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Autore: admin

Corpi per ballo: idee di integrazione e progetti formativi della compagnia di danza Candoco

Quale disciplina artistica è più fisica della danza? E pertanto, quale ambito estetico sembrerebbe più inaccessibile alle persone con disabilità motorie o sensoriali? Da quasi vent’anni la compagnia britannica Candoco costituisce la negazione di questa apparenza e lo spostamento dei confini della danza, con la sua pratica di integrazione di ballerini con diverse abilità in esibizioni professionistiche di forte impatto innovativo, e con un ricco programma di formazione coreutica per tutti. Ne abbiamo discusso con Stine Nilsen, co-direttrice artistica della compagnia dal 2007.

Può descrivere brevemente la storia e la mission della Candoco Dance Company?
Candoco è una compagnia di danza contemporanea composta di ballerini disabili e non, che intende produrre esibizioni di danza creativamente ambiziose, che divertano e ispirino il pubblico.
Uno degli scopi principali di Candoco è forzare i confini della danza contemporanea e ampliare la percezione delle persone di cosa è la danza e chi può danzare, mostrando come “il virtuosismo non è limitato ai ballerini normodotati”. Candoco vuole eccitare essendo audace, ispirare essendo eccellente e mettere in dubbio essendo diversa.
Candoco è stata fondata nel 1991 da Celeste Dandeker e Adam Benjamin. La compagnia si è sviluppata da seminari guidati da Celeste e Adam, ed è rapidamente cresciuta fino a diventare il primo soggetto nel Regno Unito a essere una compagnia professionistica di danza specializzata nell’integrazione di ballerini disabili e non.
La compagnia ha conquistato forte acclamazione dalla stampa, dal pubblico e da colleghi nei mondi di danza ed educazione. La richiesta per l’opera della compagnia ha portato a un formidabile programma di spettacoli, sia nel Regno Unito che all’estero – con visite in oltre 50 Paesi, in Europa, Australia, America del Nord e del Sud, Asia e Africa. La compagnia attualmente è in tour per circa 20 date ogni anno nel Regno Unito, e per un certo numero di date internazionali attraverso il British Council e promoter indipendenti.
La direttrice artistica Celeste Dandeker (nominata Ufficiale dell’Ordine dell’Impero Britannico), che si è ritirata da questo ruolo nel 2007, ha commissionato 30 nuove opere di esibizione per la compagnia a coreografi del Regno Unito e degli USA, rinomati a livello internazionale. Questa ambiziosa politica di committenza è la spina dorsale del successo della compagnia, e continua nel 2008/09, con i nuovi co-direttori artistici Stine Nilsen e Pedro Machado che hanno commissionato opere a Hofesh Shechter e Nigel Charnock.
Di pari importanza per Candoco è il suo estensivo programma educativo, che viene tenuto dai ballerini della compagnia e da un team di artisti associati alla compagnia, il che rende Candoco un’esponente di spicco della pratica di danza inclusiva. La filosofia della compagnia è che la danza è accessibile a tutti. Migliaia di persone in scuole, università e nella comunità più ampia partecipano ogni anno al programma educativo di Candoco nel Regno Unito. Il repertorio di esibizioni della compagnia mostra alle persone cosa si può realizzare, e il suo lavoro educativo le invita a realizzarlo loro stesse. Questa si è dimostrata una combinazione vincente.
Il lavoro pionieristico di Candoco ha portato a una proliferazione di gruppi integrati nel Regno Unito e ha creato una richiesta alle strutture educative di aprire i loro corsi a studenti disabili. Il Corso di Danza della Fondazione Candoco per studenti disabili, il primo nel suo genere nel Regno Unito, è cominciato nel settembre 2004 ed è stato attivo per tre anni, La compagnia è ancora impegnata nel fornire strade alternative perché persone disabili si formino professionalmente, ed è ora finanziata su progetti dal Learning and Skills Council per lavorare con scuole di orientamento professionale allo sviluppo di formazione accessibile all’orientamento.
La compagnia ha sede a Londra, con un ufficio ad Islington e una sala di studio ubicata in ASPIRE (il Centro Nazionale di Formazione presso il Royal National Orthopaedic Hospital) nel quartiere suburbano di Stanmore.

Come vengono vissuti i vostri programmi di esibizione e educazione dagli studenti e dal pubblico giovanile?
Stiamo gestendo tre compagnie giovanili di danza per giovani disabili e non, dai 14 ai 25 anni. Sono un’eccitante opportunità di lavorare fianco a fianco con i ballerini professionisti di Candoco e con coreografi ospiti. In particolare, Cando 2, la compagnia giovanile di danza “ammiraglia” di Candoco, è in attività con successo da oltre cinque anni, e in questo periodo la compagnia si è esibita a festival di danza ed eventi come il lancio di Youth Dance England [l’organizzazione nazionale di danza giovanile, ndt], e al fianco della compagnia principale Candoco alla Royal Festival Hall.
Stiamo anche tenendo seminari educativi in scuole e università, per sostenere il nostro lavoro di esibizione e impegnarci con i giovani e i loro insegnanti per consentire loro di contestualizzare la pratica di Candoco, che cosa facciamo, chi siamo e il lavoro che produciamo. Candoco celebra gli individui e il loro potenziale creativo, cercando di coltivare lo sviluppo di ballerini e coreografi di tutte le età, esperienze e abilità.
Uno dei corsi che offriamo è un programma residenziale di coreografia. Alcuni mesi fa, due dei nostri ballerini hanno lavorato con 15 ragazzi dai 12 ai 15 anni, per tre giorni. Hanno realizzato un pezzo di 5 minuti, che è stato mostrato subito prima dell’esibizione di Candoco, sullo stesso palco. La risposta dei ragazzi è stata grande, è piaciuto loro fare il pezzo che avevano realizzato insieme con i ballerini (basato su esercizi creativi ispirati dallo spettacolo in programma). Il riscontro del loro insegnante è stato che non li aveva mai visti concentrati così duramente e così a lungo (oltre un’ora senza fare pause!). L’insegnante era anche impressionato dalla disciplina e dalla professionalità che i ballerini avevano instillato negli studenti.

Ci potete parlare di buone (e cattive) esperienze e pratiche tra ballerini e persone disabili e non nelle prove e nelle rappresentazioni? Avete colto indizi in queste esperienze per una società più inclusiva?
Inclusività e integrazione sono al cuore di tutto quel che Candoco fa – mettendo l’individuo (e non la disabilità) al centro del nostro lavoro, capiamo che ogni persona/ballerino (disabile o no) ha un ricco vocabolario di movimento da cui possiamo attingere e imparare.
Per gli stessi motivi, perciò, lavoriamo con tutti i ballerini per capire come meglio collaborare e creare un buon lavoro di danza. A volte i bisogni di una persona disabile hanno anche a che fare con la sua personalità, non solo con la sua disabilità, pertanto è importante pensare alla persona, non alla disabilità.
Ci sono esempi specifici di come la compagnia ha imparato molto sui metodi di lavoro dei diversi ballerini coinvolti. Per esempio, lavorare con una ballerina sorda nella compagnia ha aperto la coscienza di tutti a quanto sia importante una comunicazione chiara e semplice. Abbiamo avuto bisogno di prenderci più tempo per assicurare che tutte le informazioni venissero comunicate a tutti nello stesso momento, piuttosto che diffondersi informalmente; abbiamo anche imparato un po’ di lingua dei segni, che ci ha aiutato in situazioni di insegnamento quando uno studente è sordo. Ma la ballerina sorda era anche non inglese – spesso abbiamo ballerini non nati in Inghilterra nella compagnia, e questo ha portato alla mia attenzione che c’è sempre bisogno di una comunicazione chiara, ed essa è al cuore di un ambiente di lavoro positivo ed efficiente.
Lavorando con alcuni ballerini che hanno usato una carrozzina o altri ausili per la mobilità, sono divenuta consapevole dello sforzo e tempo extra che spesso essi usano solo allo scopo di andare o venire dal lavoro, o di fare altri compiti quotidiani. Scoprire come muoversi insieme, come partner di danza o all’unisono, a volte richiede un po’ più di tempo per pensare, perché non possiamo fare supposizioni a proposito di come si muove l’altra persona. Ciò ha prodotto che farsi domande e risolvere problemi è una parte preponderante di come lavora Candoco, e che i ballerini devono impegnarsi nel lavoro.
Penso che tutti i punti sopra indicati – comunicazione chiara, farsi domande su come lavorare e risolvere problemi – siano buone esperienze per una società più inclusiva.

L’interazione tra esecutori disabili e non ha avuto influenze nel produrre opere d’arte innovative, o comunque diverse dal solito?
Certamente! Noi, come compagnia, crediamo che le differenze nella fisicità si aggiungono a un raggio più ampio di vocabolario del movimento, e perciò spostano i confini della danza e si aggiungono per produrre un’opera di danza innovativa. Un esempio artistico: quando la ballerina sorda aveva bisogno di cominciare il suo assolo all’inizio della musica, che la ballerina non poteva sentire, il coreografo ha fatto battere il piede a tutti gli altri ballerini sul pavimento. Questo è diventato un tema del pezzo.
Un altro coreografo ha creato costumi che non rivelavano se i ballerini fossero disabili o meno, e perciò si concentravano sulla qualità del movimento e sulle capacità dei ballerini, piuttosto che sull’“effetto wow” di una compagnia inclusiva di ballerini.
Un altro coreografo ha usato un ballerino senza gambe per interpretare il ruolo di Dio, e questo ha sfidato l’immagine di Dio di alcuni.
Ci sono stati molti duetti belli e innovativi fatti con un ballerino non disabile e uno in carrozzina; si può vedere come esempio il video promozionale della nostra stagione 07/08, nella sezione “Video” del nostro sito web.

Quali sono i vostri prossimi progetti nell’esibizione di danza e nella formazione?
Uno dei nostri progetti è Moving-Bodies, un nuovo programma di sviluppo regionale che sta avendo luogo in 5 regioni nel Regno Unito (Londra, Essex & Herts, South West, Yorkshire e Galles) tra il 2008 e il 2011, finanziato dalla Paul Hamlyn Foundation. Il programma continuerà a spostare i confini della danza come forma d’arte, estendendo la natura della danza contemporanea come movimento che sfida le convenzioni stabilite nella danza occidentale. Lavoreremo con una gamma di persone, dai bambini della scuola elementare agli artisti affermati, offrendo attività pratica con ballerini e project manager di Candoco per aumentare qualità, comprensione e preparazione del lavoro di danza.
ADAPT (Accessing Dance and Performance Arts Training) è un altro progetto, finanziato dall’LSC (Learning and Skills Council) e tenuto in cooperazione con l’Urdang Academy, che consiste in una serie di seminari per insegnanti di danza e arti performative. Lo scopo principale del progetto è dare a giovani di talento la migliore opportunità possibile di avere con successo un’audizione per un Dance and Drama Award [una borsa di studio parziale per scuole private di danza e arte drammatica, ndt] o una scuola di formazione; nel riconoscimento della varietà degli studenti che fanno domanda per i programmi di arti performative in tutto il paese, teniamo un corso basato sulla pratica perché gli insegnanti:
• sfidino le percezioni e le idee di cosa davvero siano le buone pratiche e l’insegnamento inclusivo;
• sviluppino competenze, comunicazione e fiducia nel lavorare con una classe varia ed eterogenea;
• si ispirino l’un l’altro a fare nuove domande ed esplorare nuovi modi di lavorare;
• coltivino il talento, così che i nostri studenti e colleghi abbiano la migliore opportunità di raggiungere il loro potenziale creativo.
Stiamo anche raccogliendo fondi per lanciare il nostro Schema di Praticantato di Danza nell’autunno 2009. Apriremo le porte del nostro studio a due artisti selezionati per anno, così che possano guadagnare conoscenza pratica, di prima mano, del lavoro in una compagnia di danza professionistica. I praticanti saranno pagati per il loro impegno di 10 settimane, e offriremo anche assistenza finanziaria rispetto a viaggio e sistemazione per garantire che i candidati non siano esclusi su basi economiche, geografiche o bisogni personali di viaggio (per esempio, l’inaccessibilità della metropolitana di Londra per utenti in carrozzina).
La partecipazione è aperta a chiunque, ma sarà data priorità a ballerini disabili con sede nel Regno Unito, che soffrono la mancanza di possibilità integrate di formazione entro il settore della danza. Saranno in seguito considerati artisti che non abbiano lavorato come professionisti in una compagnia di danza, o anche individui disabili che mostrino interesse per l’arte della danza.
Stiamo al momento raccogliendo le circa 10.000 sterline richieste per questo progetto, e speriamo di poterlo lanciare presto, così che i ballerini coinvolti possano essere in una posizione più forte per creare e cercare opportunità nel mercato competitivo della danza.

