevamento dei bambini, essere non vedenti non è, in generale, neanche lontanamente così arduo come la gente si aspetta che sia. Cambiare i pannolini non è particolarmente difficile se sei già abituata a fare tutto con il tocco delle mani. Non c’è alcun mistero. Non esploro le feci con le dita, né lascio la mia bimba un po’ sporca. Uso semplicemente una combinazione di olfatto e tatto per determinare come stia procedendo la pulizia e se vedo che sto perdendo il controllo della situazione, e la voglia di vivere, allora dieci minuti di bagno e cambio di vestiti: non si può sbagliare.
Anche dar da mangiare è fattibile, sebbene un po’ più eccitante. Nei primi giorni dello svezzamento raccoglievo una cucchiaiata di cibo con la mia mano destra posando lievemente la mia mano sinistra sulla sua spalla destra. In questo modo potevo controllare la posizione della testa e usare il pollice per monitorare l’ingresso (e specialmente l’uscita) della pappa. Non miravo direttamente alla bocca con il cucchiaio ma usavo le punte della dita per individuare la bocca e capire quanto fosse aperta. Poi veniva il passaggio fulmineo dalle cucchiaiate sospese obliquamente alla precisa somministrazione della pappa senza conficcare il cucchiaio nelle gengive, toccare il palato molle o pizzicare le labbra o la lingua.
Gestire le cose di casa è più complesso ma, di nuovo, non impossibile. Poco tempo fa, per esempio, mentre preparavo il bucato, ho colpito con un angolo del copripiumino la tazza piena d’acqua di Sophia, facendola finire per terra. Ho afferrato un rotolo di carta da cucina e così facendo ho rovesciato sul pavimento un flacone nuovo di detersivo multiuso che, benché sigillato, ha svuotato generosamente il suo contenuto sui pannelli in sughero del pavimento. Dopo aver buttato la carta da cucina sull’acqua versata, mi sono messa a ripulire il pavimento dal detersivo. Il mio nuovo cane guida, che è meravigliosamente utile e inestimabile, è arrivato subito, si è gettato nel detersivo (mandandomi nel panico) e poi, dopo aver ricevuto una sgridata, ha messo le zampe sulla carta imbevuta d’acqua per poi danzarsene via con lei. Agitata e imprecante, ho inseguito e preso il cane e la carta, mandando il primo nella stanza e l’altra nella discarica, ho asciugato il detersivo, recuperato il bucato e mi sono congratulata con me stessa per aver evitato una crisi. Irradiando perizia, sono tornata a cucinare, con mezz’ora di ritardo. Ho tagliato abilmente tre giganteschi spicchi d’aglio in un tempo da record e li ho scagliati nella padella calda… sbagliando completamente mira!
Tuttavia si possono evitare questi piccoli disastri facendo le cose con più calma e accortezza.
Ce la sto mettendo tutta per stabilire la migliore relazione con le mie figlie, affinché non si approfittino della mia cecità. Per ora ho rimproverato Sophia. Ad esempio a tavola mi dice: “Ho finito di mangiare ma non voglio che tocchi il piatto” (ovviamente perché non è vero che ha finito di mangiare). A volte invece la rimprovero per le sue lamentose digressioni con il padre: “Non lasciare che mi tocchi il polso o mi farà mettere le maniche lunghe”, e pare che funzioni.
Spero di instillare in loro la comprensione che sono in grado di individuare le malefatte con tecniche più sofisticate della mera vista.
È improbabile che io riesca a vincere le battaglie future con imposizioni del tipo “Non vai da nessuna parte vestita così”. Mi va benissimo che imparino a rispettare e valorizzare se stesse al punto da prendere loro delle decisioni assennate sull’abbigliamento e il comportamento, facendo il loro ingresso nell’adolescenza.
Ma la cosa più difficile da gestire non è il cambio di pannolini, o dar da mangiare o cucinare o lo spossante campo minato delle faccende domestiche (si possono realizzare anche le cose più complicate se uno mette da parte l’orgoglio e chiede aiuto).
No, la prova più difficile e demoralizzante che devo affrontare sono gli atteggiamenti delle altre persone nei confronti delle menomazioni in generale e dei genitori ciechi in particolare.
Non ci sono molti genitori ciechi e perciò ci marginalizzano.
La mia infermiera-consulente mi dice che può farmi avere un set gratuito di libri per bambini in 26 lingue diverse, ma non è prevista l’aggiunta del Braille, che consentirebbe a un genitore non vedente di leggere assieme a un bambino vedente. Nel Regno Unito nessuno li pubblica, anche se sarebbero relativamente facili da produrre.
Altrettanto scioccante è stato scoprire che non esistevano opuscoli informativi della Sanità in Braille o anche in formato audio o elettronico per donne in attesa e neomamme. Mi sono imbarcata nella maternità alla cieca, in ogni senso.
Eppure, di nuovo, tutto questo è insignificante rispetto al modo in cui vengo trattata dalla gente. Sconosciuti e persino amici colgono ogni opportunità per chiedere a mio marito se posso cucinare e cambiare i pannolini. La gente mi fissa senza alcun imbarazzo ogni volta che pulisco un naso o allaccio una scarpa e manifestano sorpresa che non sono all’oscuro di ciò che fanno le mie figlie quando non sono a contatto con me.
Man mano che Sophia cresce e diventa più capace, quasi si può toccare il sospetto, tra le persone, che sia la mia badante. La scorsa settimana, per esempio, il suo rispetto per il codice della strada ha suscitato l’ammirazione di un passante. Mi sono voltata a sorridergli, felice che la nostra pratica di sicurezza sulla strada fosse stata apprezzata, per poi mordermi la lingua, giacché la persona si allontanava rapidamente, a significare che aveva inteso che l’accortezza nell’attraversamento fosse a beneficio mio e non della mia figlia di tre anni.
Mi si continua a chiedere come sfamo e pulisco le mie figlie, con toni scettici che riescono appena a mascherare il sospetto che in realtà sia mio marito a occuparsi di tutto. Alcuni non vedono che le mie bambine chiamano la mamma, dando per scontato che, con una madre così, intendano dire papà (il che tuttavia, in varie occasioni, porta alla gratificante e chiarificatrice conclusione che le persone devono comunque riportarle da me, quando le grida si intensificano).
La verità è che alcuni aspetti della vita di un genitore non vedente sono proprio una faticaccia frustrante. Fare qualunque cosa è ovviamente più difficile per me di quanto lo sia per altre madri. Ma questa è l’unica vita che conosco. Non mi faccio sorprendere da difficoltà e sforzi. Sono i consueti nemici di chiunque sia determinato a non lasciare che una disabilità grave la escluda dalla vita. Ci sono però anche dei vantaggi, come il fiorente vocabolario della mia primogenita, necessario a chiarirmi cosa intenda dire, e la straordinaria gentilezza che delle bambine allevate con il tatto considerano la norma.
L’unica vera piaga è la credenza che io debba essere una donna solitaria, inadeguata, incapace di una vita attiva e di una normale vita familiare. A volte, quando parlo delle mie figlie in loro assenza, avverto una pausa momentanea, mentre decidono se è vero che sono una madre. C’è un ritrarsi, come se fossi in preda a una psicosi. Una pausa che si conclude con una querula replica: “Ma Lei non ci vede, come fa ad avere figli?”, come se non mi rendessi conto che sono cieca. Ne ho avuto conferma recentemente quando, in fuga dal caos di un sabato in famiglia, me la sono svignata di casa per un’ora di tranquillo shopping. Mentre annusavo con un po’ di senso di colpa dei profumi di marca, ho sentito una donna dire a suo figlio (senza neppure pensare di abbassare la voce) che bella cosa che avevo un cane guida, “che mi faceva compagnia”. Confesso che la mia risposta è stata alquanto incisiva.
(racconto pubblicato su www.guardian.co.uk/lifeandstyle/2009/aug/08/blind-motherhood-disability; traduzione a cura di Stefano Fait)

7. Tra prove, aiuti e conquiste

Valérie ha due figli, di quattro e sette anni, e vive da sola con loro.
Nei primi sei anni, mio marito era ancora vivo. Lui ci vedeva, per cui alcune faccende erano facilitate dalla sua presenza. Ad esempio, per assicurarmi che i vestiti dei bambini fossero adatti, o coordinati armoniosamente, mi bastava chiedere a mio marito, che poteva rispondermi in qualche secondo senza interrompere la sua attività.
La differenziazione dei ruoli tra me e lui era sicuramente legata alle nostre competenze, ma anche alla mia cecità. Era lui che guidava la macchina, che tagliava le unghie ai bambini, che correggeva i compiti (soprattutto l’ortografia), che apprezzava i disegni.
Oggi devo avere un’organizzazione molto rigorosa: approfittare della presenza delle persone vedenti per ottenere quelle informazioni che i miei occhi non possono darmi.
Ho una persona che mi aiuta un’ora al giorno, la chiamo il mio “aiuto educativo-visuale”. Lei mi assicura che i quaderni di scuola mi sono stati letti bene; fa coi bambini delle attività più visive come i disegni, la pittura, i collages, ecc.; mi aiuta a compilare i documenti amministrativi; verifica la sistemazione dei giocattoli; legge dei libri che non possono essere ritrascritti in Braille; mi mette al corrente se i bambini hanno qualche reazione allergica alla pelle, o comunque di quello di cui non potrei accorgermi da sola.
Preciso che io svolgo un lavoro a tempo pieno, che i miei figli seguono delle attività sportive e culturali, che si sono adattati molto presto al mio handicap, ad esempio mi aiutano a identificare i prodotti nei supermercati.
Tuttavia, ho passato una fase di rigetto del mio handicap. A volte mi si mette alla prova, come se gli altri volessero vedere fino a che punto mi rendo conto di cosa fanno i miei figli nonostante il mio deficit. I miei amici mi segnalano alcuni comportamenti “non udibili” in modo che io possa aiutare i miei figli a correggerli. Ad esempio a tavola, se si puliscono la bocca con la manica della maglietta piuttosto che con il tovagliolo. Percepisco delle cose in ritardo, è vero, e a volte questo infastidisce i vedenti. Ad esempio se un bambino sparpaglia del cibo sulla tavola, una persona che ci vede può subito rimproverarlo di sporcare. Io invece me ne accorgo solo al momento di sparecchiare.
Ad ogni modo la cecità non esclude di poter essere una madre che si assume tutte le sue responsabilità. Questo richiede degli adattamenti a volte semplici, a volte complessi, ma si tratta di azioni che noi non vedenti siamo abituati a fare, sia che siamo genitori o no.
(racconto apparso sul sito svizzero dedicato alle persone non vedenti www.blindlife.ch; traduzione di Valeria Alpi)

