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Autore: admin

Un salto di categoria

Di Stefano Toschi

Ho seguito con vivo interesse la disputa che si è scatenata negli ultimi tempi riguardante l’ammissione o meno del giovane amputato Oscar Pistorius alle Olimpiadi di Pechino 2008. A questo atleta, nato con una grave malformazione alle gambe che non ne permetteva il corretto sviluppo, furono amputati da bambino entrambi gli arti inferiori. Fu una sofferta e coraggiosa decisione dei genitori che avrebbero potuto salvare le sue gambette malformate, costringendolo a una vita in carrozzina. Essi, invece, scelsero la rischiosa via dell’amputazione e fu proprio tale iniziativa che permise al giovane Pistorius di imparare a camminare con l’ausilio di protesi e a rendersi, in questo modo, totalmente indipendente. Non solo: fin da bambino, l’atleta praticava diversi sport, anche quelli di maggior contatto fisico, come il rugby, mostrandosi più dotato di altri ragazzi che potevano contare sull’uso di gambe “proprie”. Fu un infortunio occorsogli proprio giocando a rugby a gettare le basi per la sua futura fortuna sportiva. Costretto ad abbandonare uno sport così violento e a intraprendere un periodo di riabilitazione, il ragazzo si avvicinò all’atletica. Su consiglio di un allenatore, si dotò delle prime gambe artificiali in fibra di carbonio, una sorta di prototipo di quelle con cui siamo abituati ormai a vederlo correre oggi. Il giovane Oscar mostrò da subito un grande talento, anche se l’allenamento fu duro e difficile: adattarsi alle nuove protesi comportò all’inizio effetti collaterali quali la formazione di piaghe ed escoriazioni nel punto di innesto. Inoltre, la mancanza di piedi e polpacci penalizzava, e penalizza tutt’ora nonostante i progressi tecnici delle protesi e fisici dell’atleta, la partenza ai blocchi e la flessibilità fondamentale nelle curve.
Fin qui, la storia degli esordi. Veniamo alla cronaca recente. Il giovane si mostra sempre più dotato, sbaragliando la concorrenza nelle gare per disabili e alle Paralimpiadi. A Roma, nel 2006, chiede di misurarsi in una competizione ufficiale con atleti normodotati, ottenendo buoni risultati. La polemica esplode quando egli fa richiesta di partecipare con atleti “normali” alle Olimpiadi di Pechino 2008. Tutti i giornali riportano la notizia della battaglia di questo ragazzo talentuoso e determinato, che rivendica la possibilità di misurarsi con atleti dotati di gambe vere. La commissione chiamata a decidere su questa singolare richiesta, dopo lunga riflessione, respinge la petizione, giustificando il rifiuto con una perizia tecnica che illustra come le due leve in carbonio usate dal ragazzo per correre costituiscano addirittura un vantaggio per l’atleta, in quanto la loro flessibilità comporta migliori prestazioni nella corsa e un minor affaticamento muscolare per chi le usa.
Eccoci dunque arrivati al paradosso al centro del dibattito. Per la prima volta si sentenzia ufficialmente, con tanto di perizia tecnica, che una disabilità grave costituisce un vantaggio comparato per una persona. Tale perizia non tiene minimamente conto del fatto che le protesi, seppur forse costituiscano un vantaggio nella corsa, siano un handicap notevole alla partenza dai blocchi e nelle curve. Non si considera, inoltre, che, se il miracolo della velocità fosse contenuto nelle protesi e non nella persona che le indossa, tutti gli amputati che le usano dovrebbero registrare tempi record proprio come Pistorius. Insomma, Pistorius non è ammesso a gareggiare con atleti normodotati. Ma, discriminazione nella discriminazione, neppure gli amputati lo accettano volentieri come avversario alle Paralimpiadi. Infatti, la quasi totalità degli amputati che gareggiano nella categoria di Pistorius è priva di una sola gamba, dunque utilizza una sola protesi di carbonio. Anche questi ultimi sostengono che l’atleta ricavi un vantaggio rispetto a loro nell’avere due protesi di carbonio invece di una. Si deve inoltre considerare che il contesto sportivo in cui si sviluppa tale polemica non è certo dei più limpidi: l’atletica, ultimamente, è stata varie volte macchiata da gravi casi di doping da parte di atleti famosi, che erano considerati dai giovani un modello da imitare, mentre davano, invece, esempio di comportamenti dannosi, immorali e anti-sportivi. Eppure, ad atleti dichiaratamente dopati spesso non si toglievano le medaglie vinte, o si permetteva loro di continuare a gareggiare, pur con il legittimo sospetto che i rendimenti stranamente altalenanti fossero dovuti a ben altro che ad alti e bassi della naturale forma fisica. Insomma, non ci si accorge di casi di doping macroscopici, ma ci si rende conto facilmente dei vantaggi dati dalle protesi.
A tal proposito, riportiamo uno stralcio di un’intervista all’allenatore dell’atleta, apparsa su “Panorama”: “Che idea si è fatto della polemica sui presunti benefici che Pistorius trarrebbe dalle sue protesi?”. “Sono tutte idiozie. Ripeto, all’inizio i suoi tempi erano davvero mediocri. Ora, chi non sa di sport deve capire gli sforzi enormi che Oscar ha dovuto produrre per raggiungere i risultati attuali. In un caso come il suo, ci vogliono ore e ore di allenamento per rendere affini le protesi con il resto del corpo, in particolare i muscoli delle cosce e le anche. La chiave del suo successo sta nel modo con cui è riuscito a rendere complice nella corsa due entità corporali totalmente diverse fra loro. Se poi è riuscito a dotarsi di protesi tecnologicamente avanzate, tanto meglio…”.
Al di là di tali polemiche che si basano su aspetti meramente tecnici, la cosa che più colpisce di questo giovane è la percezione che ha di se stesso. Egli ha affermato in più occasioni di non reputarsi handicappato, bensì solo “una persona senza gambe”. Questa definizione è bellissima e significativa, perché, finalmente, l’handicap non è considerato una mancanza, un’anomalia ma una caratteristica. Al pari di chi si definisce biondo, alto, magro, così Pistorius afferma di avere, come tutti, varie qualità fisiche, fra cui quella di essere senza gambe. Non è malato, non è strano, ha solo una peculiarità che non può nascondere perché, a differenza di tanti altri deficit, che tutti abbiamo, questo è evidente, è più “trasparente”. Dunque la “scomodità” di questo personaggio non deriva dalla sua battaglia per gareggiare alle Olimpiadi ma dal suo modo di proporre la sua (non) diversità. Le persone (sia quelle cosiddette normali, sia quelle con deficit) sono abituate a catalogare chi sta loro di fronte. Si creano degli steccati, delle categorie entro cui inserire chi incontriamo nella vita di tutti i giorni. Si danno delle definizioni, partendo da ciò che, secondo noi, meglio caratterizza l’altro. Pistorius è un handicappato. Dunque, appartiene alla categoria disabili (sottocategoria: derelitti, sfortunati, anormali, meritevoli di compassione). Pertanto, dovrebbe stare in carrozzina, farsi assistere, stare a casa, al massimo diventare “abile” col computer, o nella pittura, insomma, in qualche attività in cui, come ogni tanto si sente dire in televisione, qualche povero handicappato ha ottenuto buoni risultati (certo, sempre grazie al fatto che qualcuno lo ha assistito bene). Anche gli amputati a una sola gamba non lo gradiscono come avversario. Pure questi ultimi hanno in mente delle categorie: Pistorius è comunque diverso da loro. Egli tenta di saltare al di là di questo steccato, e ciò fa paura: sconvolge gli schemi mentali solidi e ben radicati nella nostra società, va oltre il senso comune. Se un atleta normale fosse battuto da un amputato, percepirebbe una tale sconfitta come doppia. Nella mentalità corrente, un handicappato non può vincere una sfida con un normodotato, a maggior ragione se essa si gioca su un piano fisico. Lo stereotipo del disabile non lo prevede. Pertanto, una sconfitta, in questo caso, comporterebbe non solo maggiore onta e disonore ma anche l’idea di un sovvertimento delle regole, della normalità delle cose, delle etichette con cui classifichiamo il mondo e le persone. Non si può sopportare la sconfitta da parte di chi dovrebbe sentirsi appellare come “poverino”, non come “bravo”. Ecco, alle persone normali quel “poverino” non costa nulla umanamente, nessuna presa di posizione, nessun mettersi in gioco. Al contrario, quel “bravo” è innaturale. In tanti si battono oggi contro l’emarginazione dei disabili, per i loro diritti, la loro dignità. La medicina si impegna a trovare soluzioni che migliorino la qualità e la quantità della loro vita. Ma viene spontaneo chiedersi a cosa servano tutti questi sforzi se poi, quando un disabile diventa davvero protagonista, si cerca di confinarlo di nuovo nella sua categoria con un banale provvedimento burocratico, con una perizia tecnica. La pigrizia intellettuale e la limitatezza di vedute dei più si scontra con la forza di volontà di un giovane disabile, che ha trovato il coraggio di “fare il salto di categoria”, anzi, data la sua specialità, è il caso di dire che ha trovato il coraggio di “correre al di là delle categorie”.

Abruzzo a gogò… a partire dal web

Di Luca Baldassare

So di non averlo mai fatto prima e so anche di avere appena scritto una colossale falsità ma in fondo è giusto così. Voglio promuovere il mio Abruzzo e lo voglio fare in occasione del varo del nuovo lavoro sul turismo accessibile che la cooperativa Accaparlante ha realizzato in collaborazione con l’associazione Centro Documentazione Handicap e l’azienda Coloplast.
Il sito è l’evoluzione telematica delle guide cartacee editate in questi ultimi anni e raccoglie buona parte del patrimonio di conoscenze maturate in 15 anni di lavoro sul turismo accessibile. L’obiettivo principale è mettere a disposizione degli internauti (con un occhio di riguardo per quelli con difficoltà di mobilità) uno strumento efficace e affidabile per pianificare le proprie vacanze. Rendere disponibili le segnalazioni attraverso Internet ci è sembrata la scelta più logica, visto che il web offre quasi solo dei vantaggi, tra i quali la possibilità di aggiornare più rapidamente le informazioni. In linea con quanto abbiamo fatto in questi anni, la preferenza accordata ai luoghi e alle strutture è solo in parte vincolata a criteri principe quali l’assenza delle barriere architettoniche o la presenza di servizi dedicati esclusivamente alle persone con difficoltà di mobilità, anzi si è molto lavorato anche su elementi di tipo qualitativo come quel “qualcosa di speciale” che chiunque cerca quando viaggia e che è fondamentale per godere appieno di una vacanza da ricordare.
Doverosa una sottolineatura sullo stile e il linguaggio utilizzato, che tentano di rendere al fruitore le emozioni e i desideri che i rilevatori hanno sperimentato, nell’incontro con i luoghi e le persone, durante le ricognizioni sul posto.
Eccoci allora a una delle località segnalate, l’Abruzzo. Come ho scritto nelle pagine del sito, però in html (quindi è tutta un’altra storia…): “A volte capita, senza nessuna ragione apparente, di non apprezzare abbastanza quello che si ha sotto gli occhi. Mio padre direbbe che è più grave se capita ai cristiani (cioè alle persone), ciò non toglie che l’affermazione calza a pennello all’Abruzzo. Questa terra è ricchissima di tradizioni e natura (ospita ben tre parchi nazionali!) e non è rinomata come meriterebbe”. Fin qui andiamo molto bene e sono certo che molti staranno già preparando le valigie e i miei corregionali brindando alla mia salute con il centerbe. Nel rigo dopo forse potrò apparire ingeneroso con le mie radici: “Chi scrive è nato qui, perciò può dirlo con certezza: gli abruzzesi sono arcigni e suscettibili e nei rapporti con i forestieri applicano la cosiddetta ‘diffidenza preventiva’ ma hanno uno spiccato senso dell’ospitalità. Potrà apparire contraddittorio e infatti lo è”.
Vi pare troppo? Se pensate sia così vi lancio una piccola sfida. Rispondete a queste domande dopo essere stati in Abruzzo: la maggior parte delle persone che avete incontrato per la strada vi ha guardato male? O, se ha parlato, è riuscita a rispondervi istintivamente no a qualsiasi cosa? Avete notato un incredibile tempismo nell’affibbiare un soprannome azzeccatissimo al malcapitato di turno? Entrando negli esercizi commerciali la maggior parte dei presenti ha risposto con un grugnito al vostro squillante “Buongiorno!”? Nell’ordinare il cappuccio al bar il barista vi ha guardato con sufficienza o, al massimo, vi ha chiesto “Cch(e) vvu?”. Vi è capitato di cogliere la tendenza a spremere due interi limoni grossi come pompelmi in una tazza di the? Ebbene, se le risposte sono tutte sì, il soggetto che emerge (si fa per dire) è l’“homo abruziensis”. Ecco, forse adesso quando andrò a trovare le centinaia di parenti abruzzesi che vivono ancora lì, tra genitori, sorelle, fratelli, zii, cugini di primo grado, cugini di secondo grado, cugini di terzo grado, amici, ecc., potrei rischiare qualche rappresaglia. Ma tant’è. Quello che va detto, va detto!
Di buono c’è che le segnalazioni di fanno riferimento al Parco Nazionale d’Abruzzo. Si tratta di una riserva protetta oggettivamente superba. Sapete che rischiate di incontrare seriamente l’Orso Bruno Marsicano che, quando non è in tv, vive qui?
E sapete che davanti agli arrosticini, alla carne alla griglia, all’agnello al forno con le patate, al timballo e agli onnipresenti Pan dell’Orso e Parrozzo, per una volta uniti nell’impalugare (tradotto dal bolognese, impastare, ndr) la bocca ai turisti, assumerete la stessa espressione di Anton Ego, il critico culinario del topo chef in Ratatuille? Attendo riscontri.

