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Autore: admin

Disabili e comunità: l’inclusione come via per la pacificazione

La Repubblica di Liberia nasce come Stato nel XIX secolo, quando la Società di Colonizzazione Americana acquista il territorio, prima facente parte della Sierra Leone, per rimpatriarvi ventimila ex schiavi percepiti come un “problema sociale”. La conseguente e quasi totale concentrazione del potere nelle mani dei discendenti degli “americani” e l’esclusione delle etnie native continuarono fino al 1980 quando il generale Samuel Doe prese il potere con un colpo di stato e annunciò l’avvio di un processo di apertura democratica, una prospettiva che in realtà non divenne reale se non molto dopo. La Liberia è stata dilaniata da decenni di guerra civile, nei quali le mostruosità commesse da gruppi ribelli ed eserciti governativi hanno distrutto infrastrutture e legami sociali mentre gli equilibri internazionali e l’economia globale del lusso avevano un peso maggiore dell’estremo bisogno di pace di un intero popolo.
Ad oggi la Liberia è guidata dal governo presieduto da Ellen Johnson Sirleaf, prima donna Presidente in Africa, eletta regolarmente nel 2005.
In un paese nel quale circa l’80% della popolazione vive sotto la soglia di povertà, mentre il 74% delle donne e il 70% degli uomini è analfabeta e dove la guerra civile ha danneggiato i legami sociali più profondi, le condizioni di vita delle persone disabili sono drammatiche sotto ogni punto di vista: gli atteggiamenti discriminatori e l’esclusione sociale si sommano alla mancanza di servizi e di aiuti economici, alla miseria e alla mancanza di istruzione per i bambini.
Dal 1997 AIFO, Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau, collabora in Liberia con il Sampson Saywon Boah Institute (Ssbi), un’ONG locale che ha avviato il primo progetto di Riabilitazione su Base Comunitaria (RBC) in tutto il paese con l’obiettivo di promuovere l’inclusione sociale e l’autosufficienza economica delle persone disabili, favorendo la diffusione di atteggiamenti positivi da parte della comunità in cui esse vivono.
Per conoscere più da vicino il contesto liberiano nel quale il progetto di AIFO e Ssbi è stato implementato, abbiamo posto alcune domande alla Dott.ssa Simona Venturoli, project manager di AIFO.

La strategia della Riabilitazione su Base Comunitaria ha spesso dimostrato di essere una valida alternativa ad azioni di aiuto unilaterali e poco partecipate, che rischiano di non radicarsi nelle comunità che si propongono di aiutare. Cosa rende la RBC adatta anche al contesto liberiano? Qual è stata la risposta da parte della comunità?
Premesso che la RBC non è un modello preconfezionato ma una strategia flessibile e adattabile a qualsiasi tipo di contesto sociale e culturale, si rende preziosa anche in paesi come la Liberia dove i tessuti sociali sono stati minati alle fondamenta da un lungo e violento conflitto interno. Le cause della guerra civile sono complesse e profonde, ma è certo che tra queste abbia avuto una grande importanza la sistematica esclusione di una parte della società dalle istituzioni di political governance e dall’accesso agli assetti economici. Di qui si comprende come una pace duratura, conditio sine qua non per lo sviluppo del paese, può essere raggiunta solo costruendo e diffondendo una cultura della partecipazione e dell’inclusione. In questo senso la RBC diventa una risorsa non solo per le persone con disabilità ma per tutto il paese, perché promuove un’idea inclusiva del processo di sviluppo, dove la partecipazione delle persone con disabilità assume importanza strategica per il successo del processo di riconciliazione nazionale.
La RBC si è rivelata anche nel caso della Liberia una strategia fruttuosa perché capace di valorizzare le risorse locali, sia umane che tecniche, attraverso il coordinamento degli attori pubblici e privati, locali o internazionali che si occupano di disabilità. In questo modo i disabili non sono soltanto beneficiari del progetto, ma protagonisti attivi di esso con le proprie potenzialità. Si innesca in questo modo un circolo virtuoso nel quale la responsabilizzazione della persona disabile combatte l’atteggiamento passivo dilagante in comunità – come quella Liberiana – in cui la maggior parte dei disabili vive di elemosina e di aiuti esterni.
In Liberia il programma di RBC sta avendo un grande successo tanto che ha avuto inizio una sua ulteriore espansione nella Contea di Grand Bassa. La partecipazione finora è stata molto alta perché le persone con disabilità e i loro familiari hanno percepito fin da subito la dimensione comunitaria del programma, al quale sentivano di poter partecipare attivamente facendo proposte, perfezionandolo a seconda delle proprie esigenze, e traendone vantaggi concreti.

L’OMS stima che in Liberia vivano circa 231.000 disabili, ai quali bisogna aggiungere coloro che hanno contratto la propria disabilità a causa del conflitto, in combattimenti con armi da fuoco, per l’esplosione di mine anti-uomo o in seguito a violenze e torture. Gli atteggiamenti discriminatori, l’esclusione sociale, l’abbandono, sono problemi che riguardano entrambe le categorie o ci sono differenze a seconda della causa del proprio essere disabili?
Il rischio di isolamento, di esclusione sociale e di discriminazione colpisce tutti i disabili, ma non vi è dubbio che gli ex-combattenti con disabilità vivano una situazione privilegiata rispetto agli altri. Se è vero che a causa dei massacri e degli orrori commessi durante il conflitto tutti gli ex-combattenti – disabili o meno – sono percepiti dalla gente come un fardello, è altrettanto innegabile che molti programmi speciali sono stati implementati da Governo e cooperazione internazionale a loro vantaggio, per favorire il loro reinserimento sociale. L’isolamento di cui soffrono gli altri Liberiani disabili invece ha le proprie origini nelle credenze tradizionali. Quasi sempre si cercano le ragioni della disabilità – fisica o psichica – nel mondo degli spiriti e del maligno. Per questo motivo la disabilità viene spesso ricondotta a una punizione divina seguita al male commesso dalla madre, aggiungendo stigma allo stigma, senza che vengano fatti sforzi rilevanti per aiutare anche economicamente i disabili e le loro famiglie.

Che cosa accade in Liberia quando la disabilità si aggiunge all’essere donna? Come può essere d’aiuto la strategia della RBC? Ricordi un caso in particolare dove hai potuto osservare miglioramenti grazie al progetto di AIFO e Ssbi?
Quando la disabilità è donna le difficoltà aumentano. Spesso le donne con disabilità sono vittime di abusi sessuali e sono ancor più facilmente oggetto di scherno e di insulti.
Anche in questo caso la strategia di RBC aiuta moltissimo perché le volontarie del progetto, appartenenti alla stessa comunità di cui fanno parte le donne disabili, riescono meglio di chiunque altro ad avvicinarsi e instaurare una relazione con loro perché possono contare sullo stesso background culturale e sull’appartenenza al medesimo genere. Si tratta tuttavia di un processo di coinvolgimento molto lungo e faticoso, anche a causa della scarsissima fiducia che queste donne hanno in sé stesse.
Ricordo la storia di Cecile, che io stessa ho conosciuto qualche anno fa. Aveva 26 anni e viveva insieme ai genitori e alle sue tre bambine in una casa alla periferia di Monrovia. Quando ci videro scendere dalla macchina, i suoi famigliari capirono che eravamo lì per lei così andarono a chiamarla. La vidi avvicinarsi dal fondo del corridoio, con la più piccola delle figlie in braccio. Sentii pronunciarsi sul mio volto un sorriso che celava un forte imbarazzo perché Cecile era in grado di camminare soltanto sulle sue ginocchia trascinando il resto delle gambe che non riusciva a muovere. Pensai alla sua vita come a una quotidiana Via Crucis, percorsa tutta in ginocchio. I suoi volontari raccontavano come Cecile fosse perfettamente autonoma in tutto dentro casa mentre lei ci ringraziava per la sedia a rotelle che il progetto le aveva fornito, grazie alla quale poteva finalmente uscire, andare al mercato, recarsi in posti nuovi. Cecile era analfabeta perché non aveva frequentato alcuna scuola, ma grazie al progetto di RBC avrebbe ricevuto un piccolo prestito per avviare un’attività generatrice di reddito per poter crescere le sue figlie ed essere economicamente autosufficiente. Le chiesi quale fosse la causa della sua disabilità: mi rispose sicura che pur essendo nata sana, all’età di un anno le passò accanto un dragone maligno che la lasciò storpia.
Seppi che le tre bambine di Cecile erano figlie di tre padri diversi, tutti scomparsi nel nulla, e mi spiegarono che il progetto si stava occupando legalmente del caso per rintracciare gli uomini e fare in modo che si prendessero le loro responsabilità. Allora ero scettica, ma a distanza di due anni seppi che Cecile si era sposata con il padre della sua figlia più piccola. Grazie al duro e lungo lavoro di accompagnamento da parte dei volontari del progetto, paura e vergogna erano state sconfitte.

C’è poco da… ridere!

La condizione di handicap ha a che fare con l’ironia per sua natura. Si pensi alla famosa ironia socratica. Socrate finge ignoranza con il suo interlocutore, per indurlo a enunciare la sua teoria, che verrà prontamente confutata dal filosofo. Una persona disabile, spesso, riesce a fare la stessa cosa. Di fronte alla sua “trasparenza”, l’interlocutore è nudo, proprio come il sofista di turno davanti a Socrate. Solo che il disabile non finge. È chi gli sta di fronte che, talvolta, gli attribuisce un’ignoranza che non ha, ma questo trasferimento di non-conoscenza produce lo stesso risultato di una fictio socratica. L’interlocutore è comunque indifeso di fronte all’handicap, deve rapportarsi con un mondo che non conosce, enuncia la sua teoria e viene confutato. Anche l’ironia romantica è ben incarnata nella persona con deficit. Quest’ultima ha più a che fare con la contraddizione, con il senso dell’assurdo che desta il riso. Allora è ironica una mente superiore intrappolata in un corpo immobile o mal funzionante, apparente contraddizione per noi uomini occidentali condizionati dalla cultura classica della calocagathia, l’ideale greco secondo cui chi è bello è anche buono e chi è brutto è cattivo, perché il corpo è specchio dell’anima. I Greci hanno avuto innegabili pregi, primo fra tutti “inventare” la filosofia, ma hanno anche complicato non poco la vita alle persone con deficit. Io sono filosofo e sono disabile… ironia della sorte! Anche la sorte secondo noi è ironica. Non a caso non c’è concetto più “pagano” della sorte. Anche questa è un’idea greca. L’ironia non è solo sovvertimento del significato delle parole, ma anche distacco. Prendere la vita con ironia è sinonimo di dimostrare un certo distacco dalle cose del mondo. Se hai un handicap, sei quasi obbligato a distaccarti un po’ dalle cose del mondo, che non possono avere lo stesso peso che per un “normodotato qualsiasi”. La società in genere ha un certo ritegno nel fare ironia che coinvolga un soggetto disabile, quando spesso è proprio chi ha un deficit che ironizza sulla sua condizione. Anche il fatto di percepire come sbagliato l’umorismo nei confronti dei disabili è, in fondo, discriminazione. Devono essere loro stessi che ironizzano sulla loro condizione, perché se osa farlo qualcun altro non è politicamente corretto. David Anzalone, che è spastico, ha scritto un libro dal titolo Handicappato e carogna (Milano, Mondadori, 2008) e fatto degli spettacoli in cui ironizza sulla sua disabilità. Ci sono cose che chi non ha a che fare con i disabili nella loro quotidianità, probabilmente, non può capire. L’autore guarda “da spettatore” le difficoltà con cui si confronta ogni giorno, per questo motivo riesce a vederne il lato ironico. Credo che una persona per così dire “normale”, se si trovasse ad affrontare nel quotidiano gli stessi problemi, non riuscirebbe a vederne il lato che fa sorridere. Anche molti disabili dubito che riescano a prendere le loro esperienze di vita con ironia. Invece è la loro stessa natura che regala alle persone con deficit una marcia in più, perché riescono naturalmente a fare quello che Socrate cercava artificiosamente di ottenere. Infatti, la persona con deficit può apparire meno dotata di quello che è realmente. Socrate fingeva di non capire per ottenere le risposte che cercava. Invece, ad esempio, nel mio caso, io al contrario mi devo ingegnare per far comprendere all’interlocutore che capisco quello che mi sta dicendo e che ho l’uso dell’intelletto anche se non posso muovermi autonomamente. Personalmente trovo molto ironico che in tanti pensino, quando mi incontrano, che io sia anche ritardato mentale solo perché ho difficoltà nei movimenti e nell’espressione. A me sfugge quale relazione ci sia fra le due cose, ma evidentemente i più, di primo impatto, pensano questo, per uno strano collegamento mentale. Così io, per indurre chi mi sta di fronte a spogliarsi di ogni barriera e a dire sinceramente ciò che pensa, non devo fingere ignoranza come Socrate: la gente pensa da sola che io lo sia. Quindi posso giocare sull’effetto-confutazione con minore sforzo filosofico, sfruttando l’effetto sorpresa della dimostrazione che il mio quoziente intellettivo non è solo normale, ma credo, senza falsa modestia, anche superiore alla media. Quando capita, trovo molto ironiche le espressioni stupite delle persone che mi stanno di fronte. D’altra parte, se uno non fa almeno dell’autoironia, soprattutto se versa in una situazione di apparente difficoltà, rischia di cadere nella cultura della tragedia. Vorrei far notare ai lettori che anche la tragedia è stata inventata dai Greci. Ironia della sorte, di nuovo! Tale popolo ha inventato l’ironia e anche la tragedia. Inoltre, tutte e due le cose venivano apprezzate per l’effetto catartico. Se lo spettatore vedeva sulla scena l’omicidio di una moglie da parte di un marito, secondo gli antichi Greci questa visione purificava i suoi insani propositi di omicidio verso la propria, reale consorte, dunque non commetteva il delitto ma sfogava il suo istinto vedendolo compiere dagli attori sulla scena. Analogamente, l’ironia socratica mirava a evitare che si compissero errori di valutazione, i quali avrebbero potuto trasformarsi in azioni sbagliate. Anche Nietzsche nella sua opera La nascita della tragedia contrappone lo spirito apollineo a quello dionisiaco e individua proprio nell’avvento di Socrate la morte definitiva della cultura della tragedia greca. Infatti lo spirito apollineo, con la sua razionalità e la volontà di incatenare in schemi mentali predefiniti la realtà, decreta la morte di quel pessimismo generato dal caos che lo spirito dionisiaco portava in sé. La tragedia di Eschilo e Sofocle incarnava il perfetto equilibrio fra le due tendenze, ma con l’adventus di Socrate sulla scena filosofica, con la sua capacità di razionalizzare tutto, si andò incontro a una inevitabile decadenza. L’ironia, non a caso, è molto razionale. Non tutti sono in grado di coglierla, soprattutto se è solo una sfumatura. Si può ironizzare su cose che sono passibili di più livelli di lettura. In alcuni casi, bisogna essere molto colti per cogliere aspetti ironici in un discorso. L’umorismo e il riso, infatti, sono più legati all’istinto e di più facile comprensione. Ad esempio, nel celebre romanzo di Umberto Eco Il nome della rosa, che è un capolavoro letterario soprattutto in virtù della complessità dei diversi piani di lettura, l’ironia è molto presente. Tuttavia, solo una parte dei lettori sa coglierla, perché alcuni si fermano al più basso livello di interpretazione, quello che vuole il libro come un semplice thriller a sfondo storico. Invece, il libro contiene in sé molteplici piste di lettura: medievista, critico-letteraria, semiotico-testuale, etico-religiosa, sociologica, storico-letteraria, fisica. Molti critici hanno detto che il romanzo è una narrazione di ciò che Eco non riusciva del tutto a teorizzare come semiologo. Il nome della rosa va letto dal lettore attento secondo i quattro sensi dell’allegorismo medioevale, enunciati da Dante nella lettera a Cangrande della Scala: romanzo storico e romanzo poliziesco secondo l’interpretazione letterale, romanzo a chiave sulla realtà contemporanea secondo l’interpretazione allegorica e romanzo di idee logico-filosofiche, in cui l’etica e la semiotica si fondono, secondo il livello morale. Il protagonista, non a caso, confessa nell’enigmatico finale che il compito di chi ama gli uomini è di far ridere della verità, fare ridere la verità, perché l’unica verità è imparare a liberarci della passione insana della verità. L’ironia dunque non è per tutti, è strumento di grande razionalità e grande complessità. Se essa può coinvolgere anche la verità, significa che può conoscerla, che può andare al cuore delle cose, come raramente accade per altre vie. Di tutte le vie razionali per conoscere la verità delle cose, quella dell’ironia mi sembra comunque la più piacevole. Pertanto, in virtù del mezzo sorriso che desta è senz’altro preferibile a pesanti disquisizioni filosofiche, come quella che io ho appena fatto in questo mio articolo.