6. Si può perdere la vista ma non lo sguardo: la fase dell’allattamento

Nell’ambiente della maternità, il deficit visivo suscita sempre una reazione emotiva violenta. Come si possono immaginare, apprezzare le esperienze umane e in particolare la maternità senza la visione? Come immaginare che una madre non possa vedere il viso di suo figlio?
Diventare madre quando si ha un deficit visivo vuol dire innanzitutto esporsi a una colpa sociale.
Del resto il significato inconscio della cecità è legato al peccato, alla trasgressione del divieto (Edipo diviene cieco dopo aver sposato sua madre e ucciso suo padre).
Per noi che vediamo, le immagini visuali, più che gli altri sensi, generano la maggior parte delle nostre emozioni e delle nostre repulsioni. L’occhio è l’organo della seduzione, è la sede di molteplici scambi silenziosi e di numerosi fantasmi.
La visione permette l’apprendimento a distanza del mondo, l’accesso alla curiosità, al sapere. L’assenza della visione è l’inimmaginabile che inquieta i vedenti, quelli che pensano a torto di non essere riconosciuti, quelli che non sanno in che modo entrare in contatto o aiutare le persone con deficit visivi.
Se si limita l’attaccamento umano solo a delle esperienze visuali, se si dà importanza solo alla visione senza dissociarla dallo sguardo, sicuramente faremo molta fatica a comprendere la natura dei legami madri/figli.
La madre non vedente che allatta il suo bambino sviluppa delle strategie che non faranno di lei una partecipante solo passiva all’azione di nutrimento.
Il suo viso traduce la sua emozione interiore, è mobile, lei sa sorridere, sa emettere delle vocalizzazioni differenziate.
Il suo sguardo è carico di affetto, poiché lo sguardo è la dimensione affettiva della visione.
Si può perdere la visione, ma non si perde mai lo sguardo. Esso è sempre guidato dal suono, dall’intuizione, dalla massa corporea.
Capita a volte che certe madri non guardano. È lì allora che interviene il nostro ruolo, per insegnare loro a guardare. Poiché non è facile rifare qualcosa che è stato loro proibito fin da quando erano piccole. È il caso di Bouchera, per esempio, una mamma magrebina, alla quale sua madre e la sua famiglia hanno sempre raccomandato di chiudere gli occhi o di abbassare la testa perché i suoi occhi non erano belli…
Il modo in cui il bambino è portato in braccio, il modo in cui è manipolato, il modo in cui la madre gli dà il seno o il biberon, determina la qualità del ruolo materno. Questa qualità l’ho spesso trovata nelle madri non vedenti.
Se noi non ci fidassimo del fatto che un riequilibrio sensoriale permette alla mamma non vedente una percezione molto fine dei bisogni di suo figlio, e se non trasmettessimo a queste donne tale fiducia, il pensiero “operativo” e il pensiero “simbolico” della madre sarebbero gravemente compromessi. La madre che non vede si auto-analizza molto, si auto-critica in base a delle proprie referenze, ma questa analisi è spesso fonte di sofferenza, manca l’ascolto da parte degli altri e uno sguardo benevolo verso se stessa. Per la mancanza di insegnamenti appresi anche dalla semplice visione di altre madri, i giudizi che la madre non vedente va a elaborare su se stessa sono spesso negativi.
Nonostante l’immagine idilliaca dell’allattamento sia presente in un’abbondante iconografia e descritta in letteratura, alcune madri non vedenti si rifiutano di allattare al seno, proprio perché è inconcepibile per loro la rappresentazione dell’allattamento materno. Bisogna allora convincerle con frasi un po’ rudi: “Come pensate allora di fare, visto che non ci vedete, a preparare il biberon?”.
È violento colpevolizzare le madri che non vogliono o non possono allattare? È crudele stigmatizzare il loro deficit ponendo l’accento sulle difficoltà materiali? Forse, ma si dovrebbe anche pensare a tutto l’investimento che la madre deve mettere in atto per scegliere il materiale necessario alla “confezione” di un biberon.
Ad ogni modo quello che emerge è che il biberon, dallo status di cosa, passa allo status di oggetto caricato di emozioni tattili.
Sia che si allatti al seno, che col biberon, la percezione tattile è sempre presente: la mano libera accarezza, palpa con tenerezza il viso del neonato alla ricerca della bocca. Inoltre la madre è particolarmente attenta ai diversi suoni della poppata: sa distinguere perfettamente la deglutizione, il rigetto, i rumorini d’aria, le fuoriuscite di latte. Anche la valutazione del peso informa sulla necessità di frenare un bambino troppo goloso.
Queste attenzioni vengono accompagnate da un “involucro” fatto di vocalizzi teneri e che infondono sicurezza al neonato.
Diderot diceva “Le persone cieche illuminano il nostro sguardo”, io dirò modestamente che le madri non vedenti illuminano meglio la mia visione interiore e il mio pensiero.
(traduzione a cura di Valeria Alpi)

5. Alcune specificità: dal bambino immaginario al bambino reale

I primi testi di psicanalisi insistono sull’importanza dell’immagine visuale non solo per la costruzione del pensiero e della curiosità, ma per tutto il processo di identificazione. È un’immagine visuale quella che il bambino scopre nello specchio e che anticipa, secondo Lacan, la dialettica dell’essere e dell’avere che è alla base del suo essere soggetto.
“L’occhio come specchio dell’anima”, si dice spesso. Questa metafora di Leonardo da Vinci ci porta a descrivere quello che la persona che vede sente quando guarda il viso della donna non vedente: ha l’impressione di non avere accesso al pensiero intimo o profondo dell’interlocutore, come se non fosse possibile “vedere dalla finestra ciò che succede all’interno”. Questa impressione è aggravata quando esiste una malformazione agli occhi o alle orbite, quando la cornea è opaca, ecc. Le persone non vedenti devono ricevere un’educazione per disfarsi di alcuni gesti stereotipati e per apprendere a guardare in faccia l’interlocutore.
Questi elementi sono da prendere in considerazione durante la presa in carico delle madri non vedenti, proprio in virtù dell’importanza degli scambi di sguardi nella relazione madre/figlio.

Cosa succede nella madre con deficit visivo privata delle immagini di suo figlio, e nel figlio che non riceve in cambio dalla madre la conferma del suo proprio sguardo? In che modo, dopo la nascita, si stabilirà lo scambio strutturante dello sguardo della madre che vede quello di suo figlio? In che modo questa relazione, descritta come fondamentale per le basi psicofisiche del bambino, sarà sostituita e amplificata quando uno dei due partner della diade madre/figlio non ci vede, o entrambi non ci vedono?
I lavori di ricerca in questo campo così specifico sono molto rari, anche se esiste una letteratura molto importante sul deficit visivo. Il fatto è che la maggioranza dei testi trattano di ricerche su diadi dove solo il figlio ha un deficit visivo.
Esistono due momenti molto importanti nel percorso gravidanza, dove la vista è elemento essenziale: l’ecografia e l’allattamento. Sull’allattamento dedichiamo un paragrafo a parte. Sull’ecografia vanno fatte alcune semplici considerazioni, forse banali, ma questa tappa ormai costante quando si affronta una gravidanza crea numerose difficoltà alle donne non vedenti.
Per le madri vedenti, questa tappa è fondamentale nel processo di “maternalizzazione”: è il primo incontro tra il bambino immaginario e il feto reale, prefigurazione del futuro bebé.
Per la madre non vedente, tutto questo si trova ribaltato dall’assenza di immagini visive. Il ruolo esplicativo di colui che esegue l’ecografia si trova accresciuto.
Una componente dell’équipe di Edith Thoueille ha elaborato delle tavole anatomiche in rilievo che permettono l’esplorazione tattile. Sono così spiegati l’utero e tutto il suo contenuto: l’embrione, la placenta, il cordone, ecc. Tutte le tappe della gravidanza sono così presentate all’esplorazione delle future mamme. Sono in corso di realizzazione delle altre tavole anatomiche che riprodurranno l’immagine dell’ecografia, cioè lo sviluppo dei vari organi e del bambino, in modo da permettere una conoscenza tattile di quello che si vede nello schermo. Queste tavole potranno essere utili anche alle mamme vedenti.
I sogni delle donne non vedenti dalla nascita hanno alcune particolarità: “lo schermo del sogno” non è visuale, e non è neppure nero, e le figure del sogno non sono visive. Tutte le caratteristiche del sogno sono costituite da altre impressioni: olfattive, gustative, acustiche, ecc. Alla domanda di descrivere un sogno, non si ottengono né delle immagini né un racconto dello sviluppo visivo delle azioni, ma un insieme di parole, metafore, sensazioni, senza descrizioni.
Segnaliamo che il nero è un colore e che è impossibile tradurre col linguaggio dei vedenti l’assenza di immagini.
Presso l’Istituto di Edith Thoueille è stata indagata la rappresentazione nelle donne del loro bambino immaginario. Nelle madri vedenti, essa è costituita per la maggior parte da immagini visuali. Inoltre sia prima che durante la gravidanza, il bambino immaginario suscita numerose immagini che saranno sempre evocate anche dopo la nascita. Per le madri non vedenti invece? Se la cecità è acquisita, la mamma non vedente può utilizzare delle immagini per costruire questo bambino immaginario, ma per chi è cieca dalla nascita la questione è completamente diversa. Le immagini vengono elaborate a partire dai contatti che si sono avuti in passato con altri bambini, e spesso il bambino immaginario viene costruito come un bambino che ha già due o tre anni.
La nascita marca la linea di confine tra il bambino immaginario e la realtà del bebé. La madre che non dispone immediatamente di tutte le informazioni su suo figlio reale, cosa che consente invece la vista, deve costruire poco a poco il suo bambino attraverso diverse strategie di esplorazione: sentire, leccare, palpare, valutare col tatto la sua morfologia, il suo peso, la sua taglia, i suoi contorni. Per questo motivo occorre concedere una certa proroga in sala parto, in modo che la madre possa imprimersi tutte le caratteristiche fisiche di suo figlio, compreso il suo sesso, se questo non è stato rivelato durante l’ecografia. Una stretta collaborazione tra le équipe della sala parto deve permettere di rispettare questo tempo necessario alla scoperta, che sfugge alla nostra rappresentazione e comprensione classica della maternità.

La vita del bambino
Lo svezzamento costituisce nelle madri e nei bambini un tempo chiave di aggiustamento reciproco della distanza di sicurezza, ma questa prova è nettamente amplificata nella madre non vedente. Per lei, l’acquisizione della motricità da parte del figlio è un secondo svezzamento perché le fa perdere il contatto col bambino.
Si commette un errore quando si crede che il bambino sia solo con sua madre, quando invece vive a contatto con altri adulti vedenti. Questa situazione, riscontrata nel periodo infraverbale, lo porta a stabilire un “bilinguismo”. Quest’ultimo si stabilisce senza dubbio dal confronto con le cure e le interazioni di altri membri della famiglia (nonna, zia,…), vicini di casa o professionisti della crescita, o consulenti. Se il padre è vedente, questo confronto inizia molto presto.
Il bambino seleziona molto presto i gesti e i comportamenti propri della comunicazione con sua madre, una specie di lingua materna. In un secondo tempo, comprende la “intenzionalità” del gesto materno, e può aiutarlo e guidarlo.
L’opposizione può manifestarsi sotto forma di rifiuto nell’aiuto apportato alla madre. È in questi momenti che il bambino “si nasconde” nel silenzio. La volontà di testare i limiti dell’handicap della madre diventa manifesta.
Importante per il bambino è anche il ruolo di interesse che riveste il comportamento materno sugli oggetti e i giochi durante il primo semestre. In quei mesi infatti il bambino comincia a condividere il suo interesse tra uno sguardo per l’oggetto e una verifica visuale sul viso della madre. Una madre non vedente non fornisce sufficienti elementi informativi agli sguardi che il bambino le riversa. Bisogna dunque prendere in considerazione il fatto che lui continua, malgrado tutto, a gettare colpi d’occhio come sguardi di rassicurazione, che sarebbero la base del contatto di cui ha bisogno per proseguire nelle sue esplorazioni del mondo.

Una annotazione particolare: la depressione del cane
L’osservazione ha permesso di notare come spesso la nascita di un bambino porti il cane guida della madre non vedente a una sorta di depressione. Questa depressione si traduce in una domanda eccessiva di attenzioni e di carezze, e in un rallentamento delle attività del cane. Questa depressione viene mal sopportata dalla madre che è totalmente assorbita dal figlio. Allo stesso tempo, lei continua ad aver bisogno, per la sua autonomia, di ciò che le apporta il cane, che però, come reazione emotiva, fallisce nel suo ruolo di guida.
Ormai le scuole dei cani-guida hanno stabilito una politica di prevenzione che permette dei “riaggiustamenti” prima e dopo la nascita del bambino. Questo intervento di specialisti deve essere previsto e far parte dell’azione psicosociale in favore della maternità delle donne non vedenti. Soprattutto perché questa triade (donna/cane/bambino) ha delle specificità completamente diverse dal vissuto abituale di una famiglia dove coesistano bambino e cane.

Le donne di Edith

Marion Van Renterghem è giornalista per “Le Monde”. Si è occupata di conoscere e seguire alcune giornate di madri non vedenti che si rivolgono all’Istituto di Puericultura di Parigi, e sono seguite da Edith Thoueille.

