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Autore: admin

Arriba Arriba!

Di Luca Baldassarre

Due anni fa, all’incirca in questo periodo, ero in Canada; più precisamente ad Aurora, nell’Ontario. Ero a casa di mio zio, uno dei fratelli di mia madre. Ospite per qualche giorno. Ricordo un pomeriggio che si chiacchierava allegramente del più e del meno: la famiglia, l’Italia, i fagiolini che a lui crescono bene solo se li mette esposti a nord ovest… Insomma, cose così. Mi mostrava orgoglioso il suo prato all’inglese e i suoi fiori, che danno a quella casa l’iconografia classica della casetta in canadà (con l’accento sulla a, proprio quella della canzoncina per bambini) e mi raccontava, raccontava. È un chiacchierone mio zio. Ma è proprio simpatico ed è davvero una brava persona, un pezzo di pane, dell’Italia meridionale, cioè buono. Lui è emigrato dall’Italia una cifra di anni fa che non ha più senso nemmeno contare ma, come capita spesso, ha conservato in toto l’italiano che c’è in lui. Con questa affermazione ho in mente una cosa precisa ma non so trascriverne il significato. Ha fatto tanti lavori mio zio e ha visto molti posti. E ha incontrato tanta gente; di tutti i tipi. Per me sentire qualcuno che racconta dei luoghi che ha visitato e delle persone che ha incontrato ha sempre avuto un fascino assolutamente fuori scala. Mi piace verificare le distanze tra le mie percezioni e il mio modo di vedere le cose e il mondo degli altri, soprattutto di coloro che imparo a conoscere attraverso i loro vissuti. Trovo clamoroso di non notare qualcosa che per altri “è” quel viaggio, giustifica da solo la ragione per cui si è deciso di intraprenderlo, ne sintetizza le peculiarità; come vale il contrario: spesso mi scopro a pensare “Ma come?! L’ho vista solo io ‘sta cosa qui’?”. So che è normale e che capita a tutti però non ho ancora imparato a capacitarmene. Tutto lì. Insomma, mio zio è lì intento a farmi una dettagliata descrizione del colloquio per il suo primo possibile impiego importante presso l’azienda telefonica canadese e mi accorgo che io sto pensando a un particolare che mi aveva colpito in un discorso fatto il giorno prima; ci rimugino parecchio ma non mi riaffiora niente fintanto che si richiama al palato il sapore della torta alla mele e cannella di zia Denise. “Diamine, ecco!”, esclamo. Al che mio zio mi guarda un po’ stranito, “No zio,… è che pensavo a una cosa!”. Il giorno prima, Donald, uno dei tre figli degli zii, mi aveva raccontato di un suo recente viaggio nel Chiapas messicano, in compagnia di uno “scoppiatone” amico suo (nota bene: mio cugino non spiccica una solo parola d’italiano e la traduzione è mia, perciò non è detto che intendesse dire letteralmente così ma sono relativamente sicuro che intendesse passarmi questo contenuto). Avevano girato un po’ il nord del Messico spingendosi a sud della capitale, spingendosi appunto fino al Chiapas. Erano rimasti a lungo a San Juan Chamula, un paesino vicino alla più nota San Cristobal de Las Casas. Già mi era scattato l’interesse, visto che lì c’ero stato qualche anno prima e proprio quel paesino aveva attirato la mia attenzione. Ricordo benissimo che prima del mio viaggio in Messico avevo riletto un saggio di antropologia sulla conquista dell’America, scritto da Tzvetan Todorov.
Dalla lettura rimasi un po’ deluso, e non certo per il libro che è bellissimo, perché l’approccio dei primi scopritori, tra i quali Cristoforo Colombo, non si può definire esattamente “relazionale”. Per brevità si può affermare che l’idea di viaggiare per conoscere posti, persone e culture diverse, ha preso piede un po’ dopo, sfortunamente per gli aztechi. Però, guarda caso, Donald e il suo amico Mark, erano viaggiatori moderni. Partiti per vivere un’esperienza piena, totalmente alla mercé dei posti, del caffè negro, della birra e, diciamo, dei rapporti interpersonali con le autoctone. Tralascio qualche commento per ragioni di spazio sulle velleità di Mark, descritto da Donald come una specie di Che Guevara a scoppio ritardato, nel senso che voleva liberare il Chiapas. Non ho mai capito da chi. Sottolineo quanto fu incredibile ascoltare il suo racconto. Mio cugino è un ragazzone alto circa 1 metro e 90 per una larghezza direi… analoga e un peso sui 120 kg. Ascoltandolo gliene avrei dati al massimo una sessantina. Mi ritrovai nelle sue descrizioni di quella terra e di quel popolo, nel modo di vivere e di accogliere le persone. In più, pensai che pur non parlando né l’italiano né lo spagnolo era riuscito a cogliere una vastissima gamma di sfumature. Mi riportò gli strani sincretismi religiosi con lo stesso stupore con cui anch’io li avevo osservati; rimase colpito dalla fierezza e dall’orgoglio del popolo messicano, forse in quella regione ancora più presente che in altre zone del Paese. Insomma ogni pezzo del racconto faceva da contrappunto a quanto io avevo vissuto lì qualche tempo prima. Ammetto che non ci potevo credere. E forse non poteva farlo nemmeno il mio amor proprio, che quasi se ne ebbe a male nel constatare di non essere così originale. La riflessione sul viaggiatore moderno è meno scontata e ovvia di quanto si possa immaginare. Anche se in fondo, chi ha voglia di mettersi a confrontarsi con altre culture quando è in vacanza?