Ritrovare l’orizzonte

Di Luca Baldassare

Quand’ero piccolo pensavo che tutti gli invasi d’acqua, a eccezione del mare, fossero grandi come gli stagni dove pescavo i pesci gatto. Presumo che la mia convinzione dipendesse, crassa ignoranza a parte, dal fatto che nato sul mare, il mio riferimento naturale è sempre stato l’orizzonte tra cielo e acqua. E forse proprio per questo ho sempre prediletto la pesca in mare, dal molo. Le mie banchine preferite erano a Fossacesia e Ortona, due bei posti in provincia di Chieti (la “Svizzera d’Abruzzo”). Come direbbero i pescatori, lì andavo a mormore o ad aguglie. A distanza di anni, mi rendo conto che guardare l’orizzonte era l’unico passatempo sensato, considerato che le mormore non abboccavano nemmeno ad ammazzarsi! La smodata passione per la pesca me l’ha trasmessa lo zio Lino: lo stesso personaggio che mi ha insegnato a commercializzare in “tentata vendita” le patatine pai e il lievito di birra negli alimentari delle quattro provincie d’Abruzzo, fino alla metà degli anni Ottanta. Di queste botteghe, ormai fossili del commercio al dettaglio, ricordo un’usanza tipica degli anni Settanta, andata via via perduta: la conversione automatica, con controvalore in mou o in galatine, di tutte le transazioni con resto sotto le cinquanta lire. Optare per l’una o l’altra era qualcosa di più di una scelta tra due caramelle, era un posizionamento preciso. Una scuola di pensiero. Una visione del mondo. Ad esempio, lo zio Lino era per le galatine. Secondo lui, la loro asciuttezza al palato implicava una lettura degli accadimenti senza ambiguità né tentennamenti. Invece, la mescolanza bituminosa e attaccaticcia delle altre richiamava una complessità artificiosa, inutile. Per me lo zio ha sempre semplificato troppo. Va detto che normalmente questo discorso si faceva strafogandosi la bomba (per chi non è abruzzese: bombolone o krapfen ripieno) al cioccolato della pasticceria Santavenere di Pescara Colli e sorseggiando mezzo litro di latte confezionato in pretrapak (il precursore del tetrapak), in direzione del bar-tabaccheria centrale di Pineto. Personalmente non mi sono mai fatto ammaliare dai proclami propugnati nel nome delle galatine. E non a caso adoravo la signora Adele, moglie di Nunzio il lattaio, strenua difensore (o difentrice) delle mie gialle predilette, le mou. A differenza del taccagno marito, lei arrotondava gli importi sempre a suo discapito, di quel tanto sufficiente a farci scappare una o anche due mou in più. So che queste mitiche chicche esistono ancora; io però mi riferisco a quelle che facevano in Italia. Già, perché oggi perfino le mou vengono prodotte in Cina. Le chiamano “Vere mou dalla Cina”. Ma cosa vuol dire?, mi chiedo. È una sorta di contrappasso? Accusiamo il popolo cinese di contraffare l’impossibile e poi si viene a scoprire che, noi per primi, l’abbiamo fatto con delle innocue caramelle?! So per certo che siamo colpevoli: c’è la prova! Schiacciante. Le mou sono gialle! Fortunatamente sono cresciuto, così ho potuto conoscere e apprezzare anche altro. In un signor Lago, quello di Garda, ho ritrovato, inaspettatamente, il mio orizzonte. La prima volta ci sono stato nel 1985, con zio Lino. Per quale ragione? Vi basti sapere che nel lago le maledette mormore non ci sono! La seconda volta, qualche anno dopo, è stata tutta un’altra storia. Munito dell’immancabile Fabio Ciancetta, mio amico d’infanzia, detto Fuss(e) ca fuss(e) (grossolanamente tradotto dall’abruzzese vuol dire “forse questa è la volta buona; quasi quasi..”), ho potuto dedicarmi ad altri sport (ammesso e non concesso che la pesca sia ascrivibile a questa categoria). Al lago di Garda ci si può davvero sbizzarrire nel fare un po’ di tutto: sport acquatici, terrestri, passeggiate non competitive, mangiate agonistiche, terme, trattamenti benessere definitivi (si entra 130 cm – sia di girovita che di altezza – e si esce 1,80 m per 55 kg). Però non è questa abbondanza che ha rapito la mia immaginazione bensì una strana e precisa impressione di benessere. Una specie di allegrezza sospesa nell’aria. Escludendo che si possa trattare di quella che Rocca Tanica attribuisce alle canzoni di Ivano Fossati, secondo me è frutto di un’alchimia: 3 parti di micro clima, 5 grattugiate di cibo, 2 abbondanti spruzzate di odori e di vino bardolino, paesaggi e comunità gardenese con le sue tante parlate (dal bresciano medio al teutonico alto) q.b… Servire tutto in sinergia. Risultato? Parecchio ritemprante! E bisogna provarlo. Anzi, provare provare provare (come diceva Amanda Sandrelli in “Non ci resta che piangere”)! A proposito, come si chiamano le mormore in italiano?

Etica ed estetica delle immagini: quando film e fotografia si incontrano

Di Luca Giommi

The time of her life di Benedetto Parisi è un oggetto prezioso e particolare. Perché sa provare il piacere di farsi investire e in-formare dall’oggetto che riprende tanto quanto è necessario per riuscire a raccontarlo; a dialogare con esso, senza mai sacrificarlo in nome di un malinteso e sovrabbondante intento artistico. E non retrocedendo tanto da lasciare il campo libero a un’espressione immediata di sentimenti.
In questo senso il film di Benedetto Parisi è un perfetto esempio di stile, se per stile intendiamo non un semplice ornamento del pensiero, ma un modo di essere, la scelta tra tante possibilità, tra una serie di alternative. Non c’è stile dove c’è n’è uno solo, uno stile emerge solo dal confronto, un confronto non astratto, ma piuttosto in situazione. E in questo caso Parisi accetta di fare i giusti passi indietro e di lasciarsi guidare dall’oggetto che intende rappresentare, senza per questo rinunciare a se stesso e alla sua idea di documentario.
Il film prende spunto dalla pubblicazione dell’omonimo libro fotografico realizzato da Leslie Mc Intyre (The time of her life, Roma, Ed. Contrasto Due, 2004), contenente ritratti di sua figlia, Molly, nata con una grave anomalia muscolare, scatti che documentano i quattordici anni di vita vissuti da Molly.
Il film, però, non parla delle fotografie di Leslie, semmai ne fa una parte della struttura narrativa stessa del film. Non le tratta come momenti autonomi, ma come elementi che si inseriscono nella narrazione del documentario, che interagiscono con le immagini filmiche, creando particolari stati emotivi, attimi di pieno o di sospensione. Davvero di questo film colpisce la naturalezza con cui riesce a riprodurre e testimoniare la presenza e la vitalità di parti in dialogo tra loro: in primo luogo quello del regista con Leslie Mc Intyre; poi, quello, passato e presente, di Leslie stessa con la figlia, attraverso le parole, i ricordi e i documenti fotografici; ancora, quello del documentario stesso con le fotografie di Leslie…
Piuttosto il film è la storia di Leslie (di cui vengono ripresi anche attimi di vita quotidiana, dal macellaio, in cucina, nel suo studio fotografico…), la quale racconta del suo momento presente e della sua esperienza passata, del suo rapporto con la figlia e a volte semplicemente di sua figlia, appoggiandosi ai tanti oggetti conservati, ai tanti luoghi frequentati insieme e, appunto, alla forza, allo stesso tempo documentaria, narrativa ed evocativa, dei ritratti fotografici. A volte Leslie divaga, e allora parla della sua famiglia, di sua madre… È un racconto in cui le vicende, le storie personali si intrecciano, non ci sono momenti separati uno dall’altro.
Il documentario sceglie come scenografia i luoghi che madre e figlia erano solite frequentare, risultando quasi un viaggio, non sempre indolore, alla riscoperta di questi stessi luoghi (il giardino pubblico, il parco accessibile vicino alla scogliera gallese…). Se in quei posti Leslie non tornava da anni, in un momento del film lei stessa racconta di come, cercando una nuova casa anni dopo la morte di Molly, girasse quartieri su quartieri e finisse per tornare sempre in quello di partenza. La macchina da presa “segue” gli spostamenti di Leslie che tendono, inevitabilmente a tornare al punto di partenza. Dove infatti ha scelto di vivere attualmente, e dove può capitare di incontrare i vecchi amici di scuola di sua figlia, cresciuti, con i loro progetti e le loro aspirazioni. Con il rischio, e il piacere, di immaginare Molly a quell’età. Lo stesso accade con una fotografia in cui Molly è ritratta di spalle e sembra “una giovane donna. Potrebbe voltarsi e avere vent’anni. Ti sembra di vedere la giovane adulta che sarebbe diventata. È piuttosto difficile per me guardarla: riguarda il futuro che avrebbe potuto avere”. Una qualità, quella di restituirci grumi di tempo, condense di passato, presente e futuro, intrinseca alla fotografia stessa.
Subito dopo, Leslie, a partire dalla forte fisicità dello stesso ritratto, ci parla di come abbia sempre cercato di dare a Molly fiducia nel corpo che aveva, nonostante la sua disabilità. Anche creando (e ritraendo) momenti di distanza, di separazione, in cui la figlia è lontana dalla madre e si muove in una solitudine piena e autonoma.
Il film di Parisi, lentamente, come se passasse al setaccio parole e immagini per trattenere soltanto le più essenziali, riesce a restituirci il tenore dell’esperienza di Leslie. Si avvicina all’oggetto con la dolcezza di chi sa di poterne dare solo un racconto parziale, senza arroganza e invasioni di senso che cerchino di riempirlo con interpretazioni esterne. In altri termini, non ricorre all’accumulo informativo e visivo, ma arriva al risultato (a un risultato) per sottrazione. Un approccio contrario sarebbe stato eccessivo anche a livello visivo, perché avrebbe restituito una eccessiva ridondanza di immagini. Già, infatti, i documenti fotografici sono così perfetti nel ritrarre e testimoniare la vertigine del tempo e delle vicende passate che qualsiasi aggiunta prepotentemente artistica da parte di Parisi avrebbe creato una sorta di cortocircuito insostenibile. A scapito, peraltro, dello stesso scopo documentario, di narrazione, del suo lavoro.
Un film etico, quindi, perché sa rinunciare a ogni ridondanza, scansa il rumore e ci consegna l’essenziale, il fondo, i momenti, i passaggi, la straordinaria esperienza materna di Leslie.
Questa necessità di selezionare eticamente le immagini è la stessa che ha guidato la signora Mc Intyre nella selezione delle fotografie da inserire nel libro The time of her life. C’è un momento, nel documentario, in cui Leslie racconta la difficoltà di scegliere se utilizzare o meno una fotografia, non in base alla sua resa estetica e artistica, ma in base alla capacità o meno di rispettare la dignità di Molly.
L’eticità delle immagini è essenzialmente una funzione del modo in cui queste vengono concepite e realizzate, ma anche di quello che ritraggono, soprattutto se l’intento è quello di documentare la dignità di una persona e della sua esperienza.
Mostrando una fotografia in cui Molly, seduta a terra al sole, assomiglia davvero a un piccolo Buddha che medita, Leslie commenta, con molta semplicità: “Non ti aspetti che una persona disabile possa essere così bella. Non è quello che le persone si aspettano”. Ma attenzione: l’arte, in questo caso, non crea un artefatto, ma svela una realtà oscurata, poco conosciuta, ignorata. L’arte intrattiene un rapporto instabile con la realtà: se ne lascia riempire, la può alterare, ma può anche più cautamente svelarne e metterne in luce aspetti non evidenti. E agire su di essa.

The time of her life:
Ideazione e regia: Benedetto Parisi
Anno di produzione: 2007
Durata: 43’
Tipologia: documentario
Con: Lesley Mc Intyre
Fotografia: Silvia Falanga – A.I.T.R.
Montaggio: Benedetto Parisi
Edizione e assistenza montaggio: Sara Baldini
Supervisione al montaggio: Babak Karimi
Sceneggiatura: Benedetto Parisi
Musiche: Enrico Baldini, Giorgio Parisi, Benedetto Parisi
Traduzioni: Tiziana Iop
Produzione: Aditi di Udine