Ci sono delle abitudini che resistono a tutto, non c’è che dire. Da quando Jacques e Chabba hanno perso la vista, a causa di una retinite pigmentosa, hanno continuato ad accendere le luci. Un piccolo colpo sull’interruttore una volta aperta la porta di casa, entrando in cucina, andando in bagno, e ogni volta non c’è dubbio che la rispengano. Quando comincia a farsi sera, accendono l’abat-jour del salone. “Sapere di essere al buio, a un orario come questo, ci metterebbe di cattivo umore”, dicono.
Nadia, la loro figlia, spunta correndo nel salone. Suo padre è andato a prenderla a scuola. Lei salta subito al collo di sua madre, si mette a fare delle coccole al suo criceto, poi si siede a tavola ed estrae i quaderni di scuola dalla cartella. Sua madre ci tiene a raggiungerla, e in fretta. Perché per Nadia si tratta di un vero rituale fare i compiti con sua madre. “È la prima della classe”, dichiara Chabba. Sospiro infastidito di Nadia: “La seconda, mamma”. Ed eccole faccia a faccia, ciascuna da un lato del tavolo, molto concentrate.
“Allora cosa abbiamo? Hai dei verbi coniugati?”
“Sì, bisogna mettere l’infinito”.
“Allora, mi dici la frase?”
“Aspetta mamma, scrivo e poi ti dico. Ecco: ‘Egli riflette’, verbo infinito riflettere”
“Sì, esatto”.
Quando sarà grande, Nadia difenderà le cause delle persone cieche. Cosa inventerà per semplificare loro la vita? Nadia esita. “Che l’autista dell’autobus annunci le stazioni. E anche, quando si va a far la spesa, che le persone siano più gentili”. Chabba sorride dolcemente. Non far pesare la loro situazione di deficit visivo sulla loro figlia è la preoccupazione costante di Jacques e Chabba.
Contro tutto e tutti hanno avuto una figlia. Contro il parere della famiglia di Jacques, non intenerita da una giovane e bella donna che però accumulava dispiaceri: era al contempo disabile e algerina. Contro le loro innumerevoli apprensioni. Alla fine hanno avuto un bambino come migliaia di altre persone cieche (sono circa 60.000 in Francia, e oltre un milione le persone ipovedenti, ma il numero delle madri è impossibile da stabilire).

Prima della nascita, le madri cieche sono inquiete e disarmate, come l’era Chabba. Sapranno fare il bagno al bebé senza annegarlo? Trasportarlo senza farlo cadere? Dare le medicine senza sbagliare le dosi? Dargli il biberon senza affogarlo? Portarlo al parco senza che scappi?
Alla fine si sono scambiate un passaparola: “Vai all’Istituto di Puericultura di Parigi, là c’è una donna che pensa a noi”.

Queste donne, avendo paura di sbagliare, non sanno di sapere fare le cose. E invece sanno. E guardano. Sanno riconoscere il loro figlio tra mille.
“È difficile da spiegare – dice Delphine – ma io vedo bene quando lui gira lo sguardo verso di me”. Delphine ha avuto tre figli. Quando vanno insieme al museo, “loro mi raccontano i quadri, io li commento. Le loro descrizioni sono molto precise”. Su questo fatto, Edith Thoueille, ha imbastito una piccola teoria personale, non scientifica. I figli di madri cieche verbalizzano meglio e prima. Sono bambini che imparano prima a sbrigarsela da soli, probabilmente perché le madri, non vedendo gli sforzi che fanno ad esempio per afferrare un oggetto, non accorrono subito in loro aiuto.

Al tempo stesso questa può essere un’arma a doppio taglio. La piccola Clara ha imparato infatti ad appena tre anni che può commettere qualche marachella restando invisibile. “Quando le chiedo cosa sta facendo, e lei mi risponde ‘Non lo so’, posso essere certa che sta facendo qualcosa di proibito”, racconta Anne, sua madre. “L’altro giorno ha dipinto il cane”.
Ora se ne sta in silenzio, io la vedo bene, sta cercando di vuotare il sacchetto di crocchette e darle al cane, il quale trova un evidente interesse a non dare l’allarme. Anne guarda sua figlia, le sopraciglia corrugate.
“Cosa fai Clara?”
“Non lo so”.
“Lo sai che non bisogna dare le crocchette a Jodie?”
“Sì, lo so”.
Siamo andati a prendere Clara a scuola. Si è precipitata verso sua madre con la sua aria birichina. “Mamma, guarda!”, ha detto senza aspettare, mettendo intanto un sacchetto in mano a sua madre e spiegandole il contenuto.
Le mamme cieche raccontano tutte la stessa cosa: ancora prima di comprendere che esse non vedono, i loro figli compensano in modo istintivo il loro handicap. Si avvicinano alla bocca il cucchiaio che esse tendono nel vuoto in maniera imprecisa. Per loro, “far vedere” significa mettere in mano, fare toccare. E non hanno bisogno di diventare grandi per sapere che questi gesti, riservati alle loro madri non vedenti, sono inutili con le persone vedenti.

In un piccolo appartamento di Belleville, Najat racconta la sua storia. Per terra, Mélodie fa dei versetti. Angélique, la figlia maggiore, è a scuola. Najat ha perso la vista quando era piccolissima. Dice che è una fortuna non avere la nostalgia di visioni che comunque non si hanno. Ha 41 anni, e le piace vestire in maniera appariscente. Non le piace ascoltare i consigli o i rimproveri di sua figlia (“Sei brutta così, mamma”), e ha delle idee tutte sue sulle forme e sui colori. “In questo momento, vai a sapere il perché, non sopporto il blu cielo”. A Casablanca, dove è nata, la sua famiglia non le ha mai perdonato di essere donna, e di essere cieca. Sua madre sognava che la Francia fosse un paradiso dove nessuno era malato né disabile. Quando la famiglia è migrata in Francia, Najat era la loro vergogna e la tenevano nascosta. È stata un’assistente sociale che ha obbligato i suoi genitori a mandarla a scuola, lei aveva già quasi 12 anni. “Angélique e Mélodie mi hanno riconciliato con la società. Le persone del quartiere sono gentilissime con me, grazie a loro. Anche la mia famiglia mi chiama ora per chiedermi dei consigli. Senza le mie figlie sarei rimasta trasparente”. Unico cruccio, espresso timidamente, così, en passant: “Il primo sorriso di mia figlia, è l’assistente sociale che l’ha visto. Lei sorrideva e non ero io che la vedevo. Si può anche dire che si fa l’abitudine a tutto, ma non è vero”.

(traduzione a cura di Valeria Alpi)

La maternità “visionaria”

Edith Thoueille è puericultrice e responsabile del Centro Protection Maternelle et Infantile (PMI) di Parigi, inserito all’interno del tradizionale Institut de Puériculture et de Périnatalogie (IPP). All’interno del PMI, Edith ha inoltre istituito da oltre vent’anni il Service Périnatal d’aide à la parentalité des Personnes Handicapés (SPPH), specializzato nell’aiuto alle future mamme non vedenti.

La creazione del servizio di accompagnamento SPPH presso il Centro Protection Maternelle et Infantile di Parigi risale al 1986, quando una puericultrice del settore ci ha indirizzato Anne, una mamma non vedente dalla nascita, e sua figlia, indenne dal deficit visivo. Come potevamo aiutare questa giovane mamma? Ingenuamente cercai di chiudere gli occhi per tentare di immaginare un nero infinito… la cecità. La mia reazione di allora, legittima in quel momento, oggi mi fa sorridere: il mondo di Anne non è in nero, del resto lei non sa cosa questo colore rappresenta, non ha mai visto i colori, il nero come il rosso. La nostra ignoranza sull’handicap era totale!
Abbiamo preso quindi contatto con l’Associazione Valentin Haüy e la nostra interlocutrice, Claudette Saonit, consulente in gestione sociale e familiare, felicissima di questo nostro passo, ci invitò a incontrare alcuni genitori. Ogni coppia ci raccontò la propria storia: dal desiderio di un figlio, al vissuto della gravidanza, alla nascita. Alcuni racconti erano strazianti: al di fuori dello spazio associativo, queste persone vivono la realtà della solitudine e della incomprensione. Niente viene loro risparmiato. Una giovane donna ci confidò la sua tristezza nel vedere associata la sua cecità a un deficit intellettivo. Isabelle viveva male la scarsa conoscenza che hanno le persone vedenti dei suoi bisogni, ma anche delle sue gioie: “Si può essere ciechi e felici, il nostro handicap l’abbiamo addomesticato da parecchio tempo”. Chaba, molto in collera, diceva che non sopporta che quando si trova nei negozi e pone delle domande, i commessi rispondono alle persone che l’accompagnano: “Non sono sorda, possono parlare direttamente con me!”.
Dopo questa riunione, abbiamo deciso di ritrovarci una volta al mese presso l’Istituto di Puericultura, per affrontare differenti temi, come lo sviluppo psicomotorio del bambino, soffermandoci soprattutto sull’importanza del sorridere rivolti al bambino, del toccare, della voce, dell’allestimento colorato dello spazio.
Una mamma cieca è capace di “accarezzare” con gli occhi il suo bambino.
Le stesse madri sottolineano molto bene questa nozione dello sguardo, quando come Giselle dicono: “Quello che apprezzo di più qua all’Istituto è il fatto che mi si guardi”.
Si contano in Francia circa 60.000 ciechi e un milione di persone ipovedenti; a partire da queste cifre è impossibile determinare il numero di adulti che sono diventati genitori o che potenzialmente potrebbero diventarlo. Creando questi incontri, noi pensiamo principalmente a rispondere a delle questioni pratiche. Non per sostituirci ai genitori, ma per cercare insieme la soluzione più adatta alle aspettative di ciascuno.

Puericultura adattata
Per realizzare tutto ciò abbiamo utilizzato tutti i supporti possibili:
–    testi riscritti in Braille (questo non è possibile per tutti i temi, essendo la ritrascrizione troppo voluminosa: per una pagina di scrittura normale occorrono infatti quattro pagine in Braille);
–    registrazioni audio dei vari temi come la prevenzione degli incidenti domestici;
–    video con audio commento;
–    calibrazione delle siringhe;
–    preparazione delle etichette in Braille;
–    adattamento dei giocattoli affinché i genitori partecipino direttamente alle diverse scoperte fatte dal bambino;
–    preparazione del “buon” e del “cattivo” corredino, al fine di evitare gli indumenti che presentano troppi lacci da manipolare per preferire il velcro o i bottoni a pressione;
–    consigli per l’allestimento dello spazio del bagno e del fasciatoio.

Per ogni donna che inizia una gravidanza proponiamo anche delle sessioni di “puericultura adattata”. In media sei sessioni di tre ore, cui si aggiungono due sessioni di preparazione all’allattamento, e una sessione di manipolazione dei diversi materiali (biberon, sterilizzatore, misurini per il latte in polvere, ecc.), e infine una sessione per imparare a portare la fascia porte-enfant. In totale dieci sessioni di puericultura adattata, ripartite prima della nascita del bambino e seguite anche dopo l’arrivo del bambino.
Inoltre la dimostrazione di alcune cure in una sorta di svolgimento a tre (il bambino, la mamma e la puericultrice).
C’è stato bisogno di micro-analizzare attentamente tutti i nostri gesti per poterli meglio descrivere e trasmetterli.

In queste dimostrazioni, la futura madre prende coscienza di quello che può fare per acquisire una certa autonomia, e anche limitare così la differenza che sente rispetto a una madre che vede. Dobbiamo quindi essere in grado di darle gli strumenti perché riesca a fare questo passaggio.
Di solito si tratta di strumenti molto pratici, ma certe volte ci capita di dover convincere queste madri, con dolcezza, dell’irrealismo di certi desideri, come per esempio voler spingere un passeggino sui marciapiedi. Durante queste sessioni cerchiamo di far accettare alle madri i propri limiti. In casi più seri ricorriamo al versante della psicoterapia con dei nostri esperti.

Le nostre conoscenze si basano sulla pratica del gruppo di auto-aiuto delle madri e dei genitori non vedenti. Il gruppo è composto da una quindicina di famiglie che si incontrano ogni mese per due ore. All’interno partecipano anche, quando possono, i parenti vedenti o non, e i bambini appena nati o che devono nascere (certe donne partecipano durante la gravidanza). I cani sono accucciati in mezzo o nelle vicinanze. Spesso ci sono anche degli ospiti invitati, come gli accompagnatori o altri specialisti dell’handicap.
 