Recitare se stessi, senza recitarsi

Di Luca Giommi

“Castello Servizi” (Società Cooperativa Sociale ONLUS) produce corti cinematografici da dieci anni ormai e, nel 2006, per la terza volta si è aggiudicato il 1° premio al “Festival del Cinema Nuovo” di Gorgonzola (MI), concorso internazionale di cortometraggi che prevedano la partecipazione di disabili di comunità, centri diurni o residenziali e associazioni.
Proprio per la sua decennale pratica cinematografica, ci è sembrato interessante approfondire alcune questioni con il regista, Natalino Maggioni, che ha curato la realizzazione dei cinque lavori prodotti fino a ora. Ci sarebbe piaciuto raccogliere anche le risposte di alcune persone disabili della Coop. Castello che in questi anni hanno preso parte alla realizzazione dei film, ma per ragioni di spazio e tempo non è stato possibile.
Quello della Coop. Castello è un’esperienza tra tante, con caratteristiche proprie che non possono essere generalizzate e applicate ad altre. In generale, però, il mezzo-cinema viene sempre più utilizzato per scopi terapeutici o per creare la possibilità, per le persone disabili, di vivere esperienze impegnative, gratificanti e coinvolgenti.

Come è nata l’idea di impegnare la cooperativa e le persone che vi lavorano (disabili e normodotate) in attività cinematografiche? È un’iniziativa mutuata da altre esperienze italiane ed estere di cui siete venuti a conoscenza? È un’idea nata dagli stessi disabili?
L’idea di produrre dei film è nata insieme al “Festival del Cinema Nuovo” di Gorgonzola, al quale ci propose di partecipare il fondatore stesso, il dott. Romeo Della Bella. La prima edizione del festival e, quindi, il nostro primo lavoro, è del 1997. Il festival, al tempo, era ancora di livello regionale, adesso è un festival internazionale. La proposta del dott. Della Bella è stata accolta dagli educatori della cooperativa, e successivamente avanzata ai ragazzi disabili. Prima del 1997 avevamo utilizzato la telecamera per documentare alcune uscite residenziali o sul territorio in modo scherzoso e divertito. In realtà non erano semplici documentari, perché già inserivamo elementi di fiction.

Il visivo, le immagini, nel momento in cui vengono fruite, quindi da spettatori, hanno spesso un potere, una forza (evocativa, emotiva, sensoriale…) enormi, un potere anche “terapeutico” innato. Ma partecipare alla realizzazione di un film è cosa diversa. L’idea di realizzarne con persone disabili risponde a esigenze e scopi terapeutici? Se sì, in che senso questa attività può essere terapeutica? E a che livello la terapia funziona meglio: al livello dell’attività recitativa, a quello della partecipazione alla stesura della storia, della sceneggiatura o ad altri livelli ancora?
L’attività del nostro centro non è di terapia diretta. L’approccio alla disabilità è di tipo psicologico più che pedagogico; ovviamente, c’è il rispetto dell’età cronologica delle persone con disabilità. Quindi, il lavoro cinematografico non è stato pensato come attività terapeutica, ma come attività volta al benessere generale, che dia la possibilità alle persone disabili di esprimersi con la recitazione e di impegnarsi insieme per un progetto. Un’attività che sia gratificante: il piacere di (ri)vedersi sul grande schermo, l’opportunità di presentare il film all’esterno e di ricevere degli applausi. Aspetti tutt’altro che secondari, a nostro avviso.

Il film, il cinema, più di altre forme artistiche, è un prodotto culturale collettivo. La produzione di un film richiede tanti passaggi, la collaborazione di tante competenze e abilità, anche se l’avvento della tecnologia digitale può attenuare questa caratteristica del fare cinema. Le persone disabili prendono parte a tutti i livelli della creazione del film, o recitano solamente? E in che senso e in che proporzioni le loro diverse abilità aggiungono qualità e peculiarità al lavoro? O, meglio, cercate di evidenziare e far emergere in tutte le fasi della produzione la diversità, la molteplicità di queste abilità?
Le persone con disabilità che frequentano il nostro centro hanno deficit intellettivo grave o medio-grave, e non sarebbe semplice coinvolgerle in molti momenti della lavorazione del film. È comunque una scelta precisa quella di farli solamente recitare. Loro si esprimono nel ruolo e nell’attività di attori.
La sceneggiatura la penso io stesso.
Dal punto di vista tecnico, a volte per la post-produzione, i suoni, la colonna sonora e gli effetti speciali (utilizzati soprattutto in Ahia l’amore) ci rivolgiamo a collaboratori esterni. Nella cooperativa non c’è un laboratorio cinematografico, perché l’attività di produzione dei cortometraggi non rientra tra le attività ordinarie del centro. Noi lavoriamo sul film, e con l’attività cinematografica in generale, solo nel periodo necessario alla sua realizzazione.