La teoria del genio è un’invenzione borghese

di Sandra Negri

Che siete colti ve lo dite da voi. Avete letto tutti gli stessi libri. Non c’è nessuno che vi chieda qualcosa di diverso.

Così scrivono i ragazzi della Scuola di Barbiana nel lontano 1966 in Lettera a una professoressa (Firenze, Libreria Editrice Fiorentina), forti della esperienza straordinaria e rivoluzionaria della scuola di don Milani. In quella denuncia si coglie la rabbia di chi vuole affermare una verità per lui assoluta ma che si scontra con la rigida staticità che non si apre al nuovo, all’inedito.
È la rabbia di chi non trova comprensione per la propria grande verità. Per la propria specificità.
Ed è la verità di una esperienza forte. Passata da importanti incontri, rivoluzionarie scoperte di sé e del fuori da sé, dalla messa in gioco, dal superamento della difficoltà, dall’accoglimento del proprio e altrui limite e dalla grande soddisfazione per l’acquisizione di conoscenze, competenze, sicurezza di un metodo di studio e di lavoro che sono, per ogni membro del gruppo, assolutamente rispettosi della propria individualità.
Facendo riferimento alla citazione iniziale… i libri degli studenti di Barbiana sono molteplici e variegati. Gli strumenti per l’acquisizione del sapere sono i più diversi. I canali di apprendimento tengono in grande considerazione tutto ciò che compone e caratterizza i contesti di vita e di crescita delle persone reali che li vivono.
Questa è la contestazione alla scuola del tempo. L’assenza di una valorizzazione della molteplicità e della ricchezza di occasioni di conoscenza e formazione, per una didattica uniformata e conformata. Una mancanza di conoscenza dell’alunno, il protagonista sovrano dell’apprendimento. E di qui l’impossibilità ad applicare le necessarie attenzioni nel rispetto delle differenze.

E non capiva, poveretta, che era proprio di questo che era accusata. Perché non c’è nulla che sia ingiusto quanto far le parti eguali fra disuguali.

Ciò che abbiamo raccolto in questa monografia è l’esperienza, l’innovazione, la creatività che vivono in molte situazioni di didattica, educazione e formazione che vogliano utilizzare “altri libri”, “che chiedano qualcosa di diverso”.
Con grande gioia abbiamo verificato l’enorme quantità di situazioni, all’interno della scuola e dei molteplici contesti formativi, in cui la presa in cura del singolo nella sua individualità e nelle sue differenze è possibile e necessaria per la crescita personale e intellettuale di tutto il gruppo.
È poi molto stimolante e divertente avvicinarsi con sguardo curioso e attento alle diverse esperienze e constatare che gli strumenti utilizzati per fare ciò non richiedono formule magiche, costi esorbitanti, organizzazioni impossibili. In realtà ci siamo imbattuti in persone, esperienze e contesti che partono da elementi, a dire il vero, elementari: la propria esperienza, le proprie capacità, le proprie passioni.
Un elemento è comune a tutte le esperienze che abbiamo conosciuto: il coraggio di ricercare e sperimentare il proprio approccio, il proprio metodo. Partendo dalle basi sicure delle proprie competenze.

 

L’educazione è un posto dove ci piove dentro.

Saperi, gesti, emozioni, esperienze di Educazione Formazione e Animazione

Sandra Negri si occupa da molto tempo di educazione e formazione all’interno del gruppo di lavoro del Centro Documentazione Handicap e Cooperativa Accaparlante. Dentro a questo gruppo ha sperimentato e sperimenta quotidianamente la bellezza e la fatica del lavoro di squadra.

La bellezza di vivere le relazioni e condividere le emozioni, la fatica di esporsi anche quando le condizioni climatiche sono meno favorevoli. La bellezza e la fatica del contatto con ogni singola preziosa persona del team.
E per ognuna di loro grazie. 

Lettere al direttore

Caro Claudio… non ho resistito a scriverti quando, in un tuo articolo, ho letto “note (o pause) in una composizione musicale”. Ecco! Hai detto bene: chi mai considera la pausa in una composizione musicale? Forse chi suona uno strumento o legge musica: io ho cominciato ad apprezzare le pause oltre che le note di una composizione quando ho scoperto, “cambiando contesto”, la mia anima musicista, nascosta o forse sopita per troppi molti anni. Però… c’è un però, carissimo Claudio! È vero che è un problema di contesto, ma cambiare contesto significa che anche gli altri, che già ti conoscevano, devono vederti o ri-vederti nel nuovo contesto. Come si fa? Come possono fare? Come puoi fare? Ti ringrazio di questo scritto, delle parole, della punteggiatura che è come una bella pausa musicale! Ti auguro davvero un Natale assolutamente “in-contestuale” e mi auguro di poter dire quanto prima di essere felice come una Pasqua, anche se è Natale! Maria Grazia Ponziani, mgp per gli amici.

Cara Maria Grazia,
devo complimentarmi con te, perché di un articolo piuttosto lungo e che aveva come protagonista del muschio natalizio, ti è rimasto impresso proprio il dettaglio della pausa, relegato com’era in un “angolino”… Non era facile, anzi, era tutt’altro che scontato, ma era un dettaglio al quale tenevo parecchio. Perché?
Per due ragioni: intanto perché il silenzio e le pause non sono assenza di comunicazione, né vuoti da riempire necessariamente. Sono invece più eloquenti delle parole e dei suoni stessi… Infatti ci imbarazza tantissimo stare in silenzio in presenza di qualcun altro, proprio perché non è vero che in quel momento non si dice niente, si dice tanto e, se non siamo abili maneggiatori del “nulla”, pure troppo… Classico esempio è quello dell’ascensore, in cui, a un “pieno” di corpi pigiati corrisponde spesso un “vuoto” di suoni che ci fa sentire scoperti, più deboli.
Nel silenzio, nel vuoto le cose sembrano sfuggirci di mano, abbiamo meno riferimenti. A volte mi sembra che la percezione che abbiamo del buio e del silenzio si assomiglino, anche se essi interpellano sensi diversi.
Peraltro, è difficile accettare il silenzio anche quando siamo soli.
In secondo luogo, come scrivevo nell’articolo, perché, anche se non ci pensiamo mai, senza di essi la musica sarebbe un’accozzaglia informe (certo, c’è chi ha lavorato artisticamente proprio sull’assenza di pause e vuoti…) e siccome io sono un appassionato ascoltatore di melodie, sempre rendo grazie all’“invenzione” del silenzio.
Mi viene in mente, poi, che anche in altre situazioni il silenzio è necessario, o almeno avvertito come tale: esso connota, ad esempio, l’interno di una cattedrale o di un monastero, luoghi in cui il rumore non aumenterebbe, anzi, ridurrebbe l’eloquenza di quella calma.
Non male, per un elemento così sfuggente e fantomatico che faremmo prima a definire per quello che non è. E si potrebbe continuare, ma l’importante è capire che per tutto e per tutti c’è spazio e importanza in questo mondo, che la cosa fondamentale è riconoscere la bellezza di questa necessità e capire che, se a volte i conti non tornano, il problema non sta nella natura delle cose (se ne hanno una), ma nelle relazioni reciproche che le definiscono, nelle posizioni di tempo e spazio in cui le mettiamo e nel tipo di rapporto che noi riusciamo a instaurare con loro.
E che dire? Non sottraetevi all’arduo compito di imparare a… stare zitti!

Caro Claudio,
ti scrivo una lettera che potrei intitolare “Mettere come limite il non limite”.
Il mestiere di genitore non si impara in una scuola di formazione alla genitorialità ed esserlo di un bambino con handicap è ancora più difficile. Non approfondiamo qui le diverse problematiche dell’handicap e di cosa esso sia in grado di suscitare nell’animo di un genitore. In particolare nel dover gestire il negativo che tali stati d’animo possono determinare sulla personalità del bambino, che ha in sé tutta la forza della sua fanciullezza che lo spinge a correre incontro alla vita, con strumenti che non sono proprio come quelli di qualunque altro bambino. Le ore trascorse insieme, quando non sono sovrastate dall’ansia, dalla paura di non farcela, ritrovano un loro svolgersi sereno. I momenti dedicati sono ricchi di dialogo, di parole accompagnate da gesti, da carezze, da contatti affettivi, che rendono ancora più forte la volontà di costruire la vicinanza col bambino.
Accrescono la necessità di accompagnarlo nel percorso dell’esistenza, affinché possa trovare, all’incontro con il mondo esterno, un contatto buono. Il genitore affida alla scuola il proprio figlio, la cosa più importante, e si preoccupa di trovare in essa un dirigente che faccia la differenza, che abbia voglia e capacità di accettare una sfida. Quel signore sicuramente c’è, basta cercarlo, forse non si troverà nella scuola sotto casa, ma vale la pena scovarlo, se non si vuole correre il rischio di ritrovarsi in una scuola con semplici e demotivati insegnanti. Ci vogliono “maestri” sufficientemente onesti da addossarsi personalmente il peso delle proprie responsabilità, rivestendo a pieno il proprio ruolo, per affrontare così agevolmente il difficile compito affidato. Un ruolo che richiede ed esige comprensione, prudenza, capacità di insegnare e l’impegno a dare buon esempio per condurre il bambino a un contatto sereno col mondo. Il genitore apprezza i sacrifici e riconosce i problemi che gli insegnanti devono affrontare, sa che possono farcela a dare al bambino l’ispirazione giusta per sfruttare appieno il suo potenziale. Se solo insegnassero, oltre alla sociologia, nozioni preziose per i rapporti con gli altri, l’autostima oltre all’ortografia, il senso civico oltre alle scienze, la tolleranza oltre alla grammatica e l’entusiasmo per la conoscenza oltre alla maestria nella materia. Se fossero disponibili a mostrarsi come consulenti, amici, moderatori esperti di dinamiche di gruppo, specialisti in difficoltà dell’apprendimento, oratori specializzati in motivazione, oltre che maestri esperti della materia che insegnano. Se solo preparassero le lezioni con creatività e dinamismo in modo da mantenere l’attenzione di un gruppo numeroso, con metodi di insegnamento fatti “su misura” per singoli studenti ognuno con i suoi modi diversi di imparare e difficoltà di apprendimento. Certo! Hanno scelto la professione che presenta più sfide ma anche quella che offre più soddisfazioni di qualunque altra.
Anche se il loro lavoro non paga granché in termini di denaro, le gratifiche psicologiche ed emotive sono enormi. Si parla della luce negli occhi di uno studente che ha ritrovato la motivazione per studiare, del sorriso che compare quando un concetto impossibile è finalmente afferrato, della risata gioiosa di un bambino rifiutato che è accettato dal gruppo, dei sorrisi pieni di gratitudine, degli abbracci e dei “grazie” di genitori riconoscenti, di un biglietto di ringraziamento scritto da uno studente “perduto” che invece decide di continuare e di farcela, della soddisfazione interiore che si prova sapendo di aver fatto la differenza, di aver fatto qualcosa che conta veramente, di aver lasciato un segno indelebile per il futuro, per così tante persone, per così tanto tempo. A volte nella vita, mettere come limite il non limite, induce ad andare avanti oltre l’apparente confine, e scoprire, con gioia, che al di là della lotta tra il bene e il male c’è molto di più: C’è la vita.
Saluti, Giuseppe Felaco

Caro Giuseppe,
la tua lettera, che riporto per intero, è un bombardamento di stimoli, e il “problema” è che condivido tutto quello che scrivi. Per cui mi sono lasciato bombardare con piacere vero…
E che dire? Riprendendo il tuo titolo e tornando a quarant’anni fa: “Siate realisti, chiedete (o sognate) l’impossibile”.