La grammatica dell’integrazione

Di Luca Giommi

Realizzato all’interno di “E-Vocare”, progetto rivolto a operatori sociali coinvolti in processi di integrazione e riabilitazione e impegnati a rendere possibile la partecipazione sociale delle persone limitate nella possibilità di comunicare, il film Non voltarmi le spalle di Fulvio Wetzl è, allo stesso tempo, un valido strumento didattico e di sensibilizzazione sulle tematiche legate alle diverse abilità e un lavoro formalmente riuscito. Peraltro, un lavoro didattico che non risulta mai didascalico.
Come spiega Roberto Bombardelli (sceneggiatore della pellicola e insegnante di pedagogia presso l’Istituto “Don Milani-Depero”) questo film nasce dalla convinzione che il mezzo-cinema sappia rispondere appieno a una duplice necessità: da un lato, quella di legare insieme e “contenere” un discorso, una serie di esperienze professionali e formative che, col passare degli anni, rischiavano di risultare frammentarie; dall’altro, quello di fornire un documento, una testimonianza che potesse essere, in seguito e anche da altri, riesaminata, riverificata e, semmai, criticata. Un’idea tutt’altro che statica e acritica del ruolo di docente, per cui riorganizzare la storia (propria e altrui) è, allo stesso tempo, momento di verifica e strumento per un lavoro (proprio o altrui) futuro.
Il film racconta un’esperienza reale di integrazione scolastica all’interno dello stesso Istituto professionale “Don Milani-Depero” di Rovereto e gli attori sono quasi tutti studenti della scuola, ma senza ricorrere alla forma documentaristica. Anzi, le potenzialità che la finzione offre (l’uso metaforico e allegorico delle immagini, i parallelismi di senso che l’accostamento di sequenze apparentemente autonome può creare, ecc.) vengono sfruttati a pieno, fino a farne l’elemento caratterizzante del film. Abile ad aprirsi a descrizioni indirette di quanto avviene. A volte, non affrontare il reale con strumenti denotativi è un modo per incidere ancora di più su di esso e per descrivere in profondità lo stato e il movimento di cose e di anime…
Da qui la mise en abîme della vicenda del gatto Nuvola, che a livello basso (anche spazialmente) replica le vicende e le difficoltà a integrarsi, a “ritrovarsi” di Anna, ragazza sorda, nella sua nuova classe di Rovereto, nella quale entra ad anno e percorso scolastico già iniziati. Come il gatto, che fugge di casa perché spaventato da cani che abbaiano in televisione, dapprima è guardingo, timoroso e, quindi, aggressivo e solo, così Anna fatica a trovare una sintonia con il mondo esterno, che sembra restio a riadattarsi, a riformularsi, a “fare la sua parte” (così come Anna a fare la sua). Un contesto in cui, come dice nel film l’insegnante di sostegno chiamata per aiutare Anna, la scuola funziona e la realizzazione dei bisogni è garantita più che altrove; ma un contesto che fatica a farsi carico della soddisfazione dei desideri, senza la quale “l’integrazione” è una condizione imparziale, “deficiente”, nominale. Un termine semivuoto, come racconta la sequenza in cui, con l’uso di ralenti e velocizzazione di immagini e suoni deformati, ci si fa gioco di una riunione d’équipe, in cui i presenti, discutendo delle difficoltà che la presenza dell’alunna sorda comporta, utilizzano termini iper-tecnici che, nello sforzo di analizzare scientificamente la realtà, ne trascurano proprio la dimensione reale, finendo per eluderla.
La licenza cinematografica viene creativamente sfruttata anche nella sequenza della visita della classe al MART di Rovereto, tra quadri che Anna e l’insegnante di sostegno si divertono a interpretare come allegorie del rapporto conflittuale tra Anna e la classe: in particolare, commentando un quadro di Renato Guttuso e uno di Piet Mondrian.
La sceneggiatura è, però, attenta a non creare una contrapposizione netta tra normalità e disabilità, tra pensiero normale e pensiero “disabile”: chiamati a svolgere un ragionamento su diversità e disagio a partire da un fatto di cronaca relativo a un cittadino immigrato, i compagni di classe hanno modo di apprezzare le righe scritte da Anna, e di accorgersi di lei quasi per la prima volta; ma vengono lette anche le interessanti composizioni di altri ragazzi. Anna potrebbe essere in una condizione privilegiata per affrontare un tema simile, ma, in verità, i pensieri dei ragazzi colgono e approfondiscono, tutti, una parte della verità sul tema. L’approccio alla diversità è un approccio che necessita di diversità.
C’è, insomma, un’attenzione continua a non contrapporre due mondi, e a sottolineare, piuttosto, la necessità di cercare i momenti di condivisione, il denominatore comune, a unificare nella differenza.
Il film, sottraendosi a un vizio comune a tante produzioni di finzione, ha proprio il pregio di evitare, da un lato, la rappresentazione emblematica della disabilità, che astrae la stessa dalle vicissitudini del reale; dall’altro, la rappresentazione di un disabile eccezionale, quello che non si incontra mai nella vita di ogni giorno. Questo permette alla vicenda di sviluppare in modo convincente una delle intenzioni principali di chi ha lavorato al film, quella di ragionare sul desiderio di essere desiderati. Che noi tutti, soggetti desideranti e oggetti di desiderio, esprimiamo.
Il desiderio comporta sempre una compresenza, l’esistenza (anche come ipotesi) di almeno due termini diversi. Sarebbe ottuso e narcisistico desiderare qualcosa che ci assomigli in tutto. Il desiderio comporta, quindi, una relazione tra almeno due entità o soggettività.
Questa idea di “comunicazione” torna spesso all’interno della vicenda sotto forma di filastrocca aneddotica, “Ciao miao” (con testo di Gianni Rodari), la quale viene presentata per la prima volta all’interno del film con una bella sequenza di primi piani di bocche di un coro che ne emettono (sonoro) e ne “articolano” (visivo) le parole. E c’è sempre un gatto di mezzo: Un signore di nome Stanislao,/ incontrò un gatto e gli disse ciao./ Il gatto tra sé pensò/ “Che ignorante però! /Non sa nemmeno dire bene MIAO”. Che riflette bene (e in modo fulmineo) su due aspetti imprescindibili: il riconoscimento reciproco dell’esistenza di codici plurali, diversi e la necessaria bidirezionalità di ogni processo di integrazione-comunicazione.
Da ultimo, una nota tecnica: il film è sottotitolato per spettatori non udenti e, in certi punti, per spettatori udenti, dal momento che taluni dialoghi risulterebbero incomprensibili a coloro che non conoscono la lingua dei segni.
Questo comporta che parti della sceneggiatura compaiano a descrivere con precisione le caratteristiche di alcune scene (ad esempio: “Il telefono squilla”, “Voce in flashback”, “Reazione di paura dei ragazzi”) e che, nei dialoghi, i sottotitoli abbiano colori diversi a seconda di che attore-personaggio prende la parola. Il film, quindi, potrebbe essere visto senza il sonoro. A me, a volte, ha ricordato il cinema “muto” in cui regia, espressività, un modo diverso di recitare ed esprimersi con il corpo e sottotitoli sporadici non solo ovviavano alla mancanza di suoni, ma creavano e rielaboravano codici comunicativi con una grammatica e un lessico propri. Un cinema, quello muto, di natura “accessibile”.

Non voltarmi le spalle
Durata: 71’
Dal soggetto “Ciao Miao”di Roberto Bombardelli, Maria Pia Oliviero, Valeria Vaiano, Fulvio Wetzl
Regia: Fulvio Wetzl
Sceneggiatura (studenti e studentesse del corso): di Alice Campedelli, Martina Codato, Valentina Copat, Sara Iori, Monica Marino, Valentina Maroni, Francesca Marzadro, Lisa Peder, Luca Pizzini, Valentina Rigo, Serena Secchi, Michele Segatta, Andrea Vanzo, Francesca Vassallo, Silvia Veneri, Elia Vigagni, Roberto Bombardelli, Maria Pia Oliviero, Valeria Vaiano, Fulvio Wetzl
Attrici protagoniste: Stefania Pedrotti (classe quarta del Liceo “Antonio Rosmini” di Rovereto), Valeria Vaiano
Altri interpreti: Gianluigi Fait, Dalila Ragusa, Demetrio Martino, Roberto Pennazzato, Anna Lorenzetti, Maria Pia Oliviero, Roberto Bombardelli, Silvia Pavan, Lucia Agostini, Andrea Codato, Sara Trainotti, Anna Belmonte, Gisella Trainotti; Corale E-Vocare (creata per l’occasione all’interno dell’Istituto e diretta da Silvia Pavan), … il gatto Max.
Montaggio digitale: Fulvio Wetzl, Nicola Cattani, Elia Bombardelli effettuato presso il laboratorio di montaggio dell’Istituto “Don Dilani-Depero” di Rovereto
Logistica e organizzazione: Maria Pia Oliviero
Musiche di Ravel, Puccini, Musorgskij, Vigagni, Soresina
Contributi musicali e vocali: Compagnia cantante “Ginguruberu”, Gruppo di ottoni “Gli sfiatati”, Gruppo Funky Boutique, Corale E-vocare
Istituto “Don Milani-Depero”: tel. 0464/48.55.11

Il margine del campo che diventa fertile

Di Alessandra Pederzoli

Capezzaia è il margine inutilizzato e incolto dei campi. Capezzaia è anche il nome scelto per una pasta fresca distribuita dalla Coop Tirreno in trentotto punti vendita della regione Lazio. Il margine del campo e la freschezza di questo prodotto sono la sintesi di un progetto della Comunità Capodarco di Roma che da trent’anni si impegna in svariati progetti di integrazione sociale e lavorativa di persone disabili.
Il laboratorio Sociale Produttivo di pasta fresca concretizza proprio un percorso di riabilitazione che coinvolge settantacinque disabili mentali e psichici di età molto varie, comprese tra i venti e i cinquant’anni, che oggi diventa un vero e proprio progetto imprenditoriale. Un progetto che si inserisce in una dimensione di economia etico sociale capace di mettere al centro la persona come soggetto primo da privilegiare e poi il profitto e il guadagno: con questa idea fondamentale si è sviluppato il progetto che oggi ha portato la pasta di Capezzaia nei supermercati della grande distribuzione. Un prodotto che sembra dunque contraddistinguersi per il suo coniugare genuinità del prodotto e integrazione delle persone.
Non casuale il nome “pasta di Capezzaia”, teso a sottolineare l’accostamento del margine solitamente incolto e improduttivo del campo e quella parte di società che non si vede e che silenziosamente viene tenuta ai margini della collettività e, soprattutto, delle dinamiche dei processi produttivi. Un accostamento che genera un contrasto con la produttività: oggi infatti quel terreno e quella collettività tenuta ai margini ha dato frutto ed è divenuta terra fertile, feconda di buoni frutti e di risultati più che soddisfacenti. L’inserimento lavorativo delle persone impiegate nel Laboratorio della pasta è, di fatto, un inserimento a tutti gli effetti, all’interno di un vero e proprio stabilimento industriale nato a Pomezia e finanziato dall’Unicoop Tirreno che grazie alla raccolta dei punti spesa è riuscita a collaborare per un totale di centosessantamila euro. Di fatto, trattandosi di una raccolta punti spesa, non solo Coop è stata coinvolta in questo percorso di emancipazione socio-lavorativa, ma anche molti consumatori soci e clienti di Coop Tirreno che attraverso l’iniziativa “Basta un gesto” hanno contribuito a sostenere l’attività del laboratorio, devolvendo i punti non utilizzati per il ritiro dei vari premi o dei buoni sconto, sono andati a incentivare il finanziamento per la Comunità e il suo Laboratorio. Un percorso di emancipazione dunque che vede coinvolti molti personaggi: innanzitutto la Comunità di Capodarco di Roma che ne è promotrice, i settantacinque lavoratori, l’Unicoop Tirreno ma anche i consumatori che non solo si ritrovano a poter orientare sulla pasta di Capezzaia le proprie scelte di consumo, ma ne hanno anche promosso la realizzazione e la messa in vendita.
Tutto questo mostra quanto sia possibile coniugare una produzione di qualità capace di viaggiare sui circuiti tradizionali della grande distribuzione con l’impiego di quella che viene definita comunemente “manodopera residua”. Per certi versi, tutto ciò è a dir poco rivoluzionario. Un passo in avanti compiuto anche dalla Comunità all’interno della quale fino a oggi si sono messi in piedi laboratori artigianali di oggettini e piccoli manufatti che nulla hanno a che vedere con la produzione della pasta che invece ha proprio le caratteristiche del prodotto di largo consumo portato e distribuito nei supermercati. Realizzato inoltre, con tutti i controlli di qualità necessari per l’immissione in commercio. Questo progetto “pasta di Capezzaia” infatti, prendendo spunto dai Laboratori Sociali condotti dalla Comunità a partire dal 2004, viene a fissarsi come momento di passaggio importante nelle pratiche di inserimento lavorativo messe in atto.
Tutte le riflessioni circa i miglioramenti della qualità della vita delle persone impiegate in questi Laboratori hanno portato a osare nel progetto di Capezzaia. Una riflessione che va oltre e guarda a quanto i lati positivi riguardino anche i futuri consumatori del prodotto. Chi produce la pasta riesce a sentirsi realmente utile trovando un posto all’interno di un processo produttivo; per chi invece la acquista e la consuma significa rendersi conto della possibilità di coniugare insieme qualità e integrazione, tanto orientare in modo diverso le proprie scelte di consumo.
Ecco che i consumatori diventano consumatori critici e i produttori diventano soggetti attivi di un’economia etico-sociale. Un processo, anche questo, che attraverso una dinamica strettamente commerciale, va oltre le categorie e coinvolge tutti, in egual misura, in un processo di cambiamento.
Alla conferenza di presentazione del prodotto, tenutasi a Roma a inizio aprile, hanno partecipato il presidente della Comunità di Capodarco don Vinicio Albanesi, Marco Lami, Presidente di Unicoop Tirreno, Enrico Mentana, giornalista, e l’Assessore regionale alle Politiche Sociali, Anna Coppetelli. È il presidente di Unicoop ad allargare un po’ i significati di un’azione come questa che Coop ha deciso di sostenere, per guardare a quanto “la pasta di Capezzaia” smuova un “moderno concetto di mutualità”. Guarda alle richieste sempre diverse e sempre maggiori dei clienti consumatori Coop, che sembrano non accontentarsi più solo del prodotto buono, o discreto, acquistato a un prezzo basso. Anzi. Il consumatore vuole qualcosa in più che parte da una richiesta di qualità e di controllo su quella qualità, per arrivare a chiedere al supermercato di fornirgli la possibilità di orientare anche criticamente i propri acquisti. Ogni atto di acquisto sembra oggi riflettere bisogni molto diversi dei consumatori: l’acquisto assume sempre di più una scelta di valore, oltre che la soddisfazione a un bisogno della persona che acquista.
Probabilmente osare e allargare un’esperienza come questa significa farla diventare normale, e solo allargando questo concetto di “normalità” iniziamo a sentirci tutti parte di questo ciclo del prodotto: chi da consumatori, chi da produttori, chi da mediatori per la vendita. E più diventa una pratica normale e più incide anche sull’economia che assume sempre più i toni dell’economia eticamente sostenibile, guardando alle persone e non al soldo. Guardando al prodotto e a chi lo produce. Guardando ai suoi significati.

Equilibri, collisioni. Parole e storie di ragazze migranti

Di Annalisa Bolognesi

Ero sempre al confine della fantasia
Intorno a me il nulla
Ero sull’orlo dell’oscurità
Intorno a me il nulla
Ero al margine della pazzia
Intorno a me il nulla
Eravamo in due
Ma ero sempre solo io
(Milana Musaeva – Atelier di Scrittura ITCS “Rosa Luxemburg” Bologna, maggio 2007)

C’è chi scrive per raccontare storie, chi scrive per vendere, per informare; c’è chi fa dello scrivere una professione, chi ne ha fatto semplicemente un hobby. Ma per molti, forse per la maggior parte delle persone, scrivere è uno sfogo. Scriviamo per stare meglio. Attraverso la parola e la scrittura prendiamo coscienza di noi, e quei problemi che sembravano inconcepibili ora hanno un corpo e una forma.
Era la fine del 2005 e stavo cominciando a scrivere la mia tesi di laurea sulle seconde generazioni di migranti, quando mi sono avvicinata per la prima volta al libro Verso quale casa. Storie di ragazze migranti di Maria Chiara Patuelli (Bologna, Giraldi Editore, 2005).
Come per altre letture fatte per la mia tesi credevo di trovarvi semplicemente dati e analisi sociologiche riguardanti l’argomento su cui stavo indagando. In realtà c’era molto di più. Il libro non era un insieme di dati, questionari e cifre: conteneva delle storie. Storie di giovani donne di origine straniera che avevano deciso di raccontarsi attraverso interviste e narrazioni. Ma anche storie di un altro tipo: racconti, poesie, sfoghi, scritti sempre da queste ragazze nell’ambito di un laboratorio, un Atelier di scrittura creativa rivolto a studentesse migranti organizzato dall’Istituto Tecnico Commerciale Statale “Rosa Luxemburg” di Bologna.
Ed è proprio dalla lettura del libro della Patuelli, fondamentale per la mia formazione universitaria e non, che ho deciso di approfondire il progetto dell’Atelier.