Come si distribuiscono i ruoli, le parti nel film? Se non sbaglio, qualche attore torna più spesso in ruoli da “protagonista”. Che peso date alle capacità strettamente recitative nella distribuzione delle parti? Vi chiedo questo pur avendo notato che i vostri lavori sono molto corali.
Come dicevo, i soggetti dei cortometraggi sono pensati e studiati da me, e quando immagino i personaggi e le loro caratteristiche penso sempre alle caratteristiche e alle capacità dei ragazzi disabili che dovranno interpretarli. I soggetti, quindi, sono disegnati su di loro. Mi chiedo sempre come si avvicini un determinato ruolo nel film al loro “essere” nella vita di tutti i giorni. Molti li conosco ormai da tanti anni.
Ovviamente tengo presenti anche le loro capacità strettamente recitative, attoriali.
Dopo la stesura del soggetto, della sceneggiatura, c’è una riunione plenaria, alla quale partecipano educatori e ragazzi disabili. È l’occasione in cui io racconto il progetto e distribuisco i ruoli. È una situazione “animativa”, perché racconto il film quasi recitandolo.
Non facciamo delle vere e proprie prove prima della registrazione. Preferiamo lavorare direttamente sulla location, il giorno stesso in cui avvengono le riprese. La versatilità della macchina da presa mi consente di “non chiedere troppo” agli attori. La macchina da presa si può muovere, si può ripetere la scena, riprenderla da diverse angolazioni e con diversi accorgimenti tecnici, selezionare le scene migliori, lavorare molto in fase di montaggio.
Con il teatro, che abbiamo praticato precedentemente in cooperativa, tutto questo non si può fare. Aggiungo che il cinema, in un certo senso, esalta le capacità recitative di un attore.

Ho notato, ma potrei sbagliarmi, che la disabilità nei vostri lavori non è trattata come tema, cioè le storie tendono a non tematizzare questo argomento So che esistono tanti modi per parlare di diversità (la fantascienza spesso dice cose molto profonde e interessanti su questo, apparentemente parlando d’altro…), ma non mi sembra di riscontrarlo nei vostri film. È una mancanza che sentite come tale? È una mancanza che cercherete di soddisfare in futuro? È una precisa scelta stilistica e concettuale?
I nostri cortometraggi sono tutti comici, e l’obiettivo è che sia ogni singola scena e, quindi, il film nel suo complesso a divertire e muovere alla risata, e non le persone che recitano. Noi non vogliamo che siano le caratteristiche “intrinseche” alle persone disabili a far ridere, quasi a “costringere” a ridere. Piuttosto è creare film che risulterebbero umoristici anche se recitati da normodotati.
A contrario di tanti film che parlano di disabilità e diversità, alcuni dei quali molto noti e nei quali spesso è un normodotato che interpreta la parte di un disabile, il “Festival del Cinema Nuovo” richiede che le persone disabili facciano gli attori, facciano fiction, in prima persona, non raccontando temi e “problemi” legati alla disabilità, ma esprimendo tutte le loro capacità, comprese quelle recitative.

Volendo correggere la domanda precedente, forse emerge una costante nella visione che i vostri lavori offrono della persona con disabilità: cioè che sono persone che, come tutte le altre, desiderano, sono soggetti desideranti. Desiderano filmare (fare arte) e stupirsi (L’oggetto misterioso), desiderano scoprire (L’ultimo caso del Commissario Marsel), desiderano amare (Ahia l’amore), ecc. Questi temi, della scoperta, dell’arte, del sentimento… sono da voi pensati come correlati e riferiti all’“universo” della disabilità o, quando pensate a una storia, la pensate in termini più svincolati e generali?
Essendo una nostra volontà precisa quella di non voler tematizzare la disabilità, l’approccio alla creazione di film è ludico e vuole privilegiare il piacere di creare una storia di finzione, di fare questa cosa insieme, di realizzare qualcosa seriamente ma divertendosi. Per questo motivo non cerchiamo particolari risvolti o sottintesi allegorici a livello di contenuto e senso del film.

Partecipate anche ad altri festival cinematografici, ad esempio il festival “Cinemabili” di Genova o il “Les Pom’s d’Or” in Belgio? Se sì, ci sono differenze tra questi festival per quanto riguarda i contenuti e la qualità dei lavori richiesti?
Il festival “Cinemabili” ci ha sempre “snobbato”, forse perché non usiamo la pellicola. Abbiamo anche provato a spedire i nostri lavori a “Filmmaker” [festival di cinema non-fiction di Milano, N. d. R.].
Abbiamo partecipato, oltre che al “Festival del Cinema Nuovo”, a rassegne nate a cascata dal festival di Gorgonzola, come “Hollywood” di Brescia e “Rose e gorgonzola” di Rovigo. Ma sono rassegne, non concorsi cinematografici.

Per saperne di più
I titoli: L’oggetto misterioso (1997); Un matrimoGNo da soGNo (2000); L’ultimo caso del Commissario Marsel (2002); Rosso di rosa (2004); Ahia l’amore (2006).
Castello Servizi – Società Cooperativa Sociale Onlus
Via Carcassola 4
20056 Trezzo sull’Adda (MI)
Tel: 02/909.06.64 – 02/92.09.12.71
E-mail: coopcastello@libero.it
Sito: www.coopsocialecastello.it

 