Un giardino del benessere e dell’integrazione

Spesso quando si pensa al concetto di viaggio si immaginano sempre delle mete turistiche lontane da casa. Eppure a tutti sarà capitato di dover pensare a qualche gita più breve e più vicina, magari la famosa “gita fuori porta”, per trascorrere un pomeriggio domenicale o una giornata festiva. Spesso, per fuggire alla città, si ama trascorrere qualche ora all’aperto, nei parchi, nei sentieri, a contatto con la natura. Il Giardino del Benessere, nato dal progetto Diversambiente, e inaugurato il 20 giugno presso il Centro Parco San Teodoro in via Abbazia 28 a Monteveglio (BO), può essere un’idea, non solo per una domenica con gli amici o con la famiglia, ma anche un’idea da copiare.

L’antefatto
Diversambiente nasce da un incontro fortunato e quasi fortuito. L’incontro tra storie ed esperienze individuali e l’intreccio di un’attenzione e di una curiosità tutta speciale hanno dato origine a un progetto complesso che vuole unire i valori della relazione, la scoperta della diversità e la conoscenza dell’ambiente.
Tutto cominciò così… da una passeggiata di Paolo Degli Esposti (Centro Documentazione Handicap di Bologna) nel Parco Regionale dell’Abbazia di Monteveglio: “Era l’autunno di alcuni anni fa, il 2006. A San Teodoro, inciampando in un ciottolo del Sentiero dei Sensi (sentiero per non vedenti) e guardando su verso l’abbazia oltre la viminata un po’ malmessa che circondava quel che una volta era l’orto didattico… mentre sbucavo tra le fronde del brollo ecco alcune domande un po’ imbarazzanti: ‘Se qui ci fosse Mario che si porta dietro a fatica le gambe, chissà come sarebbe stato possibile muoversi su quel fondo sconnesso, o piegarsi per raccogliere un fiore, o entrare nell’orto…’. Oppure: ‘Come raccontare il volo di una piccola poiana giù dal campanile dell’abbazia verso la Cucherla a chi, come Nadia, non ha una vista d’aquila…’. Diversambiente nasce così, pensando se un’area protetta, un giardino, un orto, un prato potessero trasformarsi da luogo dove emerge la difficoltà a occasione per accogliere la diversità, incontrarla, farsi interrogare anche quando questa assume il volto della persona disabile”.
Daniela De Matteis (coordinatrice Progetto Diversambiente) ricorda: “Circa tre anni fa ho avuto l’occasione di organizzare un’uscita per un gruppo di disabili provenienti da Savignano sul Panaro, dal centro I Tigli. Fu la prima occasione di sperimentare attività con gruppi di questo tipo. Siamo stati alcune ore pomeridiane a osservare e ‘giocare’ con la natura lungo e attorno al sentiero dei sensi. Tutto è andato bene e siamo rimasti contenti. In seguito è arrivata l’occasione di avere Marco Di Brino come tirocinante per il Master in Educazione Ambientale e così ho pensato bene di metterlo al lavoro sulla creazione di attività da proporre a persone con difficoltà motorie o cognitive. Nel frattempo i contatti si espandevano. La direttrice del Parco dell’Abbazia di Monteveglio, Raffaella Leonelli, ci ha messo in contatto con Paolo Degli Esposti. Da subito ci siamo scambiati alcune informazioni sulle reciproche attività e ho conosciuto Roberto e Patrizia, Lorella e Mario, educatori e animatori del Progetto Calamaio. In occasione della festa del Parco, nel maggio del 2006 abbiamo organizzato un giro che coinvolgesse i bimbi presenti con la storia del trenino Arturo… È stato divertente….Da allora il contatto è rimasto. Nel frattempo iniziava a maturare l’idea di fare qualcosa di più consistente e duraturo, così Paolo ha cominciato a coinvolgere il CDI di Crespellano e la cooperativa sociale Valle del Lavoro, proponendo il progetto Diversambiente, che presentò in occasione di un bando provinciale. Poiché l’approvazione arrivò, nell’anno scolastico 2006/07, abbiamo pensato di sperimentare la collaborazione tra Centro Documentazione Handicap e Parco dell’Abbazia in occasione di alcuni incontri organizzati con classi terze elementari di Bazzano che lavoravano alla riqualificazione del giardino scolastico. Del resto l’idea del Giardino del Benessere ben si collegava a questa magnifica occasione formativa. Abbiamo realizzato un unico incontro, ma è stato bello e interessante. L’incontro era sulla semina in semenzaio. Per questa occasione Roberto e i suoi collaboratori avevano inventato storie, animazioni e giochi che potessero inserirsi all’interno del progetto formativo di quella classe. Il progetto Diversambiente stava prendendo forma ed era difficile immaginare quanti risvolti vi avremmo scoperto…”.

Il Progetto
Dalla collaborazione di alcune realtà locali, è nata l’idea di realizzare il progetto Diversambiente nel quale l’ente capofila, l’associazione Volhand, ha coinvolto alcuni partner che lavorano in campo ambientale e sociale: il CDH di Bologna, che ospita la cooperativa Accaparlante e il Progetto Calamaio con animatori disabili; il CDI di Crespellano, che lavora sull’integrazione; la Valle del Lavoro, cooperativa sociale che offre opportunità di lavoro a ragazzi con problemi psichici; il Parco Regionale dell’Abbazia di Monteveglio, l’Area Protetta dove far nascere il Giardino e coinvolgere nel progetto disabili e bambini attraverso l’educazione ambientale.
Nato dall’idea di rendere accessibili i parchi a tutti, Diversambiente ha portato alla realizzazione di un’area del Parco fruibile anche da persone disabili grazie ad alcuni accorgimenti strutturali. Poiché spesso le difficoltà fisiche impediscono anche l’accesso alle esperienze, sono state pensate semplici attività emozionali a contatto con la natura centrate sulla valorizzazione delle abilità.
Grazie al contributo della Provincia di Bologna nel 2006 e della Fondazione Cassa di Risparmio in Bologna in seguito, si è dato avvio al lavoro. Il Parco Regionale dell’Abbazia di Monteveglio, fin dalla sua istituzione, si occupa di educazione ambientale lavorando con numerose classi delle scuole dei comuni limitrofi.
La collaborazione con alcune di queste classi – seguite da operatori del Parco, del CDI e da persone disabili nel ruolo di animatori – ha portato alla ideazione del Giardino del Benessere e alla sperimentazione di un nuovo rapporto con l’ambiente naturale che, da semplice luogo in cui trascorrere il tempo con piacevolezza, si è rivelato ideale luogo di integrazione.
Il posto scelto per la realizzazione del Giardino si trova alle spalle dell’attuale sede del Parco, il
Centro San Teodoro. Tale scelta è stata motivata dalla presenza di un comodo parcheggio e di un preesistente Sentiero dei Sensi (sentiero per non vedenti) che conduceva a un orto didattico.
L’attuale Giardino del Benessere comprende l’ex orto didattico convertito in orto-giardino, un sentiero che ne consente l’accesso, due piazzole di sosta attrezzate e una macchia arbustiva con specie autoctone. Tale percorso si raccorda all’esistente Sentiero dei Sensi, abbracciando ad anello il nucleo rurale di San Teodoro.
Per la realizzazione del progetto Diversambiente è stato determinante la collaborazione dell’Istituto Comprensivo Bazzano-Monteveglio. In particolare l’idea è stata accolta con favore da alcune insegnanti delle due Scuole di Primo Grado che, pur considerando importante la realizzazione di un luogo accessibile in prossimità della sede del Parco, erano tuttavia interessate a lavorare nei rispettivi giardini scolastici. Così, in fase di programmazione, insegnanti e operatori del Parco hanno pensato che i giardini delle scuole potessero essere, per colture e fruibilità, “gemelli” di quelli del Benessere. Le insegnanti hanno riconosciuto una grande valenza educativa nel confronto dei bambini con persone che quotidianamente hanno problemi motori di vario tipo. Questi momenti hanno sviluppato nei bambini la consapevolezza che tutti noi abbiamo limiti e difficoltà legati alla fisicità – a volte solo temporanei o dovuti all’età – e che siamo tutti uguali nel desiderio di contatto con gli elementi naturali, nei sogni e nelle aspettative.

L’acquisizione nasce da un atto d’oblio

Tempo fa mi è capitato di leggere un’interessante intervista al comparatista Daniel Heller-Roazen, realizzata in occasione della pubblicazione in Italia del suo saggio Ecolalie. Saggio sull’oblio delle lingue (Macerata, Quodlibet, 2007, traduzione di Andrea Cavazzini).
A un certo punto l’intervista si concentrava sulla questione della “lallazione infantile” così come era stata affrontata da Roman Jacobson in “Linguaggio infantile, afasia e leggi generali della struttura fonetica”, secondo il quale un bambino riesce facilmente ad accumulare un enorme numero di articolazioni che nessuna lingua particolare possiede. Partendo da queste considerazioni, Heller-Roazen ha cercato di capire come sia possibile “dimenticare” questa capacità ricettivo-produttiva nel passaggio dalla fase prelinguistica a quella di apprendimento di una lingua. Riporto le parole del comparatista: “Il lavoro sulle afasie mi ha, in effetti, fornito un punto di partenza. Contiene una memorabile evocazione di ciò che Jacobson chiama ‘l’apice del balbettio’: uno stato […] in cui non si può porre alcun limite alle capacità fonatorie del borbottio infantile. In questo stato, per quanto riguarda l’articolazione, gli infanti sono capaci di tutto. Pur non parlando ancora, possono già produrre qualsiasi lingua umana, il tutto senza il minimo sforzo. Tanto più sorprendente, nota Jacobson, è il fatto che, “quando il bambino passa dallo stadio prelinguistico all’acquisizione delle prime parole, perde interamente la sua capacità di produrre dei suoni”. Non solo non può più produrre quei suoni contenuti nel suo balbettio che non servono nella sua nuova lingua, ma molti suoni comuni al balbettio infantile e al linguaggio adulto spariscono anch’essi, ora, dal repertorio linguistico dell’infante. Solo a questo punto può dirsi veramente iniziata l’acquisizione di una singola lingua. Il mio libro Ecolalie inizia con alcune riflessioni su questo evento che […] costituisce una sorta di mito dell’origine del linguaggio. Come ogni mito, anche questo suscita delle domande. Che cosa succede ai molteplici suoni un tempo emessi facilmente dall’infante? E che cosa ne è stato dell’abilità – che possedeva prima di apprendere i suoni di una singola lingua – di produrre quelli contenuti in tutte le lingue? È come se l’acquisizione del linguaggio fosse possibile solo attraverso un atto di oblio, una sorta di amnesia linguistica infantile (o amnesia fonica, dato che ciò che l’infante sembra dimenticare non è il linguaggio, ma una capacità infinita di articolazione). Forse l’infante deve dimenticare le infinite serie di suoni che poteva un tempo produrre ‘all’apice del balbettio’ per padroneggiare il sistema finito di consonanti e vocali che caratterizza una singola lingua. Forse la perdita di un arsenale fonetico illimitato è il prezzo da pagare per ottenere i documenti che gli garantiscono piena cittadinanza nella comunità di una singola lingua”.
Questa parole mi sono tornate in mente mentre assistevo alla proiezione di Hear and Now, al quale sembravano adattarsi in maniera perfetta, al di là delle (tante) differenze del caso.
Sono, in un certo senso, la descrizione del momento di una scelta, per quanto involontaria, della dismissione di una particolare capacità in presenza della quale sarebbe forse impossibile acquisirne un’altra, necessaria e propedeutica allo sviluppo di competenze ulteriori.
È necessario abbandonare, dimenticare il possesso di tutti i “suoni” per accedere a una lingua finita e condivisa. Una declinazione specifica della più generale necessità di abbandonare qualcosa (di sé e non solo) per poter aver accesso alla vita sociale.
Hear and Now è un documentario sulla storia dei genitori della regista, Paul e Sally Taylor, entrambi sordi dalla nascita, che decidono di sottoporsi all’età di sessantacinque anni all’applicazione di un impianto cocleare, un’operazione che potrebbe dar loro la capacità di udire. Il film è un ritratto intimo che segue il viaggio dei due coniugi da un “confortevole” mondo di silenzio a un nuovo e complicato mondo di suoni. Il legame di parentela tra la regista, Irene Taylor Brodsky, e i protagonisti ha consentito una vicinanza estrema della telecamera a Paul e Sally e un accesso fluido, mai artefatto, all’intimità dei corpi e degli spazi della realtà filmata. L’appuntamento con un’operazione potenzialmente destabilizzante fornisce l’occasione per “aprire” la narrazione a momenti di ricordo spesso incredibilmente densi: il racconto di quando Sally smise di cantare alla figlia ancora bambina essendosi accorta che quest’ultima cominciava a percepire come anormale, o non completamente conformi alla normalità, la sua voce e, con la voce, la madre in sé. O il ricordo di quegli eventi della vita quotidiana che rivelavano progressivamente alla regista la vulnerabilità dei propri genitori, nonostante la loro capacità di adattarsi ottimamente alle “regole” del mondo.
Ancora, le sequenze in cui Paul e Sally rivivono il passaggio, traumatico per entrambi, dalla scuola privata per sordi alla scuola pubblica per tutti.
O il ricordo delle invenzioni del sig. Taylor, come il videotelefono, che permetteva ai due coniugi la lettura del labiale e quindi di stabilire comunicazioni e contatti a distanza: una sorta di “scoperta” della distanza, della non-prossimità.
Il film può essere letto anche come il racconto di una storia d’amore che, a un certo momento, deve affrontare un ostacolo e, insieme, sperimentare una possibilità, entrambi frutto di una scelta volontaria condivisa, che riguarderà, forse con esiti diversi, i due protagonisti: in ultima istanza, essi non sanno come usciranno da questa prova, da questo tentativo, tanto singolarmente quanto come coppia. Hanno sempre condiviso la stessa condizione di sordità, hanno condiviso la scelta di operarsi, ma non sanno se condivideranno le stesse condizioni di vita successive all’operazione, non sanno se sentiranno allo stesso modo, se reagiranno allo stesso modo.
Ma, al di là degli aspetti legati alla vita della coppia, l’approssimarsi dell’operazione, del cui esito definitivo non sappiamo niente fino alla fine del film, coincide con il sorgere di numerosi dubbi da parte della regista e dei diretti interessati: come si trasformerà la relazione tra loro e con i propri figli? Cosa potranno guadagnare o perdere per sempre? Cosa saranno Paul e Sally dopo l’intervento? Sordi che sentono? Sordi e non sordi allo stesso tempo?
È a questo punto che il ricordo delle parole di Heller-Roazen si fa attuale e applicabile al documentario: così come l’infante deve “dimenticare” per “acquisire”, allo stesso modo il problema principale per i coniugi Taylor non è tanto la riuscita tecnica dell’operazione chirurgica, quanto la loro capacità, una volta inserito l’impianto cocleare, di imparare a udire. I signori Taylor non sono bambini, ma, come il bambino che inizia a parlare per la prima volta, così loro si apprestano a udire per la prima volta, a quasi settant’anni d’età, e questo comporta difficoltà ancora maggiori nella gestione e nel processo di conoscenza dei suoni.
Perché udire è innanzitutto imparare a non-udire quello che non si vuole o non si può, è la capacità di sapersi sintonizzare su quello che si vuole, di selezionare tra i suoni e i rumori, di scegliere un flusso sonoro tra i tanti compresenti. Non è sufficiente poter udire, occorre saper udire. Dobbiamo imparare a non udire tutto per sentire qualcosa. Il destino dell’uomo, almeno in questo mondo, non è l’onnipotenza…