L’Atelier di scrittura creativa
Come spesso accade per i progetti più interessanti e originali, l’Atelier nasce quasi per caso, in maniera del tutto informale. “L’Atelier è partito nel 2000 – spiega la Professoressa Francesca Milani, una delle fondatrici –. All’inizio dell’anno scolastico alcuni insegnanti si sono accorti che un gruppo di ragazze del biennio, prevalentemente nord-africane, pur non dovendo venire a scuola il sabato, perché le classi prime e seconde hanno lezione solo dal lunedì al venerdì, ogni sabato vi si recavano ugualmente, passando la mattina al bar o in giardino, probabilmente perché, se fossero rimaste a casa, sarebbero state caricate d’incombenze domestiche. Così, per legittimare la loro presenza a scuola, la Preside e alcuni professori hanno iniziato a invitarle, in queste ore, a scrivere di sé e delle proprie esperienze. In questo modo, un po’ informalmente e un po’ per gioco, ha preso il via il laboratorio”. Con il tempo poi l’Atelier si è formalizzato: è stata coinvolta come conduttrice Paola Galvani, una maestra di scuola elementare esperta in scrittura creativa, e il progetto è stato inserito tra le attività pomeridiane extracurricolari della scuola.
Oggi prevede una serie di incontri settimanali, che coinvolgono una quindicina di persone, per la grande maggioranza ragazze. Come spiega l’altra organizzatrice del corso, la Professoressa Giorgi: “Le donne manifestano una maggiore tendenza verso l’introspezione e la comunicazione del proprio vissuto, che nella scrittura può trovare un’efficace forma espressiva”.
Ogni incontro è articolato in tre parti: un momento di lettura iniziale, in cui la conduttrice legge un brano che possa fornire uno stimolo per la scrittura; una fase di scrittura, in cui le partecipanti, sull’onda dell’emozione provata per la lettura del brano, riportano sulla carta le proprie esperienze; e una fase finale in cui le storie scritte in precedenza vengono narrate, condivise nel gruppo e, successivamente, pubblicate in speciali quaderni che contengono gli scritti di ogni anno.
L’articolazione degli incontri fa dunque sì che le partecipanti siano portate a riorganizzare le proprie esperienze in forma di storia, per poterle, nella fase successiva, condividere con gli altri.

Collisione ed Equilibrio
Mi meraviglia come ogni oggetto
Abbia la sua forma e il suo colore
E che le persone siano tutte diverse.
(Simona Avasilichioae – Atelier di Scrittura ITCS “Rosa Luxemburg” Bologna, dicembre 2007)

La narrazione di sé attraverso la scrittura apre in questo modo le porte alla riflessione sul proprio passato, su una condizione di adolescenti chiamate a vivere al confine tra due culture, sulla propria identità, ma, anche, sulla propria diversità.
Con questo non intendo certo dire che scrivere di se stessi sia una sorta di terapia universale, che possa nell’immediato risolvere i problemi di tutti coloro che, per qualsiasi motivo – che siano le origini etniche, una disabilità, l’orientamento sessuale, o altro – percepiscano se stessi come “diversi”, o facciano fatica a prendere coscienza della propria identità e del proprio essere. Magari fosse tutto così semplice! Però certamente scrivere, e soprattutto condividere questi scritti con persone che vivono situazioni analoghe alla propria, può essere molto importante.
E così viene fuori che non si è i soli ad aver difficoltà di ambientamento in questo paese, che quei problemi che pensavi fossero dovuti esclusivamente al tuo carattere, invece riguardano anche altre persone, e che insieme, a volte, si può persino cercare di risolverli. Magari anche attraverso soluzioni originali, come i cortometraggi recentemente realizzati partendo proprio dagli scritti elaborati nell’Atelier, che mostrano ai compagni di scuola, agli amici e alla cittadinanza intera, cosa significhi essere etichettati dalla gente e dai media, o cosa voglia dire lasciare il paese d’origine e trovarsi a vivere in una realtà completamente differente.
Ma non c’è solo questo: scrivere porta anche a una rielaborazione di sé come identità in movimento, a una consapevolezza della propria evoluzione. Come spiega infatti Francesca Milani: “Le biografie inizialmente apparivano contrassegnate da disagi; tuttavia, con il tempo, le protagoniste hanno cominciato a elaborare delle considerazioni più articolate della cultura del paese d’arrivo, a relativizzare quella del paese d’origine e a creare un pensiero originale e nuovo, perché generato dall’incontro tra due culture”. Un processo che chiaramente non avviene senza fatica, senza entrare in collisone con le contraddizioni del proprio essere; perché è proprio da queste collisioni che può nascere un nuovo equilibrio.
“Jinchuan He, una delle primissime ragazze che hanno frequentato il laboratorio – prosegue Francesca Milani – nel suo noto articolo ‘Collisione ed Equilibrio’, racconta proprio del suo percorso. Prima il rifiuto della cultura d’origine, una sorta di senso di vergogna di essere cinese; poi il tentativo di ricercare le proprie radici, fino a chiudervisi e ingabbiarvisi; infine il ritrovamento di un proprio equilibrio. Jinchuan non immaginerà più se stessa come un miscuglio, un insieme indistinto di culture diverse, ma come una macedonia, fatta di tanti frutti differenti, che insieme trovano, però, una loro armonia”.
Io sono come una macedonia, dice Jinchuan nel suo articolo, sono Cinese, ma ho studiato Pascoli, conosco perfettamente la cultura cinese, ma ho letto anche Dante. Io sono questo, questo e questo…”.

Etichetta e preferenze

A cura di Valeria Alpi 

Sono sempre stato convinto che la caratteristica della nostra famiglia sia la riservatezza. Portiamo il pudore a estremi incredibili, tanto nel nostro modo di vestirci e di mangiare come nel modo di esprimerci o di salire sul tram. I soprannomi, per esempio, che con tanta noncuranza vengono affibbiati nel quartiere di Pacifico, sono per noi motivo di estrema cura, di riflessione e persino di inquietudine. Ci sembra che non si possa attribuire un nomignolo qualsiasi a qualcuno che dovrà farlo suo e portarlo come un attributo per tutta la vita. Le signore di via Humboldt chiamano Toto, Coco e Cacho i loro figli, e Negra e Beba le bambine, ma nella nostra famiglia questo tipo di corrente di soprannome non esiste, e tanto meno altri ricercati e abominevoli come Chirola, Cachuzo o Matagatos, che abbondano in quartieri come quello di Paraguay o di Godoy Cruz. Come esempio della nostra prudenza in queste cose basterà citare il caso di mia zia, la seconda. Visibilmente dotata di un sedere dalle imponenti dimensioni, mai ci saremmo permessi di cedere alla facile tentazione dei soprannomi abituali; così, invece di darle il brutale nomignolo di Anfora Etrusca, fummo tutti d’accordo su quello più decente e familiare di Culona. Procediamo sempre con lo stesso tatto, anche se ci capita di dover far baruffa con i vicini e gli amici che insistono nei tradizionali appellativi. A mio cugino primo, il secondo, il minore, decisamente dotato d’una gran testa, gli negammo sempre il soprannome di Atlante che gli avevano appioppato nella rosticceria dell’angolo, e preferimmo quello infinitamente più delicato di Zuccone. E così via.
Vorrei che fosse ben chiaro che non facciamo così per distinguerci dagli altri del quartiere. Vorremmo soltanto modificare, gradualmente e senza urtare i sentimenti di chicchessia, la routine e le tradizioni. Non ci piace la volgarità in nessuna delle sue manifestazioni, ed è sufficiente che uno di noi si senta dire al bar frasi come: “Hanno fatto un gioco pesante” […] perché immediatamente noi si rivendichi la vitalità delle espressioni più pure e consigliabili in tali occorrenze, e cioè: “Han menato duro che dovevi vedere” […] La gente ci guarda con sorpresa, ma non manca mai qualcuno che raccolga la lezione che si nasconde in queste frasi delicate.
(Brano tratto dal racconto “Etichetta e preferenze”, in J. Cortázar, Storie di cronopios e di famas, Torino, Einaudi, 2005, pp.30-31)

Ciò che ha contraddistinto la rubrica Il magico Alvermann fin dai suoi esordi è l’emozione. Non cerchiamo di “piegare” i nostri ricordi narrativi alla ricerca di un brano che parli di diversità, ma di solito avviene il contrario. Ci capita un testo tra le mani, per vari motivi, proviamo un’emozione sulla diversità e ci viene voglia di commentarlo ne Il magico Alvermann. L’incontro con Cortázar non è stato casuale, però. Un collega, un amico, del Centro Documentazione Handicap è venuto da me con questo libro di racconti e – con frasi di manzoniana memoria – mi ha intimato: “Cortázar s’ha da fare su ‘HP-Accaparlante’!”. C’era già un’idea da parte sua: utilizzare un racconto con una strana storia di capelli che finiscono nel lavandino, una storia talmente surreale che sprigionava diversità da ogni parola! Ma poi eccola, l’emozione. Ecco il racconto, un altro, non quello dei capelli, che sarebbe stato su “HP-Accaparlante”, e non perché mi venisse chiesto, ma perché non poteva essere altrimenti. Perché quando si trova la cosa giusta, non la si può far scappare. Questo racconto, con molta ironia, cinismo forse, ma anche con una dose di onesto equilibrio, comunica, anzi è come se gridasse, ciò che da tempo penso sui termini che riguardano la disabilità. Diamo il nome alle cose, anche il nome più brutale, non vergogniamoci, il problema non sta nel nome, ma negli aggettivi sottintesi che il nome si porta dietro. Vengo da un mondo in cui si è lottato per anni per non parlare più di handicappato, di portatore di handicap, ma di persona disabile, anzi meglio: di persona diversamente abile. Ma ciò che mi ha sempre lasciato perplessa è che i termini, essendo noi degli esseri umani con la necessità di definire e di indicare il mondo circostante, servono, non ne possiamo fare a meno. Ma sono appunto termini, come dire: strumenti. Abbiamo la parola “tavolo” per definire l’oggetto sopra cui per esempio apparecchiamo per il pranzo, ma per descrivere il tavolo dobbiamo aggiungere degli aggettivi: alto, basso, bello, moderno, antico, di legno, laccato, ecc. La parola “tavolo” e basta non ci dice molto, tranne un’idea che comunque abbiamo nelle nostre definizioni. La parola “handicappato”, allora, non sarebbe così sbagliata se non portasse con sé tutta una serie di aggettivi negativi che la cultura vi ha sedimentato: e quindi persona sfortunata, incapace, per non dire di peggio. La parola “diversamente abile” ha il vantaggio di portare alla luce le qualità positive che comunque permangono nella persona, nonostante il deficit. Ha anche il vantaggio di “pareggiare” un po’ i cosiddetti normodotati con i disabili, perché alla fin fine siamo tutti diversamente abili in qualcosa. Spesso, non posso non ammetterlo, il termine diversamente abile funziona, e davvero alle persone che non si trovano a contatto con la disabilità, o a volte anche alle stesse famiglie di persone disabili, si apre un mondo fatto di possibilità anziché di negazioni. Ma, a volte, questo termine è solo di facciata. È politically correct, anzi è di moda, è trendy. E nello stesso tempo, a volte, è vuoto di significati, oppure, peggio, resta ancorato alla cultura del passato. Perché indica, definisce una persona con deficit, ma non sempre cambia gli aggettivi che ci stanno dietro. E quindi capita che chi usa diversamente abile continui a guardare le persone disabili come dei marziani, si schifi vedendole imboccare da altri, non sappia come relazionarsi, se non con un dislivello asimmetrico, della serie “io sono quello che ti potrebbe aiutare, tu sei quello che ha bisogno di aiuto”. Allora mi viene voglia di essere nel racconto di Cortázar. E preferisco chi usa ancora “handicappato”, ma lo fa in modo genuino, ruspante, senza ambiguità, senza sedimenti culturali, ma solo per indicare una situazione di diversità, semplicemente perché essa è. Ma che poi accetta la disabilità nella sua concretezza, ti porta a fare un giro in città, ti imbocca se ce n’è bisogno, ti sorride, ti abbraccia, ti solleva; ti parla più lentamente se devi leggere sulle labbra; prova ad ascoltarti anche se non riesci a esprimerti bene; prova a farti esperire il mondo, anche se non lo vedi. Preferisco “handicappato” se non si porta dietro nulla, piuttosto che “diversamente abile” e pensare ancora “poverino”. Come preferirei che non ci fosse bisogno di termini più “giusti” per cambiare la mentalità; sarebbe bello cambiarla anche stando sui termini brutti. Forse m’illudo. Ma non manca mai qualcuno che raccolga la lezione che si nasconde in queste frasi delicate.