Progetto di vita – Le disabilità cognitive: intenzionalità e progetto di vita

Di Anna Gervesi, insegnante di sostegno nella scuola primaria

La lettura riveste un ruolo primario fra i vari insegnamenti disciplinari; lo scopo è quello di consentire al bambino di interpretare la realtà e di poterla leggere con “la propria lente di ingrandimento”. Durante i primi due anni di scuola primaria, il bambino acquisisce la capacità di codifica e le regole di conversione fonema-grafema. In questo lungo percorso la maggior parte di essi diventa padrone della strumentalità della letto-scrittura, altri faticano, non riescono, confondono facilmente le lettere orientate diversamente nello spazio, commettono errori evidenti nella scrittura di parole che contengono suoni simili: la lettura appare deficitaria e stentata e gli scritti contengono numerosi errori. I fallimenti che si perpetrano a lungo finiscono per svilire tutte le forze del bambino, innescando un meccanismo di avversione e demotivazione per la lettura e col tempo anche per la scuola. La non automatizzazione del processo di lettura si ripercuoterà negativamente nella sfera degli altri apprendimenti impedendo così al bambino di imparare. Diventa ancora più grave adattarsi, visto che la trasmissione di informazioni e notizie si esplica essenzialmente nei codici scritti. La scuola, quale agenzia educativa e di socializzazione, è chiamata a costruire percorsi individualizzati e personalizzati che permettano a ciascuno di rafforzare la propria identità e di costruire percorsi autonomi, realizzando e perseguendo il proprio percorso di vita, rispettando le proprie inclinazioni e le passioni che muovono il nostro agire quotidiano. Il poter pensare a un progetto di vita e a mettere in moto le idee e le azioni presuppone una riflessione sulle condizioni sociali e culturali che permettano a ciascuno di avanzare ipotesi più o meno operative, circa la fattibilità del proprio percorso di crescita. Un progetto di vita nasce dal connubio di sentimenti, aspettative e di prospettive possibili. Ma le singole prospettive possono intravedersi nell’immaginario di un soggetto con DSA (Disturbo Specifico d’Apprendimento) o portatore di una disabilità, solamente se vengono a crearsi dei raccordi fra le varie agenzie educative e di socializzazione e, non ultimo, le normative che tutelano i soggetti in difficoltà. “Costruire […] un sistema formativo integrato di scuola-formazione-lavoro, in cui venga superata la centralità solitaria della scuola, per sostituirla con la valorizzazione dell’apprendimento in tutti i contesti e lungo l’intero arco della vita, è una sfida doverosa, urgente, prioritaria” .
Educare vuol dire anche costruire contesti adeguati di apprendimento in cui ognuno diventi attore delle proprie idee e scelte e venga valorizzato e accolto nella sua intrinseca diversità, irripetibilità e non emarginato perché portatore di un problema o disabilità. Il primo passo che consenta agli educatori di costruire contesti di apprendimento esperibili è una diagnosi tempestiva che dia il nome a una costellazione eterogenea di disturbi. I servizi Socio Sanitari e la scuola aiuteranno così il bambino a riflettere sui punti deboli e di forza, operando una analisi metacognitiva che consenta successivamente di attuare un percorso abilitativo, idoneo alle tipologie di errori presenti. Per ottenere una collaborazione più incisiva tra scuola e servizi, l’Associazione Italiana Dislessia, in questi ultimi anni, ha avviato una campagna di sensibilizzazione, affinché a livello normativo, venissero tutelati tutti i bambini con DSA, attraverso misure preventive. Con la circolare del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca del 05/10/04, sono state emanate iniziative per tutelare i bambini con Dislessia e permettere loro di costruire un percorso di crescita autonomo, senza contraccolpi che leniscano la propria dignità. La normativa prevede, infatti, l’utilizzo di strumenti compensativi e dispensativi; gli strumenti compensativi costituiscono l’insieme di dispositivi elettronici e non che consentono al bambino di poter usufruire di informazioni e conoscenze evitando sforzi eccessivi nella lettura. Tra gli strumenti Compensativi, il MIUR indica:
• Tabella dei mesi, tabella dell’alfabeto, e dei vari caratteri.
• Tavola pitagorica.
• Tabella delle misure, tabella delle formule geometriche.
• Calcolatrice.
• Registratore.
• Computer con programmi di video-scrittura con correttore ortografico e sintesi vocale.

Per strumenti Dispensativi intendiamo l’insieme di regole e norme che permettono al bambino con DSA di poter usufruire di tempi più lunghi, per svolgere un compito o per eseguire una verifica finale.
Tra gli strumenti Dispensativi il MIUR indica:
• Dispensa dalla lettura ad alta voce, scrittura veloce sotto dettatura, uso del vocabolario, studio mnemonico delle tabelline.
• Dispensa, ove necessario, dallo studio della lingua straniera in forma scritta.
• Programmazione di tempi più lunghi per prove scritte e per lo studio a casa.
• Organizzazione di interrogazioni programmate.
• Valutazione delle prove scritte e orali con modalità che tengano conto del contenuto e non della forma.

Una diagnosi tempestiva che definisca l’entità del disturbo rappresenta indubbiamente una carta vincente per il successo formativo del bambino. L’individuazione precoce permette di attuare interventi logopedici e di poter usufruire degli strumenti Compensativi e Dispensativi. Tra le misure di trattamento ricordiamo l’uso del personal computer, ovvero l’impiego di programmi di videoscrittura, per consentire al bambino dislessico di ottenere un livello di correttezza ortografica simile a quella dei coetanei. Il correttore ortografico, inoltre, assume una valenza positiva a livello motivazionale, riattivando la percezione di autoefficacia e di competenza accompagnata dalla voglia di scoprire.