Hear and Now
Durata: 84’
Regia: Irene Taylor Brodsky
Montaggio: Irene Taylor Brodsky, Geoff Bartz (Supervising Editor)
Fotografia: Irene Taylor Brodsky, Crofton Diack
Musica: Original Music by Joel Goodman
Suono: Michael Gandsey
Produzione: Irene Taylor Brodsky, Eve Epstein (Senior Producer), Sheila Nevins (Executive Producer, HBO), Sara Bernstein (Supervising Producer, HBO)
Nazionalità: USA
Anno: 2007

“L’essenziale è invisibile agli occhi” : storia di una badante

Quasi tutte donne, quasi tutte straniere. Capita di poterle scorgere nei parchi delle nostre periferie mentre accompagnano un anziano a contemplare il verde, oppure d’intravederle mentre sostengono la solitudine e il disagio fisico di chi da solo non va più da nessuna parte. Ma più spesso stanno nelle nostre case, a prendersi cura di persone che in molti casi non possono uscire.
Così, un po’ nell’ombra, un po’ nell’indifferenza trascorre la vita di molte badanti, tra la necessità di mettere da parte i soldi guadagnati e il desiderio di tornare al proprio paese.
Dietro ognuna di loro c’è però un racconto, una storia mai conosciuta. “Vite” che divengono immagini di immigrazione, di lavoro e cura, talvolta di sofferenza e, quasi sempre, di sacrificio.
Sono storie di donne che chiedono di essere ascoltate, conosciute, raccontate: senza retorica però, senza pietismo, senza troppi consigli su come poter fare una vita diversa. Ed è per questo che ho deciso di incontrare Mariana.
Conosco Mariana attraverso “Casa Base”, l’agenzia che le ha trovato lavoro e che si occupa proprio di fare da tramite tra le lavoratrici straniere e le famiglie in cerca di una badante. “Amor, io se posso fare qualcosa lo faccio molto volentieri… Mi piacerebbe fare l’intervista!” – mi dice la prima volta che la sento al telefono. Immediatamente intuisco la sua voglia di raccontarmi di sé e con quel “Amor” inevitabilmente mi avvicina già alla sua vita.
Ha cinquant’anni ed è originaria dell’Equador. Subito mi dice anche che la signora per cui lavora e da cui lei vive abita a poco meno di un chilometro da casa mia. “Strano” – penso però appena la incontro – non l’ho mai notata in giro per il quartiere”.
Ci sediamo al tavolino di un bar e prendiamo un caffé.
“È un anno e due mesi che sono qui in Italia” – mi inizia a raccontare ancor prima che io le faccia una prima domanda –. “Ho scelto questo paese perché qui abita da anni una parte della mia famiglia: mia figlia, il mio genero, mio fratello e mia sorella”. Mariana ha il tono di voce un po’ indolente come se sapesse di dover fare questo preambolo. “In realtà sono venuta con mio figlio più piccolo, quello di diciotto anni, ma lui in Italia non si è trovato bene ed è voluto tornare da solo in Equador”.
Cerco attraverso i miei di occhi di farle capire che non sono per nulla in imbarazzo, che sono lì proprio perché non sono in difficoltà davanti alle sue emozioni.
Ora il figlio di Mariana sta studiando all’Università per entrare in marina e lei lavora anche per aiutarlo, perché il percorso di studi che ha scelto è molto oneroso per loro.
Ma i soldi servono anche per poter riaprire un giorno la sua attività, il suo ristorante nel suo paese che ora ha dovuto chiudere perché necessitava di lavori di ristrutturazione piuttosto costosi.
Mi accorgo, mentre Mariana mi parla di quando avevano il loro locale, di come osserva gli altri tavoli, la disposizione, le altre persone e, più di tutto, cosa gli altri mangiano. “La cucina equadoregna è molto buona, molto sabrosa” – mi dice. E così inizio a scoprire piatti fantastici: Mariana è una cuoca dalle mille ricette e mi colpiscono le sue attente analisi su come si cucina il pesce e su come nella sua regione vengono preparati certi alimenti.
Così, parlando di cucina e del lavoro in Equador, inizia a sciogliersi ogni imbarazzo e Mariana si apre con me, sulla sua vita, sui suoi ricordi, sul suo lavoro.
Il lavoro di badante non è certo ciò che sperava, ma è l’unico che sia riuscita a trovare e sa che questa è già di per sé una piccola fortuna. “Al mio paese ho una laurea in contabilità e prima di aprire il ristorante ho lavorato al Ministero delle Finanze. Ma qui in Italia non c’è uguaglianza. Noi donne straniere, anche se abbiamo studiato, riusciamo a trovare lavoro solo come badanti. Ho persino amiche medico che fanno le badanti” – mi dice con rassegnazione.
Quello di Mariana è anche un lavoro molto faticoso, perché si deve prendere cura di una persona di ottantasette anni con ridotte capacità cognitive e immobilizzata in un letto. “Lavoro dal lunedì al sabato tutto il giorno e anche tutta la notte, perché dormo in casa della signora” – mi racconta. “La difficoltà del mio lavoro è proprio che non ci si ferma mai: se la signora ha bisogno e mi chiama alle due di notte io devo svegliarmi per andare da lei e calmarla o darle una mano. Molto raramente riesco a muovermi di casa, perché lei non può uscire e io devo rimanere lì, visto che non può essere lasciata sola. Ci vuole tanta pazienza e tanta buona volontà”. Le sorrido compiacente. Vorrei solo dirle, senza timore di apparire superficiale, che la comprendo pienamente.
Ma oltre la pazienza e la volontà il lavoro di Mariana richiede anche una certa esperienza e capacità nell’ambito dell’assistenza di base; oltre a pulire la casa e fare da mangiare alla signora, Mariana si deve prendere cura di lei fisicamente: lavarla, pulirla, alzarla da letto, assisterla insomma in tutte le esigenze quotidiane che può avere una persona anziana con una grave disabilità fisica e mentale.
Mariana, pur avendo avuto tutt’altre esperienze lavorative, aveva già assistito sua nonna, malata grave, quand’era nel suo paese. Ma prendersi cura di un estraneo è un’altra cosa. “Quando ero al mio paese avevo accudito mia nonna e questa esperienza mi è servita tanto, perché ho imparato a fare molte cose che oggi mi sono tornate utili” – mi dice. “Ma farlo per lavoro è diverso. Prima di lavorare per questa famiglia mi prendevo cura di un anziano, un uomo, e dovere lavarlo e pulirlo era molto imbarazzante, sia per me che per lui”. Mariana abbassa gli occhi e fa una risata nervosa.
Prendersi cura di una persona anziana o con una grave disabilità crea poi vincoli di enorme intensità; l’assenza del reale legame affettivo o parentale non consente attimi di stacco, non ci si può permettere di sfogarsi; talvolta si litiga, non ci si trova bene, si discute, ma non si può certo uscire di casa sbattendo la porta. “La signora sgrida molto” – mi ripete spesso Mariana. “Ha dei disturbi mentali, quindi molto spesso si arrabbia e si sfoga con me. Io sopporto. Ho bisogno di lavorare e non posso fare altro”.
Sembrerà un luogo comune, ma, anche in questi casi poi ci si lega. Mariana e la signora che assiste, in fondo, passano molto più tempo insieme che non con le proprie famiglie e, alla fine, nonostante il rapporto e le frequenti discussioni, si finisce per volersi bene o, forse, vedersi insieme in un comune percorso.
“Mia figlia mi dice sempre che, se la signora mi sgrida molto, è perché l’ho fatta affezionare troppo, l’ho un po’ viziata” – mi dice scherzosamente. “So che mi vuole molto bene e anch’io sono molto legata a lei, perché penso che un giorno potrei trovarmi in una situazione simile e spero che quello che sto facendo ora per questa persona qualcuno lo faccia un domani per me. È la legge della compensazione: hoy por ti magnana por mi, diciamo in Equador”. (trad: Oggi per te, domani per me, NdR).
Ripenso alla sua frase mentre la guardo. Poi penso a sua figlia che la rincuora e le dà forza e coraggio, penso a cosa sia per lei ascoltare le difficoltà della sua mamma, sapere che fa la badante qua in Italia, lontano dalla loro terra, dal loro ristorante, dall’altro figlio. Penso alla stima e al grande amore che sostiene il loro legame.
Ci alziamo e ci avviamo verso la casa della signora. “Ciao Mariana, grazie di cuore”. “De nada amor, grazie a te per il caffé”.
Mi dà un bacio veloce, ma sentito.
“Abitiamo vicine” – penso ancora una volta tra me e me.

La posta del cuore secondo David Grossman

Professionisti del giornalismo, soubrette più o meno incapaci, donne, uomini, preti e psicologi, cantanti e politici hanno reso la posta del cuore una delle rubriche più presenti e più lette della stampa nazionale (e non solo), facendola diventare un importante strumento di assistenza sociale, di sostegno e di consiglio, uno spazio virtuale nel quale riversare le proprie pene d’amore e trovare consiglio.
Chi non ha avuto, in adolescenza come in età adulta, l’istinto di mettersi lì e raccontare i propri dilemmi d’amore a una persona più o meno sconosciuta?
In questo, infatti, sta il segreto della longevità della posta del cuore: la non conoscenza tra chi scrive e chi legge. Questo elemento permette a chi scrive di non avere remore, di raccontare tutto, di fare dichiarazioni che mai avrebbe fatto, di piangere o esaltarsi senza vergogne; permette invece a chi legge di offrire un punto di vista non pregiudiziale, né in positivo né in negativo, di dare consigli spassionati e offrire un’opinione senza peli sulla lingua.
Spero quindi non si offenda David Grossman – lo scrittore contemporaneo che stimo di più – se mi permetto di paragonare e un po’ trasformare il suo Che tu sia per me il coltello in una sorta di lunga posta del cuore.

Myriam,
tu non mi conosci e, quando ti scrivo, sembra anche a me di non conoscermi. A dire il vero ho cercato di non scrivere, sono già due giorni che ci provo, ma adesso mi sono arreso. Ti ho vista l’altro ieri al raduno del liceo. Tu non mi hai notato, stavo in disparte, forse non potevi vedermi. Qualcuno ha pronunciato il tuo nome e alcuni ragazzi ti hanno chiamata “professoressa”. Eri con un uomo alto, probabilmente tuo marito. È tutto quello che so di te, ed è forse già troppo. Non spaventarti, non voglio incontrarti e interferire nella tua vita. Vorrei piuttosto che tu accettassi di ricevere delle lettere da me (ogni tanto) scrivendo. Non che la mia vita sia così interessante (non lo è, e non mi lamento), ma mi piacerebbe darti qualcosa che altrimenti non saprei a chi dare. Intendo qualcosa che non immaginavo si potesse dare a un estraneo. Inutile dire che questo non comporta obblighi da parte tua, non devi fare nulla (sono quasi certo che non mi risponderai).