Di nuovo al lavoro. Una nuova esperienza

Di Alesandra Pederzoli

Nasce anche un film dal progetto torinese “La Ghianda – Oltre il trauma”, progetto pluriennale finanziato dalla Comunità Europea che ha l’obiettivo di ragionare e intervenire sull’inserimento lavorativo delle persone con disabilità acquisita. Se mi fermo poi riparto è un film che traccia un bilancio di un’esperienza, con lo scopo di condividere con altri il vissuto di questi tre anni di impegno; obiettivo a cui si accosta anche l’intenzione di trovare nuove strade, sperimentare percorsi alternativi e innovativi che siano capaci di porre le basi per continuare questo impegno intrapreso.
In questi tre anni di lavoro, il progetto ha visto il coinvolgimento congiunto di diversi soggetti operanti sul territorio, strutture sanitarie e non, quali l’Ente Acli Istruzione Professionale (Enaip), l’Azienda Ospedaliera Maggiore della Carità di Novara, il Centro Studi Don Calabria, la società di formazione, ricerca e comunicazione Eclectica e le associazioni Bip Bip Onlus e C.A.S.T. Soggetti che in diversa misura, e con competenze anche differenti, operano tutti a partire da un punto di vista comune e collettivo: trasformare coloro che sono pensati dalla società come portatori di disabilità in portatori di competenze, seguendo processi nei quali i soggetti interessati non sono oggetto di un intervento mirato ma sono piuttosto veri e propri “attori protagonisti”. Di fatto gli enti coinvolti sono soggetti che hanno una natura professionale profondamente differente in grado di mettere in campo delle competenze anche molto diverse. Probabilmente un punto di forza questo. Da un lato c’è chi conosce l’esperienza della disabilità, o perché la vive in prima persona (coloro a cui il progetto è destinato che abbiamo definito “attori protagonisti”) o perché ne ha esperienza in qualunque altra misura; dall’altro c’è invece chi si occupa professionalmente di mediazione al lavoro e svolge costantemente un’azione capillare di diffusione di buone pratiche e di nuove metodologie di intervento, al fine di reinserire nel mondo del lavoro chi ha perso alcune competenze a causa di un trauma. Ecco perché si può dire che alla base del progetto vi sia in realtà un’azione intensa e fondamentale di dialogo tra chi vive la situazione del trauma e chi interviene sul mondo del lavoro, un mondo pieno di sfaccettature e risvolti non sempre accoglienti nei confronti della “competenza persa o modificata”: l’opportunità e lo scambio come base su cui costruire proprio le pratiche di inserimento e di integrazione lavorativa nuova.

Produttività e indipendenza
Le imprese, e il mondo del lavoro più in generale, spesso non si dimostrano particolarmente disponibili al mantenimento del posto di lavoro per persone che perdano improvvisamente competenze e modalità operative. Spesso diventa difficile anche a livello imprenditoriale riuscire ad accettare una ridefinizione delle mansioni e dei ruoli ricoperti dall’individuo all’interno dell’azienda, quasi a sottolinearne la rigidità e la struttura a misura di mercato e non a misura d’uomo. Di fatto la persona che prima non era disabile e che svolgeva determinate funzioni in un ambito lavorativo e che poi diventa “incapace” di mantenere tali mansioni, per l’azienda è spesso percepita come un peso o un ostacolo alla produttività. Il disabile risulta essere improduttivo e un costo. Inutile dire come una percezione di questo tipo pesi enormemente sulla persona e sulla sua autostima già profondamente segnata dall’esperienza del trauma, una ferita che spesso necessita di molto tempo per rimarginarsi. A questo disagio sul lavoro spesso si affianca anche una fatica della persona a ridefinire tutti gli altri ruoli ricoperti prima del trauma. Un percorso irto e complesso. Si mettono in fila una serie di necessità e di nuovi bisogni, che non sono solo quelli strettamente fisici della riabilitazione di funzionalità strutturali della persona, ma anche e soprattutto si tratta di bisogni di natura psicologica e sociale. Accettare una condizione nuova e profondamente diversa; cercare di cucire addosso a questa condizione un nuovo modello di indipendenza che spesso può voler dire una indipendenza che comunque necessita dell’aiuto e del sostegno di altri; la necessità di ritrovare e ricercare nuovi stimoli e nuovi ambiti in cui impiegare e mettere a frutto le proprie energie. Un percorso complicato in cui ogni ambito e ogni aspetto della persona (chiunque essa sia, disabile e non) viene chiamato in causa. Si tratta di pensare alla famiglia di origine o effettiva, di ricollocare gli affetti e i vari legami che si trovano a dover fare i conti con una condizione modificata che incide anche sulle modalità di relazione con la persona stessa; di ripensare all’ambito lavorativo: un ambito oggi fondamentale nel quale le persone vivono, si realizzano, mettono in campo competenze e abilità, maturano esperienze e intrecciano legami.
Ecco perché si rende necessario ricostruire i rapporti sociali dell’individuo, riscoprire le sue attitudini, valorizzarne i talenti per ricreare una nuova routine quotidiana che si basi proprio sulla consapevolezza della nuova condizione, capace di acquisire una sempre maggior autonomia.
Progetti come “la Ghianda” (e i molti altri sorti e avviati in Italia in questo periodo storico) hanno proprio l’obiettivo di migliorare le capacità del disabile, per reinserirlo nella società e nel lavoro: il traumatizzato perde delle competenze ma ne acquisisce altre che possono emergere attraverso un costante supporto e impegno, a partire dall’idea di fondo che ogni persona può maturare come individuo solo se ha l’occasione di conoscere, confrontarsi, impegnarsi e agire, vivendo esperienze in ambienti sociali come il lavoro, il tempo libero e la famiglia. Questi progetti pongono il focus sui primi due per proporre una serie di attività culturali e ricreative capaci di sensibilizzare la società sul recupero dei traumatizzati, in particolare il mondo del lavoro, e per dare sostegno a queste persone, agli operatori e alle famiglie.
Le persone disabili, per cui sono pensati tali progetti, vengono dunque coinvolti nell’organizzazione di laboratori teatrali, nella creazione di testi e video, nella realizzazione di conferenze e campagne di sensibilizzazione e prevenzione sulla “disabilità acquisita”. E sono innanzitutto affiancati da un’attività di orientamento, di ricerca attiva del lavoro, di accompagnamento al lavoro e di tutoring, per il quale spesso viene incaricato una figura di educatore esperto che ha il compito di creare un modello di inserimento idoneo per il disabile nel lavoro, oltre a individuare le sue competenze per meglio svilupparle. Questi percorsi educativi e rieducativi includono anche la partecipazione delle aziende per affidare anche a loro un ruolo attivo e propositivo che non sia solo la gestione dei numeri aziendali e che tenga conto anche dell’ascolto proprio delle dinamiche aziendali per trovare modo di discutere i loro problemi nella gestione e riabilitazione di soggetti traumatizzati sul luogo di lavoro.
Probabilmente il mettere insieme tutti questi soggetti e il mettere in campo le competenze e le professionalità di ciascuno, significa innanzitutto porre al centro la persona con le sue molteplicità e le sue complessità. Significa pensarla prima di tutto come oggetto-soggetto di un processo collettivo della società intera che ha il compito di ripensarsi, prima ancora di ripensare alla persona che si trova a ricostruirsi per trovare nuove modalità di stare e di essere.

Allegro ma non troppo: quando la satira sostituisce il giornalismo

Di Franca Silvestri, giornalista

Il 2008 è un anno particolare: ricorre il sessantesimo anniversario della nostra Carta costituzionale, ma compiono sessant’anni anche la Legge sulla stampa (8 febbraio 1948) e la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo della Nazioni Unite (10 dicembre 1948). Nel numero 71 di marzo 2008, “Giornalisti”, la rivista trimestrale dell’Ordine dei Giornalisti dell’Emilia Romagna, ha dedicato un ampio approfondimento per capire quanto la libertà di informare, informarsi, essere informati sia un diritto reale o piuttosto un principio impeccabile nella forma, che però molte volte rischia di essere disatteso. Proponiamo su “HP-Accaparlante” un pezzo di questo approfondimento, dato che l’informazione sociale, sempre più spesso, sta percorrendo proprio la strada della satira.
La Costituzione della Repubblica Italiana compie sessant’anni e uno spot ricorda alla gente che “leggerla è il modo migliore per festeggiarla”. Giustissimo. Ma per fare una grande festa forse bisognerebbe pure vederla applicata con rigore. La libertà di stampa, sancita dall’articolo 21, è un diritto sacrosanto. Dopo sessant’anni però i giornalisti ancora si chiedono quanto sono liberi di fare il loro mestiere. “La stampa non può essere soggetta ad autorizzazioni o censure” recita il secondo comma dell’articolo, e il primo dice che “Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”. Ma la preziosa teoria della nostra Carta costituzionale non sempre accompagna la pratica della professione giornalistica. Il bavaglio è sempre pronto per chi esprime con troppa forza la propria opinione, per chi non sta in linea, per chi è di statura troppo bassa o troppo alta per fare il Corazziere dell’informazione.
Anche volendo prescindere da quel sentenzioso comma 2 dell’articolo 21, che sarebbe il fondamento dell’autonomia della stampa, sembra che i giornalisti oggi siano i meno autorizzati a “manifestare liberamente il proprio pensiero”. Certo, non tutti sono impeccabili, obiettivi, slegati da logiche di potere, ma chi cerca con onestà di raccontare i fatti – e soprattutto di garantire il diritto all’informazione dei cittadini – si trova immerso in un caos mediatico dove tutti possono dire tutto, con qualunque mezzo, senza alcuna remora deontologica. Molto di più passa per altri canali comunicativi, attraverso forme espressive parenti della comicità, della satira, dello sberleffo e tramite figure acute, intelligenti, coraggiose che però difficilmente hanno il profilo del giornalista. Il fenomeno è interessante ma deve far riflettere.
Se la libertà di stampa in Italia fatica a essere garantita, la libertà di satira invece sembra conoscere pochi ostacoli. Programmi televisivi come Striscia la notizia o Le Iene rompono i confini del loro specifico e conducono vere e proprie inchieste, riescono a raccontare con comico clamore fatti e misfatti dell’Italia corrotta. Gli inviati in nero del le Iene Show sono sempre in prima linea, pronti a muoversi in bilico fra satira, goliardia, servizi di denuncia e costume. I chiassosi mezzibusti di Striscia la notizia realizzano con leggerezza e ironia performativa scoop al vetriolo che difficilmente troverebbero spazio nei normali TG. Ogni tanto qualcuno si lamenta, prova a fermarli, ma poi si arrende: in fondo sono solo burloni, innocui intrattenitori, salaci mattacchioni.
Forse, bisognerebbe invece pensare che dietro la maschera del comico agisce una nuova figura di “cronista”, un moderno giullare mediatico che può denunciare le debolezze del Re senza che questo gli faccia saltare la testa. Le Iene e Striscia sono solo due esempi, fra i più alti e graditi al pubblico, ma sul confine ormai labile che separa l’informazione dall’intrattenimento si muovono schiere di comici, predicatori disinvolti, uomini e donne di spettacolo che intervengono in libertà su qualsiasi questione.
Viene dunque il sospetto che la libertà di satira stia sovrapponendosi alla libertà di stampa, anzi che sempre più spesso ne faccia le veci. Ma se comici e affini possono entrare così facilmente tra le maglie dell’informazione e della critica al potere, a cosa servono i professionisti della comunicazione? Per esprimere le proprie opinioni devono forse appellarsi alla libertà di satira?
Basterebbe che i giornalisti potessero fare semplicemente il proprio mestiere, ma in questo momento storico c’è una grande confusione tra mezzi e contenuti, modalità, strumenti e obiettivi mediatici. E la libertà di stampa diventa “un bene che deve essere non solo costantemente difeso, ma perennemente riconquistato”. Non bisogna mai abbassare la guardia perché questa verità – pronunciata lo scorso ottobre durante la cerimonia per il primo anniversario del monumento alla Libertà di Stampa di Conselice (Ravenna) – non si trasformi in un epitaffio, magari con un glorioso Monumento all’opinionista ignoto.

Un gioco che si può trasformare in qualcosa di più: capire

A cura di Roberto Parmeggiani

3 marzo 2008 – lunedì
“Cosa c’è in quello scatolone?”
“Mah non lo so, è arrivato venerdì…”
“Beh adesso lo apro”

“Ahhhh… ma è il libro!”