Dislessia: alcuni esempi operativi
La difficoltà più persistente che accompagna il percorso del bambino dislessico riguarda la capacità di effettuare l’analisi fonologica della parola. Affinché i bambini comprendano il meccanismo del principio alfabetico è indispensabile percepire la parola come un continuum di suoni. Per consapevolezza fonologica intendiamo la capacità di riconoscere i fonemi che compongono una parola e di individuarne il suono iniziale e finale. È proprio la consapevolezza fonemica che aiuta i bambini a leggere le parole e a scriverle correttamente. Con bambini con DSA è possibile avviare attività di segmentazione della parola per far acquisire la consapevolezza che la lingua è costituita da un insieme di suoni che si susseguono e che danno vita alla parola.
• Per facilitare l’acquisizione della segmentazione della parola si può creare un’immagine bersaglio che contiene un suono iniziale, accompagnato da altre immagini; il bambino dovrà riconoscere le immagini ed elencare quelle che contengono il fonema del bersaglio. Si può anche richiedere la trascrizione della parola, o attraverso lettere mobili, o costruite con il pongo. Gli esercizi possono proseguire richiedendo al bambino l’individuazione del fonema finale o centrale della parola. Per facilitare l’identificazione dei fonemi si possono per esempio battere le mani, proporre stimoli visivi (lettera-suono) o altro materiale sonoro.
• Le parole in rima sono quelle parole che finiscono con la stessa sillaba (pacco, tacco,…). Si possono proporre anche delle filastrocche, canzoni supportate anche da materiale audiovisivo.
• Costruzione di parole partendo dalle sillabe. Questi esercizi aiutano il bambino ad acquisire, il concetto di fusione fonemica, indispensabile per giungere a una lettura corretta della parola.
• Gli esercizi di analisi meta fonologica sono di fondamentale importanza per acquisire la corretta codifica di parole con digrammi, trigrammi o parole che presentano suoni simili. Da una parola iniziale, per esempio a(g)lio, si chiederà di individuare il fonema assente. Questo esercizio richiede al bambino un’attenta analisi fonologica della parola e la ricerca del suo significato.
• Altri esercizi per acquisire la consapevolezza meta fonologica riguardano:
– l’uso dell’ultima sillaba, per formare parole nuove (novembre-bretelle);
– togliere la sillaba finale da una parola e ripetere quella ottenuta (portone-porta);
– aggiungere una sillaba finale e ripetere la parola ottenuta.(mani-maniglia).
• La sintesi fono-sillabica propone liste di parole che non presentano una corretta sequenza fonema grafema; si chiederà dunque, di ricostruire la sequenza corretta.
• Infine si possono proporre esercizi semantico-lessicali, per ampliare il vocabolario del bambino. Si presentano liste di parole, e si chiede di individuarne i sinonimi.
In ambito educativo esistono molteplici esempi per aiutare i bambini con disabilità cognitive. Diagnosi tempestive, metodologie individualizzate e normative che tutelano i soggetti in difficoltà, non annullano i disturbi del soggetto, ma possono aiutarlo a costruire un percorso di crescita, un progetto di vita che valorizzi, e non mortifichi, le aspirazioni e attitudini.

Lavoro, identità di genere, disabilità: quando le donne si raccontano

Di Annalisa Bolognesi

Non è semplice parlare di lavoro oggi. O meglio, non è semplice farlo senza risultare ripetitivi e forse anche un po’ pessimisti. Allo stesso modo forse può apparire superfluo ribadire che le donne sono oggi una delle categorie più colpite da un mondo del lavoro sempre più caratterizzato da precarietà e frammentazione, e lo sono non solo per residui di stereotipi passati che vedono la donna come “l’angelo del focolare”, ma per veri e propri ostacoli pratici: come la difficoltà, per chi ha un lavoro atipico, di avere dei figli e restare a casa dal lavoro per lungo tempo non retribuita, oppure di conciliare ritmi lavorativi sempre più incalzanti con la necessità di occuparsi della casa e della famiglia.
Partendo da queste, o analoghe, riflessioni ho iniziato ad accostarmi al tema “donne disabili e lavoro”. Subito mi sono chiesta se in questo nuovo universo lavorativo, caotico e frammentato, le donne disabili avessero più difficoltà rispetto agli uomini con analoghe disabilità o rispetto alle altre donne.
Di primo acchito le mie risposte sono state negative. È certamente vero che le persone disabili sul lavoro possono incorrere in tantissime problematiche, dall’impossibilità di svolgere determinate mansioni, alla frequente inaccessibilità dei luoghi di lavoro e dei mezzi pubblici per recarvisi, alle obiezioni di superiori e colleghi nei confronti di chi, per esigenze fisiche, è costretto a usufruire di permessi o di periodi più frequenti e lunghi di malattia… Ma nessuna di queste difficoltà mi è sembrata peculiare delle donne disabili rispetto agli uomini disabili.
Ancor più paradossale mi è apparso il confronto con le donne senza disabilità. Siccome la legge 68/99 (“Norme per il diritto al lavoro dei disabili”), come molti sapranno, impone alle aziende di assumere con contratti a termine o a tempo indeterminato determinate quote di persone disabili (che varia in base al numero di dipendenti), le donne disabili mi sono sembrate meno vittime della sempre più diffusa precarietà che caratterizza il nostro mondo del lavoro, proprio perché, grazie alle vigenti normative, una volta trovato lavoro, riescono ad aver contratti più sicuri, che le tutelano maggiormente in situazioni di malattia o maternità.
Ma è veramente tutto così semplice come appare?
Per scoprirlo sarà necessario prendere in esame almeno parte dell’ancor oggi piuttosto scarso materiale disponibile.