Ci sono anche capitati vari aneddoti, e abbiamo avuto situazioni inconcepibili in altri reparti tradizionali. Ad esempio immaginate nella stessa camera, e nello stesso tempo, i due genitori, il neonato e… due labrador!
Le nostre équipe si sono adattate ad avere la stessa qualità di relazione tra mamme “tradizionali” e mamme non vedenti.
Qua non ci poniamo tanti problemi se la testina del biberon va a finire un po’ troppo vicina all’orecchio del neonato, né sgridiamo la mamma se tocca con le dita la testina del biberon. Il servizio di dietologia informa le madri sui metodi di sterilizzazione più appropriati, sulla scelta del biberon, della testina, ecc. Per quelle madri che non desiderano allattare (ma sono casi rari), sollecitiamo i laboratori per ottenere del latte liquido e non in polvere.

Nel nostro Istituto, la dottoressa Marie Anne Lepez, pedopsichiatra, ricevendo precocemente le future mamme, le aiuta anche a formulare tutte le paure e inquietudini derivate dal conflitto del desiderio di essere “una madre ideale”, a gestire gli effetti dolorosi che derivano dal ricordo di una infanzia fatta di dipendenza, a resistere ai commenti violenti e che feriscono della famiglia e dell’entourage in senso largo.
Nella maggioranza dei casi, da quando una donna cieca annuncia ai suoi cari di essere incinta, si espone a una serie di commenti devalorizzanti: “Come farai? Non ce la farai mai! E se tu trasmettessi il tuo deficit al bambino? Quando si è già ciechi, perché complicarsi ulteriormente la vita con un figlio?”.
Alcune colleghe, animate dal nostro stesso spirito, si sono rese disponibili all’ascolto, non esitando ad assicurare l’accompagnamento di queste madri dove si rivela necessario, e a preparare il ritorno a casa affinché sia realizzato nelle condizioni più adeguate possibili.
Il bagno, momento di piacere condiviso tra la madre e il bambino, può diventare un vero incubo per una mamma cieca. L’allestimento del bagno e della cameretta deve essere fatto prima della nascita sia dalla nostra équipe sia dalla puericultrice del settore.
La difficoltà di prendersi cura è tale, proprio per il deficit visivo, che anche l’uso delle parole con loro diventa difficile.
Banalizzare l’handicap di queste madri non è il mio obiettivo, perché esso rende quotidianamente la loro vita più complicata della nostra: il mondo è stato predisposto per degli individui che vedono. Ma nonostante tutto, mi piace considerarle come delle visionarie, che hanno la loro maniera specifica di guardare il mondo e il loro bambino, e soprattutto di arricchire coloro che le guardano e sanno ascoltarle con un’attenzione particolare.

(traduzione a cura di Valeria Alpi)

Per saperne di più sul Centro Protection Maternelle et Infantile (PMI) di Parigi:
www.ipp-perinat.com

 
 

2. L’immagine collettiva della donna disabile con figli

Il desiderio di occuparmi di maternità di donne con deficit è sempre scaturito per me dal fatto che esiste una produzione molto ampia sul tema della genitorialità, ma ci si riferisce sempre a genitori normodotati che hanno figli disabili. Di libri su questo tema ne vengono scritti continuamente, ma quasi nulla esiste invece sul tema opposto, cioè su genitori disabili che hanno o desiderano dei figli.
Il mio desiderio non è solo provare a coprire questa lacuna, per quanto è possibile, e con tutti i limiti del caso, ma fornire anche dei consigli.
Nei primi tempi del mio lavoro, cinque anni fa, mi capitò di chiedere consigli a varie persone che lavorano nel campo della disabilità. Dato infatti che non trovavo materiale sul tema, cercai consigli in chi lavora nel settore da molto più tempo di me. E ogni volta che raccontavo il mio progetto sulle madri disabili, mi veniva risposto che dovevo cambiare idea, perché l’idea che volevo realizzare era troppo macabra. Perché io volevo raccontare anche le varie azioni quotidiane di una mamma, quindi come sollevare il figlio, come fargli il bagnetto, come allattarlo, come metterlo nel lettino, ecc. E volevo raccontare le difficoltà di una donna disabile a compiere queste azioni e le possibili soluzioni. Ma secondo molti era un modo di raccontare macabro. E mi dispiace che questo aggettivo provenisse proprio da chi lavora nella disabilità.
Quando poi iniziai a realizzare le interviste (la prima monografia si era basata infatti sulle interviste dirette a mamme disabili con deficit motori), mi capitava di raccontarle ad alcuni colleghi o a persone che si occupano di disabilità, e quando raccontavo che queste donne avevano trovato, dopo varie difficoltà, un punto di equilibrio nel rapporto mamma/figlio, mi veniva risposto: “Si vedrà quando il bimbo sarà più grande, quando i compagni di scuola lo prenderanno in giro perché ha la mamma disabile, quando per lui avere una mamma disabile sarà un peso”. Anche qui rimanevo stupita che affermazioni simili provenissero da chi lavora nell’handicap. Soprattutto mi spaventavano un po’, perché si davano per scontati dei meccanismi causa-effetto come: disabilità della mamma = peso per il figlio. E si sa che meccanismi mentali simili sono poi quelli che generano i pregiudizi. Tra l’altro, come ripeto sempre, il fatto di vivere su di sé una diversità o di occuparsi di una diversità, non salva dai pregiudizi su altre diversità. Devo ammetterlo, io stessa avevo pregiudizi per le mamme non vedenti: occupandomi di disabilità motoria, davo un po’ per scontato che tutto sommato le madri non vedenti avessero meno problemi nell’accudimento del figlio. Il che è assurdo, perché una madre che non vede ha ovviamente delle difficoltà notevoli. Pensavo che il tatto potesse bastare finché il neonato è piccolo, mentre una donna con deficit motorio può avere tutta una serie di problemi a sollevare il bambino, o a cambiarlo, o a vestirlo. Pensavo che una madre non vedente avesse più problemi quando il figlio diventa più grande, quando corre e può sfuggire al controllo. Devo davvero ringraziare Edith Thoueille per avermi fatto comprendere nei più minimi dettagli cosa significa essere una madre non vedente e quali ripercussioni ha sul bambino. Per avermi fatto comprendere la delicata fase dell’allattamento, da me – ignorante del deficit visivo – decisamente sottovalutata. Sono contenta di avere potuto, grazie a lei, aggiungere un altro tassello al tema della maternità delle donne disabili.

Limiti fisici, psicologici, sociali
Passando ai contenuti, posso dire che attraverso le interviste realizzate all’epoca, erano state individuate tre categorie di limiti che possono ostacolare o comunque influenzare la maternità, sia nel momento precedente, cioè quando ancora c’è solo il desiderio di un figlio, sia durante la gravidanza vera e propria, sia nel post partum quando la donna viene dimessa dall’ospedale e si trova a casa ad accudire un neonato.
Le tre categorie di limiti sono di tipo fisico, psicologico e sociale. Li riprendiamo anche qua, perché a parte alcune piccolissime differenze per quel che riguarda ad esempio le barriere architettoniche, i discorsi fatti per le donne con deficit motorio valgono anche per quelle con deficit visivo.
Per quanto riguarda i limiti di tipo fisico, ci possono essere ovviamente dei problemi di salute che potrebbero compromettere la gravidanza. Come ci potrebbero essere delle malattie trasmissibili geneticamente, ma qui si entra in scelte etiche sui cui non mi sento di esprimere giudizi. Ma come limiti fisici intendo anche il tema delle barriere architettoniche. Ovviamente per la donna con deficit visivo non si tratta per esempio dell’impossibilità a salire sul lettino ginecologico, ma anche per lei esistono numerose barriere architettoniche, date soprattutto dall’impossibilità di orientarsi nei reparti ospedalieri. Anche la stanza in cui si soggiorna prima e dopo il parto può rappresentare un luogo scarsamente accessibile per chi non vede. Edith Thoueille fa inoltre notare che per la donna non vedente esistono dei tempi diversi, tempi che un reparto di maternità deve tenere in considerazione. Ad esempio permettere alla donna di avere più tempo, subito dopo il parto, di esplorare il bambino con le mani. Il personale medico e paramedico di solito non è preparato ad accogliere donne con disabilità. Le barriere architettoniche possono poi ritrovarsi anche in casa, quando la mamma viene dimessa col piccolo. Possono infatti esserci esigenze di adattamenti per quanto riguarda la cura del figlio: quindi per esempio adattare il fasciatoio, organizzare la cameretta del bambino in un certo modo, ecc. Per le mamme non vedenti occorrono anche tutta una serie di adattamenti tattili.
Per quanto riguarda i limiti psicologici, la donna disabile può avere tutta una serie di paure e tabù sul proprio corpo e la propria sessualità. Inoltre l’immagine collettiva è quella di una donna abile a prendersi cura del figlio, e la donna disabile può sentirsi non abile in questo senso.
Infine c’è il problema della propria autonomia. Nel senso che una donna disabile nel corso della vita può avere acquisito determinati spazi di autonomia per se stessa, ha imparato a convivere col proprio deficit. Mentre può risultare molto faticoso scoprire che l’autonomia che si è acquisita per se stesse non è più valida in relazione a un figlio. Mi spiego meglio: in relazione a un figlio – che è una persona totalmente dipendente da altri – la donna disabile può scoprirsi non autonoma nei gesti in cui prima era autonoma, e quindi deve compiere una rielaborazione di se stessa e del proprio essere.
Infine, per quanto riguarda i limiti sociali, molte delle donne raccontano che i genitori hanno reagito molto male quando hanno rivelato loro: “Sono incinta”.
Per i genitori di figli disabili, i figli restano sempre “piccoli”. Questi genitori fanno fatica a percepire i figli disabili come adulti, e quindi scoprire che la propria figlia diventerà a sua volta madre li mette davanti all’obbligo di dover accettare l’adultità della loro “piccola”. Inoltre sembrano aver paura di dover sviluppare strumenti di protezione doppia: prendersi cura della propria figlia disabile e dei suoi figli. I genitori, ma soprattutto la società in genere, l’entourage (vicini di casa, amici, colleghi di lavoro, ecc.) non sono preparati all’idea di una donna disabile con figli e soprattutto il fatto che una donna disabile voglia un figlio viene considerata un po’ una follia.
In generale mancano nella società delle immagini culturali di riferimento, non c’è l’immagine collettiva della donna disabile con figli.
E anche per le donne disabili mancano dei modelli di riferimento.
Vorrei aggiungere una cosa: quando scrissi la prima monografia, la intitolai “Mamme”. Mettendoci un punto dopo la parola mamme e aggiungendo “Nessun aggettivo dopo il punto”. Questo per dire che non volevo per forza porre l’accento sulla disabilità come a dire: queste donne ce l’hanno fatta nonostante il deficit. Non volevo vittime o eroine come di solito vengono descritte le persone disabili nei mass media. Volevo che queste donne si raccontassero, come mamme, e basta.
Nello stesso tempo però, per poter procedere in questo ambito, per poter continuare a lavorare sul tema delle madri disabili e magari un giorno arrivare anche in Italia a costituire qualcosa di analogo ai modelli esteri, bisogna anche considerare il deficit. E avere quindi delle attenzioni particolari in relazione proprio alla disabilità, che non va negata.