(Brano tratto da David Grossman, Che tu sia per me il coltello, Milano, Mondadori, 1999, p. 11)

Yair,
un giorno hai visto Myriam di lontano, mentre si stringeva nelle braccia, un gesto impercettibile che solo tu percepisci. Basta questo per scatenare in te un sentimento di commozione e di passione, che ti spinge a scrivere a quella donna vista solo da lontano.
Non vi conoscete, ma iniziate a scrivervi. E vi scrivete d’amore, del vostro amore.
Si sviluppa quindi un carteggio tra due sconosciuti che parlano d’amore, delle difficoltà e degli slanci del cuore, della passione e della paura.
Tu diventerai il coltello per lei e viceversa, penetrerete e taglierete fino in fondo la vostra intimità, separerete, con questo incontro, un prima da un dopo.

Scrivo così a caso, per non pensare. Per resistere alla tentazione di sfogliare le pagine e di tornare a incontrarlo. Incontrare te. Tu, tu. Dove sei ora? Come fai a non sapere che qui c’è un regalo che ti aspetta? Come hai potuto non sentirlo? Sono stata con te un’intera settimana, attraverso le parole. Decine e centinaia di pagine prima di questo foglio. Mentre scrivevo mi sentivo come un guscio di noce in balia delle onde, e adesso penso che avrei dovuto aggiungere una premessa, all’inizio del quaderno, oppure un commento alla fine. Ma cosa avrei potuto scrivere? Forse quello che ti ho detto una volta: secondo me, svelare a una persona qualcosa che non sa di se stessa è un grande dono d’amore. Il più grande.
Ho anche pensato che se tu avessi letto le tue lettere in ordine cronologico, senza le mie, dalla prima all’ultima, avresti potuto scoprire parecchie cose sul tuo conto. Non solo “negative”, come quelle che tu, spesso, ti mostri ansioso di rivelare. Così avresti potuto cominciare a considerare te stesso da un punto di vista diverso, il mio per esempio. Ma ti dirò tutto questo quando ci incontreremo a tu per tu. Ora, ti prego, non disturbare, lasciamo in pace, Yair. C’è dell’altro che voglio scrivere qui.

(Brano tratto da David Grossman, Che tu sia per me il coltello, Milano, Mondadori, 1999, p. 240)

Myriam,
le vostre lettere, messe in ordine cronologico, descrivono l’abisso delle emozioni, sia femminili che maschili, con una chiarezza immediata.
Si legge l’animo umano, diventa comprensibile a tutti, stralci d’amore che parlano la stessa lingua del cuore di noi lettori.
Come una montagna russa ci si sente lontani e poi subito vicinissimi al sentimento che esprimete, così tanto che a volte ti coglie il desiderio di chiudere il libro, per quanto ti faccia sentire nudo, svelato. Ma non puoi, perché speri che, lettera dopo lettera, questo dialogo sveli qualcosa in più di te stesso, di ciò che anche tu fatichi a comprendere.

Tu sai che sono un po’ lenta, tanto più se paragonata a te. Ma da ieri la mia mente si va schiarendo e capisco facilmente cose che prima mi sembravano complicate. Per esempio, che in nessun caso vorrei voltare le spalle a quello che c’è tra noi. Sono disposta ad aspettare quanto occorre, quanto ti occorre. Perché “quello che c’è tra noi” merita l’attesa. Anzi, c’è tempo. Così mi sembra oggi. La vita è lunga e anche un mazzetto di trenta colchici è splendido. Yair, non credo che tu sia la persona in grado di guarirmi dalle ferite interiori; ma forse, in questa fase della mia vita, non ho tanto bisogno di un medico quanto di una persona che ha una ferita simile alla mia.
(Brano tratto da David Grossman, Che tu sia per me il coltello, Milano, Mondadori, 1999, pp. 244)

Yair, Myriam
avete ferite comuni, dolori e fatiche quotidiane, insoddisfazioni e disfatte.
Ferite come radici, dalle quali trae nutrimento il vostro amore virtuale, come davanti a uno specchio riconoscete la vostra vita in quella dell’altro.
In questa terra di mezzo, nella quale ciò che non si conosce diventa conosciuto, sperato e desiderato superate le paure mantenendo una distanza di sicurezza. La corrispondenza diventa un mezzo per esprimere e raccontare la passione mantenendo uno spazio difeso dentro il quale muoversi, evitando quindi un confronto effettivo e definitivo con la realtà.
O forse no.
In fondo anche la vostra corrispondenza è reale, molto più di tante storie d’amore nelle quali viene meno proprio la comunicazione dei sentimenti più profondi, nella quale la nudità fisica va a sostituire quella dell’animo, ben più preziosa e difficile da raggiungere. Yair e Myriam, in fin dei conti siete nudi, uno di fronte all’altra, perché, lettera dopo lettera, vi siete svelati.
Una nudità però solo apparente, troppo fragile.

Sai, in quest’ultimo periodo ho pensato che abbiamo parlato sempre poco di cose che andassero al di là della nostra sfera personale. Ricordo che più di una volta, prima di sedermi a scrivere, ho deciso di raccontarti almeno una cosa che mi era accaduta nel mondo “esterno”, di portare qualcosa della “realtà” nella nostra sfera. Di ampliarla un po’. Ma credo di non esserci mai riuscita. Quello che avevo da raccontarti di noi due era sempre più forte e impellente… Ma quanto tempo, secondo te, una cosa del genere può continuare senza stimoli esterni, quotidiani e reali? E quando tempo sarebbe trascorso prima che questa intimità ci soffocasse? Pensi che qualcuno possa effettivamente vivere così per tutta la vita? (Ora, in questo momento, sento che all’interno di questa intimità potrei davvero ricominciare a respirare)
(Brano tratto da David Grossman, Che tu sia per me il coltello, Milano, Mondadori, 1999, p. 292)

Yair, Myriam
la vostra stessa intimità vi ha soffocato, un’intimità alla quale è venuto a mancare l’ossigeno, un orizzonte ampio che le permettesse di guardare altrove. Il vostro è stato un amore che ha curato e che, come ogni cura, raggiunto l’obiettivo termina, prima di provocare un’altra malattia.
Ogni posta del cuore, in effetti, come la vostra, non può essere infinita, ma deve trovare una via di uscita per trasformarsi in storia, in incontro; lasciare la carta per trovare spazio sulla terra, il sogno per incontrare la vita, la paura per l’infinito… fare in modo, come dici tu Myriam “che tutte quelle migliaia di parole diventino corpo”.
Purtroppo ciò non è successo.
L’addio, sotto la pioggia, è uno sguardo, veloce, malinconico, una fuga da questo amore troppo parlato e poco vissuto.

SportAbile: informazione, gioco e creatività

Da qualche anno a questa parte, seppur scontando una condizione di invisibilità televisiva pressoché totale, le Paralimpiadi sono un evento piuttosto conosciuto.
Il caso di Oscar Pistorius, controverso e sul quale non voglio soffermarmi, ha, suo malgrado, contribuito ad allargare il numero di persone consapevoli dell’esistenza di questa manifestazione, che da ormai più di trent’anni si svolge appena terminano le competizioni olimpiche “riservate” agli atleti normodotati, nel medesimo paese che le ospita.
Questa è ovviamente la parte più visibile, la punta dell’iceberg di un fenomeno ben più ampio, e in un certo senso ben più interessante. Ma cosa c’è sotto? Potremmo dire che è questa la domanda che ha spinto il Centro Documentazione Handicap di Bologna, la Coop. Accaparlante e l’azienda Coloplast a lavorare alla realizzazione di una guida allo sport per tutti, ovvero a tentare di scoprire e descrivere sinteticamente proprio quel “sotto” di cui parlavamo. Il risultato è la guida Sportabile, richiedibile gratuitamente a questi recapiti: Coloplast numero verde: 800/018537; chiam@coloplast.it.
Credo che per costruire una logica e una pratica di “sport per tutti” sia necessario conoscere quali risorse sono disponibili sul territorio; quali enti si occupano di facilitare l’accesso diffuso alla pratica sportiva; quali associazioni, polisportive, società sono attive; quali discipline possono essere praticate e, da ultimo, quali sono le regole che caratterizzano quelle discipline. L’integrazione sempre di più passa per una corretta informazione e per un accesso facile a essa.
La guida assume un’idea di sport ampia, nel senso che l’attività sportiva viene intesa non solo come pratica agonistica, ma come momento di socializzazione, di svago, di riabilitazione e di terapia. Aspetti che solo in parte coincidono nelle attività sportive cd. adattate.
Come specificato nella quarta di copertina della guida, “se è vero che il desiderio di esercitare un’attività fisica può essere scoraggiato dalla presenza di un deficit, è importante sapere che quest’ultimo incide solo nella scelta dello sport, ma non certo sull’opportunità di farlo”.
Per scegliere, come dicevamo, è imprescindibile una corretta informazione: per questo il volume cerca di fornire un quadro d’insieme del panorama e dell’“offerta” in Italia, tenendo conto che a volte i percorsi d’accesso non sono ben codificati e conosciuti.
A una parte introduttiva che introduce alla storia istituzionale dello sport per disabili e delinea un’idea di attività fisica accogliente e svincolata dalle regole cui siamo abituati (si tratta solo di inventarne e accettarne di altre…), seguono le descrizioni di dieci sport, per i quali vengono fornite schede tecniche, testimonianze di tecnici e atleti praticanti e tutti i recapiti e i riferimenti utili per accedere agevolmente alle informazioni necessarie a intraprendere quella disciplina. La guida riporta inoltre il contributo scientifico di Davide Villa, responsabile, all’interno dell’Ospedale di Montecatone, dell’attività di RGS (Riabilitazione tramite Gesto Sportivo). La guida, quindi, è un ottimo strumento per informare e, cosa più importante, è un ottimo strumento per invogliare a fare sport, anzi… sportabile.

Deistituzionalizzazione in Serbia: la specificità del contesto e la cooperazione italiana

Quando si parla di integrazione delle persone disabili e del loro diritto a non restare per forza imprigionate in una segregazione che nega diritti a chi la subisce e impoverisce la comunità che la impone, ci si accorge che le azioni politiche e l’organizzazione dei servizi sociali variano in modo profondo a seconda del contesto, e che spesso benessere economico e politiche d’inclusione non viaggiano di pari passo. Così i confini tra Nord e Sud si fanno ancora più labili, smettono di essere muri tra progresso e sottosviluppo, e divengono semplicemente punti di vista, prospettive che si incontrano, si contaminano, si migliorano vicendevolmente.
In Serbia, repubblica balcanica di certo non ascrivibile al concetto di Sud del mondo, è in atto una riforma del welfare, incentivata anche dalle pressioni dei donors e dalla necessità di adeguarsi a disposizioni e standard internazionali, che prevede un cammino di deistituzionalizzazione nel quale, attraverso azioni di rafforzamento dei servizi sociali, si vuole incoraggiare la permanenza dei minori disabili in famiglia, e la loro partecipazione alla vita sociale.
Per meglio percorrere la strada dell’inclusione, Belgrado ha chiesto l’aiuto della cooperazione italiana, che avrà il compito di intercettare le forti energie in fermento nella società civile, per far sì che anche l’apparato istituzionale, tradizionalmente meno disposto al nuovo, si faccia promotore di un cambiamento di prospettiva che dovrà tradursi in azioni integrate, a livello locale e nazionale, organizzativo e politico, sociale e culturale.
E anche in questo progetto si fa ampiamente riferimento alla necessità di valorizzare le risorse esistenti in seno alla comunità, riconoscendo nuovamente valore alla dimensione locale, che prende senso in virtù delle relazioni e delle reti di solidarietà che la animano.
Per meglio comprendere l’importanza di un simile impegno e per svelare le sfide che porta con sé, ne abbiamo parlato con Cristina Roccella, Consulente di politiche di protezione sociale per la Direzione Generale per la Cooperazione allo Sviluppo del Ministero degli Affari Esteri, che ha avuto il compito di dare il via al progetto “Support to the deinstitutionalisation of children, in particular those with disabilities, in the Republic of Serbia” realizzando il Convegno iniziale svoltosi a Belgrado a fine marzo, al quale hanno preso parte anche Claudio Imprudente, presidente del Centro Documentazione Handicap, Luca Baldassarre, presidente della Coop Accaparlante e Roberto Parmeggiani, educatore del Progetto Calamaio.

Per chi vive in Italia, o in altri contesti nei quali l’integrazione è un diritto, se non proprio una realtà a tutti gli effetti, è difficile immaginare cosa stia dietro il termine istituzionalizzazione. Può aiutarci a capire?
Premesso che in Serbia il percorso per un riconoscimento legislativo del minore come titolare di diritti la cui lesione costituisce un crimine non è ancora stato portato a compimento, ad oggi non esiste nemmeno un sistema di monitoraggio attendibile sulla presenza e sulle condizioni di vita di bambini disabili. Tuttavia basandosi sulle stime delle organizzazioni internazionali, i pochi dati disponibili dimostrano che al momento la maggior parte dei minori con disabilità è affidata a famiglie, mentre solo una parte ridotta vive negli istituti. Non c’è nessun obbligo di ricovero dei minori, ma è indubbio che l’istituzionalizzazione sia tuttora considerata la prima possibilità con cui lo Stato può farsi carico dei minori che non hanno una famiglia in grado di prendersene cura.
In ogni caso – e sono le loro mamme a sostenerlo – fin da quando nascono questi bambini sono isolati dagli altri perché considerati malati. Viene loro negato l’accesso alla scuola regolare, e anche le scuole speciali si riservano il diritto di appellarsi alla presunta “ineducabilità” di quelli giudicati troppo gravi. Esiste una proposta di legge che potrebbe cambiare questa situazione, ma non è ancora stata approvata.
In un simile contesto l’istituzionalizzazione, che spesso riflette il fallimento di sistemi familiari non sufficientemente sostenuti, rafforza lo stigma sociale e completa quel percorso di progressivo isolamento che vive la maggior parte delle persone disabili.
Ci sono stati casi in cui si è tentato di “aprire le porte” degli istituti alla comunità, ma il solo fatto che si tratti di strutture geograficamente isolate spesso non aiuta. L’istituto, dove lavoreremo principalmente con il progetto finanziato dal Governo Italiano, si trova in cima a una collina ed è circondato da boschi…
Di positivo c’è che la riforma del welfare sta creando le condizioni per una presa di coscienza collettiva del diritto di ognuno alla vita nella propria comunità e all’accesso ai servizi, che iniziano a essere concepiti non solo come erogatori di sussidi economici ma anche come realtà costruite intorno alla relazione d’aiuto.