I dati disponibili
Esaminando i dati puramente quantitativi risulta difficile, se non addirittura impossibile, condurre ricerche esaustive. Gli unici di cui possiamo disporre sono infatti quelli, peraltro non sempre divisi per genere, relativi agli avviamenti lavorativi effettuati tramite i Servizi Provinciali di Collocamento Mirato. Questi dati, oltre a essere piuttosto parziali (riguardano infatti solamente le persone che hanno trovato lavoro dopo essersi iscritte a questo servizio), non offrono ovviamente alcuna informazione relativa alla qualità dell’inserimento, alla tipologia di incarichi in cui vengono impiegate le donne e alle peculiarità del lavoro femminile rispetto a quello maschile.
Gli studi di tipo qualitativo, pur non fornendoci informazioni di tipo statistico, possono invece offrire maggiori spunti di riflessione. In questo senso appare certamente interessante la recente ricerca “Donne, disabilità e lavoro”, promossa dalla sezione bolognese della UILDM (Unione Italiana Distrofia Muscolare) e dall’Ufficio Consigliere di Parità della Provincia di Bologna.
Lo studio, che ha visto protagoniste circa 50 donne con disabilità motoria, di diversa età, residenti nella provincia di Bologna, si è proposto di esplorare l’universo lavorativo delle donne disabili attraverso interviste approfondite, in cui le intervistate hanno avuto la possibilità di parlare di sé, delle proprie esperienze, delle soddisfazioni, delle difficoltà, della percezione della propria identità nel mondo del lavoro. Quello che è emerso non sono certamente dati esaustivi che ci consentano di spiegare con precisione le peculiari problematiche che una donna disabile riscontra sul lavoro, ma un universo variegato fatto di storie e di esperienze di vita, che pur avendo diversi punti di contatto, sono uniche e differenti, e che, proprio per la loro varietà, ci forniscono numerosi spunti di riflessione e chiavi di lettura per affrontare questo tema e, magari, fare da base a nuove ricerche future.

Quando le donne si raccontano…
Sicuramente, come appare dalla ricerca, un problema che frequentemente investe le donne disabili è quello che potremo definire della “conciliazione dei tempi”. Spesso le donne sono infatti costrette a enormi sforzi per conciliare i tempi di lavoro con i tempi per la cura della casa, della famiglia, dei figli, e anche, non meno importante, per la cura di sé. Chiaramente questo problema si fa ancora più forte per le donne disabili lavoratrici, che devono fare i conti, fra l’altro, con i limiti dovuti al proprio deficit, che può comportare alcune difficoltà pratiche nel prendersi cura dei figli e della casa, nonché la necessità di dedicare maggior tempo al riposo, a terapie e a cure mediche.
Ma non c’è solo questo. Accanto a questi ostacoli esistono una serie di problematiche derivanti dal ruolo che la donna ricopre nella nostra società e, conseguentemente, nel mondo del lavoro. Sì, certo, rispetto agli anni passati molte cose sono cambiate e sono sempre di più le donne che scelgono di lavorare, che fanno l’università, che fanno strada; ma ancora oggi esiste nel nostro Paese una enorme e documentata disparità di trattamento sul posto di lavoro, nella retribuzione, nella rappresentanza in tutte le cariche istituzionali, nei consigli direttivi, nei vertici di qualsiasi carriera, persino in quegli ambiti lavorativi costituiti in grande maggioranza da donne.
Per non parlare dei media e dei modelli sociali dominanti, che impongono ancor oggi un’immagine della donna – sia fuori che all’interno del campo lavorativo – basata sulla bellezza, il fascino, la forza; come afferma infatti una delle ragazze intervistate dalla UILDM descrivendo la propria esperienza nel mondo del lavoro: “Viviamo in un mondo dove l’apparire è importante, quindi se non sei bella, alta, bionda, occhi azzurri, e non hai i canoni degli stilisti di 48 chili, già non vali niente quando sei normale, figuriamoci se sei in carrozzina. Tu già fai fatica a trovare dirigenti, professioniste donne, figuriamoci se poi hanno qualche problema!”. Parole che con semplice efficacia mostrano pienamente come, nella nostra attuale struttura sociale, agiscano ancor oggi stereotipi e modelli, che possono investire, sul piano lavorativo e non solo, sia le donne che le persone disabili, colpendo doppiamente le donne con disabilità.
Appare quindi chiaro come tutto questo possa influire sulla vita lavorativa della donna disabile, forse non tanto in termini di assunzione e di ricerca del lavoro, ma per quanto riguarda la possibilità di fare carriera, di trovare un impiego che piaccia e che valorizzi esperienze e titoli di studio conseguiti. Come emerge dalla stessa ricerca, infatti, moltissime donne, pur avendo elevate conoscenze e competenze, sono state assunte da aziende solo per adempiere alle quote imposte dalla legge, senza che venissero riposte in loro grandi aspettative o che fossero messe in luce le loro capacità. “Ho notato la sorpresa quando ho fatto cose meglio di altri, quindi se c’è sorpresa vuol dire che all’inizio c’è bassa aspettativa”, sostiene infatti un’altra delle intervistate.
D’altra parte dal momento che il lavoro rappresenta, sia per le donne, che per le persone disabili, un’enorme fonte di empowerment, appare chiaro come per una donna disabile esso assuma una “doppia importanza”, e come sia quindi necessario per ognuna, non soltanto lavorare, ma anche avere un impiego che gratifichi e soddisfi.
Insomma, dopo queste riflessioni ci si potrebbe chiedere se esistano davvero delle concrete differenze tra uomini e donne disabili nell’ambito dell’inserimento lavorativo, oppure se piuttosto le donne disabili, in quanto donne e in quanto persone disabili, siano vittime di una doppia discriminazione che, investendo tutte le sfere della loro vita, colpisce anche quella del lavoro.
È una domanda aperta, che ancor oggi merita molte risposte, ricerche, pensieri.