Integrazione scolastica, un contributo dal vivo (2° parte) – Superabile, Agosto 2011 – 1

Il progetto svolto nelle classi prime della scuola secondaria di primo grado di Cogollo del Cengio (VI) si inserisce in un percorso da sviluppare nei tre anni di scuola secondaria di primo grado. I primi due anni prevedono attività ludico-riflessive svolte da insegnanti curricolari di qualunque materia per sottolineare come qualsiasi docente abbia una funzione non solo didattica ma anche e soprattutto educativa e formativa nei confronti dei propri alunni e come qualsiasi disciplina possa diventare strumento di riflessione per la vita reale e soprattutto per l’acquisizione di competenze come quella di un agire integrante. Il percorso si dovrebbe concludere al terzo anno con l’insegnante di Lettere, poichè il tema della disabilità, e della diversità in generale, fa parte della programmazione di Antologia. Le attività svolte nei primi due anni di scuola sono propedeutiche alla riflessione finale che avverrà all’ultimo anno attraverso la lettura di testi o la visione di film. Quest’ultima fase ha funzione metacognitiva e favorirà, a partire dalle esperienze precedenti, l’acquisizione di una migliore comprensione e consapevolezza in merito alla complessa tematica della diversità. La finalità ultima dell’intervento è quella di dare un carattere di normalità alla disabilità-diversità, quindi, tutto il percorso avverrà nelle normali ore di lezione, cercando costanti connessioni con la programmazione didattico-formativa o con la struttura epistemologica della disciplina interessata e, in terza, l’intervento sarà all’interno dell’ordinaria programmazione di classe. L’aderenza alla programmazione didattica vuole sottolineare come vita scolastica ed extra-scolastica siano interconnesse, nonostante molto spesso gli studenti le percepiscano come parallele e, quindi, senza punti di contatto. L’intero percorso è da considerarsi un progetto aperto, ovvero da strutturare di volta in volta a seconda dei bisogni delle classi in cui si sviluppa e sulla base delle competenze umane e disciplinari dei docenti che prendono parte all’attività. Di conseguenza, nonostante il Piano di Lavoro preveda gli stessi interventi e gli stessi obiettivi, ogni classe seguirà un proprio percorso in modo del tutto originale. La scelta di un progetto aperto permette anche di sfruttare quelli che possono essere percepiti come ostacoli in modo proficuo e produttivo. Quest’anno per esempio, durante lo svolgimento della seconda parte del progetto previsto per le classi prime, l’improvvisa richiesta di partecipare ad un progetto per i festeggiamenti dei 150 anni dell’Unità d’Italia ha creato dei problemi a due delle tre classi interessate. In una classe, l’insegnante di riferimento ha deciso di apportare delle modifiche al proprio piano di intervento in modo tale da inglobare il progetto per i 150 anni dell’Unità d’Italia all’interno del Progetto di educazione all’integrazione. Il lavoro per i 150 anni dell’Unità d’Italia è diventato un’ulteriore occasione per riflettere sulla diversità e sul suo essere condicio sine qua non di un arricchimento umano e sociale. Si è riflettuto sul fatto che l’unità della nazione italiana affonda le proprie radici proprio sull’integrazione delle diversità (dall’incontro tra persone provenienti da diverse regioni a quello tra gli Italiani "di vecchia generazione" e i cosiddetti "nuovi Italiani" che vengono da altri stati o continenti). Inoltre, per poter realizzare il prodotto finale, l’insegnante è riuscito a coinvolgere altri docenti che hanno cooperato assieme per la realizzazione del cartellone. Nell’altra classe in cui è stato avvertito il problema, purtroppo, per limiti di tempo si è dovuto rinunciare alla seconda fase del progetto. Tuttavia, l’anno prossimo l’attività sarà recuperata e permetterà di capire se, crescendo, i ragazzi eliminino eventuali atteggiamenti di leggerezza verificatisi occasionalmente quest’anno nelle altre due classi durante la seconda fase del progetto. (Federica Pasin)

(8 agosto 2011)

Integrazione scolastica, un contributo dal vivo (1° parte) – Superabile, Luglio 2011 – 2

Spesso si presentano nella nostra biblioteca del Centro Documentazione Handicap di Bologna studenti/esse e insegnanti di tutti gli ordini di studi con la speranza di trovare, per una volta, non l’ennesimo libro che teorizzi o affronti ad un livello "distaccato" qualche tema relativo alla disabilità, ma materiale "vivo", sperimentato sul terreno, quindi per lo più prodotto da altri docenti o figure che a vario titolo operano nel mondo del sociale; materiale dal quale possano trarre spunti per elaborare a loro volta progetti e programmi relativi all’incontro con la persona disabile, al rapporto con la stessa o tecniche e suggerimenti per un insegnamento più mirato e attento alle specifiche esigenze di uno studente. Per quanto la nostra sia una biblioteca molto attrezzata, in proporzione questo tipo di materiale è fortemente minoritario. Sarebbe auspicabile che, in qualche modo, queste esperienze educative venissero condivise quanto più possibile, anche rivolgendosi ai C.D.H. che esistono in tante parti d’Italia come luoghi privilegiati per la loro catalogazione e conservazione. Segnalo che, in questa direzione, lavora egregiamente il Laboratorio di documentazione e formazione di Bologna.

Comunque, anche per le ragioni esposte sopra oltre che per quelle intrinseche, pongo all’attenzione dei lettori il resoconto di un progetto svolto quest’anno per la prima volta, ma con l’idea di replicarlo e arricchirlo in futuro, presso una scuola del vicentino. La relazione è scritta da Federica Pasin, insegnante referente per questo progetto, sviluppato concretamente con altri insegnanti di diverse materie. Chissà che non possa fungere da incentivo per la condivisione e la resa pubblica di altri progetti. (Claudio Imprudente)

Intervento Formativo di Educazione all’Integrazione: l’Esperienza Concreta della Scuola Secondaria di Primo Grado dell’Istituto Comprensivo Statale "Don Carlo Frigo" di Cogollo del Cengio (VI)

PRIMA PARTE: I Fondamenti Teorici e le Fasi del Progetto.

Il concetto di integrazione implica la relazione tra un Sé e un Altro su un terreno che permetta loro di incontrarsi anzichè di scontrarsi. In un processo di integrazione, quindi, la visione di un Sé isolato dagli altri che conosce se stesso nel momento in cui pensa viene superata da un’immagine di un Sé che diventa tale nella relazione con l’Altro, come suggerito da pensatori quali Buber e Levinas. Prima di arrivare ad un’integrazione intersoggettiva però, è necessario, per ciascun Sé, raggiungere quello che Jung definisce lo stadio di maturità, ovvero la fase in cui le tensioni esistenti tra Ego e Altro a livello intrasoggettivo vengono non solo accettate, ma comprese nella loro complessità. Il raggiungimento dello stadio di maturità implica la riduzione della tensione antitetico-contrastiva tra i due elementi a favore di un’armonizzazione-integrazione degli opposti.

E’ a partire da questa riflessione che si è ipotizzato un intervento mirato di educazione all’integrazione da sviluppare nelle classi prime della scuola secondaria di primo grado di Cogollo del Cengio (VI). In questo percorso, che ha coinvolto 54 studenti, tra i quali 3 alunni con verbale di accertamento e 4 con diagnosi di DSA, si possono individuare due momenti. Innanzitutto, lo spunto per l’azione formativa è stato offerto dall’adesione della scuola al Progetto Kairós del Lions Clubs International (http://www.lions-kairos.it/) che si prefigge di migliorare l’integrazione scolastica e, quindi, sociale delle persone con disabilità; i Lions hanno fornito gratuitamente un manuale operativo con risorse da applicare nella didattica finalizzata alla sensibilizzazione nei confronti della disabilità. A partire dal manuale operativo è stata progettata un’attività ludico-riflessiva, dal nome "Non sento, ma ascolto", che permettesse ai ragazzi di fare esperienza concreta della disabilità-diversità e di operare delle riflessioni sulle proprie emozioni a riguardo, grazie ad un questionario. Il gioco favorisce l’interiorizzazione e permette ai ragazzi di far incontrare il proprio Sé con l’Altro a livello intrapersonale o, come direbbero i teorici post-coloniali, di sintetizzare (in senso hegeliano) mondi diversi in un unico corpo. Solo se avviene prima a livello intrapersonale, l’integrazione può realmente avvenire a livello interpersonale. L’intervento formativo ha riguardato una forma di disabilità sensoriale (il deficit uditivo) non presente nelle tre classi. Dall’analisi dei dati contenuti nei questionari finali emerge la propensione a distinguere tra se stessi – fortunati e "loro"- disabili, diversi e quindi sfortunati. Inoltre, si nota la tendenza a sottolineare l’importanza della presenza di "altri" che aiutino la persona disabile-diversa. In entrambi i casi spesso manca la consapevolezza del fatto che la diversità è la normalità della vita e che quegli "altri" chiamati ad aiutare chi è in difficoltà siamo tutti noi. E’ per favorire l’acquisizione di questa consapevolezza che nasce il secondo momento del progetto che ha previsto la compilazione di un questionario chiamato Abilità – Disabilità finalizzato alla riflessione sulla propria percezione di competenza e sul ruolo non solo di successi ed insuccessi ma anche dei commenti di chi ci circonda nell’influenzarla. I questionari, raccolti in due fascicoli, sono stati appesi in aula come promemoria per l’intero gruppo classe. In un secondo momento si è riflettuto sul potenziale positivo che ogni persona può offrire alle persone che incontra e, a questo proposito, sono stati allestiti dei cartelloni. Ciascun alunno si è autorappresentato con un’immagine che i compagni hanno arricchito con le qualità che gli riconoscono. Nonostante le linee guida comuni, ogni docente ha sviluppato un intervento formativo originale, sulla base non solo della propria personalità, ma anche degli stimoli offerti dalla disciplina curricolare insegnata. (Federica Pasin)

(25 luglio 2011)

La normalità, tra rappresentazione e realtà – Superabile, Agosto 2011 – 2

Il 21 marzo u.s. si è celebrata la Giornata mondiale delle persone con sindrome di Down che quest’anno, almeno in Italia, si è svolta all’insegna dello sport per tutti. L’attività ludico-sportiva è stata da tempo individuata come potente motore d’integrazione sociale: sport adatto, sport adattato, sport inventato, sport per tutti… il binomio disabilità-sport può assumere molteplici sfumature, tutte da approfondire e tutte, con i rispettivi limiti, volte a produrre un’accelerazione del processo di integrazione sociale. Di ritorno, anche per chi disabile non è, un’immagine dello sport svincolata da tutte quelle incrostazioni che tendono a ridurlo a qualcosa di molto meno multiforme e piacevole di quanto potrebbe essere.

Discorso lungo, ma che vale sempre la pena ribadire, dal momento che i più associano lo sport per disabili a quelle poche occasioni in cui lo stesso viene mostrato, solitamente si tratta di grandi eventi, con atleti professionisti che "rispettano" standard di eccellenza, performatività e tensione agonistica che spesso ha poco da invidiare a quelle degli atleti normodotati. A Roma è stato presentato il Vademecum, a cura di Fisdir e CoorDown, dal titolo "Orientamenti sulla pratica sportiva per gli atleti con sindrome di Down". CoordDown che, a fine 2010, si è aggiudicato il primo premio della terza edizione del "Pubblicità Progresso ONP Award", assegnato al miglior spot di comunicazione sociale: lo spot è veramente ben fatto e, partendo da un’idea ed una messa in scena semplici, riesce a comunicare a tanti livelli e in profondità.

Questo per ricollegarci ad una seconda notizia che ho appreso sempre in quei giorni, relativa ad un programma per la prima infanzia della Bbc che, in realtà, sono già diversi anni che viene mandato in onda. Si intitola "Something special Out and About" e prevede che, ad intrattenere i piccoli spettatori, ci siano bambini con disabilità (per lo più con sindrome di Down). Ovvero che le persone disabili figurino come animatori, cioè che siano loro a "fare qualcosa per" e non a "ricevere qualcosa da". Come scrive nel suo "Blog" Matteo Schianchi, in relazione alla trasmissione inglese, "Quando si mostra la disabilità al di fuori dei codici (cui siamo più abituati, N.d.r.) che in fin dei conti producono sottocultura, la si può mostrare come dimensione che fa parte del mondo, degli adulti come dei bambini. La rappresentazione della disabilità può diventare ordinaria e abituale senza dover essere necessariamente un "evento speciale", un "momento particolare", con ospiti "speciali", storie "speciali e straordinarie".