1. Introduzione

Essere mamma non è un mestiere. Non è nemmeno un dovere. È solo un diritto tra tanti diritti.
(O. Fallaci, Lettera a un bambino mai nato, Milano, Rizzoli, 1975)

Non è la prima volta che mi occupo di maternità di donne disabili. Esattamente cinque anni fa, proprio in questo periodo, stavo preparando il numero di dicembre 2005 di “HP-Accaparlante”, dal titolo Mamme. Nessun aggettivo dopo il punto, dove, per la prima volta in Italia, affrontavo in maniera organica i percorsi che portano le donne disabili a intraprendere una gravidanza, tra paure, limiti, adeguamenti di sé e possibili soluzioni. Quella volta mi ero occupata solo di disabilità di tipo fisico, perché erano tipi di deficit che conoscevo molto bene, con i quali lavoro tutti giorni, e con i quali convivo da sempre avendo anch’io una disabilità motoria. Mi era sempre rimasto lo scrupolo di pensare anche alle altre disabilità, soprattutto quelle sensoriali, di mamme non vedenti e non udenti.
Ricordo molto bene quanto fu difficile quel primo numero. Il terreno era nuovo, mi sentivo un pioniere, non esisteva pressoché nulla in lingua italiana che mi aiutasse, mentre all’estero c’erano tante esperienze di accompagnamento alla maternità per le donne disabili. All’estero, insomma, se ne parlava. Da noi no, e questo aveva provocato la mancanza di immagini sociali di riferimento. Le stesse donne disabili non avevano immagini di altre donne disabili con figli, con cui potersi paragonare o da cui attingere. Ma soprattutto la società non considerava l’immagine della donna disabile con figli.
Dopo cinque anni, una cifra che sembra meritarsi un anniversario, rieccoci su questo terreno, ma su un deficit, quello visivo, molto specifico, davvero poco conosciuto dalla sottoscritta, e con il quale ho avuto non pochi problemi. Infatti, come già la prima volta, non esisteva niente di scritto in lingua italiana che mi potesse aiutare. Sono passati cinque anni, ma sembra tutto come allora. Al Centro Documentazione Handicap, dove lavoro e dove abbiamo la biblioteca nazionale più fornita sul settore della disabilità, non esistono testi su genitori non vedenti, e continuano a non esisterne sui genitori disabili in generale.
L’unico segnale positivo in questi cinque anni sono state delle tesiste dell’Università di Bologna, una in Scienze della Formazione e una in Ostetricia, che mi hanno consultata per delle tesi sulla maternità delle donne disabili. Devo ammettere quella di Ostetricia mi ha fatto particolarmente piacere, proprio perché si tratta di un settore non dedicato esclusivamente all’handicap. Il terreno si è mosso anche con qualche convegno, in questi anni, in tutta Italia, uno in particolare a Bologna, nel 2007, sulle donne disabili, da cui partì anche una collaborazione coi Consultori cittadini, non pronti ad accogliere donne con disabilità. Cinque anni li ha compiuti anche il primo consultorio italiano, “Al Quadraro” di Roma, specializzato nell’accoglienza di donne disabili: ma il loro bilancio di attività ha rivelato che in questi cinque anni le loro utenti sono state con deficit fisici o intellettivi, mai sensoriali.
Perché la scelta delle donne non vedenti per “HP-Accaparlante”, un tema apparentemente così di nicchia? A chi interessa, se non alle donne non vedenti stesse, che desiderano avere figli, ma che si fanno prendere da ansie e paure? Credo fortemente che ragionare su un tema così specifico possa evidenziare varie tematiche sul mondo della disabilità in generale: i tabù, i pregiudizi, gli stereotipi, l’immagine sociale, l’educazione, l’integrazione… Inoltre c’è il desiderio di continuare a coprire delle lacune su un tema, quella della maternità delle donne disabili, su cui si continua a parlare molto poco. Infine, passare dai deficit motori ai deficit sensoriali permette di verificare ed eventualmente scardinare alcuni luoghi comuni che circolano all’interno del grosso tema disabilità, luoghi comuni che a volte si creano le stesse persone disabili le une con le altre, soprattutto quando si “appartiene” a deficit differenti.
Auspichiamo anche che questo lavoro possa rappresentare un punto di riflessione per i vari operatori del settore sociale, e soprattutto sanitario. Anche il settore educativo dovrebbe sentirsi coinvolto in un tema del genere, anche se apparentemente molto distante dalla propria specificità. Questo perché è soprattutto nella scuola che si formano le generazioni future, e ci auguriamo che le generazioni future possano considerare l’immagine della donna disabile con figli non solo come una follia, ma come eventualmente un diritto tra tanti diritti (ovviamente, come già cinque anni fa, non si vogliono negare le difficoltà, o le ripercussioni sui figli della disabilità dei genitori e della madre in particolare).

Gli strumenti usati
Questa monografia può apparire un po’ insolita perché nasce prevalentemente sul web.
La carta stampata infatti ha prodotto pochi risultati come si diceva prima. Non esistono libri, o articoli di riviste. Anche l’Istituto dei Ciechi “F. Cavazza” di Bologna non ha materiale documentativo sull’argomento. Le stesse associazioni di categoria non hanno prodotto dossier o ricerche sulla maternità delle donne non vedenti.
Lo stesso web, all’inizio della ricerca, non era stato particolarmente esaltante.
Su un canale come Youtube, ad esempio, dove ormai si trova la spiegazione di qualunque cosa venga in mente di consultare (dalle ricette di cucina, ai consigli per il trucco, a come usare certi medicinali, a come risolvere i giochi sui cellulari, ecc.) non esistono video che descrivano anche solo pochi minuti di vita di genitori non vedenti, neppure facendo delle ricerche tra i video stranieri.
I forum italiani dedicati alle discussioni sulla disabilità non parlano mai di questo tema.
In lingua italiana non si trova nulla su internet, neppure un solo racconto, magari in un blog.
La ricerca on line ci ha portato a “incontrare”, per fortuna, Edith Thoueille, responsabile del Centro Protection Maternelle et Infantile di Parigi, che da tanti anni si occupa della gravidanza di donne non vedenti, e ormai è una vera esperta in tutta la Francia e anche oltre confine.
Avevamo già parlato di lei su “HP-Accaparlante” (cfr. “Sostenere la genitorialità delle donne non vedenti: l’esperienza di Parigi”, rubrica Europa Europa, in “HP-Accaparlante” n. 2, 2010), ma purtroppo non abbiamo trovato in Italia un’esperienza analoga, e crediamo quindi che l’esperienza francese, raccontata direttamente dai protagonisti, possa portare molti spunti anche nel nostro Paese. Sempre tramite web siamo venuti in contatto con alcune donne che ha seguito Edith. Conoscere la lingua francese mi ha permesso di avere numerosi scambi con Parigi e di costruire quindi la monografia attraverso questi scambi.
Sono state aggiunte, inoltre, alcune esperienze, francesi e inglesi, sempre reperite tramite forum e blog sul web. I racconti delle mamme descrivono alcune strategie che hanno messo in atto nella cura dei figli. Conclude la monografia un testo di una donna americana, una sorta di racconto “rovesciato”: si tratta cioè di un intervento su un blog tenuto da una figlia di madre non vedente, e ci sembra molto interessante riportare alla fine del lavoro anche l’altro punto di vista (scusate il gioco di parole).
Prima di entrare nel merito, però, è necessario fare un passo indietro, tornare a cinque anni fa quando le mie ricerche cominciarono, e riparlare di limiti fisici, psicologici e sociali che erano emersi in quel primo numero di “HP-Accaparlante”.

10. Verso un nuovo modello di lavoro e di impresa

Michela Marzano, filosofa e professore associato di filosofia morale all’Université Paris Descartes, è una delle pensatrici più importanti e innovative nello scenario europeo, ed è nota al pubblico italiano anche come editorialista di “ la Repubblica”. In Estensione del dominio della manipolazione. Dall’azienda alla vita privata (Milano, Mondadori, 2009) ha condotto una delle analisi più lucide e spietate della cultura aziendale oggi dominante, le cui contraddizioni producono alienazione individuale ed esclusione sociale.

In un mondo in cui la competizione economica richiede la qualità totale, il lavoratore con grave disabilità, che può essere impossibilitato a una produttività tecnica pari a quella dei normodotati, costituisce una sfida a un intero modello produttivo – è possibile un’integrazione in un modello diverso, l’integrazione fa soltanto parte della Responsabilità Sociale di Impresa, o ci sono altri modi di vedere questo fenomeno?
La questione è complicata, perché il lavoratore con disabilità mette in crisi completamente il modello. La concezione lavorativa dominante, estremamente utilitarista, riduce l’individuo a non essere altro che una somma di competenze, da cui dipende la sua impiegabilità – ma siccome le competenze vengono sistematicamente valutate in base a standard rigidi, tutti coloro che si allontanano da essi finiscono automaticamente con l’essere penalizzati, perché sono ciò che rinvia al “meno” rispetto a questi standard definiti in maniera rigida; il problema è quindi come fare spazio non tanto al “meno”, ma al “differente”. Secondo me uno dei problemi della società attuale, che si ritrova poi a livello del lavoro, è quello di promuovere un modello unico di individuo, in base al quale tutti devono assomigliare, e quindi ogni differenza viene automaticamente letta in termini di inferiorità, con una emarginazione crescente di tutti i diversi, in particolare di coloro che soffrono a causa della propria differenza. Per chi soffre a causa di un handicap, oltre alla differenza inerente alla condizione umana (ognuno di noi è diverso da tutti gli altri), si aggiunge una sofferenza legata a una propria differenza “che pesa”, e quindi alla penibilità della propria differenza si aggiunge lo sguardo della società che contesta, emargina e ha tendenza a rigettare tutti coloro che non corrispondono a un certo standard. Non si tratta solo di un problema a livello lavorativo, ma ha portata più generale, di un’ideologia della società, che si deve poter smontare e decostruire per permettere poi di accogliere le persone che soffrono di un handicap all’interno di un modello lavorativo che deve esso stesso cambiare.

In particolar modo in Italia, esiste il modello alternativo delle cooperative sociali tra o con lavoratori con disabilità, o comunque svantaggiati. Questo può essere realmente un modello di sviluppo o, entro il contesto attuale di mercato, copre solo nicchie marginali per definizione?

Nel modello attuale, copre delle nicchie e quindi per certi aspetti non permette alla situazione di evolvere in maniera generale. È importante che la cooperazione sociale esista come fenomeno, perché permette ad alcune realtà di sussistere, ma c’è anche la possibilità di una auto-esclusione, perché se questo modello alternativo non si integra nella società a livello più generale, il rischio è quello di farne una atipicità sociale e quindi di escludere in blocco delle “fette di realtà”. Si dovrebbe invece prendere esempio da questi tentativi, per integrarli però entro modelli più generali, non farne delle eccezioni ma analizzarli come possibilità di cambiare la struttura interna delle società o delle aziende dominanti.

Per alcuni tipi di disabilità un contesto molto strutturato di lavoro può essere quello migliore, e la presenza di margini di autonomia nello svolgimento del lavoro, che normalmente può essere un elemento di miglioramento, può risultare problematica. Come può conciliarsi questa esigenza con la richiesta di autonomia, con tutte le sue ambiguità, che la cultura aziendale propone ai lavoratori?

Credo che uno dei nodi stia nel significato stesso che si dà al termine “autonomia”. L’autonomia non si oppone sistematicamente e necessariamente alla dipendenza, non è l’indipendenza totale; si è autonomi quando si ha la possibilità di portare avanti un proprio progetto, sempre nella consapevolezza che questo progetto ci lega agli altri e che siamo tutti interconnessi. Il problema è che progressivamente, in questi ultimi venti anni, si è voluto fare dell’autonomia una forma di indipendenza, come sinonimo di “non dipendo da niente e da nessuno”, e quindi ogni realtà in cui si mettono in evidenza le dipendenze reciproche e intersoggettive viene automaticamente classificata come “anti-autonoma”. Ora, io non credo che ci sia un’opposizione tra l’autonomia dell’individuo e la dipendenza: tutti dipendiamo almeno in parte dagli altri, senza perdere la nostra autonomia morale. Quando amiamo una persona, ad esempio, la nostra gioia dipende anche dal modo in cui questa persona accetta e ricambia il nostro amore. È per questo che una persona che presenta un certo tipo di disabilità e che dipende, per poter compiere mansioni o svolgere ruoli nella propria vita, anche dagli altri, non è automaticamente “non-autonomo”: può esserlo da un punto di vista fisico, ma l’autonomia è un concetto morale, è ciò che permette di diventare attori della propria vita, e quando lo si diventa si può anche domandare aiuto agli altri – anzi, è spesso domandando aiuto all’altro che si è consapevoli dei propri limiti e quindi ancor più consapevoli della propria autonomia e della propria soggettività. Si tratta quindi secondo me di ridefinire lo stesso concetto di autonomia, non opponendolo a quello di dipendenza, e cercare di mostrare come anche compiere delle operazioni ripetitive non tocca l’autonomia individuale: ci si può appoggiare sugli altri senza per questo essere “agenti non-autonomi”.