Quando la disabilità non è annunciata

Di Valeria Alpi

La scorsa stagione cinematografica è stata contraddistinta da un film italiano che ha vissuto un grande successo di critica e di pubblico. Il film è La ragazza del lago, di Andrea Molaioli, liberamente tratto dal romanzo Lo sguardo di uno sconosciuto della scrittrice norvegese Karin Fossum. Esistendo già su “HP-Accaparlante” una rubrica di cinema, non si vuole, parlando di informazione sociale, descrivere il film in senso stretto. Merita attenzione, invece, il modo in cui, del film, si è parlato attraverso i mass media. Trattandosi di un film giallo, ovviamente gli articoli di giornale apparsi nei giorni successivi alle prime proiezioni, e anche le varie recensioni che ancora oggi si trovano su Internet nei maggiori siti dedicati al cinema, non potevano e non possono svelare completamente la trama. Prendiamo due articoli come esempi.
Roberto Nepoti, su “la Repubblica” del 14 settembre 2007, scriveva: “Un giallo che ha da dirci molto di più sui delitti della provincia italiana dei cento servizi televisivi sull’ennesimo, ‘inspiegabile’ delitto di paese. In una località di montagna, il corpo di una bella fanciulla è ritrovato ai bordi di un lago. I primi sospetti cadono sul fidanzato; ma per il commissario Sanzio, poliziotto taciturno e tormentato appena trasferito al Nord, le cose non sono così semplici. Soprattutto quando si apprende che la giovane aveva una neoplasia cerebrale e che un bimbo, affidato alla sua custodia, è morto in circostanze mai chiarite. Si intravedono ombre prestigiose dietro le immagini del film di Andrea Molaioli, già collaboratore di Nanni Moretti: quella di Friedrich Dürrenmatt, soprattutto per il soggetto; quella di Georges Simenon, per la rappresentazione della provincia e dei suoi sepolcri imbiancati. Però il merito de La ragazza del lago è di non imitare nessuno; personaggi e ambienti sono molto italiani, molto contemporanei nel loro egoismo, nell’indifferenza, nel potenziale di violenza verso i più deboli e indifesi. Così, i presunti mostri si rivelano innocenti, scambiandosi il ruolo con la parte perbene, agiata e rispettata, della comunità”.
Su “Il Messaggero” del 3 settembre 2007, Leonardo Jattarelli commentava: “Un caso misterioso, una scomparsa, poi il ritrovamento del cadavere di una ragazza sulla sponda di un lago in un piccolo paese del Friuli. Uno dei tanti gialli insanguinati ai quali la cronaca ci ha abituati e dei quali i media si nutrono ogni giorno, con voyeurismo spesso, con accanimento. In La ragazza del lago, film d’esordio di Andrea Molaioli applaudito in concorso alla Settimana della critica ieri alla Mostra del cinema, ciò che manca è invece proprio il contorno mediatico e la pellicola prende il sapore di certi racconti alla Simenon. ] Una storia con diversi sottinsiemi (quello su tutti del rapporto tra il commissario e una moglie in crisi) e che in qualche modo, come sottolinea Servillo, rappresenta una sfida personale: […] ‘Volevo restituire il disorientamento nei riguardi delle responsabilità familiari, il pudore di fronte a certi fatti tragici evitando lo show dei sentimenti cui siamo stati abituati dallo scandalismo mediatico. Uno dei pregi del film è proprio che evita di sbattere il mostro in prima pagina. Qui l’umanità vince su tutto’”.
Articoli tutto sommato simili, generici, e nello stesso tempo allettanti per andare a vedere il film. Un film presentato, lo ripetiamo, come film appartenente al genere giallo. Anche il tam tam che circolava in quei mesi tra i vari spettatori si soffermava solo sul fatto che si trattava di un giallo molto ben riuscito, con un ottimo cast.
Devo ammettere che non amo particolarmente il genere giallo, ma sono contenta di essere andata al cinema a vedere questo film con le aspettative di un film giallo. In questo modo tutto quello che ho visto è stata una sorpresa: non sarò certo io a svelare la trama se per caso qualcuno ancora il film non l’ha visto, ma la storia è costellata di personaggi disabili, che spesso non intervengono neppure nelle vicende dell’omicidio, e restano solo come contorno generico per caratterizzare i vari personaggi. C’è il pazzo del paese, c’è il padre del pazzo che è in carrozzina, c’è la moglie del commissario che ha una malattia degenerativa, c’è la vittima che ha una neoplasia che l’avrebbe portata all’invalidità, c’è lo stesso commissario che ha una dermatite atipica che gli procura vari handicap… E c’è una famiglia, che con assoluta sobrietà mostra quanto è difficile a volte convivere con la disabilità.
La disabilità è quindi trattata non in contesti dedicati alla disabilità, ma semplicemente come fattore che può esistere in alcune famiglie di un paese o di una città, senza che per questo la vicenda venga necessariamente a intrecciarsi con essa. Esemplare, tra tutte, la scena in cui il commissario chiede all’uomo in carrozzina se il furgone è il suo, e l’uomo risponde: “Certo! Non ha visto che è adattato con i comandi di guida al volante?”. Esemplare perché viene finalmente reso pubblico che anche la persona in carrozzina può guidare, e che esiste una patente speciale con degli adattamenti per chi ha qualche deficit, e che questi adattamenti non sono poi così introvabili o fuori dal mondo. Il tutto raccontato in maniera perfettamente normale, come se a qualsiasi altro “normodotato” in qualsiasi altro film giallo o film generico venisse chiesto: “È sua quella macchina?”.
Ma la cosa bella è che i mass media, nei vari mesi, non hanno mai descritto quanta disabilità ci fosse nel film. L’essere inserito nel genere giallo ha preservato il film da tutto il pietismo o eroismo che contraddistingue i commenti di film sulla disabilità. Se si sa già che si va a vedere un film sulla disabilità, si è già portati a vedere il tutto con occhi diversi. Quando invece la disabilità non è annunciata, essa entra in scena in maniera talmente sobria che non si rimane turbati dalla diversità. O impietositi da essa. O costretti a pensare: “Però! Che coraggio”. E la cosa ancora più bella è che quando la disabilità in un film non è annunciata, è proprio la volta che la disabilità è raccontata bene.