Quindi a fronte di leggi e istituzioni ancorate a posizioni che a noi possono sembrare superate, qual è l’atteggiamento della società civile rispetto a temi quali la diversità, la disabilità, l’inclusione sociale, la deistituzionalizzazione?
Si tratta certamente di un panorama complesso e difficile da delineare. In Serbia, come altrove, persiste un atteggiamento diffuso che tende a giudicare il mondo e la società attraverso categorie e standard di riferimento piuttosto rigidi, in base ai quali ognuno acquisisce o meno la possibilità di prendere parte ai vari aspetti della vita collettiva. Di conseguenza la diversità viene spesso accolta con diffidenza, a volte con compassione o accondiscendenza, e solo più raramente come una risorsa.
Questo non ha impedito però che la società civile o parte di essa potesse cogliere l’urgenza e la necessità di valori quali l’inclusione sociale dei disabili e il processo di deistituzionalizzazione, nonostante si trattasse in qualche modo di tematiche calate dall’alto, sollecitate dagli interventi dei donors, e non necessariamente prodotte da una riflessione collettiva.
E come di frequente accade, è stato ben più evidente e rapido il cambiamento di prospettiva generatosi nella società civile rispetto a ciò che è accaduto all’interno delle più rigide strutture istituzionali che faticano ancora a far propria un’alternativa allo status quo.

Quali sono i punti di forza dell’esperienza di cooperazione italiana che possono arricchire il processo di riforma in atto in Serbia?
Innanzitutto vorrei ricordare che la Cooperazione Italiana ha già sostenuto diversi progetti di inclusione sociale e deistituzionalizzazione in vari paesi, nati sulla base di traguardi raggiunti in Italia. Nonostante alcuni punti oscuri, nel nostro Paese è stato realizzato un sistema di protezione sociale che reputo tra i meglio strutturati tra tutti quelli che ho avuto modo di conoscere nella mia esperienza lavorativa.
Inoltre, anche se so che potrebbe sembrare paradossale, trovo che l’imperfezione del nostro modello sia ciò che lo rende adatto all’interazione con Paesi che ancora sono agli inizi del cammino, e che troverebbero difficoltà ben maggiori nel confronto con sistemi “perfetti” e troppo costosi, come quelli nordeuropei. Da quest’imperfezione nasce l’invito alla creatività e alla flessibilità necessarie a individuare le soluzioni più adatte a ogni contesto.
A mio parere il punto di forza della modalità di cooperazione italiana, che a volte viene interpretato come un modus operandi approssimativo, ma è invece frutto di scelte precise, è proprio la determinazione a non voler proporre modelli, linee guida, o format specifici come soluzione ai problemi individuati insieme alle controparti. L’intenzione è quella di porsi in un confronto alla pari con altre realtà che stanno compiendo il loro percorso di ricerca, per mettere in comune idee, risorse e buone prassi, con la volontà di raggiungere un risultato interamente originale, frutto della contaminazione di più punti di vista, che si riveli occasione di crescita per entrambe le parti.
In questo modo, anche principi largamente condivisibili come quelli contenuti nelle Convenzioni internazionali sui diritti dei minori o sui diritti delle persone disabili, ma che spesso sembrano destinati a restare sradicati dalla realtà. Con queste modalità, invece, possono trovare una declinazione originale e partecipata che permette di articolare concretamente la messa in pratica.

Quando la bellezza non è un fotomontaggio

A volte ritornano, si è soliti dire. Bene, questo è il mio caso di ritorno, pure fortunato.
Ho passato giorni e giorni a pensare a cosa poter scrivere questa volta sulla rubrica Informazione sociale, ma dopo tanti anni di giornalismo – proprio nel sociale – gli argomenti sembrano scontati e le idee ripetitive. Speravo in un evento esterno, in qualcosa che colpisse la mia esperienza in questo campo, che mi facesse lodare una riuscita informazione sociale oppure criticarla. Nel frattempo occupavo il mio tempo libero con Facebook (sì, lo ammetto), il potente social network che sta raccogliendo sempre più proseliti, grazie al quale ho ritrovato amicizie del passato e anche qualche docente universitario che “ai miei tempi” era “solo” un dottorando di ricerca. Mentre sbirciavo nel profilo web di uno di questi docenti, ho ritrovato vecchi stimoli cerebrali di qualche anno fa, quando lo studio delle nuove tecnologie era la mia materia preferita. Questa persona, ho scoperto, continua a leggere “Wired”, la rivista sempre attenta al futuro.
“Wired”… Se devo essere sincera me l’ero dimenticata… Il lavoro, gli impegni quotidiani, la realtà reale, contrapposta a quella virtuale che studiavo, mi hanno negli anni allontanata da certe materie e da un certo modo di interpretare la società.
Incuriosita ed emozionata per questi ricordi, ho aperto il sito web di “Wired Italia” e lì in bella mostra appariva con tutta la sua potenza la copertina del numero di giugno. In primo piano, una bellissima ragazza, con un vestito bianco cortissimo da cui escono delle gambe mozzafiato, salvo dal ginocchio in giù dove ha innestate due protesi ipertecnologiche modello powerfoot. Inginocchiato ai suoi piedi, un giovane uomo, vestito di un abito grigio metallico, sembra uscito da un film di fantascienza e, sorridendo, sta facendo manutenzione a un arto sintetico della ragazza. Anche lui al posto dei piedi ha due powerfeet, anche se di modello differente.
Lei è Aimee Mullins, ex campionessa di velocità e salto in alto, oggi modella e attrice. Da bambina ha perso le gambe, ma non è stato un problema per lei farsene costruire di tutti i tipi: ne ha di cristallo per le serate eleganti, di legno decorate con scarpe con il tacco incorporate, realistiche da indossare sotto alle gonne, tecnologiche di vari modelli. Lui è Hugh Herr, un professore che dirige il dipartimento di biomeccatronica del MIT (Massachusetts Institute of Technology) di Boston, costruttore delle protesi di entrambi; per capirci, è quello che ha “inventato” il fenomeno Pistorius. Appassionato da sempre di montagna e scalate, quando aveva 17 anni per un brutto incidente si congelò gli arti inferiori che gli furono amputati.
Si sono fatti fotografare assieme, sotto al titolo “Evoluzione in corso”, in pieno stile della rivista.
La mia prima esclamazione è stata: “Bello!”. Bella la copertina patinata, bella la foto, belli i protagonisti, bellissime le protesi, e bello ritrovare “Wired” e la disabilità unite insieme, i “miei” due argomenti di nuovo intrecciati. Bello, soprattutto, trovare la disabilità in contesti che non trattano solo di disabilità.
Incuriosita ancora di più, ho fatto qualche ricerca in rete e ho scoperto che la sensazione comune che molte persone hanno provato davanti a questa copertina è stata: “Si tratta di un fotomontaggio!”. Gli opinionisti hanno subito commentato che nella percezione comune sembra impossibile che due disabili veri possano assumere un atteggiamento così vincente. Il direttore di “Wired”, Riccardo Luna, ha così successivamente scritto un editoriale, “Storia di una copertina (non di un fotomontaggio)”, ribadendo il messaggio dei due ragazzi post-umani: “Quello che gli altri percepiscono come carenze sono il combustibile della nostra creatività”. Creatività e vittoria schiacciante sui limiti, è solo questo il messaggio? Se così fosse non sarebbe una buona informazione sociale, siamo stanchi di disabili solo eroi o solo vittime. Non potrebbe invece essere che si “grida” al fotomontaggio perché la copertina è semplicemente – senza fronzoli e doppi sensi – bella? Forse due disabili veri non possono essere una bella copertina?

Le mie prigioni

Da qualche mese ormai mi reco in carcere una volta alla settimana. I miei 25 lettori si staranno già interrogando sui reati che può avere commesso uno in carrozzina. Ebbene, seppure ultimamente in effetti con la mia automobile attrezzata e dotata di tutti i contrassegni possibili stia prendendo un bel po’ di multe (e non si capisce perché), in carcere non ci sono finito per qualche malefatta, ma per fare volontariato. Ancora i miei 25 lettori avranno sgranato gli occhi. Come? Un disabile fa volontariato? Di solito sono i cosiddetti normodotati che fanno volontariato con i disabili… o no? Ebbene, io faccio volontariato. Spesso lo faccio con gli amici che vengono a trovarmi, offro consulenza e consigli psicologici per 5 cent, come Lucy dei Peanuts. Adesso, però, ho allargato i miei orizzonti fra le mura del carcere. Come possono allargare gli orizzonti delle mura e delle sbarre alle finestre? Altra domanda che almeno uno dei 25 lettori si starà ponendo. Ebbene, io vado in carcere a parlare di libertà. Un disabile che parla di libertà in un carcere. Quasi scandaloso. Invece, i disabili e i carcerati hanno qualcosa in comune. Ovvero, la mancanza di libertà. Mi correggo, la mancanza di autonomia. Libertà e autonomia sono due cose diverse. Nei suoi Four Essays on Liberty, il filosofo Isaiah Berlin definisce la celeberrima distinzione fra libertà positiva e negativa, libertà di e libertà da. Al carcerato mancano entrambe, se si considera l’aspetto materiale della libertà e non quello morale (libertà di pensiero, di parola, religiosa, ecc.). Il disabile, invece, non è privo di libertà da, perché non è vincolato da sbarre. Ma è privo, spesso, della libertà di. Il disabile dipende in molte cose, talvolta in tutte, da qualcun altro. Non è la carrozzina che tiene prigioniero il disabile, perché essa non è paragonabile alle sbarre, anzi, di frequente è uno strumento di libertà, permette di spostarsi, di fare cose che, altrimenti, non sarebbero possibili. Ma la libertà di, la libertà positiva, quindi la più importante, come il termine suggerisce, non ce l’ha nessuno dei due. Questa è ciò che indicavo sopra con la parola “autonomia”. Dal greco, autos e nomos, la possibilità di darsi delle regole da sé, di gestirsi in modo libero e non vincolato. Una persona con handicap le regole non se le può dare da solo. Mangia quando gli altri preparano il cibo per lui, spesso deve essere anche imboccato, si lava quando qualcuno lo aiuta, dorme quando c’è chi lo adagia nel letto. Naturalmente, può imporsi tutte le regole morali che vuole, ma non quelle materiali. Anche sulle regole morali, però, ci sarebbe da discutere. Il disabile, spesso, non è libero nemmeno di peccare. Meno male che vale anche il pensiero, verrebbe da dire. Altrimenti, i portatori di deficit sarebbero tutti santi. Per verità, molti credono che lo siano davvero. Racconto sempre l’aneddoto delle due vecchine che, al santuario di Sant’Antonio da Padova, strofinarono il fazzoletto candido su di me invece che sulla reliquia del Santo, sperando che io intercedessi in modo ugualmente efficace per ottenere loro le grazie. Se avessi tanto credito presso il Padreterno, ne approfitterei diversamente. In ogni caso, dicevo, non siamo liberi neppure di peccare, di sbagliare. Invece, chi è in carcere ha approfittato troppo della libertà di sbagliare che gli era stata data. Sia i disabili, sia i carcerati, naturalmente, mantengono tutta la loro libertà interiore. Talvolta, tuttavia, nemmeno il pensiero è libero, anche se a prima vista dovrebbe esserlo più di ogni altra cosa. I condizionamenti, interni ed esterni, sono tanti. Le sbarre, come la carrozzina, possono influenzare anche il modo di pensare. Così come, talvolta, i pensieri che portano a commettere i reati possono essere stati condizionati da circostanze esterne. Inoltre, il disabile, spesso, è nato così. Carcerati, invece, non si nasce. Chi ha conosciuto gli sterminati spazi leopardiani difficilmente si adatta alla costrizione della detenzione. I rei, però, hanno potuto scegliere, i disabili no. La detenzione ha fine, la disabilità no. Quasi tutti i carcerati possono immaginare il momento in cui riacquisteranno la libertà. Potranno riabbracciare i familiari, tornare alla loro vita. Avranno la possibilità di non commettere di nuovo gli errori che li hanno portati alla detenzione. Una certa cultura, ormai fortunatamente quasi scomparsa, voleva che anche i disabili si ritrovassero in una simile condizione a causa di una qualche colpa. Ma non una colpa attribuibile a loro stessi, naturalmente, bensì ai genitori, alla famiglia, agli avi. Colpe dei padri che ricadono sui figli. Il massimo dell’ingiustizia. Eppure, secondo molti, l’handicap era una punizione divina, una possibilità di purificazione ed espiazione in nome di tutta l’ascendenza. Se dal punto di vista scientifico alcuni deficit sono perfettamente spiegabili, altri meno, dal punto di vista morale e teologico l’handicap rimane un grande mistero, un’incarnazione del dolore e della piccolezza dell’uomo. Il teologo Vito Mancuso ha scritto sull’argomento un libro intero, dal titolo emblematico Il dolore innocente. Se si è avvertito nel XXI secolo il bisogno di dare alle stampe siffatta opera, significa che, forse, il dubbio, qualcuno, ancora lo aveva.
La mancanza di autonomia dei carcerati e dei disabili, dunque, ha radici totalmente diverse. Per i primi è conseguenza di una colpa evidente, per i secondi è un “dolore innocente”. Tuttavia, forse è più dolorosa per i primi. Per questi, infatti, è un “dolore colpevole”.
Tale esperienza di confronto è stata per me totalmente nuova. Io sono abituato a parlare di fronte a platee che, spesso, condividono poco con me, che al massimo possono pormi qualche domanda alla fine del mio intervento, o meglio, della lettura di esso da parte di un mio collaboratore. Invece, quella che ho seguito in carcere è una vera e propria classe, da cui mi sono recato una volta alla settimana per un anno intero, condividendo, dialogando, confrontando, scambiando esperienze e opinioni. Ho sentito la responsabilità di accompagnare i miei allievi in un percorso che non si esaurisse in una lezione frontale di filosofia. Quello che ho insegnato ai miei discenti è per lo meno pari a quello che io ho appreso da loro. Forse, la cosa più importante che ho capito riguarda il fatto che la condizione di disabilità, come quella di recluso, riguarda tutti, non solo i portatori di handicap e i carcerati. Tutti manchiamo di libertà, perché la natura umana ha dei limiti ben precisi in sé connaturati, che rendono l’uomo un essere imperfetto. Tutti, dunque, possono riconoscere le proprie prigioni, talvolta superarne lo spazio angusto, talvolta, semplicemente, accettarle.