Molto importante per una buona integrazione della persona disabile nel contesto lavorativo appare la costituzione di reti informali tra i lavoratori dello stesso ufficio o reparto. Fino a che punto possono queste reti restare indipendenti dal management, o viceversa può essere la direzione aziendale stessa a promuoverle, anche per svuotarle di ogni possibile contenuto oppositivo (lo “spirito di fabbrica” di alcuni decenni fa)?

Tutto può essere recuperato, ma quello che mi sembra importante è proprio il concetto di rete. Il modello del management che critico è quello che distrugge ogni forma di rete, formale o informale, per concentrarsi sull’individuo isolato da tutti gli altri, e dunque molto più debole e fragile, con lo scopo di rompere ogni forma di solidarietà. Queste reti, anche quando sono informali, possono permettere di ricreare una forma di solidarietà, anche se poi, perché questa solidarietà possa diventare veramente un argine rispetto a un management che destabilizza, bisogna che da informali le reti possano progressivamente diventare formali, e quindi essere riconosciute come un contropotere. D’altronde, è solo nel momento in cui ci sono poteri e contropoteri che si può permettere a una società nel suo insieme di svilupparsi.

Un ruolo fondamentale per l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità va attribuito ai decisori aziendali come persone – e in questo un grande impatto ha avuto il contatto che queste persone hanno avuto, grazie all’integrazione scolastica avviata negli anni ’70, con compagni in situazione di handicap prima ghettizzati, creando una sensibilità che può portare a inserimenti anche oltre i vincoli imposti dalla legge. È possibile che questi operatori si ritaglino uno spazio di autonomia rispetto a culture aziendali che, mirando alla massimizzazione dei profitti, tendono a vedere questi inserimenti lavorativi come costi?

Sicuramente sono anche dei costi, ma ci sono dei costi che qualunque tipo di società deve essere disposta ad accettare perché il benessere collettivo possa essere massimizzato. Anche in termini di utilità è quindi necessario prendere in conto una serie di costi, e oltre a concentrarsi sul corto termine occorre ragionare sul lungo termine, in cui questi costi vengono integrati e riassorbiti e, attraverso un clima di solidarietà e anche di collaborazione più “tranquilla” tra i vari agenti, permettono all’azienda stessa di massimizzare i propri profitti. La questione che però si pone è quella dell’educazione: è importante, perché la situazione cambi a livello generale e nelle varie aziende, fare in modo che già a livello educativo questo modello possa diffondersi, fare sì che non siano solo alcuni elementi marginali a confrontarsi con la differenza, l’handicap e la sofferenza, ma, in fondo, tutti. Deve rientrare all’interno di un modello educativo, che deve quindi evolvere, il prendere in conto e fare spazio alle differenze e alla fragilità. Questo è però sempre più difficile perché, non bisogna dimenticarlo, sempre di più anche il modello educativo e scolastico si basa e si struttura su una serie di competenze; adesso si parla anche di “scuola di competenze” – è come se il modello del management fosse stato trapiantato e stesse progressivamente trapiantandosi anche nel mondo dell’educazione. Il problema è quindi tenere ferma l’importanza di un’educazione che non si riassuma semplicemente nello sviluppo di competenze, ma che permetta effettivamente di essere a contatto con realtà diverse, in modo da poter poi, nella vita attiva e nella vita professionale, integrare ciò che si è imparato a livello scolastico.

Il fatto che la tendenza all’integrazione scolastica e al superamento dell’educazione differenziale, in cui l’Italia ha fatto da apripista a tutta l’Europa, non “passi” nelle culture aziendali che sono rimaste alquanto distanti da essa, e anzi si registri nell’educazione stessa un regresso, ad esempio costruendo portafogli di competenze molto rigidi e rifiutando i rallentamenti nel passo di apprendimento legati all’unità del gruppo-classe, può essere considerato un fallimento dell’educazione inclusiva?

Direi che è un fallimento nel senso che il modello non è stato spinto fino in fondo, non si è generalizzato realmente nell’educazione, per cui è fallito nella misura in cui non è stato provato in tutte le strutture educative. In fondo è un fenomeno piuttosto marginale: sono poche le classi in cui sono presenti bambini con forti handicap. Io credo che il modello si debba generalizzare a livello educativo, per poter in seguito passare anche a livello lavorativo, anche se per questo è importante la consapevolezza della necessità di superare il corto termine, ancora una volta, per valutare le strategie a lungo termine.

La crisi finanziaria tra 2008 e 2009 si è spostata nell’economia reale e nel lavoro, e oggi vediamo, come nel caso della Grecia, che le prassi della finanza non sono cambiate rispetto a prima della crisi. Ci sono prospettive di maggiore ottimismo per un modello di lavoro e di impresa diverso da quello che abbiamo visto negli ultimi vent’anni?
Purtroppo, è come se non si riuscisse a tirare tutte le conseguenze di questa crisi. È vero che la finanza ha ricominciato a funzionare esattamente come funzionava prima, senza voler rendersi conto delle conseguenze catastrofiche del fatto di avere dimenticato la realtà in quanto tale. Non si tratta tanto di essere ottimisti o pessimisti: io credo che il modello dell’economia finanziaria, con poi un impatto sull’economia reale, così come lo si conosce non può continuare. Per forza di cose si sarà costretti a un cambiamento, perché il fatto che la crisi a livello economico sia ancora forte e non si riesca a uscirne è la prova che questo modello in qualche modo deve essere cambiato. Però, perché le cose cambino, c’è bisogno di tempo; per cui, anche se la constatazione che si può fare oggi, rispetto alla situazione di fatto, è piuttosto negativa, non per questo non mi sento di essere ottimista, e credo che pian piano questo modello cambierà.

Lei vede quindi un cambiamento graduale e non traumatico, per una spinta o dall’alto, con una politica che riprenda il proprio primato, o dal basso, con qualche forma di “sommovimento popolare”?

Io lo vedo semplicemente progressivo, perché qualunque cambiamento traumatico non può che implicare conseguenze ancora più traumatiche. Questo però è un punto di vista molto soggettivo: io credo che le cose si possono e si devono cambiare, ma progressivamente, perché ogni strappo, che venga dall’alto o dal basso, lo si paga poi caro.

9. Civilizzare l’economia paga

Stefano Zamagni, professore ordinario di Economia Politica all’Università di Bologna, è uno degli economisti italiani di maggiore prestigio a livello internazionale; particolare importanza
riveste la sua opera in materia di analisi economica del terzo settore. Dal 2007 è presidente dell’Agenzia per le Onlus.

La crisi in corso sta mettendo a rischio la posizione occupazionale di molti lavoratori. È riscontrabile una differenza tra impresa sociale e mondo profit nella capacità di reggere questo urto, anche in riferimento ai lavoratori svantaggiati?
Bisogna dire le cose come stanno: la crisi occupazionale attuale non è conseguenza ultima della crisi finanziaria, ma della terza rivoluzione industriale, che ha cominciato a produrre effetti da circa 20 anni a questa parte. Quello che la crisi finanziaria ha fatto è accelerare questo fenomeno e magnificarlo, ma essa non ne è la causa. È importante chiarire questo errore comune, perché quando fra alcuni mesi la crisi sarà superata, il problema occupazionale non sarà risolto, e anzi potrà essere aggravato. La terza rivoluzione industriale è legata alle nuove tecnologie info-telematiche, le quali hanno modificato il rapporto tra aumento della produzione e aumento dell’occupazione riscontrato nella storia economica almeno negli ultimi due secoli; ora le imprese possono aumentare la produzione senza creare nuovi posti di lavoro, un fenomeno noto come jobless growth che riscontriamo anche nei dati italiani dei primi mesi del 2010. In questa situazione, c’è differenza tra imprese sociali e profit, ed è proprio qui il punto: in una situazione di jobless growth abbiamo necessità di aumentare la percentuale di imprese sociali presenti nell’economia, se vogliamo risolvere il problema della disoccupazione. Quindi, mentre alcuni decenni fa si poteva fare a meno delle imprese sociali perché le imprese capitaliste assorbivano il lavoro, oggi le prime sono indispensabili. Questa è la grossa novità, eppure nessuno ne parla mai neppure nel mondo del non profit, e si continua a far credere che il non profit serva solo a produrre un po’ di assistenza e di conforto, mentre oggi ne abbiamo bisogno di fronte a imprese profit che non assumeranno più dello stretto necessario. E ciò perché mentre le imprese profit devono competere sui mercati globali e difendersi dalla concorrenza dei Paesi emergenti come la Cina, le imprese sociali non hanno questo problema di competizione globale e non sono quindi portate a sostituire lavoro con capitale fisso (macchine). In conclusione, dobbiamo attrezzarci per capire che d’ora in poi per andare verso la piena occupazione non c’è nessuna alternativa al potenziamento dell’impresa sociale, e chi dice il contrario sbaglia: se noi anche aumentiamo la quota di mercato delle imprese profit, ad esempio con aiuti statali e incentivi di vari tipi, non c’è nessuna garanzia che queste imprese aumentino l’occupazione. In Italia la FIAT ha avuto incentivi e aiuti finanziari di ogni sorta dallo Stato, e adesso dovrà chiudere gli impianti di Termini Imerese, e poi magari altri, ma non perché sia “cattiva” come dicono i moralisti, quanto perché se non fa così non può reggere la competizione globale. Una volta compreso razionalmente il fenomeno, la soluzione è irrobustire, con misure di policy che ancora non si vogliono prendere in Italia, il comparto delle imprese sociali.

Un convegno di alcuni mesi fa si intitolava “Ha senso parlare di lavoro per i disabili in un momento di crisi?”. Quale può essere una risposta?

Non solo ha senso, ma è indispensabile, perché – e qui ancora una volta bisogna andare ai fondamenti – il lavoro è prima di tutto l’attività con la quale le persone realizzano la propria identità e allargano gli spazi di libertà. Se, in prospettiva materialista, si vede il lavoro soltanto come modo per acquisire un reddito e un potere d’acquisto, allora, di fronte alla persona disabile, si proporrà di trovare il modo di trasferirle quote di reddito e tenerla fuori dall’attività lavorativa. Partendo invece dalla posizione della filosofia personalista, e vedendo nel lavoro l’attività per rendere libere tutte le persone e per affermarle, allora il ragionamento di prima cade, e occorre preoccuparsi di organizzare il processo produttivo in modo che tutti, anche la persona disabile, abbiano un lavoro, perché il lavoro le consente di realizzare se stessa; l’approccio assistenzialistico, quindi, del tipo “poverini, sono disabili, non possono lavorare, diamogli dei soldi” cade completamente. Questo è uno di quei casi in cui si vede la differenza tra chi abbraccia le posizioni del personalismo e chi sostiene l’individualismo materialista. Io rispetto chi si professa individualista, ma lo critico e lo avverso.

La fine della crisi ci consegnerà una società più capace di integrare le ragioni del lavoro e dell’inclusione nelle logiche produttive, o al contrario, dopo delocalizzazioni che delineeranno una nuova divisione del lavoro internazionale, un aumento delle diseguaglianze e una diminuzione del peso sociale dei lavoratori?

Questo è veramente un punto interrogativo. Se devo giudicare in base ai provvedimenti che sono stati presi fino ad oggi, la risposta è negativa, perché essi sono stati tutti di tipo congiunturale e non strutturale, e in secondo luogo non sono valsi a modificare il funzionamento dell’economia e i comportamenti economici delle persone – sono stati provvedimenti del tipo “spegniamo l’incendio”, e non si sono posti l’obiettivo di ricostruire la casa incendiata. Siccome io sono un ottimista, voglio sperare che d’ora in avanti i governi, e soprattutto gli organismi internazionali come il G20, vogliano prendere spunto da questa crisi per andare in questa direzione e incidere in profondità. Se però questi provvedimenti non saranno presi, è chiaro che la crisi nelle sue dimensioni finanziarie ed economiche verrà superata, ma tra 10-15 anni ritorneremo di nuovo daccapo, a un’altra crisi. E a quel punto, la colpa sarà nostra – non solo dei dirigenti politici, cui spetta la responsabilità in primis, ma anche della società civile, perché la società civile organizzata, l’associazionismo in senso lato, non fa abbastanza per chiedere con insistenza una modifica dei comportamenti economici, e sta agendo soltanto per chiedere tamponi e cerotti da mettere sulla ferita. La società civile mostra troppo opportunismo – sento io con le mie orecchie dire: “a me interessa poco di quello che verrà nel futuro, a me interessa che mi si saldi il debito, che mi si consenta quell’apertura di credito o quella possibilità”, con un comportamento miopico che spiega perché non si stiano invece prendendo provvedimenti radicali. C’è quindi una responsabilità di tutti, anche del mondo della cultura: ce n’è per tutti, in questo caso…

Non sempre le effettive realtà di impresa sociale rispettano lo spirito originario di cooperazione e pari dignità tra i lavoratori. La “deriva aziendalistica” è un accidente di singole cooperative o l’effetto di un contesto di mercato selettivo, che potrebbe diventare ancora più spietato nel dopo-crisi?