Sapete quando aspettate tanto una cosa, la desiderate, non vedete l’ora di averla tra le mani?
E poi quando arriva non ve ne rendete conto subito?
Ecco, a noi è successa la stessa cosa.
Il tanto atteso libro del Calamaio Storie di Calamai e altre creature straordinarie (Ed. Erickson, 2008) è arrivato ma prima di realizzare che era lì, chiuso dentro quello scatolone, è passato un intero week end.
Oserei dire, non a caso.
Nel senso che c’è sempre bisogno di un po’ di tempo prima di rendersi conto che un sogno è finalmente diventato realtà, che è quindi tangibile (nel caso specifico direi leggibile), che è uscito dal mondo delle idee ed è diventato fenomeno, espressione di un’esperienza il cui senso trova significato nella condivisione.
Condivisione: ecco una parola fondamentale nel nostro percorso. Se siamo qui, a festeggiare vent’anni di vita, di cultura, di conoscenza, di competenza, è proprio grazie a tutti coloro che abbiamo incontrato: bambini, ragazzi, insegnanti, educatori… Ognuno ci ha permesso di scoprire un nuovo motivo per continuare questa splendida avventura.
Fino a spingerci a scrivere questo libro che, come si legge nella presentazione, “nasce per molti motivi ma tutti, in fondo, possono essere riassunti dal desiderio di dare una forma stabile che fermi sulla pagina scritta l’esperienza del Progetto Calamaio, nato all’interno dell’Associazione Centro Documentazione Handicap di Bologna e frutto di più di vent’anni di attività di animazione, formazione e sostegno ai processi di integrazione delle persone con disabilità […] il libro si muove su più livelli che tentano di riproporre ai lettori, accanto agli obiettivi e ai contenuti del Progetto Calamaio, la ricchezza e la densità di un impegno che si fatica a tenere nei territori del professionale per l’investimento e il coinvolgimento che riempie e tocca chi lavora e vive al Centro di Documentazione.
Quest’azione di rilettura dell’esperienza non si rivolge però solo verso l’esterno; se si utilizza intenzionalmente, la scrittura diventa un’occasione utile ad aumentare la capacità di sguardo su ciò che costituisce un pezzo importante della nostra quotidianità.
La scrittura, infatti, è anche pausa riflessiva, rottura del ritmo invasivo e ripetitivo del quotidiano. Spesso è una pausa strappata coi denti, soprattutto per chi come noi, non è scrittore di mestiere. Recentemente, Franca Olivetti Manoukian ha ricordato che, per chi lavora nell’ambito sociale, scrivere è ‘trasgressivo’ rispetto ai binari del lavoro operativo che non permettono soste e sguardi pensosi. Per poter ritornare a dare al nostro fare significati e valore è necessario autorizzarsi a trovare il tempo e il modo per ripensare a ciò che occupa lo spazio, il tempo dei giorni: la scrittura può essere un mezzo per compiere l’operazione complessa di riflessione su quanto si fa e si ‘produce’.
Le parole con cui ci siamo raccontati hanno alcune caratteristiche forti, che costituiscono il taglio di questo volume e che possono guidarne la lettura.
Sono parole concrete, mettono al centro un percorso di lavoro pensato e realizzato poi nella concreta forma dell’incontro con gli altri. È il nostro sapere dell’esperienza che vogliamo condividere, con le sue possibilità e i suoi limiti.
Sono parole colorate dai toni di un’affettività vissuta e percorsa in molti dei suoi sviluppi, sono parole che cercano di dare ospitalità agli affetti. Testimonianza delle relazioni importanti non solo fra gli ‘educatori’, gli ‘utenti’ ma anche fra il gruppo Calamaio e i gruppi di bambini, ragazzi, insegnanti, genitori incontrati via via nel percorso; relazioni che compongono un tessuto.
Sono parole che legano e collegano. Come diciamo spesso, il Progetto Calamaio non è fatto solo da noi, vive ed è reso fecondo dai legami forti del gruppo ma anche dai collegamenti, dagli incontri, dalla collaborazione con altri”. (pp. 13-14)
Il libro è diviso in tre sezioni distinte ma complementari, ognuna delle quali descrive una sfaccettatura della complessiva esperienza del Calamaio. “Nella prima parte sono raccolti gli interventi e i contributi di alcuni compagni di viaggio e interlocutori per noi importanti che dal loro ruolo professionale e dal loro osservatorio approfondiscono gli snodi centrali dell’educarsi reciprocamente alla diversità e dell’acquisizione di un ruolo sociale riconosciuto per la persona disabile.
Nella seconda parte trovano spazio alcune riflessioni che si collegano direttamente ai quattro laboratori attivati durante il Convegno di novembre 2006 sui punti che determinano maggiormente lo stile e modi del fare.
La terza parte, infine, racconta il Progetto Calamaio in azione: gli strumenti, i tempi, le persone.” (p. 14)
La lettura del libro è un viaggio, è una scoperta, è un gioco.
Un gioco che, come ci ha scritto un bambino di V elementare, si può trasformare in qualcosa di più: capire! Capire che cosa, però?
Anche la risposta, come la domanda, la lasciamo a una bambina, sempre di V elementare, che ci scrive:
“Cara Stefania, la prima volta che ho visto te, Patrizia e Roberto non mi sentivo a mio agio, ma poi vi ho conosciuto meglio e allora mi sentivo benissimo. Devo dire la verità: mi sono divertita molto, ho capito tante cose. È stato bello stare con voi. Mi sentivo allegra, molto allegra, anche se tu sei disabile… Quando Roberto ci ha spiegato che vi chiamate Calamaio perché volete lasciare una macchia sui bambini che incontrate, io mi sono molto emozionata. Un bacione
P.S. sto “macchiando” anche mia madre…” (p. 137)

Tracce di creature straordinarie
“Un Progetto che voglia essere tale, non può partire sapendo già dove e come arriva. Sarebbe un finto progetto. Un Progetto autentico, vive invece di intuizioni, obiettivi e rischi. Senza rischi, un progetto non diventa Progetto”. (p. 29)
Queste parole, regalateci da Andrea Canevaro, descrivono bene questi anni passati, nei quali il progetto è diventato Progetto ma sono anche un invito a non fermarsi, a non montarsi la testa e a continuare seguendo intuizioni, identificando nuovi obiettivi e assumendosi altri rischi.
Il libro è per noi un’occasione speciale e molto emozionante sia per fare festa con tutti coloro che fanno parte della nostra storia sia per riprendere il percorso verso nuove sfide, permettendo ad altre creature straordinarie – bambini, ragazzi, insegnanti… – di lasciare altre tracce, pensieri, riflessioni, disegni, domande che permetteranno alla nostra storia di continuare e alla cultura di crescere, non come piovuta dall’alto ma costruita mattone dopo mattone dal basso, attraverso l’esperienza.
Poi sapete come succede, le tracce alimentano la curiosità, il desiderio di avventura: ci sarà qualche altro esploratore che le seguirà, qualche altro progetto che nascerà, altre avventure da raccontare, creature di cui parlare… e le storie non finiranno mai.
Esempio ne è la nascita del blog del Calamaio.
Già il termine blog – contrazione di web-log, ovvero “traccia su rete” – sembra scelto apposta per noi che di tracce ci siamo sempre occupati.
L’obiettivo del blog storiedicalamai è quello di permettere a tutti di lasciare le proprie tracce, le proprie storie, le proprie macchie perché, attraverso la condivisione, possano diventare patrimonio comune. Mi raccomando, lasciate anche voi le vostre, senza paura: la diversità è una ricchezza che vale la pena di essere spesa.
Lasciamo la conclusione all’Omino Macchino, padre dell’inchiostro e di tutte le macchie che quello sa lasciare e grande amico del Progetto Calamaio… da quando ci siamo conosciuti, non ci siamo più lasciati.
“Questi Calamai di inchiostro se ne intendono davvero tanto. E non solo di inchiostro, ma anche di macchie. Se ho capito una cosa […] è che è necessario macchiare; e in fondo cosa ha fatto il Progetto Calamaio in questi venti anni, se non spargere le sue macchie, anzi, direi, regalare le sue macchie? Mica semplice avere a disposizione macchie di questo tipo ed essere capaci di regalarne a chichessia. Bisogna trovare il “miele” giusto perché le persone capiscano la dolcezza di una macchia. Di solito, poi, le macchie sporcano e basta; queste, invece, fanno di più, perché, nel macchiare, trasformano… ma cosa? Trasformano l’immagine che le persone hanno della realtà, arricchiscono un immaginario diffuso: è un compito che richiede maneggiatori d’inchiostro abilissimi, menti ardite, spiriti liberi e divertiti, prima ancora che divertenti.” (p. 228)

Un sogno lungo 10 anni: l’European Disability Forum dal 1997 al 2007

Di Massimiliano Rubbi

L’European Disability Forum (EDF), il principale organo consultivo a livello europeo formato da associazioni di persone con disabilità, ha recentemente pubblicato sul proprio sito web, www.edf-feph.org, un opuscolo intitolato “10 anni di storia”, con cui viene dettagliato un breve resoconto delle attività svolte tra il 1997 e il 2007. Una prospettiva più ampia di quella della stretta attualità permette di vedere come una quantità di scelte politiche che oggi diamo per scontate siano in realtà frutto di evoluzioni lunghe – e spesso tardive – all’interno del di per sé sofferto processo di integrazione europea. Inoltre, l’analisi di quanto fatto e di quanto rimasto da fare rende possibile individuare le linee guida di lungo periodo entro cui è auspicabile si muovano le politiche continentali per la disabilità.

Una storia per gradi
L’EDF ricorda innanzitutto come le politiche per la disabilità adottate in Europa fino ai primi anni ’90 fossero basate su programmi creati da professionisti, soprattutto del settore sanitario, e a tale “comunità” rivolti, senza un coinvolgimento nemmeno indiretto delle persone con disabilità. Solo nel 1993, con il Programma Helios II e il primo Anno Europeo delle Persone con Disabilità, l’handicap venne messo “sotto i riflettori” di Bruxelles, e soprattutto venne accettata l’importanza di discuterne con le associazioni di rappresentanza. Proprio per garantire una voce autorevole e (tendenzialmente) uniforme delle persone con disabilità a livello europeo, negli anni successivi si fecero sforzi per costituire un unico corpo consultivo indipendente, che prese forma nel 1997 con la nascita ufficiale dell’EDF.
Il quadro delle attività dell’EDF può essere sintetizzato in quanto l’opuscolo afferma a proposito del lavoro svolto in vista dell’allargamento a est dell’Unione nel 2004: “Il più grande successo non è stato raggiungere gli esiti attesi, ma il processo in sé”. Molti dei risultati sin qui ottenuti dall’EDF non sono infatti soluzioni concrete a problemi specifici, quanto percorsi capaci di generare mutamento culturale e organizzativo. L’esempio più evidente, benché avviato prima della costituzione dell’EDF e soltanto completato da questo, è la campagna per l’inserimento di un riferimento alla disabilità nei testi fondativi europei, conclusa nel 1997 con l’articolo 13 del Trattato di Amsterdam, il primo a riferirsi specificamente alla disabilità come terreno per la lotta alla discriminazione. Un risultato non particolarmente significativo in sé può diventarlo quando considerato parte di un processo più ampio, che porta i disabili a essere, nelle parole dell’EDF, “da persone invisibili a cittadini visibili”.
L’evoluzione delle attività dell’EDF negli anni successivi conferma questa natura di processo a lungo termine, e ne evidenzia il carattere “incrementale”, con piccoli passi uno sull’altro. Nel 2000, infatti, dopo una forte azione di lobbying dell’associazione, veniva approvata la prima Direttiva Europea riguardante la disabilità, all’interno della disciplina generale per le pari opportunità in ambito lavorativo. Non è un caso che il primo affacciarsi della tutela delle persone disabili a livello di Unione si riferisca all’ambito dell’occupazione/occupabilità, che è il “taglio” con cui l’UE da decenni inquadra più di frequente le politiche sociali. Anche in questo caso, dunque, la scelta di una linea di azione da parte dell’EDF rispecchia, e non sovverte, gli orientamenti della macchina politico-burocratica europea.
Tre anni dopo, nel 2003, veniva celebrato l’Anno Europeo delle Persone con Disabilità. Questo evento, che secondo l’EDF in genere l’UE utilizza “per suscitare consapevolezza su un certo argomento in cui la sua competenza è limitata”, nasce questa volta dal basso e con la partecipazione diretta degli interessati (attuando il motto “niente su di noi senza di noi” fatto proprio da molte associazioni di settore), e con una campagna largamente decentrata tra le associazioni dei vari Stati, più che governata da Bruxelles.
Gli anni successivi vedono il miglioramento, e in molti casi la costituzione, dei Consigli Nazionali delle persone disabili nei 10 Stati divenuti membri nel maggio 2004, e poi, nel 2006, l’inserimento di una clausola nei nuovi programmi di finanziamento europei per garantirne la non-discriminazione nei confronti delle persone disabili.

In volo verso il futuro
Uno dei risultati più tangibili dell’attività dell’EDF viene raggiunto nel giugno 2006, con il Regolamento in materia di trasporto aereo. Dopo una prima bozza di inizio 2004 in cui i diritti dei passeggeri con disabilità erano trattati solo a livello di indirizzo generale, lo sforzo del Forum, direttamente contrapposto alle lobby di linee aeree e aeroporti, ha portato a un Regolamento che “rende illegale la possibilità di negare l’imbarco sulla base della disabilità o di imputare al passeggero aereo disabile che richiede assistenza qualsiasi costo aggiuntivo” (prassi molto comuni prima dell’approvazione della normativa).
Il prossimo obiettivo dichiarato dell’EDF è l’approvazione di una direttiva europea globale che protegga i diritti delle persone con disabilità in tutti i campi della loro vita. Una bozza di questa direttiva era già stata predisposta in occasione dell’Anno Europeo nel 2003, ma la Commissione ritenne prematura questa normativa, soprattutto temendo un’opposizione degli Stati membri – fondata, non è irragionevole supporre, sul fatto che molti campi in cui essa necessariamente inciderebbe (servizi sociali, riabilitazione, scuola…) ad oggi trovano una regolamentazione europea molto debole e sono disciplinati sostanzialmente a livello statale o addirittura regionale. Nel 2007 la campagna per una direttiva globale, su un testo aggiornato, è stata ripresa dall’EDF, e ha ottenuto 1.294.997 firme a livello europeo, consegnate al Presidente della Commissione Barroso il 22 novembre 2007. L’opportunità di questo approccio “olistico” ha trovato una conferma diretta nella sua adozione all’interno della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, che l’Assemblea Generale ha votato nel dicembre 2006.

Un bilancio (non troppo) critico
La storia di dieci anni di EDF può lasciare l’impressione, come si è già detto, di un’attività svolta molto in linea di principio e meno in vista di obiettivi concreti. Va però considerato che un rilievo di questo genere può essere mosso a tutta l’organizzazione della UE, che deve affidare in larga parte agli Stati nazionali il recepimento concreto delle proprie regolamentazioni generali (un limite il cui superamento è allontanato nel tempo dalle bocciature della nuova Costituzione Europea nel 2005). L’EDF stessa se ne dichiara consapevole affermando nel proprio testo: “Anche se alcuni potrebbero credere che l’Unione Europea è lontana dalle preoccupazioni del cittadino e ha un impatto limitato sulle nostre vite, la realtà è molto diversa. I miglioramenti e i successi compiuti a livello UE fanno una chiara differenza a livello di base, benché sia vero che a volte il processo può richiedere parecchi anni”.
L’attività dell’EDF, tra successi e qualche fallimento dichiarato, va dunque considerata entro questo quadro di medio-lungo periodo, e in particolare rispetto alla capacità di generare un mutamento di mentalità, più lento ma anche più stabile e non reversibile: il passaggio da un modello medico della disabilità (in cui l’integrazione risulta una concessione) alla sua considerazione come “questione di diritti umani”. Si tratta, a ben vedere, di un percorso parallelo a quello svolto sul piano culturale da realtà di vario genere (associazioni, gruppi culturali…) in relazione sia al tema specifico dell’handicap sia a quello più generale della diversità, ma sviluppato qui dall’interno delle istituzioni comunitarie, le più “burocratiche” che siamo abituati a immaginarci, e tuttavia con rilevanti successi nel giro di pochi anni.
Se dunque non ci attendiamo dal Forum le dimostrazioni clamorose (e in genere inconcludenti) pro-disabilità che caratterizzano alcune associazioni di rappresentanza italiane e non solo, potremo valutarne il percorso futuro all’interno delle istituzioni europee sulla base della capacità di mantenere una voce autonoma e di ottenere miglioramenti progressivi per i 55 milioni di europei con disabilità.