Mi è tornato in mente quando, pochi giorni dopo la Giornata mondiale, in una qualsiasi domenica pre-primaverile, mi sono trovato in un normalissimo bar di provincia, popolato da vecchi che si dividevano tra le immagini delle partite di calcio, animate partite di tresette e… stavo per dire la coppia di ragazzi Down che si scambiavano baci seduti ad un tavolo del locale. Invece, la cosa interessante era che quei vecchini ad essi non prestavano attenzione, come probabilmente avrebbero fatto con qualsiasi altra coppia che avesse scelto quel luogo per passare un po’ di tempo in intimità. Ho pensato che sarebbe stato a sua volta un ottimo spot (anche se mai realizzato) d’integrazione ed un’ottima notizia, anche se non "faceva notizia". Ed era questa la sua forza, non essere notizia, ma realtà (però è stato difficile resistere alla tentazione di non filmare con un discreto e subdolo telefonino…). Tanto la realtà quanto la rappresentazione che se ne può dare (senza mistificarla), stretti per una volta in un rapporto felice, possono darci esempi molteplici di quanto sia assurdo stabilire confini, limiti, divieti. Soprattutto se a determinarli è sempre la "parte sana" della società.

Claudio Imprudente

Tutta questione di pietre – Il Messaggero di sant’Antonio, Settembre 2011

Molti termini, con l’andare del tempo, subiscono destini diversi e da loro indipendenti. Alcuni non vivono più nella quotidianità scritta o orale, oppure agonizzano, sopravvivendo al massimo come voci del dizionario. Altri, invece, continuano a essere utilizzati, ma con accezioni del tutto diverse, andando a riferirsi a «oggetti» del mondo reale per i quali non erano stati inizialmente pensati. Spesso, poi, l’uso distorto dei termini ne svuota la potenza originaria.
Prendiamo la parola scandalo: l’utilizzo corrente le ha progressivamente tolto forza e pregnanza, relegandone la sfera significativa a fatti mondani, magari associati alla sfera sessuale. Peraltro sono fatti che scandalizzerebbero ben pochi, se non fossero costruiti ed enfatizzati ad arte. D’altra parte scandalo non è solo un termine, ma anche una pratica, perché non può esistere scandalo senza che qualcuno o qualcosa lo produca (o, come abbiamo visto, lo costruisca e imponga «narrativamente»).

Per me, d’altronde, si è trattato spesso di darne (si dà scandalo, nel linguaggio comune) involontariamente, per il semplice fatto di occupare uno spazio in un dato tempo, senza altro fare, solo con la mia presenza.
Ma non è questo il punto. La parola scandalo deriva dal greco skàndalon, che significa trappola, inciampo, molestia. Indica anche un qualsiasi impedimento messo sulla via e che causi a qualcuno una caduta: una pietra d’inciampo.
 
Come ricorderete, la parola pietra, con un’altra accezione, è presente nel Vangelo, ripresa dal Salmo 117. È Matteo 21,33-43 a parlarcene, al termine della parabola dei vignaioli assassini, quando Gesù dice: «Non avete mai letto nelle Scritture: “La pietra che i costruttori hanno scartato è diventata la pietra d’angolo; questo è stato fatto dal Signore ed è una meraviglia ai nostri occhi”? Perciò io vi dico: a voi sarà tolto il regno di Dio e sarà dato a un popolo che ne produca i frutti». La pietra d’inciampo e la testata d’angolo a prima vista hanno poco da condividere, e tuttavia ci danno la possibilità di costruire un’associazione imprevista. La pietra scartata mi ha sempre fatto pensare a un manufatto mal riuscito e all’apparenza inservibile, inutilizzabile. Potrebbe essere la definizione perfetta per indicare una persona con deficit, la cui disabilità trasforma in una copia imperfetta e debole. Il lungo e travagliato percorso teso a realizzare un’integrazione effettiva ha cercato di «promuovere» la persona disabile, facendola diventare, da pietra scartata, persona sociale, un punto di forza del tessuto comunitario, tanto quanto lo sono o dovrebbero esserlo tutti gli abitanti di questo mondo.
 
Questa distanza tra scarto e pietra angolare ha tanto più possibilità di essere colmato quanto più la persona disabile sa essere ragione e produttrice di scandalo. Sia chiaro, non si tratta di essere scandalistici, ma – come scrivevo sopra – di incarnare la forza originaria del termine: essere quindi soggetti generatori di molestia, fastidio, essere pietre d’inciampo e, quindi, ispiratori di riflessioni e cambiamento. Ho pensato a questo nei giorni precedenti al conferimento della laurea honoris causa che l’Università di Bologna mi ha assegnato a maggio. Quel conferimento avrebbe dovuto funzionare da elemento generatore di fastidio nei confronti di educatori, politici e genitori che non credono che «un vegetale» sia in grado di far progredire i contesti nei quali si trova a vivere e operare, e che non prestano la dovuta attenzione alla realtà e all’attualità delle abilità diverse.
Gesù è stato allo stesso tempo pietra scartata, pietra d’angolo e pietra dello skàndalon. E voi che pietre siete? Scrivete a claudio@accaparlante.it o sul mio profilo di Facebook.
 

Parola di dottore: la prima comunicazione a Milano

di  Giovanni Merlo (*)

Un’indagine sulla prima informazione svolta nel 1987 e rivolta solo agli operatori sanitari operanti nel comune di Milano. La comunicazione ai genitori della menomazione del figlio non viene attuata seguendo una metodologia precisa ma affidandosi all’esperienza, all’istinto e alla umanità dei medici. Infatti l’86,6% degli intervistati ha negato l’esistenza di una metodologia di annuncio

L’importanza del momento della comunicazione ai genitori della nascita di un bambino menomato è già stata ampiamente analizzata. Questo evento non è così raro come generalmente si pensa. Infatti “la nascita di un bambino con una importante malformazione congenita si verifica in circa il 2% di tutti i parti. Si tratta quindi di un evento relativamente frequente che riguarda tutti i neonatologi, sia nei centri di primo livello sia, nei reparti di terapia intensiva”. Purtroppo non esistono dati statistici aggiornati in proposito. L’indicazione appare comunque confermata dallo studio effettuato, durante quest’indagine, sui registri delle nascite di alcuni ospedali milanesi nei quali l’indice di nascita con menomazioni nel 1987, variava dall’1% al 2,5%. Ora, tenendo conto che il numero di nati vivi nel 1986, nel comune di Milano, è pari a 9583 unità (ultimi dati ISTAT), si può ritenere che, molto approssimativamente, nello stesso periodo sono nati, nel solo capoluogo lombardo, 100-200 bambini con menomazione. Questa indagine vuole fornire un quadro, il più completo possibile, su come venga attuata questa comunicazione nella città di Milano, verificando l’esistenza di modelli di annuncio eventualmente paragonabili fra loro. Possiamo parlare di modelli di annuncio quando ci troviamo di fronte ad una serie di interventi i cui passaggi siano codificati, motivati, finalizzati e basati su una analisi verificabile. Sono state prese in esame menomazioni di qualunque genere e gravità diagnosticabili alla nascita o nei primi giorni di vita, durante la degenza in ospedale.
Il metodo d’indagine

E’ stato elaborato un questionario, sulle modalità di annuncio, i primi interventi e la dimissione, da sottoporre agli operatori responsabili della comunicazione e ad eventuali altri operatori coinvolti direttamente. L’indagine si è svolta all’interno di 10 ospedali milanesi (Istituto ospedaliero provinciale per la maternità, ospedale dei bambini V. Buzzi, ospedale generale provinciale Fatebenefratelli, ospedale multizonale L. Sacco, ospedale generale Istituti clinici di perfezionamento, ospedale generale regionale Niguarda, ospedale Regina Elena, ospedale S. Giuseppe, ospedale S. Paolo. ospedale generale provinciale S. Carlo Borromeo).
Il personale da intervistare è stato indicato, in prima istanza dalla Direzione sanitaria degli ospedali cui chiedevo l’autorizzazione a compiere l’indagine. Sono stati intervistati 15 medici (6 pediatri, 5 pediatri neonatologi, 4 ostetrici), 2 assistenti sociali, 1 psicologa. Le interviste sono avvenute nei mesi di marzo, aprile, maggio 1988, in riferimento all’attività svolta nell’anno solare 1987.
I risultati del questionario

A chi compete l’annuncio? Il 73,3% degli intervistati ha indicato nel pediatra dell’ospedale il responsabile dell’annuncio, preferibilmente il primario (26%) o un neonatologo (13,3%). Il 26,7% lo ha invece indicato nel medico che compie la diagnosi, che può essere il medico ostetrico o il pediatra. In sintesi viene quindi confermata la tendenza ad individuare nel pediatra la persona che concretamente deve attuare l’annuncio.
Viene seguita una metodologia della comunicazione?

L’86,6% ha escluso qualunque riferimento ad una metodologia codificata. Solo due medici (13,4%) hanno risposto affermativamente, l’uno facendo genericamente riferimento alle decisioni dell’équipe. L’altro alle indicazioni di Mastroiacovo dell’AISM (Associazione Italiana Studi Malformazioni).

Chi viene informato?

L’80% informa prima il padre e poi la madre, motivando questa scelta con la situazione di stress in cui si trova la donna dopo il parto. Fra questi un medico ha dichiarato che in alcune situazioni informa altri parenti, mentre un altro comunica ad entrambi i genitori la diagnosi se questa è tardiva. Il 20% informa la coppia o perché il padre assiste al parto, o perché si considera come riferimento la coppia e non il singolo coniuge.
Quando avviene l’annuncio?

Il 93,3% dei medici comunica la menomazione non appena la diagnosi è formulata. Il 6,7% differenzia le menomazioni evidenti da annunciarsi subito da quelle non evidenti da comunicarsi progressivamente.
Vi è un luogo privilegiato?

Il 53,3% degli intervistati ha indicato un luogo privilegiato dove attuare l’annuncia (in gran parte lo studio medico). Il 46,7% non ha segnalato un luogo particolare, indicando nelle stanze (5), nello studio (3), nel corridoio (2), nella sala parto (2), o genericamente nel reparto (2) quelli più usati.
Prime domande dei genitori e risposte dei medici

Il 73,3% ha indicato come domanda più frequente dei genitori la richiesta di informazioni sul futuro del figlio. il 46,6 sulle cause della menomazione, il 33,3% sulle condizioni di salute del bambino e il 20% ha indicato anche il bisogno di consigli (“Cosa fare?”). Altre richieste dei genitori sono descritte come reazioni di rifiuto o genericamente emotive, o di “parlare con il primario”. Le risposte a queste domande sono sempre fornite dal medico che annuncia e sono in gran parte di tipo prognostico, fondamentalmente realistiche. Inoltre il 38,4% risponde alle reazioni emotive dei genitori con inviti all’ottimismo, alla speranza o comunque garantendo che “tutto il possibile sarà fatto”.
Tutti i medici intervistati hanno descritto la loro disponibilità psicologica verso i genitori con atteggiamenti giudicati positivi: dalla chiarezza (3) alla partecipazione (3), dalla dolcezza (3) all’incoraggiamento verso il futuro (3), alla speranza (3) e via via l’impegno, la fermezza, la gradualità, la cautela, il paternalismo e infine, adottando le risposte a secondo del livello socio-economico dei genitori.
Le risposte più difficili da fornire sono giudicate quelle relative alle domande tipo: “Rimarrà handicappato?”, seguite da quelle sul futuro del figlio (75%), o da reazioni di rifiuto o da richieste sulla causa della menomazione o alle affermazioni del genere: “E’ meglio che muoia?”.
L’86,6% dei medici è concorde nel considerare l’annuncio una necessità psicologica, perché la coppia si trova in un momento di particolare bisogno e, in generale, per lo sviluppo futuro del sistema familiare. Il 13,4% non considera invece l’annuncio una necessità psicologica.
Primo incontro genitori-figlio

A questa parte del questionario non hanno risposto 3 ostetrici. Per l’84,6% dei medici il primo incontro deve avvenire o contemporaneamente o subito dopo l’annuncio, mentre per il 15,4% esso è collegato alle condizioni di salute del bambino. A questo primo incontro assiste il padre e poco dopo la madre per il 50%, la coppia per il 25% e solo il padre per il 16,6%, prima la madre e poi il padre nell’8,4. Gli operatori presenti a questo incontro sono in genere i pediatri che hanno gestito l’annuncio. Rispetto ai genitori mantengono in genere gli stessi atteggiamenti positivi manifestati all’annuncio: cautela, delicatezza, attenzione a valorizzare il bambino, consolazione. Alcuni indicano nella riservatezza la loro principale attenzione psicologica verso ì genitori, uno non ne specifica alcuna.
Le differenze infine con gli altri primi incontri genitori-figli stanno soprattutto nella maggiore concentrazione del medico, o nella sua presenza, nell’apprensione dei genitori, nel luogo dove avviene l’incontro, nella riservatezza; in un caso solo non viene segnalata nessuna differenza.
Gli interventi messi in atto