Il fatto che il mondo delle imprese sociali abbia scelto la prospettiva aziendalistica, cioè di badare alle ragioni dell’efficienza, di per sé non è un male; il problema non sta lì, ma nella separazione che si vuole continuare a tenere in vita tra efficienza e solidarietà. Fino a tempi recenti, si diceva che le imprese o le organizzazioni non profit si dovessero occupare solo della solidarietà, e le imprese capitalistiche solo dell’efficienza, e adesso ne abbiamo i risultati: le organizzazioni non profit, per aver curato solo la solidarietà e non anche l’efficienza, oggi si trovano in difficoltà e non riescono a rispettare il vincolo di bilancio, e di conseguenza arriva la selezione “aziendalistica” di cui si diceva. Tutto questo, però, è conseguenza di un errore culturale, propagandato da centri di elaborazione che fino ad anni recenti predicavano esattamente questa dicotomia tra imprese capitalistiche/efficienza e imprese non profit/solidarietà. La mia posizione, che ormai conoscono in tanti, è che hanno sbagliato tutti e due, cadendo gli uni nell’efficientismo, gli altri nell’assistenzialismo, sicché oggi abbiamo il peggiore di tutti i mali – e ne sono responsabili anche quegli studiosi, economisti e sociologi soprattutto, che fino ad anni recenti predicavano che il mondo del non profit dovesse essere un mondo di “duri e puri” che doveva occuparsi soltanto della redistribuzione del reddito, cioè della solidarietà. A suo tempo avevo polemizzato con queste posizioni, sostenute da famosi sociologi, e adesso i fatti mi stanno dando ragione, anche se allora, 10-15 anni fa, sembrava avessero partita vinta loro. Ecco perché parlo di un problema culturale, di un errore certo fatto in buona fede che però ora stiamo pagando: infatti, molte organizzazioni avevano dato retta a quei maestri di pensiero, e quando hanno cominciato a vedere che i conti non tornavano sono passate all’eccesso opposto, dalla solidarietà alla sovraefficienza, mentre ora noi dobbiamo spiegare a tutti che è possibile far marciare insieme efficienza e solidarietà.

Durante la crisi argentina del 2001-2002 si sono avuti esempi di “licenziamento dei padroni” e conversione di strutture produttive classiche in cooperative autogestite dai lavoratori, anche per imprese ad alta densità di capitale e non di lavoro. Simili esiti di trasformazione neocooperativa sono possibili anche in Europa, come risposta alla chiusura o delocalizzazione di fabbriche e uffici?

Questo fenomeno non è nato in Argentina, perché già in Italia era accaduto qualcosa di analogo a fine ’800, e negli anni ’80 negli Stati Uniti la compagnia aerea American Airlines, quando le cose andarono male, fu rilevata dai lavoratori (hostess, stewart e piloti) secondo uno schema di tipo cooperativistico; non c’è dunque nulla di nuovo nelle empresas recuperadas argentine, che hanno anzi tratto beneficio da esperienze pregresse. Io non nego che qualcosa del genere possa continuare a verificarsi, e in certe situazioni particolari può essere utile, quindi non dico che non si debba fare, però è ovvio che quella non è la soluzione ai problemi di cui stiamo parlando. Infatti, è evidente che per le imprese recuperate (in cui non vengono “licenziati i padroni”, ma subentrano altri padroni, che sono i loro lavoratori, con una proprietà condivisa di tipo cooperativo che tende a unire efficienza e solidarietà), dopo una fase di avvio iniziale della gestione dei lavoratori che può durare anche qualche anno, resta il nodo fondamentale del finanziamento – e dove vanno a prendere i soldi? Una soluzione più convincente è quella di creare una “borsa sociale”, di cui ancora non si parla abbastanza ma per cui è già stato avviato un processo e che spero nel giro di un anno possa essere messa in piedi, ossia un mercato dei capitali dedicato alle imprese non capitalistiche (sociali e cooperative), da cui esse possano attingere i capitali di cui hanno necessità per finanziare le proprie attività; il resto sono tutti rimedi in sé validi ma che durano lo spazio di un mattino.

Se l’impresa capitalistica classica si svilupperà senza creare posti di lavoro, esisterà nelle economie occidentali una domanda sufficiente per i servizi che l’impresa sociale si proporrà di offrire?
È ovvio, ma non bisogna ragionare in termini oppositivi, perché avremo sempre bisogno del settore manifatturiero, senza fare l’errore di deindustrializzare come l’Inghilterra e la Spagna, che ora ne pagano le conseguenze. Il problema non è quindi “o questo o quello”, ma “e-e”, ossia il settore manifatturiero dell’economia deve continuare a esistere, però non può aumentare allo steso tasso di crescita che si è registrato negli ultimi 30-40 anni, perché gli aumenti di produttività che il progresso tecnico garantisce devono essere utilizzati o spesi non tanto per continuare la produzione e il consumo di quella tipologia di beni, ma devono essere dirottati verso la produzione e il consumo di beni di altra natura, i beni relazionali, quali sono ad esempio i servizi alla persona. Si potrà fare? È chiaro, perché la gente si sta stufando di consumare automobili o ville; c’è un limite di saturazione al consumo dei beni manifatturieri, e la gente se ne rende sempre più conto, e c’è invece un bisogno disperato di beni relazionali, che nessuno produce al momento. Le persone preferiscono avere più soldi al mese con cui comprare l’ultimo gadget, oppure più servizi alla persona in ambito educativo, assistenziale, culturale? Al momento, questi beni li facciamo produrre alle imprese di tipo capitalistico, che di conseguenza li vendono a prezzi troppo alti, ma se noi li facessimo produrre alle cooperative o alle imprese sociali, è ovvio che i costi e i prezzi sarebbero più bassi, e la gente li comprerebbe: il segreto è tutto lì. Bisogna fare la stessa operazione che è stata fatta un secolo fa con il manifatturiero, con Henry Ford che ha abbassato i costi di produzione dell’automobile e tutti si sono messi a comprarla, mentre prima potevano permettersela solo i ricchi; lo stesso vale oggi con i beni relazionali – chi l’ha detto che l’asilo deve essere gestito da un’impresa for profit? Se lo gestisce una cooperativa sociale alla cui gestione partecipano le famiglie, i costi scendono a un livello che consentono anche alle famiglie a basso reddito di soddisfare quella domanda. Questo è il ragionamento da fare, e mi meraviglia che non si capisca come certi beni cosiddetti di lusso, che solo un 10% della popolazione poteva permettersi, siano ora alla portata di tutti. I beni relazionali sono invece prodotti oggi a prezzi troppo elevati, e poi, in maniera ipocrita, diciamo che “la gente non ha soldi per comprarli”, senza chiederci perché quei prezzi sono così elevati.

Esiste nel medio-lungo termine una capacità dell’impresa sociale di “contaminare” anche il mondo profit, e modificarne gli aspetti più “darwiniani”?

Non solo questo è possibile, ma sta già avvenendo. Ad esempio, le grandi banche italiane come Intesa Sanpaolo, Unicredit e Monte dei Paschi di Siena hanno dato vita in tempi recentissimi a banche non profit come Banca Prossima, e questo è un esempio di contaminazione. Tutto il processo che si chiama Responsabilità Sociale di Impresa, praticato dalle imprese capitalistiche oggi (non dico tutte, ma un certo numero sì), non è forse un esempio di contaminazione? Quindi, è evidente che la presenza di un nucleo di imprese sociali in un sistema ha l’effetto di contagiare anche i comportamenti degli altri, e questo sta già avvenendo – certo, non avviene ancora in maniera sufficiente per le  mie propensioni, però guardando in avanti vedo che questa sarà la traccia che verrà battuta nel prossimo futuro. E questo perché gli stessi imprenditori capitalistici hanno capito che è nel loro interesse: non perché abbiano cambiato mentalità, ma perché hanno scoperto che i profitti si fanno meglio se si umanizza l’economia. Questo è il punto: bisogna umanizzare l’economia, perché un’economia disumana alla fine diventa inefficiente – alla fine, non subito! Chi l’aveva capito 50 anni fa, prima di ogni altro, fu Adriano Olivetti, la cui grande statura sta nel fatto che era un capitalista, però aveva capito l’urgenza del processo di civilizzazione dell’economia. Sono stato nell’aprile scorso a Princeton, una delle più importanti Università negli Stati Uniti, e il titolo del convegno internazionale era Civilizing the Economy, “civilizzare l’economia”: anche gli americani stanno capendo che il modello capitalistico tradizionale fa acqua da tutte le parti e dunque non è sostenibile.

8. Il lievito della relazione tecnologica

Sergio Bellucci, esperto in comunicazioni di massa e nuove tecnologie, è tra i fondatori di Net Left, un’associazione che si occupa delle frontiere dell’innovazione tecnologica e delle libertà dell’era digitale; fa parte del Comitato Scientifico di “Sinistra Ecologia Libertà” ed è Consigliere di Amministrazione di LAit (Lazio Innovazione Tecnologica). Ha pubblicato, tra gli altri, i libri E-work. Lavoro, rete e innovazione (Roma, DeriveApprodi, 2005) e, con Marcello Cini, Lo spettro del capitale. Per una critica dell’economia della conoscenza (Torino, Codice Edizioni, 2009).

In che modo le nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione e il passaggio a un’economia della conoscenza possono agevolare l’inserimento lavorativo delle persone con disabilità?
Le nuove tecnologie consentono cose prima quasi impensabili, cioè costruire strumenti che possono essere adattati all’individuo. Fino a quando le tecnologie sono state meccaniche, era l’individuo che doveva in qualche modo rispondere alle esigenze della macchina; in parte, oggi, questa cosa è ancora vera, ma il grado di flessibilità è molto più alto e siamo in grado di costruire delle interazioni uomo-macchina che tendono alla personalizzazione. Da questo punto di vista, è ovvio che qualunque tipo di deficit può essere ridotto drasticamente sia nell’impatto di quel deficit nella relazione con la macchina sia con l’altro da sé. Questa cosa è ancora più vera se si passa dalla produzione di merci materiali a quella che è stata chiamata “economia della conoscenza”. Mentre il grado di flessibilità che si può raggiungere attraverso le macchine, per quanto riguarda le merci materiali, può essere diciamo del 60-70%, per l’economia della conoscenza questa flessibilità può tendere alla totalità, in quanto la produzione di un contenuto è virtualizzabile in maniera quasi completa. Da questo punto di vista possiamo dire, quindi, che l’innovazione tecnologica consente gradi di parità che le vecchie tecnologie meccaniche non consentivano.

Queste nuove forme di organizzazione del processo produttivo, basate sulla gestione delle informazioni più che sullo svolgimento manuale di operazioni, possono costituire un ostacolo per lavoratori con disabilità di tipo cognitivo (che prima potevano essere adibiti a mansioni “meccaniche”) nel momento stesso in cui vengono incontro alle esigenze di quelli con deficit fisici o motori?
Questo è sicuramente un problema aperto, perché nello sviluppo dell’economia della conoscenza l’apporto qualitativo dell’individuo nel ciclo produttivo, in termini di aumento dell’informazione contenuta nella merce o nel servizio prodotti, è un dato assolutamente significativo. Ma anche qui, siccome credo che sia possibile lavorare verso elementi di personalizzazione – sempre che lo si voglia e che ci siano le risorse dedicate a sviluppare questi modelli –, è possibile sottolineare ed evidenziare le capacità cognitive, anche se ridotte, che l’individuo ha su alcuni segmenti, e portarle a un livello qualitativo utile nel ciclo produttivo. È ovvio che tutti i cicli produttivi, anche quelli automatizzati delle merci materiali, ripetitivi e senza immissione di qualità, oggi sono più facili dal punto di vista della gestione e anche meno faticosi, e quindi in qualche modo più generalizzabili.