Uno strano caso. La tua impressione è solo un punto di vista

Siamo nella villa di Annibale, vecchietto simpatico, un po’ sordo.
Da circa una settimana sono lì raccolti i suoi parenti più cari.
C’è Sergio, il figlio cieco a causa di un incidente e sua moglie Costanza, eccentrica artista sempre in giro per mostre e vernissage.
Viola, secondogenita di Annibale, è una bella ragazza che si crede brutta. La sostiene in questa convinzione il fatto che fino ad ora non è riuscita ancora a trovare marito.
Lucrezia, sorella e socia in affari di Annibale, vive in città ma è lì per festeggiare, come ormai da vent’anni, il suo compleanno.
Sono inoltre presenti il maggiordomo Manfredo, affetto da tic da nervosismo e la governante Silvana, resa zoppa da una strana caduta parecchi anni prima.
Un altro ospite è presente, Walter, un viaggiatore al quale si è guastata la moto (un poco di buono, ha trascorso alcuni mesi in carcere per una presunta rapina).
La sera la festa di compleanno.
Mentre il maggiordomo e la governante servono da mangiare e da bere, gli altri ospiti parlano, chiacchierano, bisbigliano…
Vengono consegnati i regali: Viola dona una collana di perle, Sergio e Costanza un prezioso grappolo d’uva di smeraldi e Annibale un bracciale di corallo, rosso fuoco.
L’entusiasmo un po’ per volta cala e i famigliari si ritirano nelle loro stanze.
Rimangono Lucrezia e Annibale, parlano fitto mentre Silvana riordina.
Annibale chiude la discussione ed esce velocemente, seguito dalla governante.
Lucrezia si siede sul divano, come stremata dalla discussione e si addormenta sbadigliando smisuratamente. La mattina dopo la zia viene trovata morta.
Alla luce degli indizi che raccoglierete, dovrete scoprire il colpevole!
Questa è la missione dei 160 bambini che parteciperanno quest’anno a un centro estivo nella provincia di Bologna. E tale missione verrà presentata dagli animatori sotto forma di spettacolo teatrale. Ognuno di loro diventerà un investigatore, un commissario, un esperto dei R.I.S. e dovrà raccogliere indizi per riuscire a scoprire il colpevole, l’assassino che ha fatto fuori la zia Lucrezia.
Avranno la possibilità di guardare il caso da più punti di vista e dovranno cercare il modo più creativo per superare le difficoltà che uno strano delitto come questo gli porrà davanti.
Infatti i vari protagonisti della storia saranno portatori sia del loro personale punto di vista, attraverso il quale offriranno indizi utili alla risoluzione del caso, sia di diverse difficoltà che, nei giochi come nei laboratori, saranno occasione di divertimento e scoperta.
Gli investigatori impareranno, almeno se lo augurano gli animatori del centro, che il punto di vista di ognuno è importante però non è l’unico, dovranno costruirsi il proprio, non contrapponendolo a quello degli altri bensì integrandolo. In questo modo potranno scoprire che la verità è una sola ma ha molte facce e tutte quante sono giuste.
Tutto questo viene organizzato per dare concretezza all’idea pedagogica che guida il centro estivo, un’idea che si basa su alcuni punti forza: la pluralità di esperienze formative degli animatori, la teoria del dis-equilibrio educativo e il concetto di co-divertimento.
Sono punti forza che non trovano fondamento in una particolare teoria pedagogica, sono idee nate e cresciute nel grembo dell’esperienza di tanti animatori che hanno lavorato estati intere, svolgendo attività, ascoltando e riprendendo bambini, relazionandosi con genitori ansiosi e affrontando le difficoltà del fare educativo.
A proposito di animatori, da sempre quelli che hanno svolto servizio al centro estivo vengono da esperienze formative ed esperienziali piuttosto varie: studenti di ingegneria, filosofia, lettere, farmacia, scienze naturali e del territorio,… Una pluralità formativa che, se in un primo tempo potrebbe apparire come un limite o una difficoltà, durante gli anni si è rivelata una delle peculiarità principali del lavoro di gruppo valorizzando sia questo che il singolo.
Obiettivo degli organizzatori è quello di permettere a ogni animatore di offrire il massimo a partire dalla loro professionalità, portando quindi un valore aggiunto al lavoro educativo. Dall’altro lato vuole offrire a ognuno la possibilità di sperimentarsi in un’attività educativa che, nella maggior parte dei casi, non diventerà il loro principale lavoro, ma che potrà offrirgli un’altra impressione sul mondo, un secondo punto di vista che non può far altro che arricchirli personalmente e professionalmente.
Marco che studia ingegneria gestionale ha creato un sistema per la gestione delle prenotazioni e poi delle iscrizioni, Chiara che diventerà un’educatrice di nido ha mostrato quanto la cura di ogni singola emozione sia importante dall’accoglienza al saluto, Paola invece è una designer e il suo contributo è sia di contenuto che rispetto all’estetica e quindi ha sottolineato agli altri animatori quanto la cura dei particolari e della precisione siano segno di attenzione all’altro mentre Alfonsina, ragioniera da sempre prestata all’educazione, ci tiene ad avere tutto sotto controllo ma spesso sottolinea che la responsabilità di questo lavoro nasce da una scelta di libertà: quella dell’educatore che decide di mettere in gioco le proprie abilità e il proprio tempo ma anche quella del bambino che riporta continuamente al ruolo educativo. Roberto invece, che educatore lo è di mestiere, è un buon punto di collegamento tra le varie esperienze
Il secondo punto forza è il dis-equilibrio educativo cioè la necessità di vivere il servizio educativo come la continua ricerca di un punto di equilibrio, non dando mai nulla per scontato. In fondo il processo dell’educazione è una ricerca e, sentirsi in disequilibrio, ci spinge a ricercare, a cambiare punto di vista, a individuare soluzioni o possibilità diverse.
Succede quindi che, se proviamo a osservare le situazioni attraverso questo particolare punto di vista, ci rendiamo conto che le scelte – organizzative, gestionali, laboratoriali o di contenuto – realizzate in un anno, devono essere messe in crisi per poter essere riscelte o cambiate l’anno successivo; non risulterà strano che le regole, fondamentali sia per la gestione pratica che per l’azione educativa, a volte possano o debbano essere trasgredite per poter raggiungere gli obiettivi stessi o, semplicemente, perché la situazione specifica lo permette; succederà anche che in corso d’opera si cambi direzione o si sposti l’obiettivo, individuandone uno o più di nuovi.
Per dis-equilibrio educativo si intende anche la necessità di essere se stessi e il più spontanei possibile perché l’educatore non è una persona avulsa dalla realtà e sprovvista di sentimenti o emozioni. Al contrario è chiamato a mettere tutto se stesso nel lavoro, senza mentire o negare quello che sente e che vive; se un bambino fa una battuta divertente, magari anche al momento sbagliato (ci sono poi momenti più o meno giusti per fare battute?), perché non si deve ridere insieme a lui, invece di liquidarlo con un banale “Non fare il pagliaccio?”; se è un giorno storto, invece di scaricare inconsciamente aggressività, malessere e insofferenza sui bambini, perché non provare a dire semplicemente “Guardate bambini, oggi è una brutta giornata, per favore state tranquilli perché non sto bene!”. Probabilmente si scoprirebbe che anche i più piccoli sono capaci di identificarsi con un altro essere umano e che quindi adatterebbero il loro comportamento al vostro stato.
Si tratta quindi di una continua ricerca dell’equilibrio che risulterà, per certi versi, più faticosa, ma indubbiamente renderà il lavoro molto più efficace e soddisfacente.
Con la soddisfazione ha a che fare anche l’ultimo punto forza cioè il co-divertimento, il quale ha un significato molto semplice, riassumibile nella frase che gli educatori si dicono ogni volta che rimettono in moto la macchina organizzativa: se scegliamo, organizziamo, proponiamo attività, gite, esperienze che ci fanno divertire, che ci mettono in gioco, che ci soddisfano e ci convincono sicuramente riusciremo a far divertire, mettere in gioco, soddisfare e convincere anche i bambini.
L’esperienza di tanti anni ha insegnato che questo è vero, e che se segui questa regola il lavoro risulterà più semplice e molto più divertente. Attenzione: non si tratta di obbligare i bambini ad avere gli stessi gusti degli animatori, bensì di riuscire a svolgere in pieno il ruolo educativo, che per certi versi assomiglia a quello di un buon maître. Infatti un buon educatore è colui che prepara la tavola con i contenuti e le attività che vuole proporre in modo impeccabile e il più accogliente e interessante possibile, lasciando poi ognuno libero di mangiare ciò che più gli fa gola. Maggiore sarà la passione e il piacere nel preparare questa tavola, maggiore sarà l’abbuffata!
Ecco allora che i tre punti forza diventano elementi caratterizzanti del centro estivo sia per gli animatori che per i bambini.
In fondo anche loro sono portatori di una pluralità di esperienze – familiari, amicali, personali – che, se integrate, non possono far altro che arricchire la crescita e l’esperienza di tutti; anche loro viaggiano alla ricerca di un continuo equilibrio tra ciò che desiderano e ciò che gli viene proposto, tra il rispettare una regola e il trasgredirla, tra il conformarsi a uno stile e l’arricchirlo della loro spontaneità; infine loro sono oggetto e soggetto del co-divertimento, attori principali della riuscita del progetto, desiderosi di potersi abbuffare allegramente al tavolo dell’educazione.

Presi dall’aria, coricati sui sedili dell’aria

Nell’Ottocento la fotografia psichiatrica produceva, per volontà degli psichiatri (o alienisti, come al tempo venivano chiamati), immagini destinate alle gazzette scientifiche che ritraevano i volti e i corpi di isterici e depressi per poterli catalogare poi come dementi, schizofrenici, etc. Anche attraverso la pretesa oggettività indagatoria e la trasparenza del mezzo e del prodotto fotografico si cercava di scovare, catturare la follia, determinarne una sorta di iconografia e, quindi, metterla alla prova, incriminarla.
Successivamente, il cinema e la fotografia che si sono occupati dell’istituzione manicomiale hanno sempre cercato di mostrare i segni, la cifra di quella istituzione, e delle politiche e delle idee a essa sottese, attraverso i corpi e i volti degli “internati”: in alcune scene di “Changeling” Clint Eastwood cita secondo questi canoni alcuni episodi del cinema c.d. manicomiale, e andando a ritroso si potrebbe ricordare “Bedlam”, scuro e orrorifico film di Mark Robson con Boris Karloff del 1946.
Ancora, vengono in mente le fotografie di Gianni Berengo Gardin e Carla Cerati, scattate nel 1968, che denunciano la condizione dei manicomi e cercano di dare visibilità e rilievo alle drammatiche “distorsioni” di tale condizione attraverso la fisicità della sofferenza e della costrizione. Il corpo come testo spudoratamente eloquente, leggibile. Un ribaltamento dell’uso dell’immagine che, se là serviva a “denunciare” e incriminare la follia e giustificarne l’isolamento, la costrizione, la censura e la distruzione, qui ne mette in risalto la costruzione sociale, e denuncia piuttosto l’istituzione, la legge, la scienza.
“Aria” di Francesco Migliorino sceglie un’altra modalità di rappresentazione: già il titolo suggerisce che il film agisce su un piano del tutto diverso. È un film fatto di vuoti, di ribaltamenti del vuoto, che riempie l’immagine per sottrazione, ma riesce a non essere banalmente evocativo. Questi vuoti pesano eccome e, se possono anche essere luoghi di pensieri e associazioni “libere” dello spettatore, danno da soli un ritratto talmente efficace da non necessitare dell’interpretazione “creatrice” del nostro occhio e del nostro intelletto. I quali, semmai, restano quasi inermi, silenti di fronte al mistero (non saprei come altro definirlo) che il documentario crea. Forse involontariamente; comunque in modo inesorabile.
Il film racconta le voci, le scritture e le immagini del passato del manicomio penitenziario di Barcellona Pozzo di Gotto.
Lo fa riprendendo, e montando in successione, fotografie risalenti agli anni ’30 di stanze vuote dell’istituto penitenziario e sovrapponendo a esse le parole delle lettere scritte dai detenuti e delle incontestabili relazioni mediche degli psichiatri, che quasi emergono dalle pareti, dagli strumenti, dagli oggetti filmati e risuonano nel vuoto delle camere e dei corridoi. Ne smascherano gli intenti, lo “ripopolano”…
Proprio così: le parole creano un cortocircuito nel meccanismo pacificante, scientifico, quasi consolatorio di quei vuoti. Lo smascherano, e, insieme con esso, smascherano la consolazione che noi stessi vi trovavamo e vi troviamo tuttora, il nostro bisogno di sicurezza (declinata come incolumità fisica e morale o altro ancora), la nostra paura della diversità. Le deleghe che concediamo agli specialisti perché si occupino per conto nostro di allontanare l’alterità dalla vista, dall’udito, dalla riflessione. Quello che ancora oggi si ripropone con stranieri, poveri, marginali. Le deleghe nella definizione di rappresentazioni invece già nostre, della cui costruzione siamo stati partecipi.
Torniamo alle immagini fotografiche sulle quali il film è costruito: quel che davvero colpisce è la pressoché totale assenza dell’essere umano, del vivente. Ma da questa insistita reticenza, da questo falso pudore, emerge quel che Migliorino stesso definisce il “congegno” che ha reso possibile ogni singola storia (dei detenuti del manicomio), ma che nella sua forma astratta avrebbe potuto accoglierne mille volte tante di storie simili a quelle che ha veramente raccolto.
Il film è diviso in brevi capitoli, i cui titoli contestualizzano gli oggetti sullo schermo o suggeriscono una lettura della successione delle immagini: “Classificare”, “Effetti di invisibilità”, “Il padrone della follia”, “Bonifica umana”, “Interno esterno”, “I sedili dell’aria”.
Il primo, “Classificare”, ci introduce a una serie di quadri con primi piani dei detenuti: le immagini si fanno progressivamente sfuocate, come a dire che classificare è sfumare, non mettere a fuoco e inevitabilmente, colpevolmente perdere. Generalizzare è perdere; togliere sostanza, distanziarsi dalle cose.
È il nodo concettuale del film: il manicomio non classifica individui nella loro concretezza, ma classifica individui secondo parametri che servono al funzionamento del manicomio stesso. Il manicomio si nutre della classificazione che attua. Scrive Franca Ongaro Basaglia nell’introduzione a Per non dimenticare: 1968 la realtà manicomiale di “Morire di classe” : “Ma è davvero la faccia della malattia quella che si incontra fra le mura del manicomio, dietro quelle grate, o è la faccia prodotta dall’istituzione?”.
Che pazzia approdava nei manicomi? Ogni forma di pazzia, o piuttosto quella, presunta, di poveri, diseredati, esclusi, reietti? E il degrado, l’abbrutimento, lo stato di annientamento dei malati non era forse prodotto dalla violenza imperscrutabile (come i vuoti asettici di Migliorino) dell’istituzione più che dalla malattia in sé? Il quarto capitolo di “Aria”, “Bonifica umana”, risponde attraverso le parole di un “uomo scienziato”: “Il problema penitenziario diviene un problema di bonifica umana, non meno necessario e urgente della bonificazione della terra. Ogni processo di disinfezione, affinché sia completo e duraturo deve constare di due tempi: l’accantonamento del materiale settico e la sua sterilizzazione. Dove va a finire il materiale umano settico separato che sia dal corpo sociale? A quale trattamento viene sottoposto affinché diventi effettivamente sterile? Occorre studiare i delinquenti per conoscerli; occorre conoscerli per governarli razionalmente; occorre governarli razionalmente per bonificarli; occorre bonificarli per utilizzarli. Il manicomio criminale è il policlinico della delinquenza”.
Migliorino non offre alcuna visione “romantica” della malattia, della pazzia, ma contribuisce a definire con più chiarezza un dato che dovrebbe essere indiscutibile: per sperare di incontrare la malattia è prima necessario affrontare la violenza, la crudeltà, l’autoreferenzialità dell’istituzione manicomiale, l’annientamento sistematico della persona da essa perseguita. E, ancora prima, è necessario affrontare la psichiatria che scientificamente, asetticamente avalla quell’istituzione e la società che ne richiede l’esistenza e ne avverte la necessità per mantenere l’“ordine”. Ai modelli di pensiero seguono strumenti, pratiche, processi, involuzioni, “errori”…
“Aria” è un film che ci invita a scoprire, nelle immagini che mostra e in ogni altrove, l’eloquenza del silenzio, l’evidenza nell’assenza e, ripeto, dice di noi e ci interroga, ci chiama in causa come potenziali rei incolpevoli.