Ovviamente la totalità degli intervistati ha sottolineato gli interventi di tipo medico, diagnostico e terapeutici, uniti a volte a quelli riabilitativi. 6 medici (50%) hanno segnalato anche interventi a carattere sociale a favore delle famiglie in condizioni macroscopicamente disagiate o, nei casi di abbandono, interventi condotti da assistenti sociali. In un caso è stato definito intervento sociale l’impegno del medico a contattare associazioni esterne.
Un cenno a parte merita l’intervento di un assistente sociale in rapporto ai genitori di bambini con spina bifida.
Tre medici segnalano. interventi anche dello psicologo per seguire i genitori le cui reazioni siano evidentemente aberranti o, in 2 casi, per seguire e consigliare i medici, supervisionando la loro relazione con questi genitori. Da rilevare il fatto che in un caso la psicologa entra in contatto regolarmente con i genitori già durante i corsi pre-parto.
La dimissione

Avviene non appena le condizioni di salute del bambino lo permettono. In 2 casi alle condizioni di salute veniva affiancata, come criterio di dimissione, la capacità della famiglia di iniziare a prendersi cura del bambino.
I genitori dopo la dimissione vengono indirizzati alle strutture mediche specializzate (11), spesso all’interno dello stesso ospedale, alle associazioni (3), ai servizi di zona (5) indicati nel consultorio, nel Simee, nel medico di base, nei servizi sociali o nei servizi dell’Usl.
Manca una metodologia

Lo scopo dell’indagine è duplice. Da un lato si vuole mettere in luce le modalità di annuncio della nascita di un bambino menomato a Milano, e dall’altro verificare l’esistenza e il funzionamento di veri e propri modelli di annuncio.
Il lavoro svolto ha messo subito in rilievo come a Milano, all’interno degli ospedali da me contattati, la comunicazione ai genitori della menomazione del figlio non venga attuata seguendo una metodologia precisa ma affidandosi all’esperienza, all’istinto e alla umanità dei medici. Infatti l’86,6% degli intervistati ha negato l’esistenza di una metodologia di annuncio. Il rimanente 13,4% che ha risposto affermativamente alla domanda diretta ha dichiarato successivamente di far riferimento o al lavoro di elaborazione e di decisione dell’équipe di medici, o alle analisi di Mastroiacovo.
Più che a una metodologia che parta da chiari principi e che tragga le sue indicazioni da una seria analisi verificabile mi sembra che si tratti, anche in questi 2 differenti casi, di semplici indicazioni di comportamento concreto.
Ma si stanno attuando alcune esperienze alternative

Di rilevante interesse invece sono due esperienze, ancora allo stato embrionale o comunque sperimentale, che si stanno attuando l’una presso la clinica pediatrica IV dell’Università di Milano distaccata all’ospedale L. Sacco, l’altra presso l’ospedale Niguarda.
Nel primo caso il tentativo è quello di inserire costantemente l’intervento della psicologa con ruolo di supervisione per ì medici e di coinvolgimento diretto nelle situazioni più problematiche. L’obiettivo è quello di permettere ai genitori di esprimere i propri sentimenti, sentire il coinvolgimento dei medici e, successivamente, (“Lasciando il tempo necessario”) iniziare ad attivarsi assumendo la responsabilità della situazione. Presso l’ospedale Niguarda, invece, dal 1983 esiste un gruppo di lavoro che opera presso il centro Spina bifida, composto da medici di diverse specialità e da un’assistente sociale. Il fatto rilevante, oltre alla cooperazione tecnica di diversi medici specialisti che garantisce notevoli risultati terapeutici, sta nell’importanza attribuita al rapporto con i genitori attraverso incontri periodici, in occasione dei vari controlli sanitari.
Questa acquisizione risulta anche nel Protocollo diagnostico-terapeutico per il mielomeningocele.
Alcune considerazioni sui dati

Ritornando all’analisi dei dati globali è possibile distinguere alcune linee di tendenza generale.
L’annuncio viene dato quasi sempre da un pediatra, non appena la diagnosi viene formulata (93,3%), spesso prima al padre e poi alla madre (80%). Anche il primo incontro con il neonato avviene in tempi rapidi (84.6%), alla presenza del pediatra e prima con il padre e poi con la madre (50%), o solo con il padre (16.6%). Parlando con i genitori i medici forniscono informazioni realistiche rispetto alla prognosi adottando attenzioni psicologiche verso i genitori molto diverse fra loro, probabilmente adeguate al carattere e alla personalità del singolo.
Questo quadro sintetico fornisce dati contrastanti. La precocità della diagnosi e del primo incontro con il neonato, vissuta insieme ad un unico punto di riferimento (il pediatra), rilevano un’attenzione al diretto e concreto coinvolgimento dei genitori nella situazione. Desta alcuni dubbi il maggiore coinvolgimento del padre rispetto alla madre. in netto contrasto con le indicazioni prevalenti emerse dagli studi fino ad oggi compiuti.
Gli interventi messi in atto nell’ospedale sono prevalentemente terapeutici; eventuali altri interventi di sostegno psicologico o sociale sono rari e comunque rivolti a gruppi molto ristretti di persone. Questa tendenza è confermata al momento della dimissione, quando i genitori vengono prevalentemente indirizzati verso altri centri medici specializzati.
Prevale l’aspetto sanitario, assente quello psicologico

Da questa indagine emerge un dato generale: i primi interventi attuati nei primi giorni dopo la nascita di un neonato menomato mirano quasi esclusivamente al maggior benessere del bambino e, in quanto tali, sono gestiti e diretti da personale sanitario. Se ovviamente c’è da registrare con soddisfazione l’impegno e lo sforzo terapeutico nei confronti del neonato, che implica sicuramente un miglioramento della qualità futura della sua vita, non posso non sottolineare e non ricordare che il destino della famiglia dipenderà in gran parte dalla capacità e dalla possibilità che i genitori avranno di superare adeguatamente e positivamente sia la crisi, sia lo smarrimento che la nascita di un figlio menomato comporta.
Troppo pochi e frammentati sono invece gli interventi di sostegno alla coppia che le strutture ospedaliere sono in grado di compiere, in quanto affidati comunque al medico che non ne ha la preparazione e, soprattutto, ricopre per i genitori il ruolo istituzionale di “difensore della salute del bambino”. Altre sono le figure professionali che dovrebbero ricoprire questo ruolo: in particolare gli operatori sociali e gli psicologi.
Ribaltare la mentalità corrente

Il quadro generale mostratoci da questa indagine conoscitiva ci presenta una realtà ospedaliera tesa a salvaguardare le possibilità di vita e in genere la salute fisica del neonato menomato, trascurandone però il benessere psico-affettivo che è rappresentato, in quel momento, dalla capacità dei genitori di accettarlo alla nascita. Un primo passo concreto verso una maggior tutela della salute di questo particolare neonato, intesa come benessere fisico-psichico e sociale, potrebbe essere la formazione di gruppi di studio e dì lavoro composti da figure professionali già presenti nell’ospedale (medici, assistenti sociali, psicologi ed infermieri).
L’obiettivo minimo di questi gruppi potrebbe essere la costruzione almeno di una modalità dì intervento in cui tutti possano confrontarsi e ritrovarsi, ispirata agli studi e alle indagini conosciuti. Il nodo centrale rimane comunque l’evoluzione di una mentalità che deve vedere nei genitori di neonati menomati non dei poveri sfortunati, ma delle persone sicuramente in crisi come tali e come coppia – bisognose di sostegno e dì aiuto per uscire da questa crisi, per trovare le risorse in sé ed all’esterno, per costruirsi un nuovo e più adeguato equilibrio familiare, diverso da quello sognato, ma non per questo meno gratificante.

(*) L’articolo è tratto dalla rivista  Vivere Oggi, n.1, 1989
 

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Dall’imbuto di Norimberga alla costruzione condivisa dell’apprendimento

Due convinzioni radicate

Il senso etimologico del termine educazione (ex-duco) riconduce al significato di guidare, condurre verso uno scopo. Questa forte valenza di indirizzo e guida esercitata da “chi sa” verso “chi non sa” ha formato il modello educativo prevalente per buona parte della storia europea ed è a tutt’oggi ben esemplificato da due convinzioni presenti, più o meno esplicitamente, nella più parte del modo comune di pensare e gestire il processo di apprendimento.
“La prima convinzione può essere illustrata dalla Metafora dell’imbuto di Norimberga che trae origine da un incisione su legno del diciassettesimo secolo dove si vede una sedia sulla quale è seduto un ragazzo che in testa ha un buco nel quale è infilato un imbuto. In piedi accanto al ragazzo c’è l’insegnante intento a riversare nell’imbuto A, B, C, 2+2=4 e tutto il resto della sapienza dell’epoca. Questo favoloso e ingegnoso dispositivo è stato chiamato ’imbuto di Norimberga’ perché è in quella città che per la prima volta fu immortalato in un’incisione.
Si tratta di un dispositivo certamente molto attraente, se è vero com’è vero che ancora nel nostro secolo tutte le nozioni sull’imparare e insegnare ruotano attorno a questa idea della conoscenza come qualcosa che alcuni possiedono e altri no e che i primi possono versare nelle menti dei secondi. La conoscenza è concepita come un’entità, come un insieme di oggetti. Purtroppo le cose non funzionano così, ma si assume che così sia, che l’apprendimento sia un processo di questo tipo.
La seconda convinzione nasce dalla necessità di renderci periodicamente conto di cosa lo studente sa, cosa ‘ha imparato’. E allora lo esaminiamo; gli facciamo delle domande e ascoltiamo e valutiamo le sue risposte.
Un mio collega, un compositore di nome Herbert Brun, tempo fa mi fece notare che esistono due tipi di domande: quelle che ha chiamato le ‘domande legittime’, cioè le domande per le quali non abbiamo ancora una risposta e le altre che ha chiamato ‘domande illegittime’, di cui già conosciamo la risposta. Se accettiamo questa distinzione, dobbiamo riconoscere che le domande che gli insegnanti rivolgono agli studenti, sono tutte domande illegittime, di cui già si conosce la risposta; il loro unico scopo è verificare se la sa anche lo studente.
Faccio un salto e arrivo al problema successivo: a scuola gli studenti dovrebbero essere stimolati a porsi e porre domande legittime; ma come fanno ad apprendere se non c’è esempio e occasione?
Quali sono le domande per le quali non abbiamo risposte? Il punto è che non esiste un catalogo per le quali non conosciamo le risposte; dobbiamo inventarcele assieme, stimolare l’invenzione invece che la tendenza a ripetere. Senza invenzione non si pongono domande legittime e senza domande legittime non si mette in moto un vero e proprio processo di apprendimento.”

Da Heinz von Foester Inventare per apprendere, apprendere per inventare in: P.Perticari, M.Sclavi (a cura), Il senso dell’imparare, Milano, Anabasi, 1994

Molti fattori, di ordine assai diverso cha vanno da nuove concezioni dell’apprendimento alla presenza sulla scena sociale di altre agenzie formative che minano la centralità della scuola, hanno portato alla messa in crisi del concetto classico di educazione/formazione, soprattutto per quanto riguarda la sua linearità e la presenza di una distinzione rigida di competenze.
Molta parte dell’elaborazione teorica nonché delle pratiche di lavoro si è orientata, dunque, verso la ricerca di altri modelli formativi e scolastici che tengano conto di alcuni aspetti.

Reciprocità fra insegnamento ed apprendimento

Questo collegamento viene incisivamente riassunto da una frase di G. Pask “Non si insegna se al contempo non si impara, non si impara se al contempo non si insegna”. Lo spazio dell’apprendimento è uno spazio di costruzione con gli altri della propria conoscenza. Lontani da una trasmissione lineare di informazione, i modelli formativi si aprono alla prospettiva dell’educare al comprendere che richiama inevitabilmente la distinzione ricordata dal brano di Von Foester fra domande legittime e domande illegittime.
L’intreccio reciproco tra le dimensioni dell’insegnamento e apprendimento rivela anche come le modalità attraverso cui si realizza l’atto dell’insegnare sono strettamente correlate al modo personale di apprendere. Il riconoscimento di stili cognitivi propri è uno degli elementi portanti dell’esigenza di individualizzazione emersa in questi ultimi anni come asse centrale di ogni proposta educativa e formativa. Ripresa e citata da più contributi teorici, recepita anche dai documenti ufficiali, l’idea di individualizzazione va ancora ripresa, soprattutto per ribadire che il significato profondo non ha a che fare con la predisposizione di percorsi separati ma è più strettamente legata al riconoscimento di bisogni, storie, competenze propri, “individuali” appunto, che devono trovare spazio e legittimità all’interno del contesto reale di apprendimento, quello di un gruppo non omogeneo impegnato in un compito collettivo di costruzione di significati e conoscenze.