Lettere al direttore

Risponde Claudio Imprudente

Salve,
sono Agnese, l’insegnante di scuola primaria che le ha già scritto qualche mese fa per farle i complimenti per il libro “Il principe del lago”.
Volevo annunciarle (con immensa gioia!!!) che da oggi è partito il laboratorio di lettura del suo libro nella mia classe, come le avevo anticipato che mi sarebbe piaciuto fare!
Purtroppo il tempo che riesco a dedicare al libro è davvero poco insegnando molte materie nella stessa classe (mezz’ora al venerdì) ma mi sono imposta di non lasciar scappare nemmeno un venerdì. I bambini sono molto entusiasti e l’inizio è già pieno di aspettative da parte di tutti loro (maestra per prima!); in classe riusciamo a staccare da tutto il resto, spegniamo le luci, abbassiamo le persiane e accendiamo una piccola candela. I bambini rimangono in silenzio, qualcuno ride durante qualche dialogo… e tutti già non vedono l’ora che arrivi venerdì prossimo.
Sono convintissima per il laboratorio, per molte ragioni: innanzitutto i bambini si prendono in giro con sempre più facilità negli ultimi tempi, e anche se la diversità per cui forse era stato pensato il libro non era questa, penso che comunque loro ci possano riflettere molto. E poi c’è un alunno che ha un fratello autistico, e forse (speranza vana?) riuscirà ad aprirsi con i compagni riguardo questa sua esperienza.
Può darsi che il tutto non le interessi più di tanto, ma i miei alunni sono entusiasti davvero e io felicissima!
Grazie mille ancora per la sua fantasia!
Agnese e classe 2a.

Aloha Agnese, a te e soprattutto a tutti i tuoi allievi. Lo sai che quando ho ricevuto la tua lettera mi sono sbellicato dalle risate?! Mi chiedevo anche se non si stesse scherzando… Poi però ho iniziato a immaginare. Immaginavo una vecchia chiesetta in campagna…sai di quelle un po’abbandonate, di quelle così buie in cui quando entri per i primi cinque minuti non riesci a distinguere i contorni delle cose? Poi, man mano che i tuoi occhi si abituano all’oscurità, sono proprio le candele accese i primi oggetti a prendere forma e a stagliarsi nel buio. Un flash: da bambino rimanevo affascinato – anzi, sedotto – da questa ambientazione, e contemplavo incantato la fiamma che faceva colare lentamente la cera sul candelabro. Sono convinto che i tuoi bambini respirino la stessa magia… Sai, una candela è come “la Vecchia Romagna che crea l’atmosfera”! Battuta pubblicitaria a parte, credo che il tuo laboratorio sia ben studiato e che in questo modo i bambini possano davvero annusare il profumo della cera che si scioglie lentamente e rimanerne inebriati. Allo stesso modo l’educazione alla diversità può fondersi con le potenzialità dei bambini e dare colore e sapore all’esistenza di ognuno. Questo è il ruolo della scuola, che deve saper creare l’atmosfera giusta.
E che dire? Io bevo Vecchia Romagna, e buona atmosfera a tutti.

Caro Claudio,
ti ho rivisto con grande piacere al Palahockey di Reggio Emilia. Come ti ho detto alla fine del tuo splendido “show”, tu aiuti la gente a conciliarsi con la vita, ad amarla sempre e comunque. E vorrei che ciò tu non lo prendessi come uno dei tanti complimenti che ti fanno, perché è semplicemente la verità. Incontrandoti un attimo prima di uscire te l’ho detto, tu sei come il vino: più invecchi e più diventi buono.
Ciao, in amicizia.
Realino Ferretti

Vedi, caro Realino – che guarda un po’ fa rima con “vino” – credo che ci sia una certa attinenza tra il piacere di bere del buon vino e la gioia di vivere. Giorni fa ero al cellulare con Marco, il mio amico sommelier, e stavamo disquisendo sui gusti dei vini e sull’importanza di essere felici nella vita. Un buon vino deve invecchiare per anni prima di acquistare determinate caratteristiche. Pure la vita. Un buon vino ha bisogno di tempo per prendere corpo. Altrettanto avviene nella vita. Se la vita non è equilibrata, come lo è un buon vino, perde di sapore e di interesse. Sfugge la bellezza delle sfide. E il sapore della sfida è un sapore affascinante e vellutato, che viene goduto anche dal palato (hai visto che ti ho fatto la rima?!).
Con un po’ di pazienza si può ottenere uno squisito vino frizzante oppure fruttato. Anche la vita pian piano diventa così, e un’ottima vita fruttata… Chi non la vorrebbe?! Se la vita non frutta… falla fruttare!
Come vedi, caro Realino, di punti in comune tra il vino e la vita ce ne sono una marea. Basta avere la botte giusta e la moglie non ubriaca. Altrimenti sono guai.
Cin cin!

8. Una ricerca sperimentale a Cesena: bambini, figli di migranti, con bisogni speciali

di Luca Baldassarre

Arrivati a questo punto, emerge, ripetutamente, il bisogno di fare e di capire. Nelle parole di chi progetta, di chi lavora sul campo, nei servizi. È evidente che il ruolo della ricerca è fondamentale. Abbiamo chiesto ad Alain Goussot, docente di Pedagogia speciale alla Facoltà di Psicologia di Cesena (Università di Bologna) di raccontare le motivazioni, la necessità e le finalità di una nuova ricerca sul campo sperimentale.
La Facoltà di Psicologia a Cesena sta avviando una ricerca che riguarda i bambini figli di migranti con bisogni speciali (con l’espressione bisogni speciali si intendono i bambini o le bambine con disabilità e con dei disturbi dell’apprendimento o dei disturbi specifici dell’apprendimento); la ricerca si svolgerà fino a giugno del 2009 nelle scuole primarie e secondarie di primo grado della città. L’idea della ricerca parte da una serie di considerazioni di natura socio-antropologiche, culturali e pedagogiche:
1) i cambiamenti antropologici avvenuti nel tessuto socio-culturale del territorio con l’arrivo delle diverse ondate migratorie;
2) i mutamenti nella composizione socio-culturale della popolazione scolastica con la presenza significativa di alunne e alunni provenienti da altri mondi culturali ma anche di alunne e alunni nate o nati qui ma di genitori non italiani;
3) la presenza sempre più frequente di famiglie miste dove uno dei due genitori non è italiano;
4) la presenza di alunne e alunni figlie e figli di migranti con disabilità e/o disturbi degli apprendimenti in carico presso i servizi territoriali e iscritti nelle scuole;
5) la necessità di reimpostare e rinnovare in modo innovativo gli strumenti e le tecniche della stessa diagnosi funzionale a fronte della variabile socio-culturale nuova portata dall’immigrazione;
6) la necessità d’inventare o di re-attualizzare le pratiche didattiche e pedagogiche per favorire gli apprendimenti di questi bambini e i percorsi d’inclusione nella scuola e nella società.

La scarsità di documentazione pregressa
Un’altra osservazione di ordine scientifico è quella della scarsità delle ricerche empiriche svolte in Italia su questo tema; ricordiamo alcuni lavori come quelli di Folgheraiter e Tressoldi (2003) sulle variabili che servono a distinguere alunni stranieri con e senza difficoltà, ma anche per prevedere la possibilità che ci siano delle difficoltà (il numero di anni di permanenza in Italia e di frequenza della scuola, l’intelligenza non verbale, la lingua usata nella comunicazione con i familiari, l’ampiezza e la ricchezza del vocabolario); vi è anche l’indagine di Murineddu, Duca e Cornoldi (2006) su un campione di 44 bambini stranieri delle scuole primarie e medie di Padova a confronto con un campione di alunni italiani. L’indagine ha evidenziato che gli alunni stranieri si distinguono dagli italiani solo per le prove di lettura e quindi sottolinea le difficoltà legate all’apprendimento linguistico. Quello che non abbiamo ancora sono lavori empirici seri su un campione ampio e significativo di alunni figli di migranti con bisogni speciali e su come la scuola e gli insegnanti rispondono a questa sfida. A livello scientifico si trovano in generale ricerche empiriche centrate sul tema integrazione degli alunni disabili in generale oppure su quella degli alunni figli di migranti; non si trovano praticamente nulla sugli alunni figli di migranti con bisogni speciali. Facciamo notare che usiamo accuratamente l’espressione figli di migranti e non bambini immigrati e poco quella di bambini stranieri: il motivo è insieme di natura euristica ed epistemologica. Parlare di bambini immigrati è spesso improprio poiché non tutti i bambini di origine non italiana hanno vissuto la migrazione in quanto tale perché sono nati in Italia; inoltre anche l’espressione bambini stranieri potrebbe sembrare più corretta ma è carente sul piano euristico, vi sono bambini che risultano italiani ma sono figli di genitori di origine non italiana che hanno acquisito la cittadinanza italiana dopo numerosi anni di permanenza in Italia; vi sono anche bambini di coppie miste dove uno dei due genitori è italiano e quindi bambini che sono confrontati con la gestione della propria multiculturalità e del loro essere meticci.
Verificando un po’ il panorama degli studi e delle ricerche all’estero si possono notare alcuni indirizzi che sono anche l’espressione di una certa cultura della relazione con il soggetto disabile e con l’immigrazione: abbiamo la grande maggioranza dei Paesi anglosassoni dove troviamo studi e ricerche interessanti o nell’ambito delle tecniche di riabilitazione o nell’ambito della multiculturalità; questi due mondi (disabilità, bisogni speciali e differenza culturale) sembrano non incontrarsi mai; per di più in molti di quei Paesi – basta leggere l’ultimo lavoro della Nussbaum (2007) sulla situazione negli Stati Uniti – non vi è un orientamento verso l’integrazione e l’inclusione poiché esistono ancora gli istituti speciali o le scuole speciali. Il panorama è più eterogeneo nell’Europa continentale e i lavori che legano disabilità, disturbi dell’apprendimento e differenza culturale si trovano molto nel mondo francofono; basti pensare all’esperienza della Moro presso l’ospedale Avicenna di Bobigny dove lavora con bambini e adolescenti provenienti dal mondo dell’immigrazione e che presentano dei disturbi dell’apprendimento, del comportamento, delle disabilità e delle psicopatologie. Riferendosi all’approccio transculturale di George Devereux, la Moro crea dei percorsi di presa in carico che fanno i conti con la globalità della personalità dei bambini, il suo sistema di riferimento e il suo carattere meticcio culturalmente. Vi sono anche i lavori di Mouchenik che ha collaborato con la Moro a Bobigny, in particolare con bambini disabili originari della Nuova Caledonia (popolazione dei canachi, aborigeni); Mouchenik espone il suo approccio transculturale sul piano riabilitativo con questi bambini e le loro famiglie. Vi sono anche i lavori interessanti di Chevrie-Muller e Narbona (2007) sui disturbi del linguaggio nei casi di bi-linguismo o di multi-linguismo e su come gestirli sia sul piano riabilitativo che educativo.
Comunque anche in questi casi, visto l’eterogeneità della realtà scolastica francese (in alcune zone si sperimentano da anni dei percorsi d’integrazione e in altre no) non abbiamo dei lavori sull’integrazione scolastica dei bambini figli di migranti con bisogni speciali. Per tutte queste ragioni ci sembra utile proporre un lavoro empirico d’indagine che coinvolga le scuole, gli insegnanti, gli operatori dei servizi, i bambini e le loro famiglie.

Osservare, capire, scoprire le risorse
Le finalità della ricerca sono quindi quelle di: 1) comprendere quali sono le rappresentazioni degli insegnanti curriculari e specializzati rispetto ai bambini figli di migranti con bisogni speciali; qual è la loro mappa mentale, con quali conoscenze e categorie funzionano dal punto di visto didattico e pedagogico; 2) analizzare le esperienze innovative di accompagnamento pedagogico nelle scuole per favorire l’inclusione; 3) comprendere come si vivono questi bambini e come li vivono gli altri nelle classi attraverso dei momenti di osservazione partecipata in alcune classi durante le attività didattiche e i laboratori; 4) capire in che misura i bambini immigrati con bisogni speciali possano essere una risorsa per la classe, per il lavoro dei docenti e per il contesto scuola in generale; 5) capire come la presenza di questi bambini possa produrre innovazione sul piano formativo per il personale docente; 6) comprendere come alcune delle risorse esistenti (mediatori, insegnanti specializzati, educatori, ausili) possano essere utilizzati anche per bambini immigrati che presentano grosse difficoltà nel proprio percorso di studio; 7) individuare alcune buone prassi pedagogiche nella scuola per rispondere alle nuove sfide culturali di una comunità scolastica che sappia includere. Per individuare il campione della popolazione scolastica e le scuole si sono incrociati diversi dati: il numero di bambine e bambini figlie e figli di migranti e i bambini figli di migranti certificati. Nel rapporto sia con le ASL che con l’Ufficio scolastico provinciale si è ragionato anche sul fatto che vi sono bambini che risultano italiani ma sono di genitori di origine non italiana (hanno acquisito la cittadinanza successivamente all’arrivo in Italia) e vi sono bambini che hanno un cognome italiano ma una madre di un’altra origine culturale. Si è quindi preso in considerazione queste diverse variabili; inoltre nel rapporto con il servizio di Neuropsichiatria infantile è emerso che vi sono numerosi casi di bambini figli di migranti in carico presso i servizi, non certificati, ma con disturbi dell’apprendimento e disturbi specifici dell’apprendimento. Su questa popolazione spesso poco visibile a livello scolastico si è ragionato pensando nello specifico agli alunni figli di migranti: uno dei nodi critici è quello legato alla lingua; alle difficoltà collegate all’apprendimento di quest’ultima. La domanda è anche: capire se si ha a che fare con delle semplici difficoltà dovute all’apprendimento di un’altra lingua in un contesto culturale nuovo oppure se dietro vi sono anche dei disturbi specifici dell’apprendimento. Nel progetto di ricerca è prevista una parte di osservazione pedagogica con diverse classi per comprendere come possono essere superate le difficoltà che incontrano i bambini figli di migranti e in che misura la loro presenza possa costituire una chance per la scuola italiana: infatti questa presenza potrebbe mobilitare alcune delle risorse e competenze che sono già presenti al suo interno, visto i trenta anni di esperienza nell’ambito dell’integrazione scolastica. Tra i diversi aspetti della ricerca che si vogliono rilevare vi è anche la possibilità della risorsa alunno-disabile italiano nella relazione con l’alunno o l’alunna figlio o figlia di migranti con bisogni speciali; l’uso dell’approccio educativo cooperativo basato sull’aiuto reciproco nella gestione del processo di apprendimento o anche del tutoring in classe e nella scuola.