Aria

Voci scritture immagini dal manicomio criminale di Barcellona Pozzo di Gotto (Italia, 2008)
Durata: 25’
Regia: Francesco Migliorino
Musica: John Cage, Dream (1948), In a Landscape (1948)
Eseguita da: Stephen Drury
Album: In a Landscape: piano music of John Cage (1995), BMG Records
Voci: Antonio Rapisardi
Immagini: Archivio OPG Barcellona Pozzo di Gotto, Archivio Prof. Aldo Madia, Barcellona Pozzo di Gotto, Archivio OPG Aversa
Editing video: Biagio Teseo
Editing audio: Luigi Sambito

Diversamente danesi. Politiche per la disabilità in Danimarca: un altro mondo auspicabile?

Nella discussione sui modelli di welfare e di mercato del lavoro, un ruolo di modello (anche se non necessariamente positivo) viene spesso riconosciuto alla Danimarca. La caratteristica principale del modello danese, che solo in parte si uniforma a quello degli altri paesi scandinavi, consiste in una forte sicurezza sociale, sostenuta da un alto livello di tassazione, correlata a un netto orientamento alla vita indipendente e all’attività lavorativa. Nello specifico del mercato del lavoro, questo sistema si traduce nel concetto di flexicurity: flessibilità della prestazione lavorativa (ovvero vincoli e indennizzi molto bassi al licenziamento), generosi sussidi di disoccupazione collegati però a “politiche di attivazione” che impongono l’accettazione di un posto di lavoro non appena esso si renda disponibile – questi tre elementi sono sovente definiti il “triangolo d’oro” del modello danese. Il sistema della flexicurity si è imposto in Danimarca all’inizio degli anni ’90, e ha portato a minimizzare la disoccupazione, aumentare la quota di cittadini occupati a livelli da record mondiale (specie per la componente femminile) senza con questo diminuire la coesione e l’inclusione sociale. Il successo di questa esperienza ha portato studiosi e organi politici dell’Unione Europea a proporne l’importazione in altri paesi europei, Italia inclusa, e indirettamente all’analisi del modello sociale danese in riferimento alla politica sociale, tra cui le politiche per le persone con disabilità.
Il Centro per le Pari Opportunità per le Persone Disabili (Center for Ligebehandling af Handicappede), costituito nel 1993 dal Parlamento danese con finalità di raccolta e diffusione di informazioni specialistiche, rende disponibili sul proprio sito web alcune pubblicazioni in inglese sui principi fondamentali della politica danese per la disabilità. L’analisi dei documenti consente alcune valutazioni generali su come un modello sociale “di tendenza” funziona nel paese che l’ha inventato, e su quali problematiche potrebbe aprire la sua importazione in contesti nazionali differenti.

Tutto gratis, a cura di tutti
I principi della politica per l’handicap in Danimarca sono individuati diversamente a seconda delle pubblicazioni, ma due punti particolarmente significativi sono comuni. In primo luogo, spicca la totale gratuità di tutte le misure di compensazione, vale a dire gli interventi tesi a garantire pari opportunità alle persone con disabilità, eliminandone o riducendone l’handicap: è una parte fondamentale della politica danese per l’handicap che la compensazione sia gratuita per l’individuo e sia garantita indipendentemente dal reddito o capitale della persona e della sua famiglia. La fiscalità generale copre integralmente le spese connesse, senza richiedere, come è frequente (e molto discusso) in Italia, una “compartecipazione dell’assistito” o della sua famiglia. Questo principio si traduce, tra l’altro, nel rimborso di tutti gli “extra-costi” che la persona disabile deve sostenere in ragione della propria disabilità, laddove non vengano forniti servizi individualizzati (naturalmente gratuiti). Per quei costi che possono solo in parte essere imputati alla disabilità, invece, sono previsti contributi monetari parziali, ad esempio su beni durevoli non adattati: una lavatrice, un’asciugatrice o altro materiale di cucina, che non sono costruiti in modo speciale per persone disabili, ma che consentono all’utente di compiere funzioni quotidiane. Il sostegno verso i beni durevoli è garantito al 50% del prezzo del prodotto, che quindi diventa proprietà dell’utente. Occorre ricordare che in Italia simili sistemi di rimborso parziale si applicano, almeno formalmente, per strumentazioni necessarie in connessione al tipo di disabilità e solo per utenti individuati latu sensu in stato di disagio economico; la persona danese con disabilità deve solo preoccuparsi del fatto che “il beneficiario stesso paga qualsiasi riparazione dei beni e anche la loro sostituzione”.
La gratuità per tutti può essere compresa meglio avendo presente il secondo principio, quello denominato della “responsabilità di settore”, sintetizzabile nell’assunto che al fine di ottenere una piena partecipazione nella vita di una comunità, tutti i settori devono essere coinvolti e assumere la propria parte della responsabilità che il principio dell’equalizzazione delle opportunità sia raggiunto. Le pari opportunità per la persona disabile non vengono garantite da uno o più organismi specializzati, afferenti con ogni probabilità all’area socio-sanitaria (la politica per la disabilità non può essere ridotta a politica sanitaria o politica sociale), ma affidate a tutti gli operatori dei settori che hanno a che fare con l’accessibilità nel suo senso più ampio: dai trasporti alla costruzione e ristrutturazione abitativa, dalla vendita al dettaglio alle tecnologie dell’informazione. La responsabilità della creazione di un mondo sociale a misura di persona disabile è insomma di tutta la società, e non è delegabile. Di conseguenza, il gran numero di strutture nazionali che in Danimarca si occupano di disabilità (Consiglio delle Organizzazioni delle Persone Disabili, Consiglio per la Disabilità, Centro per le Pari Opportunità per le Persone Disabili, Ombudsman – Difensore Civico, comitato interministeriale per l’area della disabilità) intende garantire la migliore definizione di norme e la fornitura di un supporto tecnico per la loro applicazione da parte di tutti, e il ruolo dell’associazionismo di settore risulta, almeno idealmente, consultivo più che di gestione e cura diretta di servizi. Diventa pertanto più comprensibile la ratio della gratuità indifferenziata nella fornitura dei servizi a compensazione: può apparirci ingiusta (e rimane comunque generosa), ma è coerente con l’idea delle pari opportunità come premessa di un corretto vivere sociale, la cui attuazione è sulle spalle di tutti, tramite il sistema fiscale ma non solo.

“Un paradiso con alcuni serpenti”
Un mondo perfetto, dunque? Naturalmente no, innanzitutto perché quanto citato costituisce solo in parte un sistema consolidato di diritti esigibili, e per il resto un modello cui tendere a partire da situazioni non ideali. Per fare un esempio molto concreto, la scelta del dottore è spesso soggetta ad alcune limitazioni se il paziente utilizza una carrozzina. Ben pochi medici di base hanno adattato il proprio studio in modo da renderlo fisicamente accessibile. Al di là della inevitabile discrepanza tra essere e dover-essere, però, nel “modello danese” si possono individuare alcuni difetti, in parte connessi alla sua stessa genesi, su cui importatori troppo frettolosi dovrebbero riflettere. In questo, utili spunti forniscono gli studi del CARMA, il centro di ricerca sul mercato del lavoro dell’Università di Aalborg.
Un primo enorme problema è quello della sostenibilità economica nel tempo. A causa dell’invecchiamento della popolazione, della riduzione tendenziale degli orari di lavoro e anche delle aspettative crescenti sui sistemi di welfare (difficilmente si rinuncia volentieri a conquiste sociali già ottenute), il bilancio di tali sistemi è in sostanziale deficit: i dati ufficiali attestano che nel corso di una vita, ogni danese riceverà più benefici e servizi dal settore pubblico di quanto contribuisca in tasse. Questo nel Paese con la più alta pressione fiscale del mondo (tassazione sul reddito media intorno al 47%, aliquote marginali fino al 63%), e dopo che i governi liberal-conservatori in carica dal 2001 hanno invano cercato di ridurre tale pressione fiscale di fronte a spese crescenti. La riforma fiscale approvata nel maggio 2009 appare tesa a spostare il carico fiscale (ad esempio dai redditi ai versamenti pensionistici) senza ridurlo complessivamente in maniera radicale, ma una “resa dei conti”, che riallinei il peso del fisco alle medie europee tagliando sostanzialmente il welfare (o per lo meno il suo carattere universale, a prescindere dal reddito individuale e familiare), non può essere esclusa – ciò tuttavia equivarrebbe all’implosione del modello stesso.
Un’altra sfida potenziale attiene al livello di decisione delle politiche per l’handicap. Va premesso che in questo ambito il passaggio chiave è stato, nel 1980, il decentramento delle competenze dallo Stato alle amministrazioni di contea e locali, che ha portato alla chiusura degli istituti residenziali statali a favore di sistemazioni abitative più piccole e integrate nel contesto sociale. Di conseguenza, il decentramento delle politiche sociali è stato considerato positivo per decenni, ma oggi ne emerge almeno un limite: la definizione di politiche e risorse esclusivamente sul piano locale, senza un forte quadro di riferimento nazionale (equivalente ai nostri LEA), potrebbe dissolvere la “cittadinanza dei diritti” della persona con disabilità, rendendo sensibilmente diverso il quadro dei servizi da contea a contea. Se si aggiunge che l’Unione Europea, il terzo livello normativo possibile, non ha mai brillato per capacità di fissare diritti esigibili per i suoi cittadini con disabilità, emerge la necessità di un costante equilibrio e coordinamento tra politiche nazionali e locali.
Infine, nell’analisi della struttura stessa del modello danese è opportuno soffermarsi sul bilanciamento tra collettività e individualismo. Il sistema di protezione sociale in Danimarca si fonda storicamente su un accordo del 1899 tra datori di lavoro e sindacati, e si è sempre sviluppato come frutto di accordi tra parti sociali forti, riconosciuti più che promossi dal potere statale. Si è quindi costituito un anomalo mix tra orientamento al lavoro come dimensione sociale preminente, confronto individuale con il mercato del lavoro e strutturazione di tutto il sistema attraverso accordi collettivi, orientati da un robusto senso civico. In che misura l’anomalia coincide con l’irripetibilità, specie rispetto a nazioni segnate dal “familismo amorale” o dal centralismo decisionale pubblico? Come ha influito sugli accordi collettivi il passaggio dalla “comunità” alla “società”, nel loro senso di archetipi sociologici? In che modo la rilevanza dell’occupazione lavorativa nella costruzione del senso di cittadinanza si riflette nella considerazione sociale delle persone con disabilità, per le quali il lavoro può anche risultare inattingibile? Esiste una connessione tra l’assunto che il fatto che come cittadino non si debba dipendere dalla propria famiglia o amici per l’aiuto in compiti personali come la cura quotidiana per i figli, la cura personale e l’igiene costituisce un importante elemento del modello di welfare danese, e il fatto che ci sono anche parecchi bambini che vivono in un istituto, perché la famiglia non può dare ai figli il trattamento necessario od occuparsi del compito da sé, in alcuni casi con una soluzione residenziale permanente? Le risposte a queste domande vanno inevitabilmente ponderate prima di esportare i fondamenti della società danese in contesti nazionali differenti, magari abbagliati dalle indagini statistiche annuali secondo cui gli abitanti della Danimarca risultano il popolo più felice del mondo.

Il mondo secondo me

“Conosci te stesso” c’era scritto sul tempio dell’Oracolo di Delfi. E forse è proprio questo il nostro compito più difficile: conoscersi, accettarsi, prendere coscienza dei propri limiti, comprendere che, senza di essi, non saremmo ciò che siamo.
Quando poi questi limiti sono fisici, oggettivi, sotto ai propri occhi e a quelli di tutti, questa infinita ricerca si fa ancora più faticosa e il cammino da percorrere più tortuoso.
Quelle che ho voluto riportare in questa sede sono proprio alcune riflessioni che tracciano uno di questi percorsi. Il cammino di Laura: una donna, una persona con disabilità. Ma anche la storia di ognuno di noi, della nostra ricerca interiore, del progressivo costruirsi delle nostre identità.