Complementarietà degli aspetti emotivi e cognitivi

Nel processo di apprendimento giocano un ruolo primario le emozioni. Come carico emotivo che influenza in modo diretto la capacità di apertura che ogni situazione di apprendimento richiede. Gli insegnanti sanno bene quanto è difficile coinvolgere i bambini e i ragazzi nelle attività a scuola quando si vivono situazioni esistenziali difficili, durature (come la presenza di un deficit, di una malattia) o temporanee (un lutto, una separazione). Accogliere una persona è anche accogliere il suo tono emotivo e darle l’opportunità, rispettando tempi e modi, per poter riuscire a “dire” ciò che provoca difficoltà e sofferenza. Questo non solo per il rispetto dovuto alla persona ma anche come compito educativo che l’adulto insegnante deve assolvere. Se la testa è occupata da emozioni non rielaborate non c’è spazio per imparare e diventa estremamente difficile riconoscere un legame fra me e ciò che imparo, passaggio essenziale per un apprendimento efficace e duraturo.

Centralità nel processo di apprendimento della relazione fra chi “insegna” e chi “apprende” fra ciò che viene insegnato/appreso e la persona in formazione

L’oggetto dell’apprendimento è tra chi apprende e chi insegna; anche Paulo Freire ci dice che “Ogni pratica educativa è complessa e contraddittoria, ha a che fare con me e con gli altri”.
Conoscere, possedere un sapere è quindi un processo che ci induce a fare i conti contemporaneamente con due posizioni. Una estremamente soggettiva, legata alla possibilità che il soggetto ha di riconoscere in ciò che gli viene proposto come contenuto di apprendimento qualche tratto (o molteplici tratti) da ricondurre a sé, alla propria storia, competenza, aspettativa.
L’altra che rimanda alla dimensione dialogica, di scambio e apertura verso l’altro. Si impara con e a partire dagli altri come è esemplarmente concretizzato dal fondamentale processo di acquisizione del linguaggio nel bambino piccolo.
In senso generale si può dire che siamo in possesso di una forma di conoscenza quando essa diventa parte della nostra esperienza, viene cioè rielaborata riconoscendone gli aspetti di vicinanza e di distanza.

La lettura

Genitori, figli, insegnanti
La scuola, sin dagli inizi, si è distinta come istituzione che, contrariamente ai rischi della vita sociale, organizza l’apprendimento in maniera sistematica, progressiva ed esaustiva. Finché la società riteneva del tutto normale che l’accesso al sapere fosse determinato dal retaggio familiare, non vi era necessità di avere una scuola. Ciascuno apprendeva ciò che i propri genitori e la propria cerchia di conoscenti sapevano. Si viveva in un ambiente dato, di cui si sforzava di apprendere progressivamente il linguaggio, i modi e le competenze; l’apprendimento funzionava in sostanza per osmosi. Risultato: si impiegava molto tempo e ciò che ogni persona sapeva si limitava a ciò che l’ambiente in cui viveva poteva insegnare.
Furono gli enciclopedisti settecenteschi (Diderot, d’Alambert, ecc.) i primi a immaginare uno strumento che mettesse a disposizione di tutti coloro che sapevano leggere il complesso dei saperi elaborati dagli uomini. L’obiettivo della loro impresa – che noi oggi proseguiamo mediante una molteplicità di strumenti e istituzioni quali libri, enciclopedie a stampa, sonore, visive o digitali, manuali e programmi scolastici, musei, conservatori, ecc. – era avvicinare gli uomini alla conoscenza e consentire loro di accedervi in maniera progressiva ed esaustiva. È un primo piano, notevole passo verso la democratizzazione dell’accesso al sapere. Ma i sociologi del ventesimo secolo ci hanno insegnato che “mettere a disposizione” non è sufficiente e che l’offerta, per quanto ben concepita, rinvia sempre all’ineguaglianza delle persone e dei gruppi nel trovare la propria strada nel labirinto dei saperi e nel comprendere ciò che viene proposto loro. In altre parole: i saperi, oggi, sono a portata di mano. Un tempo era sufficiente aprire un manuale o un’enciclopedia; ora basta ciccare su Internet… Ma con ciò, in realtà, si accede soltanto a una massa di informazioni. Occorre saperle cercare, comprenderle, vagliarle, confrontarle, metterle in relazione le une con le altre, identificare ciò che è necessario memorizzare… È nostro compito proseguire l’opera degli enciclopedisti. È compito degli insegnanti di oggi essere gli enciclopedisti di domani… veri professionisti, non solo della “distribuzione” delle conoscenze, ma anche dell’accesso ragionato e autonomo ai saperi. Si tratta del prolungamento naturale del tradizionale mestiere di insegnare; ma ciò richiede anche una nuova professionalità, caratterizzata da un’attenzione particolare a ciò che assai impropriamente viene definito “studio a casa”.

(P. Merieu, I compiti a casa. Genitori, figli, insegnanti: a ciascuno il suo ruolo, Milano, Feltrinelli, 2002)
 

Il welfare non è un lusso – Superabile, giugno 2001 – 1

Sono già tante le persone che hanno sentito l’esigenza (e alcuni anche il dovere professionale, in risposta ad un caso in cui il rigore deontologico non è stato esattamente rispettato) di esprimersi in merito alla copertina (e al contenuto dell’articolo) dedicata dal settimanale Panorama alla questione dei falsi invalidi. Riassumendo, con le parole di Franco Bomprezzi: "Il titolo non ammette sfumature: Scrocconi. L’immagine non potrebbe essere più chiara: una carrozzina stilizzata, su cui siede un Pinocchio altrettanto stilizzato. Il sommario che rimanda a un’inchiesta "esclusiva" recita così: Invalidità inesistenti, certificati falsi, pensioni regalate. Ecco chi sono i furbi (e i loro complici) che fregano l’Inps. A nostre spese". L’argomento torna sotto i riflettori ciclicamente, a cicli brevi, peraltro, e in forme solo lievemente diverse. Se non ricordo male, era durante la scorsa estate che Tremonti sollevò il problema presunto del numero di disabili in Italia, affermando "Questo è un Paese che ha 2.7 milioni di invalidi e 2.7 milioni di invalidi pone la questione se un Paese così può essere ancora competitivo". Da questo presupposto, il tentativo di alzare la percentuale di invalidità utile per accedere al beneficio economico dell’indennità e la promessa di controlli più capillari.

Tornando alla copertina di Panorama, credo che abbia ragione sia chi la critica in modo netto e risoluto, sia chi invita ad una lettura più sobria delle probabili intenzioni di chi ha pensato la copertina stessa (come scrive una lettrice di Superabile, "Mi sembra giusto precisare che la copertina rappresenta un Pinocchio in carrozzina. Ora, essendo Pinocchio il bugiardo per antonomasia, mi verrebbe da pensare esattamente che Pinocchio si siede su quella sedia non avendone necessità/diritto (a seconda dei punti di vista). Ovvero come falso invalido. Stando così le cose non ci vedo assolutamente niente di male". Per cui la copertina dovrebbe "offendere" solo chi invalido non è e, in un certo senso, raffigurando Pinocchio, marcherebbe una distanza, una differenza tra i "falsi" e i "veri", favorevole quindi a questi ultimi. Ammetto che la copertina del settimanale è equivoca e non mi meraviglierebbe che lo scopo di chi l’ha pensata e realizzata fosse proprio quello di creare questa ambiguità, di giocarci, e probabilmente in questo momento starà sorridendo leggendo tutte le critiche che gli sono piovute addosso e che si è, letteralmente, cercato. In fondo, quello che fa spettacolo, oggi, è sempre ben accetto.

Comunque, la cosa poteva essere gestita meglio, mi sembra un modo scorretto di fare giornalismo e informazione da parte di un periodico nazionale che ha una grande visibilità: il lavoro giornalistico dovrebbe aiutare a "dissolvere un po’ di nebbia", non, come invece fa questa copertina, a creare maggiore ambiguità e a frapporre ostacoli ad una comprensione più limpida e ragionata. E, in ultima istanza, attriti, diffidenza, distanza tra persone e "categorie" (molto bello il riferimento di Bomprezzi allo scarto che ha ravvisato tra un momento di maggiore unità del paese legato al 150° anniversario e questo tentativo di dividere, di complicare la convivenza sociale. Così come è puntuale la sottolineatura della coincidenza tra difficoltà economica generale e individuazione di alcuni elementi deboli sui quali "scaricare le tensioni sociali", secondo una logica già applicata nei momenti peggiori della storia del secolo scorso). Ma ritengo più urgente porre l’attenzione su un altro punto, in qualche modo legato a questo, ovvero sul progressivo arretramento dello Stato e delle istituzioni pubbliche rispetto alla garanzia e alla gestione o finanziamento dei servizi socio-sanitari (ed educativi, come abbiamo avuto modo di scrivere più volte). Una tendenza più ampia e grave dei problemi che poche persone (in percentuale) in malafede creano ai tanti che hanno effettivamente diritto a determinati benefici (i "veri" invalidi, per intenderci). Emblematico il caso della regione Campania, al quale i giornali e i mass media più importanti non hanno dato grande rilievo: si può fare cattivo giornalismo, anzi, si fa un giornalismo peggiore, soprattutto quando si evita di dare determinate informazioni, piuttosto che quando si danno informazioni imprecise o tendenziose, strumentali su un argomento. Semplicemente omettendo, silenziando. In Campania molti servizi sociali importantissimi sono a rischio: più precisamente, duecento tra cooperative e associazioni, ovvero venti mila operatori in tutta la Campania, sette mila solo nel capoluogo.

Vantano crediti con enti locali e Asl per 500 milioni e rischiano l’asfissia, dal momento che anche le banche hanno cessato di erogare crediti. Per i servizi essenziali si prospetta una riduzione drastica. Per contrastare questa situazione si è formato un comitato, dal nome evocativo e rivelatore di una verità sacrosanta, "Il welfare non è un lusso", che da diversi mesi, attraverso iniziative e dimostrazioni più o meno eclatanti, cerca di contrastare lo stato di cose esistente (e quello che, con certezza quasi piena, si attende per il futuro). Se il caso campano presenta tratti emergenziali che lo distinguono da altri presenti nel resto d’Italia (dato anche la condizione "sociale" complessiva della regione), la situazione si avvia a diventare drammatica anche in altre regioni. Un arretramento da parte delle istituzioni pubbliche che non potrà che condurre ad una progressiva privatizzazione dei servizi, che, in quanto tale, escluderà dagli stessi chi non potrà permetterseli e spingerà verso un ritorno a politiche di stampo meramente assistenzialistico; vanificando, così, il lavoro che tantissimi soggetti hanno cercato di portare avanti in questi anni. Occorre seguire con attenzione questa deriva e dare voce, quanto più possibile, a chi cerca di opporsi ad essa. E’ una questione di civiltà.

Scrivete a claudio@accaparlante.it o al mio profilo di Facebook.

Claudio Imprudente

Una ricerca che invita alla ricerca – Superabile, luglio 2011 – 1

Raccogliere, elaborare e ricostruire dei dati statistici (con i significati che i "freddi" numeri sottintendono e che vanno, appunto, portati alla luce, ricomposti) non è un’operazione semplice. Ancora prima, non sono di facile realizzazione, né privi di conseguenze, gli strumenti di indagine di cui ci si dota per esplorare l’ambito di interesse della ricerca. Il modo in cui si pone una domanda, il fatto che questa dia la possibilità di una risposta aperta o meno, il fatto che a raccogliere le risposte sia una persona piuttosto che un modulo silenzioso compilato in solitudine, ecc ecc, ecco, tutti questi fattori hanno un’influenza importante sull’esito finale del lavoro, quello che poi raggiunge il pubblico, lo informa, lo influenza. E dà lui la possibilità di criticare quegli stessi dati.