Le fasi della ricerca
La ricerca si sta articolando in due fasi. La fase uno consiste nella somministrazione di un questionario a tutti gli insegnanti curriculari e specializzati su competenze, conoscenze, rappresentazioni (rispetto alla disabilità e all’immigrazione), esperienze didattiche e pedagogiche, rete e rapporti con le famiglie. Prevede anche interviste qualitative con gli insegnanti curriculari coordinatori delle classi e gli insegnanti specializzati (o di sostegno): le interviste portano sui vissuti degli insegnanti, sulla loro esperienza nella relazione didattica ed educativa con gli alunni figli di migranti con bisogni speciali, sul transfert e contro-transfert pedagogico. Sono previsti anche dei colloqui con le famiglie di questi alunni: il nodo famiglia appare come una delle grosse criticità attuali. Interessa sapere come queste famiglie che provengono dalla Romania, la Cina o il Marocco vedono la scuola, i rapporti con l’insegnante di sostegno o specializzato, come vivono la disabilità o i disturbi dei propri figli, ma anche come vivono i rapporti con i servizi del territorio. Uno degli indicatori qualificanti di progetti educativi per l’integrazione è sicuramente la collaborazione che si viene a creare tra scuola, famiglie e servizi. È quindi importante comprendere qual è il punto di vista delle famiglie e come coinvolgerle nella gestione del progetto educativo accogliendo il loro contributo come una risorsa. Parallelamente a questo lavoro d’indagine sulle rappresentazioni e i vissuti degli insegnanti e delle famiglie la nostra ricerca sta predisponendo la costruzione di vere Monografie di bambini integrando il punto di vista degli insegnanti, della famiglia, degli operatori dei servizi e dei bambini stessi. Per questi ultimi si stanno attivando momenti di osservazione di alcune attività didattiche nelle classi dove sono inseriti gli alunni figli di migranti individuati come campione della ricerca: questo lavoro di osservazione va a integrare le informazioni raccolte dalle interviste, i colloqui e la documentazione fornita dalla diagnosi funzionale, il profilo dinamico funzionale e il piano educativo individualizzato. Le Monografie servono a cogliere quali attività svolgono i bambini nella classe, con quali mediazioni, in che misura si crea una rete cooperativa all’interno del gruppo classe, come funziona l’aiuto-reciproco tra pari, quale collaborazione effettiva vi è tra l’insegnante curriculare e l’insegnante specializzato o di sostegno, se intervengono altre figure professionali per favorire i processi comunicativi in classe ed educare tutti ad accogliere le differenze (mediatori culturali, educatori specializzati, operatori socio-sanitari o operatori della riabilitazione).
La fase due è quella sperimentale che vuole indagare le modalità dell’inserimento e di apprendimento nei gruppi classe e nelle classi mediante un lavoro di osservazione diretta attraverso delle attività strutturate. Questa fase prevede la sperimentazione di attività e di laboratori che sappiano utilizzare i giochi educativi, organizzare spazi, laboratori didattici per comprendere come funzionano i processi di apprendimento e quali strategie operative possono favorire il superamento delle difficoltà e l’eliminazione delle barriere. Si parte dalla constatazione emersa in numerosi incontri con gli insegnanti che vi è una questione aperta legata all’apprendimento della lingua italiana che, nel caso dell’alunno figlio di migrante, non è solo l’apprendimento di una seconda e talvolta di una terza lingua. Ma costituisce una esperienza del processo di definizione transculturale del proprio sé nel passaggio dalla terra di origine all’Italia oppure nella gestione della propria costruzione meticcia, in quanto si trova a cavallo su almeno due universi linguistico-culturale: la famiglia di origine e la scuola. Si pensa di costruire con gli insegnanti le condizioni per la realizzazione di attività educative e didattiche che possono permetterci di comprendere quali differenze esistono tra un gruppo sperimentale che comprende un numero significativo di alunni e alunne figli e figlie di migranti; di alunni e alunne con disabilità e difficoltà di apprendimento e un gruppo di controllo composto essenzialmente da alunne e alunni italiani e dove non riscontrano grosse difficoltà. Verranno scelte due classi nella scuola primaria e due nella scuola secondaria di primo grado; sia al gruppo sperimentale che a quello di controllo verranno somministrati test simili e verranno proposte le medesime attività. Si tratta di comprendere quali strategie mettono in atto i bambini con difficoltà e bisogni speciali per apprendere, e quali pratiche didattiche e approcci pedagogici usano gli insegnanti per facilitare gli apprendimenti e favorire l’inclusione. Interessa comprendere come funzionano le varie tecniche di mediazione pedagogica e culturale nella costruzione di processi comunicativi facilitanti per la socializzazione, l’incontro e l’apprendimento: qui si colloca anche il discorso legato alle modalità dell’accoglienza a scuola, nelle classi e la sua organizzazione tecnica e pedagogica. L’insieme del lavoro verrà restituito al mondo della scuola e degli operatori dei servizi coinvolti in questa ricerca.

Riferimenti bibliografici
C. Chevrie-Muller, J. Narbona (2007): Le langage de l’enfant (aspect normaux et pathologiques), Paris, Masson
K. Folgheraiter e P.E. Tressoldi (2003): Apprendimento scolastico degli alunni stranieri: quali fattori lo favoriscono?, in “Psicologia dell’educazione e della formazione”, n. 3, pp. 365-387
M.R. Moro (2005): Bambini di qui venuti da altrove. Saggio di transcultura, Milano, FrancoAngeli
M.R. Moro (2002): Genitori in esilio. Psicopatologia e migrazioni, Milano, Raffaello Cortina
M.R. Moro (2008): Manuel de psychiatrie transculturelle, Paris, Actes Sud
Y. Mouchenik (2008): L’enfant vulnérable (psychothérapie transculturelle au pays kanak), Paris, La pensée sauvage
M. Murineddu, V. Duca, C. Cornoldi (2006): Difficoltà di apprendimento scolastico degli studenti stranieri, in “Difficoltà di apprendimento”, n. 12, pp. 49-70
M.C. Nussbaum (2007): Frontiers of Justice: Disability, Nationality, Species Membership, Harvard, Belknap Press

7. “Non dà soddisfazione essere guardata come una cosa strana”

di Luca Baldassarre

Lemlem Ghebray è una donna eritrea che vive in Italia dal 1993. È emiplegica. Ha acquisito la sua disabilità nel 1982, a seguito di un ferimento in battaglia, durante la trentennale guerra di liberazione che ha interessato il suo Paese. La sua storia di vita in Italia fa emergere molti spunti interessanti, alcuni inaspettati, soprattutto in riferimento a servizi di prima accoglienza, corsi di formazione professionale e universitari, accesso a servizi sociali e sanitari e, in generale, alla capacità di generare sani rapporti interpersonali.

Dove sei nata?
Sono nata ad Asmara, in Eritrea. Mia madre era proprietaria di un negozio di alimentari; mio padre faceva l’autista di camion. Tutti e due erano grandi lavoratori. A noi figli (eravamo 9) hanno trasmesso molta pace. Mia mamma era molto brava anche ad amministrare il denaro. È anche grazie a questo che tutti noi figli siamo riusciti a studiare in una scuola privata; anche perché loro erano convinti che questa scuola, evangelica, fosse la migliore. L’ho frequentata fino alle medie, insieme ai miei fratelli. Poi ho voluto a tutti i costi cambiare, e sono riuscita a convincere i miei genitori a trasferirmi in quella governativa. Lì sono andata per due anni, fino a quando sono scappata da casa per andare al fronte a combattere la guerra di liberazione del mio Paese.

Sei diventata disabile durante la guerra?
Sì. Mi sono arruolata nel Fronte Popolare per la Liberazione dell’Eritrea, fin dal 1974. Sono stata nelle forze armate ma non ho solo combattuto. Ho insegnato ai miei commilitoni; sono stata maestra per i bambini, ho insegnato storia ai prigionieri di guerra e, dopo il ferimento, ho lavorato anche come bibliotecaria fino alla grande giornata di liberazione, nel 1991. Nel 1982, durante un’offensiva, sono stata colpita alla parte sinistra del cervello: ho avuto un’emiplegia e perso l’uso della parola. Così sono diventata disabile. Mi sono curata nel mio Paese: sono stata 5 mesi all’ospedale. I medici dopo molti controlli per verificare le mie condizioni, mi dissero: “Se vuoi affrontare la vita, vai! Il nostro lavoro è finito”. Dopo la liberazione, nel 1991, in due anni ho terminato il mio percorso di studi di scuola superiore. Poi ho partecipato al referendum che ci ha permesso di chiudere con l’Etiopia per sempre. Poi volevo vedere il mondo. Quello che c’era fuori. Allora sono partita per la Svizzera.

Quando sei arrivata in Italia?
Sono arrivata in Italia, a Parma, l’8 novembre del 1993. Nei primi mesi sono stata da alcune mie cugine; in seguito, l’associazione “Pozzo di Sicar”, che fornisce ospitalità a donne straniere, mi ha dato un alloggio per sei mesi e vita. Poi sono andata dal Vescovo di Parma [attuale Vescovo di Modena, Ndr] che mi ha aiutato a trovare una stanza a Ferrara, vicino all’ospedale San Giorgio, dove ancora oggi faccio riabilitazione.

Tu sei una cittadina straniera che ha una disabilità. Ritieni che questa tua duplice condizione ti abbia condizionato in qualche modo, da quando vivi in Italia?
Devi sapere questo: per me è sempre stato importante creare legami con le persone. Credo nell’amicizia e negli affetti. Il mio cuore è sempre stato grande e al fronte ho imparato moltissimo: lì si divideva tutto. Tutto era di tutti. Eravamo tutti fratelli e sorelle. La cultura che ho respirato era molto diversificata perché era portata dalle zone di tutto il Paese. Quando sono arrivata in Italia ho dovuto confrontarmi con un modo di fare e pensare che spesso non capivo. Ancora adesso faccio fatica quando chiedo informazioni e le persone non mi guardano in faccia. Io dico sempre: “Scusi, perché non mi guardi?”. Così come non mi piace quando le persone mi scrutano, con lo sguardo pieno di compatimento. Quante persone leggono, sanno di attualità, si informano, come faccio io? A tutti quelli che mi guardano con questi occhi io dico: “Guardate a voi stessi con compassione! Maledizione!”. Faccio le mie cose con orgoglio e serenità; non voglio essere giudicata. Pensa che non mi sono mai sentita giudicata perché sono nera ma solo perché sono disabile. Per andare a camminare sulle mura di Ferrara mi alzo alle quattro del mattino, e torno a casa prima delle sei, così non vedo nessuno. Non dà soddisfazione essere guardata come una cosa strana! All’inizio di quest’anno mi sono anche riproposta di smettere di usare il triciclo con il quale giro la città. Così vado in autobus e la gente mi osserva meno. Io cerco di vestirmi sempre bene e di curare la mia persona. Ho notato che per questo mio modo di fare molte persone mi percepiscono non come disabile ma come una disabile che cerca di essere abile. Molti autisti non aspettano che mi sieda. Partono senza attendere. E io tutte le volte rischio di ribaltarmi [ride di gusto, Ndr]. A casa mia, in Eritrea, nessuno ti guarda. Chiacchierano con te senza giudicarti. Per fortuna ho tanti amici italiani che sanno farsi volere bene e farti sentire benvoluta.

Tu conosci i servizi che esistono in Italia per le persone disabili?
Alcuni sì. Ho potuto avere posti dove stare, i buoni taxi e il triciclo per spostarmi, il riconoscimento dell’invalidità; ho provato anche a studiare all’Università di Bologna.
Io leggo tantissimo e, quando sono a casa, ascolto moltissimo la radio e mi informo. Così imparo a conoscere le cose. In generale, non ho fiducia. Per la mia disabilità non pretendo di vivere nell’oro. Tu sai che dal 1869 fino alla Seconda Guerra Mondiale gli italiani sono stati colonizzatori del mio Paese. Credo di avere diritto a tutto quello che i miei genitori, i miei nonni, i miei bisnonni hanno pagato, non con i soldi ma col sudore della fronte, con la fatica e soprattutto col sangue. Ho tutto il diritto di vivere tranquillamente.

Dicevi degli studi all’Università di Bologna…
Siccome ho frequentato per un anno “La città del Ragazzo”, che mi ha dato la possibilità di studiare per imparare meglio l’uso del computer, da lì ho provato a capire se potevo iscrivermi alla Facoltà di Psicologia. All’interno dell’Università ho trovato un servizio che mi ha aiutato molto, il Servizio Studenti Disabili, però alla fine non sono riuscita ad avere il riconoscimento del titolo conseguito in Eritrea. C’era il trucco! Mancava un anno.

Tu pensi che qualunque migrante con una disabilità incontra le stesse difficoltà che hai incontrato tu?
Voglio dirti una cosa: quando uno parte dal proprio Paese per emigrare non lo fa per cambiare aria ma perché cerca di andare a stare meglio. Che Paese è un Paese che non sa fare stare bene i suoi cittadini disabili?
Grosso modo grazie alle mie amicizie, io non ho tante difficoltà. Molte persone sono state e sono importanti per la mia vita qui: dal Primario dell’Ospedale San Giorgio di Ferrara fino alle donne dell’UDI [Unione Donne Italiane, Ndr].
Fino al 2004 non avevo intenzione di rimanere in Italia perché avevo un progetto per aiutare le bambine disabili in Eritrea. Nel 2000, con alcuni amici, abbiamo creato un’associazione con questo scopo che purtroppo, proprio l’anno scorso, ha chiuso per mancanza di fondi.
Sai che io sono Protestante e spesso mi dico: “Dio, perché mi hai dato la forza di uscire dall’Eritrea? Adesso devi darmi la forza di andare avanti. In qualsiasi maniera”. E poi i miei mi hanno chiamato Lemlem. Sai che vuol dire? Verde. Segno di speranza.