Il destino
Esistono colori che si possono vedere solo con il cuore e ci sono rumori che è impossibile sentire solamente con le orecchie.
Avere una malattia genetica degenerativa di tipo sensoriale significa avere un limite fisico oggettivo. È quello che in gergo tecnico si definisce un handicap.
Ma in che cosa consiste esattamente?
Nel mio caso si tratta di una sindrome chiamata Usher che colpisce l’apparato uditivo e quello legato alla vista. In altre parole sono sorda fin dalla nascita e ipovedente dall’età di 19 anni.
Eppure eccomi qui.
In una società in cui non esistono più confini: geografici, morali, mentali, dove tutto è acquistabile e raggiungibile, la malattia è considerata da tutti la peggior esperienza che una persona possa incontrare nella propria vita.
Io invece sono giunta alla conclusione che sia una grande opportunità. La malattia rappresenta una possibilità per divenire consapevoli circa se stessi e la reale importanza di tutte le cose che ci circondano. Dobbiamo solo avere la forza di accoglierla come tale. E crederci.
Il rovescio della medaglia, insomma, il rischio, è cadere nell’egocentrismo. Ogni malato vede e sente (ironia della sorte) soltanto se stesso. La sua realtà è la Realtà. Per questa ragione dovremmo tutti noi uscire dal nostro problema, abbandonare il nostro ego, ed entrare nel mondo.
Io mi ritengo una persona molto fortunata, nonostante tutto. O proprio in virtù di questo “tutto” che mi rende unica.

La solitudine
Milano. Notte. Fine luglio.
Valentina, un’amica, mi confessa la sua incapacità di vivere la solitudine. Sempre fidanzata, sempre in compagnia, incapace di rimanere sola con se stessa per più di qualche ora. Prigioniera di un agire che si rivela, in realtà, una vera e propria fuga per evitare di pensare.
In quel momento mi sono sentita di raccontarle una delle mie più grandi fortune: la sordità. La possibilità che io ho, più di altri, di isolarmi fisicamente, in modo reale e totale, mi ha permesso di entrare in me stessa e di conoscermi. Anch’io, come tutti, ho avuto paura degli abissi della mia anima, perché sono come paesaggi bellissimi che stordiscono, perché abbagliano come i riflessi dei raggi di sole in piena estate. Diceva Kahlil Gibran (Aforismi. Sabbia e Schiuma, Milano, Mondadori, 1999): “Sono un viaggiatore e un navigatore e ogni giorno scopro qualche nuova regione dentro la mia anima”. E in questo compito la solitudine e il silenzio sono ottimi compagni: capaci di creare atmosfere e luoghi per ascoltarsi.
Quando, in solitudine, sentiamo di riuscire a rimanere noi stessi, in quel momento, troviamo la forza di andare per il mondo e sorridere.

La famiglia
Sono nata unica da una coppia d’amore. I miei genitori, Giorgio e Giovanna, hanno affrontato, grazie a me e a tutti i miei “problemi”, il loro destino.
La malattia, specialmente se di natura genetica, scatena l’infinito vortice del senso di colpa:
nei genitori, per non aver saputo donare ai propri figli il bene più prezioso, la salute, e
nel figlio malato, per non essere perfetto.
Soltanto grazie a un cambiamento di prospettiva possiamo andare oltre questa sensazione di impotenza: se si ribalta il concetto di malattia, arrivando a intenderlo come destino, possibilità e unicità, scompare il peso del senso di colpa.
Noi siamo pieni di bellezza, in quanto legati al vero, unici, autentici. Bisogna riconoscere che spesso chi ci sta attorno soffre enormemente più di noi. I miei genitori non comprendono la pienezza della mia vita e vivono la mia malattia come una mancanza che loro stessi hanno causato.
C’è un film bellissimo [“La meglio gioventù”, ndr] che si chiude in modo sublime: un padre chiede alla propria figlia se è felice. “Sì”, risponde lei. “E allora è giunto il momento di essere generosi”.
Ecco, noi “malati”dobbiamo imparare a essere generosi.

La libertà
Lungo quasi tutto il corso della mia vita, a momenti alterni, ho desiderato follemente di essere da qualche altra parte, con qualcun altro a fare qualcos’altro. Ero fermamente convinta che, lasciando questa piccola città di provincia, avrei avuto l’occasione e i mezzi per trovare me stessa e il mio posto nel mondo. Credevo davvero, sinceramente, con tutte le mie forze, che in un altro posto sarei stata finalmente felice. Percepivo il mio io in uno spazio sempre sbagliato e vedevo la mia strada in un “altrove” non ben definito.
Poi ho preso coscienza e, con consapevolezza, ho compreso che la vera domanda da porsi è: “Cosa voglio essere?”.
La mia, la nostra realizzazione è in questo momento, è tutto ciò che ci permette di apprezzare e godere di questo momento. Tutta la mia vita e il mio essere si realizzano ed esprimono qui e ora: esiste solo questo attimo che tutto racchiude e in cui tutto si compie.
Quando ci sentiamo depressi, sconfitti e svuotati c’è una cosa che possiamo fare: fermarci e respirare profondamente, lentamente, cercando di entrare nel nostro respiro, nel nostro dolore, in noi stessi. A quel punto siamo pronti per abbandonare il nostro io ed entrare nel mondo.
La vita ci sta aspettando.

L’amore
Devo ammettere però che non è sempre stato così: ho passato anni a inseguire delle emozioni senza penetrarle e viverle. La malattia, scoperta alla soglia dell’età adulta, mi ha permesso, in quanto espediente e scusante, di erigere un muro tra me e l’altro sesso. Ammetto: avevo paura. Paura di amare, di essere amata, di abbandonarmi a un altro che può tradire, ferire, come in qualche modo ha fatto il mio corpo, il mio destino. Avevo paura di essere rifiutata perché, in fondo, io stessa per prima mi rifiutavo.
Così per molto tempo ho escluso l’amore dalla mia vita. Era più facile vivere lamentandomi di essere incompresa, soffrendo, crogiolandomi nelle mie disgrazie, scusandomi di cose di cui non ho colpa. Era più facile appiccicarmi addosso un handicap e usarlo come scusa per non vivere.
Non accettavo l’amore dell’altro perché non amavo me stessa.
L’amore invece è energia pura, che non risponde a nessuna legge fisica o razionale. Non resta che imparare ad accettarlo e abbandonarsi.
Oggi ho scoperto, anche grazie ad Alessandro, con cui da due anni condivido tutta la mia vita, che il “problema” era solo mio e che, anche questo mio atteggiamento, era una forma di egocentrismo. Non possiamo vivere in eterna attesa perché è già questo il migliore dei mondi possibili e siamo solo noi, con tutto il nostro essere, che lo alimentiamo.

La forza di gravità del cielo

Lo Spazio Calamaio, negli ultimi numeri, ha ospitato diverse esperienze che, in modi diversi, presentassero elementi comuni con la filosofia che sta alla base del Progetto Calamaio.
Come spesso accade, sono le esperienze stesse che ci vengono a cercare, per contaminarci e farsi contaminare, in linea con lo stile calamaio: macchiare e farsi macchiare o, meglio, dare il proprio inchiostro e farne entrare altro, mescolarsi e arricchirsi.
Proprio secondo questa filosofia, mi sono iscritto e ho partecipato ad alcuni laboratori organizzati a Bologna.
Ogni anno infatti, il Teatro Testoni Ragazzi, propone, all’interno di “Visioni di Futuro, Visioni di Teatro – Festival internazionale di teatro e cultura per la prima infanzia”, una serie di laboratori per insegnanti ed educatori, momenti di formazione su tecniche e contenuti legati a esperienze teatrali: non per diventare attori, bensì pensati per arricchire il bagaglio culturale e la professionalità dei partecipanti. In altri termini, proposti per riempire il proprio personale calamaio con altri tipi di inchiostro, che mischiandosi a quello esistente, provocherà una trasformazione, un’evoluzione, una crescita e, quindi, un nuovo modo di macchiare.
“La voce e la sua espressione”, condotto da Germana Giannini (insegnante e performer, si occupa di ricerche antropologiche sull’uso della voce con la finalità di generare un contatto autentico con la dimensione del canto) è stato uno dei laboratori a cui ho partecipato.
Premetto che io e il canto siamo stati per anni acerrimi nemici. Fin da bambino, infatti, il mio desiderio di cantare si è scontrato con una voce a dir poco sgradevole, fatto che però non mi ha impedito di continuare a gracchiare, allenando nel tempo le mie corde vocali fino ad arrivare a emettere un suono accettabile.
Nonostante questo, non posso evitare un certo imbarazzo nel cantare davanti ad altri… Se a questo si aggiunge il fatto che in un gruppo di 20 persone, eravamo solo due uomini, potete facilmente immaginare quanto fossi a mio agio nel partecipare al laboratorio.
Non mi lascio comunque prendere dal panico, anzi vivo il tutto come una bella sfida da affrontare.
Germana inizia spendendo due parole sul significato del laboratorio, del canto e della voce. Il canto non è frutto dello sforzo dei muscoli della gola, bensì è la vibrazione del respiro in tutto il corpo, respiro che, appoggiandosi alla struttura ossea e infilandosi nei vari anfratti definisce i confini del luogo interiore, dello spazio nel quale la voce assume forma prima di uscire. Attraverso la chiarezza della poesia, dice Germana: “È l’oscurità interna al corpo che permette alla luce della voce di risplendere, suggerendo la configurazione del proprio intimo spazio che si lascia intuire senza che chi ascolta debba sforzarsi di capire. L’anima pone nell’oscurità il suo nascondiglio. La voce lo illumina”.
Radicarsi a terra, sentirsi ancorati al suolo e riconoscere il nostro legame con il basso, con la terra che, parallelamente, ci permette anche di sentire l’attrazione verso l’alto, quella forza di gravità del cielo che permette di sviluppare la voce, lungo il nostro strumento-corpo, dal basso all’alto e viceversa. Ecco allora che il laboratorio ci porta a far viaggiare la voce dal bacino agli zigomi, dalla A alla E, dall’espressione di un suono grave a uno acuto. Un percorso che coinvolge tutto il corpo, diverse sfumature della voce, vari movimenti e differenti posture. Un percorso spiegato e guidato, che dalla terra ci ha portato al cielo, dall’imbarazzo ci ha portato alla condivisione, alla libertà che solo un gruppo accogliente può darti.
Il gruppo!
Soggetto importantissimo in questo laboratorio, significante e significato del lavoro svolto.
Significante in quanto spazio, confine-canale, dentro il quale il gesto vocale collettivo si esprime e si trasforma diventando liberante.
Significato in quanto grazie a esso il gesto vocale si realizza pienamente. È il noi che diventa il vero canale espressivo. Ed è il centro del cerchio il vero noi, non il cerchio stesso.
Parole importanti per sottolineare il valore aggiunto del gruppo, come luogo di confronto, di crescita e di comunione. Come spazio nel quale essere e diventare, dare e ricevere, riempire e riempirsi. Luogo nel quale la specificità di ognuno viene valorizzata e resa funzionale al risultato finale, alla creazione del gruppo stesso.
Come nel canto, così in ogni relazione educativa.
Mi viene allora spontaneo un paragone tra ciò che succede tra voce e gruppo, come spiegato sopra, e il concetto di inclusione.
Questo termine si pone in continuità con quello di integrazione, portando una differenziazione più a livello linguistico che di significato. Anche se, approfondendo proprio il significato, l’inclusione porta a fare un passo in avanti sottolineando il fatto che l’inserimento di una persona con caratteristiche specifiche, all’interno di un contesto, può e deve portare a ricadute favorevoli a tutto il contesto. Ancora, il contesto di inserimento viene connesso ad altri contesti, in un processo ecosistemico, che provoca quindi ricadute positive in modo contaminante.
Ecco allora che, secondo questa logica, il canto – e tutte le attività che, coinvolgendo la persona come singolo, la portano a entrare in un determinato contesto – non è solo strumento di inclusione, bensì strumento per imparare l’inclusione.
La didattica scolastica, l’allenamento sportivo, il laboratorio al centro giovanile e perfino il luogo di lavoro, sono sicuramente spazi nei quali è possibile praticare l’inclusione, come intesa sopra, ma sono altresì strumenti utili per insegnare cos’è l’inclusione.
In questi luoghi, infatti, al di là della presenza o meno di persone con disabilità, lo stile relazionale può essere comunque inclusivo, cioè può tener conto delle caratteristiche speciali di ognuno. Il contesto diventerebbe quindi uno dei soggetti dell’ecosistema, provocando un circolo vizioso di apprendimento di modalità relazionali inclusive. L’esperienza fatta rimarrebbe come una macchia di inchiostro che, non solo fungerebbe da memoria, ma porterebbe a macchiare a sua volta altri contesti, altre persone, altre idee.
Un sistema aperto, pronto a scambiare, a ricevere, mischiare i propri inchiostri.
Tornando al canto, un gruppo nel quale la voce di ognuno possa esprimersi, anzi nel quale il gruppo stesso sia fondato sull’idea che l’espressione di ognuno sia necessaria per il raggiungimento degli obiettivi e per il massimo benessere di tutti.
Il laboratorio finisce, tre ore trascorse velocemente, tra esercizi, emozioni e inclusione.
Di cosa ho riempito il mio calamaio?
Sicuramente della forza di gravità del cielo.
Cioè dell’idea che c’è un altro punto di vista, altre direzioni. Abituati a pensare e conoscere solo la forza di gravità che ti tiene ancorato al suolo, facciamo fatica a scorgere intorno a noi altre forze, che possono venirci in aiuto. Come quella del cielo, per l’appunto. Direte che mentre una è reale e scientificamente provata, l’altra non esiste. Direte che la prima ti stabilizza mentre la seconda ti destabilizzerebbe. Direte che una ti permette la profondità, mentre con l’altra corri il rischio di avere sempre la testa tra le nuvole.
Beh, io dico che una è reale e scientificamente provata, l’altra invece esiste in quanto desiderio, capacità di scorgere altri orizzonti, di alzare lo sguardo e puntare in alto. Dico che la prima stabilizza mentre la seconda destabilizza: che male c’è? L’equilibrio è ricerca, non è una situazione statica, è il continuo inseguire il punto di sospensione che ti permette di non cadere… Allora un po’ di destabilizzazione aiuta a non dare nulla per scontato. Dico anche che una ti permette la profondità, mentre con l’altra puoi volare, spaziare all’infinito, sognare, sperare, creare e credere ad altri modi possibili. Non c’è contrapposizione quindi, bensì complementarietà.
Ecco di cosa ho riempito il mio calamaio, di questo nuovo atteggiamento, di queste complementarietà: realtà e desiderio, stabilità e destabilizzazione, profondità e infinito.