Mi sembrano considerazioni preliminari opportune, per quanto non esaustive. Chi abbia sostenuto un esame di scienze statistiche, per quanto di basso livello, capisce bene quello che intendo dire. E, comunque, farlo presente in un mondo in cui ai sondaggi ci si rivolge e ci si sottopone massicciamente come uno degli strumenti conoscitivi della realtà che ci circonda, il più delle volte dando per scontato che siano strumenti neutri di interpretazione del mondo, lo ritengo un gesto deontologicamente adeguato.

Inoltre, i sondaggi non terminano la loro funzione nel momento in cui conosciamo i loro risultati, perché in base a questi vengono poi prese decisioni che influiscono sulle nostre vite in maniera più o meno diretta. Queste riflessioni sono tanto più vere se riferite a ricerche che interessino soggetti c.d. deboli. In questo caso un minimo di prudenza in più va indubbiamente preso. Infatti, quasi mai l’esposizione di una ricerca che riguardi persone con disabilità passa liscia e inosservata; il più delle volte stimola riflessioni critiche, spesso proteste squillanti. E’ successo anche in occasione della presentazione del rapporto di Associazione Treelle, Caritas e Fondazione Giovanni Agnelli su Gli alunni con disabilità nella scuola italiana. Bilanci e proposte.

Alcuni dati sono indiscutibili: si assiste ad un costante aumento degli alunni disabili in tutti gli ordini e gradi di studio: dai 138.600 dell’anno scolastico 2001/02 si è passati ai 178.200 del 2005/06, fino ai 200 mila del 2009/10: in dieci anni 62 mila unità in più (+45%). L’incidenza degli alunni disabili sul totale degli studenti italiani cresce dall’1,59% al 2,24%. Tra gli elementi critici segnalati dal Rapporto e che già si pongono come una "rielaborazione" dei dati raccolti, si devono mettere in rilievo l’eccessivo e improprio allargamento della legge 104, per cui verrebbero certificati anche alunni che presentano svantaggi che non sarebbero assimilabili ad una disabilità e, punto importante, l’eccessiva rigidità con cui verrebbe attivato il rapporto "presenza di una disabilità-assegnazione di un insegnante di sostegno", nodo problematico che si lega a quello che il Rapporto definisce criticamente «approccio prevalentemente medico». Inoltre, sempre stando al lavoro svolto da Treelle, Caritas e Fondazione Agnelli, il posto di insegnante di sostegno verrebbe inteso come «percorso privilegiato per entrare più rapidamente in ruolo: e dopo cinque anni si ha diritto a tornare sul posto normale». Ancora, gli insegnanti curricolari non sarebbero coinvolti nel processo di integrazione e sarebbero ancora meno formati di quelli che, almeno per alcuni anni, si "dedicano" al sostegno, rispetto alla didattica speciale. Difficoltosi, confusi e macchinosi sarebbero anche i rapporti tra Servizio Sanitario e servizio scolastico, generando così una collaborazione ed un coordinamento scarsi ed inefficaci.

Ho scritto pochi mesi fa in senso critico rispetto all’equazione "certificazione=sostegno", è ovvio che come principio non può trovare applicazione automatica: resto però dell’idea che la figura dell’insegnante di sostegno possa davvero essere un punto di forza per l’alunno disabile e per tutti i suoi compagni. Il peso di questa figura, la qualità della sua presenza vanno costruiti, caso per caso, ambiente per ambiente. Vanno costruiti, appunto, non sostituiti. Tenendo presente che spesso, e forse questo i dati lo omettono, si assiste ad una mancata attribuzione del sostegno o ad un’attribuzione con un numero di ore insufficienti a renderlo efficace.

Quando si fa presente che raramente l’insegnante di sostegno resta "sul" bambino per più di un anno, ecco, allora occorre lavorare a livello legislativo e amministrativo per garantire una continuità che sia in grado di dare senso al sostegno stesso. Detto tra parentesi, il problema della continuità riguarda dolorosamente anche gli/le insegnanti curricolari dei vari ordini di studi. E tra le proposte avanzate dalla ricerca, che per prima individua questo problema, mi sembra che non ci sia traccia di suggerimenti in tal senso.

Quando si sottolinea l’inadeguata formazione e specializzazione degli insegnanti di sostegno, di nuovo, non è opportuno ragionare sull’estinzione di quel ruolo, ma moltiplicare le occasioni formative. Certo, il Centro Risorse Integrazione delineato dalla ricerca potrebbe essere un importante "fornitore" di formazione specializzata, un centro di raccolta di professionalità ed esperienze positive da valorizzare e promuovere, ma sono piuttosto scettico sul peso che la ricerca attribuirebbe al Centro stesso, che si configurerebbe come un dispensatore di indicazioni, risorse e figure professionali dall’alto. Le situazioni vanno, al contrario, valutate e affrontate sempre dal basso. In definitiva, anche se il rapporto di Associazione Treelle, Caritas e Fondazione Giovanni Agnelli tocca tanti altri punti, ritengo che i nodi critici individuati e di cui ho trattato brevemente siano rappresentativi dello stato delle cose attuale, ma che in merito alle soluzioni proposte occorrerebbe una consultazione più profonda di chi la scuola la vive direttamente ogni giorno ed una valorizzazione maggiore di quanto (e di chi e del modo in cui) già c’è. Senza nascondere difficoltà, punti oscuri, mancanze strutturali e dei singoli docenti. La ricerca ci invita a riflettere e a confrontarci: se volete condividere le vostre proposte e i vostri pareri, scrivete come sempre a claudio@accaparlante.it o cercate il mio profilo su Facebook. (Claudio Imprudente)

(21 luglio 2011)

Terzo settore e comunicazione, ovvero: qual è il sociale della comunicazione?

di Sandro Stanzani, docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università di Verona

Premessa
Da circa un decennio a questa parte il tema della comunicazione ha conosciuto un più acceso interesse da parte delle scienze sociali e dell’opinione pubblica, tant’è che si connota la società contemporanea come società della comunicazione, mentre le scienze psicologiche, quelle economiche e quelle politiche riflettono sulle ricadute che la comunicazione ha sul benessere soggettivo, così come sul successo politico dei leader o sul risultato economico organizzativo delle imprese. In un tale panorama, anche un altro fenomeno sociale, oggetto di particolari attenzioni nel corso degli anni 80 e 90 e giudicato da scienziati, politici ed operatori depositario di importanti capacità innovative, non poteva non fare i conti con il tema “gemello” della comunicazione. Ci riferiamo al caso del terzo settore, privato-sociale, che, guadagnando consensi e interesse da parte di molti attori sociali, ha visto gli studiosi di comunicazione e di marketing interessarsi al fenomeno ed utilizzare gli strumenti concettuali elaborati dai communication studies con l’intenzione di promuovere l’emergenza del nuovo settore sociale. Agli occhi di un osservatore “esterno” una tale operazione è parsa, in alcuni casi, fuorviante perché gli schemi teorici adottati sono stati ottenuti attraverso la ricerca sui processi comunicativi ed organizzativi generati e sviluppati nell’ambito delle organizzazioni for profit e poi, in un certo senso, “appiccicati sopra” le dinamiche comunicative del terzo settore. Ritorna alla mente il titolo di un vecchio libro: “Teoria della società o tecnologia sociale?” attraverso il quale uno degli autori (Jurgen Habermas) attirava l’attenzione sul rischio che corrono le scienze sociali di applicare i risultati delle loro ricerche alla sfera sociale producendo delle tecnologie sociali che non si interrogano sulle conseguenze inerenti le relazioni umane. Con questo articolo intendo “scongiurare” il rischio di un tale isomorfismo comunicativo tra i vari settori della società (Stato, mercato, e privato sociale) e contribuire alla riflessione sulla specificità comunicativa del terzo settore.

Tra tanti tipi di comunicazione alla ricerca del “sociale” della comunicazione
Il pensiero riflesso dell’umanità ha da sempre riflettuto sul tema della comunicazione fornendo una serie notevole di prospettive d’osservazione. Certamente il risultato più eclatante del pensiero riflesso sulla comunicazione è stato l’invenzione della comunicazione mediata, realizzata principalmente con l’invenzione della scrittura e raffinata poi attraverso l’invenzione della stampa e dei mezzi di comunicazione di massa. L’effetto è stato ovviamente quello di moltiplicare le possibilità comunicative dell’umanità, cosicché oggi ci troviamo di fronte a tantissimi tipi di comunicazione, che gli stessi communication studies faticano a codificare e a interpretare.
Tuttavia pur nella molteplicità e nella complessità delle dinamiche di sviluppo della comunicazione mediata sembra di poter rintracciare una sorta di sottofondo comune che funge da motore dei processi: si tratta della autonomizzazione degli attori della comunicazione e della comunicazione stessa. Oggi quando si parla di “società in rete” o di “società della comunicazione”, di “società della mente”, di “intelligenza collettiva”, di “identità virtuali” e di “esseri digitali”, si ha in mente una società nella quale vi sono sempre più comunicazioni mediate che si autonomizzano dalle relazioni e dai legami sociali della vita quotidiana, così come dalle istituzioni sociali e culturali . Uno degli esempi più eclatanti di autonomizzazione delle comunicazioni dalle relazioni e dai legami sociali è certamente “second life”, un originale gioco in 3D nel quale, in virtù del sistema di comunicazione fortemente autonomo che è la rete, i partecipanti (al momento si parla di 6milioni di giocatori) assumono un’identità virtuale, divengono degli “esseri digitali”, con una vita propria (una seconda vita, liberata da vincoli materiali, relazionali, istituzionali, culturali, etc.) in un “meta mondo”. Ma anche forme più “normali” di comunicazione tramite internet presentano forti tratti di autonomia dai legami sociali, culturali, morali e giuridici, si pensi alle chat line, ad altri giochi interattivi, ed alle molteplici ribalte per la presentazione (e talvolta per la creazione) del self tramite testi e filmati, ad esempio attraverso i blog od altro, che consentono la realizzazione di molteplici incontri casuali nella vita quotidiana mediata. Si tratta di altrettante occasioni per favorire un aumento delle possibilità di comunicazione, per rendere queste ultime sempre più numerose, fluide, flessibili e probabili. Il grande progresso della comunicazione mediata ha reso più indipendenti emittente, ricevente e lo stesso messaggio coinvolti nel processo di comunicazione. Nella comunicazione mediata non è possibile reperire le informazioni emergenti dall’interazione faccia a faccia, il tutto avviene nel messaggio enunciato, tutte le informazioni si riassumono in esso, che acquista così una certa autosufficienza e autoreferenzialità, divenendo tuttavia il veicolo attraverso il quale sono simbolizzati e rappresentati i simulacri dell’emittente e del ricevente , per ciò stesso presenti nel processo comunicativo solo come simulacri, e non come soggetti in interazione. Un tale processo di autonomizzazione delle dinamiche della comunicazione ha consentito il moltiplicarsi delle possibilità di comunicazione, generando molte più possibilità di esperienza, di azione e di relazione sociale dalle quali tutti noi oggi traiamo vantaggio. Tuttavia ha, in un certo modo, trascurato gli aspetti di reciprocità e di legame sociale che, come sanno i sociologi dalle origini della disciplina (si vedano, ad esempio, i lavori di Weber e Simmel) sono impliciti nelle relazioni sociali. Una tale trascuratezza degli aspetti di reciprocità della relazione è talvolta foriera di problemi, di effetti negativi e perversi per la vita umana in società. Quando le scienze sociali e della comunicazione affermano che “occorre comunicare per esistere” o che “le cose non comunicate non esistono”, condannano chi comunica, e le cose che comunica, ad un sottofondo nichilista o nel migliore dei casi ad un’originaria condizione di isolamento. Estremizzando, sembra di poter dire che dal punto di vista della società oggetti e soggetti sociali si trovano privati della loro esistenza e possono essere portati alla luce solo dalla potenza creatrice della comunicazione.