Una modalità di lavoro in cui il contatto fianco a fianco è sempre più sostituito da un’interazione più ampia, ma virtuale, ostacola o favorisce la formazione di quei rapporti informali tra colleghi, e tra lavoratori e direzione aziendale, che possono determinare per la persona disabile la differenza tra un semplice inserimento lavorativo e un’integrazione sociale più completa?
Da questo punto di vista noi siamo in una fase di transizione che non è terminata, e chissà se e quando potrà avere un termine. Io sostengo da anni che stiamo entrando in società che definisco “mutanti”, del cambiamento perenne, e che quindi non hanno più la possibilità di essere stabilizzate in termini di modelli predefiniti, socializzabili come elementi stabili. Questo pone tanti quesiti, perché probabilmente è la prima volta nella storia della specie umana che ci si ritrova in una dinamica sociale senza più nessun elemento di stabilizzazione. Anzi, si può dire che la capacità di mutamento perenne è il cuore nuovo delle nostre società. Questo significa tanti cambiamenti, che noi possiamo semplicemente, per il momento, cominciare a registrare. È evidente che cambiano le forme relazionali: nessuno di noi è lo stesso di prima di Internet, ma siamo anche molto diversi da come eravamo con Internet 1.0 rispetto all’attuale 2.0, con i contenuti costruiti attraverso una forma relazionale, come il famoso Facebook (ma non solo quello). Cosa questo significhi in termini di trasformazione nel ciclo produttivo, lo stiamo osservando in questo momento; mi sembra di poter dire “a spanne”, ma non c’è credo ancora nessuna ricerca che possa supportare per il momento un’ipotesi o l’altra, che questa trasformazione delle forme relazionali stia modificando anche alcuni aspetti della struttura cognitiva individuale e la forma dei gruppi sociali. Dentro questo quadro di grande trasformazione e incertezza, oso intravedere qualche possibile lettura degli esiti, e mi sembra di poter dire che in queste strutture la persona disabile non dico sia avvantaggiata rispetto alla situazione precedente, ma può vedere il proprio deficit molto più sciolto e superabile, perché le forme di relazione fondamentali, come la scrittura e la voce, sono gestibili con vari tipi di interfacce, e quindi rispetto alla situazione ex ante mi sembra ci sia qualche elemento di integrazione in più.

Di fronte a tecnologie che consentono molteplici adattamenti alle esigenze personali, c’è il rischio che l’integrazione lavorativa e sociale delle persone disabili sia vista come frutto semplicemente di uno sforzo tecnico, e non anche di un lavoro culturale?
Io su questo, in genere, mi colloco nella zona dei “tecno-ottimisti”, perché credo che gli esseri umani riescano sempre a piegare lo strumento che hanno in mano a un uso sociale: l’uomo è un animale sociale, sta bene quando sta insieme agli altri e condivide con gli altri delle cose. Queste strutture tecnologiche fanno emergere costantemente forme di relazione, condivisione e superamento dei limiti precedenti, un po’ come la pasta lievita, che aumenta costantemente anche se ne leviamo dei pezzi, e il fenomeno dell’interazione sociale sta producendo una richiesta enorme di relazione. Tutto questo non significa che non ci siano problemi e rischi, in primo luogo quelli di invasione della privacy e di controllo, molto significativi anche e soprattutto sul lavoro, perché queste tecnologie possono essere utilizzate per entrare nella vita dei singoli e condizionarla, o per sconfiggere capacità di lotta che emergono nei luoghi di lavoro. Il controllo esisteva però anche prima delle tecnologie digitali, e, tra rischi e benefici, mi sembra che il lievito abbondante delle tecnologie aumenti, molto di più delle capacità di invasione della privacy, le forme di relazione e di condivisione, ciò che mi rende al momento “tecno-ottimista” e mi pare possa alludere a qualche esperimento sociale significativo in positivo. Ovviamente, come in tutte le cose, sono pronto a ricredermi se invece la piega sarà un’altra, ma mi sembra in questa fase che tutti i tentativi di mettere sotto controllo stentino ad avere effetto, facendo invece riemergere questa forma un po’ anarchica di auto-organizzazione. Certo, molte piattaforme sono prodotte da società per scopi commerciali che provano a utilizzare i nostri dati, e li utilizzano, per interessi aziendali, però quello che vedo di fondo è l’elemento fortissimo della condivisione. Per esempio, nell’aprile scorso c’è stata la crisi in Europa per le ceneri del vulcano islandese, che hanno messo in una condizione molto difficile il sistema aereo: mentre tutte le strutture, anche quelle grandissime e iper-organizzate, sono saltate e non sono state in grado di reggere l’urto, attraverso la rete si sono create spontaneamente forme di auto-organizzazione di viaggi via terra, che hanno dato risposte molto importanti al problema individuale dello spostamento, e che non avevano nessun elemento centrale di controllo, ma si auto-generavano dallo scambio di itinerari, orari e dalla condivisione delle spese. Ci sono quindi delle forme che consentono alle persone di dare e trovare risposte ai problemi in una maniera che era totalmente imprevedibile anche soltanto qualche tempo fa. Stiamo quindi entrando in una fase nuova, ma molto interessante.

7. Ci vuole tempo per creare un buon clima

Miria Michielli è la titolare dell’omonima officina meccanica, una piccola industria della zona Roveri di Bologna.

Ci può descrivere la vostra esperienza di azienda nell’integrazione di lavoratori svantaggiati?
Il ragazzo con disabilità che lavora oggi con noi era venuto qui circa 5 anni fa mandato dalla Azienda USL di Bologna – Igiene Mentale, a fare uno stage per cercare di inserirlo. Abbiamo iniziato piano piano, come bene o male si fa con tutti: non c’è un trattamento diverso, ma si cerca di conoscere la persona, e in base alla tipologia di malattia la si mette a fare dei lavori, più semplici o più complicati. Il ragazzo ha una disabilità mentale, ma riesce a svolgere il suo lavoro normalmente: lavora al trapano, fora, fresa e taglia i pezzi, e fa altri lavori più semplici, senza operare sui controlli, e si è integrato abbastanza bene. In passato ho avuto altri ragazzi con disabilità di varie tipologie, ma erano tutti in stage, e alla fine del periodo sono andati a fare altro; lì non c’era la motivazione per assumerli, ma si cercava solo di vedere come si potevano comportare in un ambiente lavorativo. Erano ancora ragazzini molto giovani, e quindi seguiti e in una fase di prova e “studio”, mentre la persona che ho attualmente ha più di 40 anni, aveva già lavorato in un’azienda, e bisognava integrarlo come assunzione.

In base a quali motivazioni avete scelto di inserire un lavoratore svantaggiato nella vostra azienda anche se, avendo 8-9 dipendenti, non obbligati dalla legge? Come ha inciso su questo il fatto di essere una piccola impresa?

Anche se non avevamo l’obbligo, quando il ragazzo era qui a fare il percorso di stage abbiamo imparato a conoscerlo, lui si è sempre comportato bene e si è affezionato a noi come noi a lui. Nelle piccole aziende c’è un clima più familiare, non siamo numeri ma persone, e ognuno di noi conosce la realtà dell’altro, ci si aiuta a vicenda e si lavora insieme, ci sono anche tanti pezzi di vita di tutti: si riesce quindi a instaurare un rapporto che va oltre il lavoro, e diventa umano e di amicizia. Quindi, ci è venuto un po’ automatico fargli l’assunzione, perché ci si vuole bene e diventa una questione più di affetto. Questo anche se poi nel lavoro lui non porta grandi vantaggi, ma si fanno magari contratti adatti alla sua condizione, a noi fa piacere che lui stia qui e a lui fa piacere stare qui, quindi perché distaccarlo per poi creargli un altro disagio? Perciò, anziché fare chissà quale beneficenza in giro, a volte con un piccolo sforzo ci si può aiutare.

Nel percorso di inserimento o in fasi successive, quali aiuti o consulenze avete ricevuto dall’esterno?
Durante l’inserimento abbiamo avuto un po’ di contatti con l’Azienda USL di Bologna, ma è logico che l’inserimento è affidato molto a noi, perché siamo noi che abbiamo tutti i giorni contatto con lui, e diventiamo noi il suo punto di riferimento. A volte, nel bisogno, ci sono comunque contatti e confronti tra me e lo psicologo che lo segue per l’Igiene Mentale.

Quanto hanno agevolato, o viceversa ostacolato, il processo di inserimento le relazioni che si sono stabilite tra il nuovo lavoratore e i colleghi?
Siamo, come ripeto, un’azienda piccola, con poche persone (al massimo siamo stati 20, noi 5 soci più i dipendenti), siamo una piccola famiglia, e si instaura quindi un clima sereno. È sempre un lavoro, e quindi vorremmo tutti stare a casa, ma si viene a lavorare serenamente, non si hanno i fucili puntati, e tra i dipendenti non c’è un clima di astio o rancore, ma si va tutti molto d’accordo. Quando poi ci sono piccole incomprensioni, io come titolare entro in campo per “schiarire”, come in una famiglia quando i fratelli litigano arriva la mamma che cerca di fare da paciere. Quindi in questo inserimento, e anche negli altri casi di stage, tutti gli altri hanno accettato senza resistenze, lo capiscono anche senza dirglielo.

Si sono stabilite tra il ragazzo inserito e gli altri delle relazioni che vanno anche oltre l’orario di lavoro?
Non penso che si frequentino fuori; è capitato l’anno scorso, in un periodo di cassa integrazione per la forte crisi, che si aiutassero e si vedessero negli uffici INPS per darsi una mano l’un l’altro, ma non credo che vadano fuori al di là del rapporto di lavoro. Se capita che qualcuno fa una cena, può anche essere che lo invitino, ma tutti stanno molto qui al lavoro, e quindi alla sera preferiscono stare in famiglia o fare la loro vita, però il rapporto è ottimo con tutti.

Quali consigli si sentirebbe di dare ad altre imprese della vostra dimensione che intendano intraprendere il vostro stesso percorso?
Sicuramente bisogna avere tanta pazienza, e non pensare a questo inserimento come produttivo, perché la persona va aiutata, e non bisogna vederla attiva nel lavoro al 100%, ma trovarle un lavoro semplice in cui anche lei, con i suoi limiti, possa comunque avere delle motivazioni, senza chiedere tanto di più. Trovare il giusto ruolo nell’ambito dell’azienda quindi secondo me è fondamentale, un lavoro in cui la persona svantaggiata possa dare il meglio e l’azienda possa usufruirne; non bisogna pensare di avere persone che possano fare tutto. Bisogna anche individuare una persona dell’azienda un po’ più portata che lo segua, e difficilmente sono quelli alla produzione, che “corrono” di continuo, mentre ci vuole anche un po’ di tempo per seguire questi problemi. Nel nostro caso questa persona sono io come titolare, ma può anche essere chi lavora in ufficio o ha ruoli che lasciano un po’ di tempo da poter dedicare a questo. Infatti, la necessità di dedicare tempo non si limita all’inserimento, perché stiamo sempre parlando di persone che hanno problematiche, ma a me che sono titolare d’azienda questo tempo lo richiedono tutti, perché se uno ha un’azienda il personale va seguito a 360 gradi, se si vuole stare tutti bene. Perciò, come un giorno seguo lui, un altro giorno seguo un altro; c’è sempre qualcuno, ma fa parte del nostro lavoro creare un’azienda dove si possa stare abbastanza sereni. Credo che questo sia fondamentale, perché chi viene a lavorare serenamente dà anche di più, la motivazione fa rendere di più sul lavoro. Quindi, un datore di lavoro non lo fa per la gloria, ma penso che i ritorni ci siano sempre: ho persone che da anni lavorano con me, e così si riesce a creare un operaio di un certo tipo, che non ti abbandona perché magari c’è un’azienda che gli dà due soldi in più, c’è un rapporto di fiducia e fedeltà che in quest’ambiente vuole dire tanto.