Il processo di autonomizzazione della comunicazione (dai vincoli delle sfere socio-cultuali esterne al sistema dei media, così come l’autonomizzazione dei singoli attori della comunicazione: emittente, ricevente, astanti, etc.) è stato accompagnato da quello della sua differenziazione. Non si tratta solo della differenziazione tra interazione faccia a faccia, interazione mediata e comunicazione di massa, ma anche della differenziazione interna ai processi della comunicazione di massa. Ciò che è più rilevante in questa sede è il processo di differenziazione che ha portato le scienze della comunicazione a distinguere nell’ambito della comunicazione di massa la comunicazione privata, quella pubblica e la comunicazione sociale. Lo statuto di queste forme di comunicazione è tutt’altro che definito, in particolare per ciò che riguarda la comunicazione sociale. In effetti non è chiaro perché si debba qualificare come sociale una certa forma di comunicazione di massa. Ogni tipo di comunicazione, in quanto presuppone una forma (più o meno piena) d’interazione, non è di per se stesso sociale? Allora perché parlare di comunicazione sociale? Cosa c’è di sociale nella comunicazione sociale? La risposta a questa domanda è decisiva per comprendere il fenomeno. In realtà le diverse definizioni (pubblica, privata e sociale) mettono in relazione i processi della comunicazione di massa con le sfere istituzionali della società (Stato mercato, etc.). Un’incursione nei risultati prodotti dalle scienze della comunicazione può tornare utile per capire meglio il fenomeno. In genere le scienze sociali hanno utilizzato tre criteri per differenziare i tipi di comunicazione mediatica: l’emittente, il contenuto e la finalità del messaggio.
Molto spesso la distinzione tra i vari tipi di comunicazione è realizzata o a partire dal tipo d’organizzazione che opera come emittente e realizza la campagna. Si parla così di comunicazione “privata” in riferimento alla comunicazione pubblicitaria commerciale ad opera delle imprese.
Mentre si parla di comunicazione pubblica , per le campagne di comunicazione realizzate dagli enti pubblici su tematiche di interesse generale. All’interno di questa categoria gli autori hanno distinto poi altre tipologie :
? comunicazione istituzionale volta a dare visibilità e a promuovere l’immagine degli enti dell’organizzazione pubblica;
? comunicazione (o informazione) normativa che rende pubbliche le decisioni e le azioni delle organizzazioni pubbliche ;
? comunicazione di pubblico servizio avente lo scopo di diffondere la conoscenza e l’utilizzo dei servizi di interesse generale offerti al cittadino .
Ed infine si parla di comunicazione di solidarietà sociale per ciò che riguarda l’azione comunicativa degli enti nonprofit (Faccioli 2000; Grandi 2001).
Si riferisce invece al contenuto del messaggio Mancini (1999, XI-XIV) che definisce “comunicazione sociale propriamente intesa” quella comunicazione volta a promuovere “un’idea, un valore, un tema d’interesse generale relativamente controverso”, e Gadotti (2001, 24), per la quale “la comunicazione sociale è quell’insieme di attività di comunicazione, messo in atto da un soggetto pubblico o privato, volto a promuovere finalità non lucrative e avente per oggetto tematiche di interesse sociale ampiamente condivise”.
Altrove, Gadotti (2005, 48) affianca all’aspetto di contenuto lo scopo della comunicazione sociale che “riguarda temi, questioni e issues di interesse generale, il cui obiettivo prioritario è quello di sensibilizzare o educare determinati pubblici di riferimento”. Al criterio della finalità guarda più decisamente Morcellini (2004), quando parla della comunicazione sociale come di un “ambito estremamente ampio ed eterogeneo, caratterizzato da una logica chiamata a provocare un effetto onda all’interno dei rapporti sociali e da cui si propagano orientamenti condivisi”.

Vi è anche chi (Fabris 1992) utilizza il concetto di comunicazione sociale per applicarlo esclusivamente al campo della comunicazione persuasiva, cioè alla pubblicità, e distingue, nell’ambito della pubblicità senza scopo di lucro, tra:.
advocacy advertising come la forma di comunicazione più simile alla pubblicità commerciale poiché orientata ad “ottenere il consenso intorno a tematiche su cui esiste una manifesta o latente divergenza di opinioni […] La sua finalità consiste essenzialmente nel fare chiarezza su aspetti controversi, sostenendo posizioni chiaramente di parte, anche se spesso si sottolinea la presunta universalità delle tesi sostenute” (Fabris 1992, 587);
pubblicità pubblica come forma di comunicazione che radica nell’attività informativa svolta degli enti pubblici moderni , ma da essa si distingue nettamente per via del suo dichiarato intento persuasivo intorno a temi di interesse collettivo volto a stimolare processi di crescita sociale o per promuovere l’immagine degli enti pubblici, renderne trasparente l’azione e facilitare al cittadino l’uso dei servizi;
pubblicità sociale come forma di comunicazione persuasiva che, indipendentemente dall’organismo che la realizza, è finalizzata alla “promozione di finalità socialmente rilevanti siano queste la prevenzione dei tumori o la campagna contro l’Aids, la dissuasione dal fumo …” (ibidem, 589).

Questi criteri, che peraltro compaiono spesso affiancati e sovrapposti nei diversi autori, presentano indubbi motivi d’interesse e utilità, ma risultano tutti in qualche modo parziali, non riuscendo a coprire la pluralità di forme comunicative della galassia estremamente diversificata delle organizzazioni di terzo settore, né in qualche modo a coglierne la specificità.
Ciò diviene possibile alla luce di un criterio più generale ed inclusivo. Si tratta di definire la comunicazione sociale utilizzando il criterio della modalità comunicativa, e considerarla come un particolare tipo di relazione caratterizzata da una specifica attenzione alla dimensione di reciprocità coinvolta in ogni relazione sociale e tradotta in codice comunicativo specifico. Quest’ultimo è caratterizzato dal riconoscimento di un legame con l’interlocutore e da forme di scambio (comunicativo e materiale) nelle quali i partner realizzano mosse di apertura reciproca nella convinzione che queste valorizzino la relazione con l’interlocutore (singolare o plurale, individuale o collettivo) e che dalla stessa relazione emerga un effetto positivo per tutti i partner.
In sintesi: la comunicazione sociale è l’insieme delle modalità comunicative basate sulla fiducia, la cooperazione e la reciprocità, cioè su un modo di interpretare le relazioni sociali e la loro dimensione di legame e riferimento reciproco come una risorsa e/o come un bene per tutti i soggetti personali coinvolti. La comunicazione sociale si fonda su e si alimenta in tali relazioni e, a sua volta, ri-produce, estende e generalizza orientamenti simbolici (in sintesi: uno “sguardo” verso il sé e l’altro) che rafforzano e valorizzano (tutte) le relazioni fiduciarie, di reciprocità e di responsabilità sociale. Potremmo anche dire, facendo riferimento ad un concetto che si è ormai affermato nel dibattito sociologico internazionale, che la comunicazione sociale è l’insieme delle relazioni comunicative che producono e riproducono “capitale sociale” .

Terzo settore e comunicazione sociale
Così intesa, la comunicazione sociale non è un processo tipico di un particolare emittente. La si può ritrovare nelle comunicazioni delle organizzazioni statali, così come di quelle imprenditoriali e nonprofit. Tuttavia le organizzazioni di privato sociale, per le loro caratteristiche specifiche si candidano ad essere il settore della società nel quale la comunicazione sociale si può realizzare con maggiore facilità e “felicità”.
Si tratta allora di comprendere quali sono i tratti specifici dell’identità del terzo settore.
L’interesse per le organizzazioni di terzo settore è maturato nel mondo contemporaneo in conseguenza della crisi del welfare state. La crisi ha avuto aspetti di natura economico finanziaria, ma sono apparsi anche motivi di insoddisfazione di tipo simbolico culturale, nel senso che ci si è resi conto dell’esistenza di bisogni psicologico relazionali che non potevano trovare la loro soddisfazione nelle strutture del welfare classico, il quale poteva “solo” garantire più diritti, più servizi e più risorse economiche, ma non relazioni interpersonali faccia a faccia, gratuite e orientate alla persona . Sono così comparse sulla scena esperienze sociali nuove, che hanno tentato di dare risposta ai bisogni psicologico relazionali dei cittadini. Su tutte, in Italia, in quegli anni, spiccavano le esperienze del volontariato. All’epoca il volontariato nostrano si auto-candidava ¬¬– nelle parole dei suoi dirigenti – a svolgere attività di compagnia e accompagnamento, senza sostituirsi ai servizi di welfare, che restavano un diritto del cittadino da garantirsi ad opera delle politiche sociali pubbliche. Dopo quella stagione le esperienze di volontariato sono cresciute, sono maturate ed hanno certamente modificato la loro struttura e la modalità d’azione. Fenomeni analoghi sono emersi anche in altri paesi occidentali. Le scienze sociali hanno interpretato l’emergere del fenomeno come conseguenza del fallimento, in alcuni settori, dei meccanismi di allocazione delle risorse tipici del mercato e dello Stato. Una tale teoria fornisce un’immagine residuale del terzo settore e lo condanna alla marginalizzazione, nel senso che, una volta messi a punto dei meccanismi per ovviare ai fallimenti dello Stato e del mercato, il terzo settore è destinato a sparire.
Una teoria più interessante è quella che ne definisce l’identità a partire da alcuni processi tipici della modernità. In particolare il processo di autonomizzazione soggettiva e delle sfere sociali operata dalla società moderna. Infatti, se lo Stato di diritto ed il mercato auto-regolato possono essere considerate le due istituzioni principali di cui si è dotata la modernità per realizzare il proprio obiettivo di promozione dell’autonomia individuale, si può ipotizzare che le organizzazioni di terzo settore siano venute affermandosi nella modernità matura come una forma istituzionale che, anziché procurare di promuovere l’autonomia, sottolinea e promuove la dimensione di legame e di reciprocità implicata in ogni relazione sociale . Dal punto di vista teorico si può ipotizzare che nella relazione sociale sia coinvolta una dimensione di libera e autonoma intenzionalità soggettiva, senza la quale non si dà relazione sociale, ma, al tempo stesso la relazione sociale è possibile se è contemplata dagli attori una dimensione di reciprocità che costituisce un più o meno forte, e più o meno positivo, legame tra gli attori in gioco. Dunque autonomia e legame sociale sono le due facce della relazione sociale. Le organizzazioni di privato sociale suppliscono ad un vuoto simbolico e istituzionale configurandosi come il luogo in cui il legame reciproco viene simbolizzato come valore in sé, come un bene comune, e istituzionalmente tradotto in modalità organizzative ed operative adeguate al contesto sociale moderno (Stanzani 1998).
È per questo motivo che dal punto di vista delle modalità d’utilizzo delle risorse (donazioni e agire volontario), dei fini (prosociali) e dei prodotti dell’azione (beni relazionali), delle regole e dei criteri di gestione (rendicontabilità sociale, coinvolgimento degli stakeholders, governance societaria) e dei valori (reciprocità, fiducia, solidarietà, altruismo, cooperazione), il terzo settore presenta caratteristiche diverse da quelle tipiche degli altri settori della società. Non è possibile soffermarsi in questa sede sugli aspetti citati , ma è chiaro che una tale prospettiva ha importanti conseguenze per ciò che riguarda i processi comunicativi del terzo settore e lo spingono a realizzare forme di comunicazione sociale sia nelle relazioni interne sia nelle relazioni esterne.
La comunicazione interna. La comunicazione è il medium fondamentale della relazione interpersonale e va dunque curata in modo particolare all’interno delle organizzazioni del terzo settore, indirizzandola alla valorizzazione del legame d’interdipendenza tra gli attori, favorendo la partecipazione e la comprensione reciproca, sia per quanto riguarda le relazioni tra i membri dell’organizzazione, sia per quanto riguarda eventuali relazioni d’aiuto e di cura, che spesso il terzo settore si è assunto il compito di realizzare.
La comunicazione esterna. Per quanto riguarda la comunicazione esterna vale il medesimo principio: è la comunicazione del valore attribuito alle relazioni sociali, alla fiducia, alla cooperazione, alla responsabilità sociale e all’aiuto nei confronti di chi si trova in situazioni di difficoltà a caratterizzare il terzo settore. Ciò che distingue la comunicazione delle realtà di privato sociale non è la promozione di temi d’interesse generale, ma la comunicazione esterna dell’intrinseca dimensione di reciprocità della relazione. In un certo senso si tratta di comunicare nella sfera pubblica un modo di intendere e praticare le relazioni che ne valorizza le dimensioni di reciprocità, di legame e di responsabilità sociale: è questo che rende effettivamente sociale e credibile la comunicazione delle organizzazioni di terzo settore. La comunicazione esterna può avere come obiettivi la raccolta fondi, la promozione di tematiche di politica sociale, di tutela dei diritti di categorie svantaggiate, etc. essa sarà efficace nella misura in cui l’organizzazione imposta la propria attività comunicativa mostrando di avere a cuore la relazione con le categorie sociali di cui si occupa .

(*) Docente di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’università di Verona

 

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