Il bello che esce dalla danza ti fa diventare bello

A cura di Roberto Ghezzo

Intervista a Paola Palmi, coreografa e direttrice dell’associazione “Lavori in corso” di Bologna
Già da qualche anno stai realizzando degli spettacoli di danza che inizialmente erano dei saggi di fine anno del laboratorio con il gruppo di ballerini Down, e mano a mano stanno diventando dei veri e propri spettacoli. Iniziate anche a fare delle tournée…
La cosa importante è che loro acquisiscano pian piano padronanza dello strumento, di come si agisce in scena, di come controllare e gestire l’emozione di stare in scena. La gioia di entrare in scena, già dal primo spettacolo, era tale che mi scappavano dentro in palcoscenico. Ho dovuto chiedere a due educatrici che non erano danzatrici di contenerli. All’inizio la gioia era tale che non consideravano il gruppo e il lavoro. Adesso sono serissimi, sono professionali.

Tu quindi lavori molto sulla consapevolezza di essere danzatori, di rispettare dei tempi, dei riti, le entrate, le uscite…
L’obiettivo e il grande sogno sarebbe quello di creare una compagnia con loro, che possa lavorare a livello professionale perché se lo meritano, sono diventati bravi. Con una compagnia hai tutto il tempo necessario, tutta la tranquillità, senza ritagliare del tempo a qualcos’altro, ma dire “quello è il mio lavoro”. Penso che alla fine l’esecuzione sarebbe professionale. Io ho sempre lavorato con in testa quella meta. Vorrei creare un gruppo di ballerini Down ma misto, con ballerini Down sempre più autonomi, che possono ballare da soli o assieme ad altri ballerini.
In quest’ultimo spettacolo il pezzo tra Giovanni, un ballerino Down, e Jessica è stato emozionante. Jessica mi ha confidato alla fine di non aver mai danzato così con nessun ballerino.
Io seguo degli altri gruppi di normodotati [ride] che per certi versi sono indietro anni luce, anche solo come rispetto del lavoro. Questo credo di essere riuscita a passarglielo. Io con loro lavoro come in qualsiasi altro corso che faccio. Non ho mai fatto distinzione. Chiaro che ci vuole un po’ più di tempo per la questione della memoria dei movimenti, della comprensione. Rispetto al lavoro uso con loro un linguaggio un pochino più semplice, però sempre tecnico: di energia, di ascolto, dell’energia che passa da una persona all’altra… e quindi non è subito diretto. Richiede da parte loro una elaborazione, che però passa attraverso il lavoro. Verbalizzi sì, ma anche lavori e verbalizzi, verbalizzi e lavori. Vedo che ci sono stati ottimi risultati.

Vedo che ogni ballerino ha un suo modo di muoversi personale. Il gesto parte da un’improvvisazione loro?
Il gesto parte sempre da improvvisazioni che fanno loro. Io lo correggo, aggiusto, elaboriamo insieme. La prima traccia di lavoro è un’improvvisazione, a volte libera perché così capisco che tipo di energia hanno in quel giorno lì, perché mica tutti i giorni sono uguali, e a volte invece facciamo una improvvisazione con tema che è un gradino avanti. La musica è fondamentale.

Spesso le persone Down hanno dei gesti stereotipati. Influenzano secondo te la loro danza?
Durante le pause dal lavoro sì, ma non vengono fuori nella danza. La tendenza a ripetersi nell’improvvisazione libera c’è… ma questo accade a tutti. Io cerco di portarli a lavorare anche in altre direzioni. Sono partita dal valorizzare quello che di più bello veniva fuori da loro, in tutti i sensi, non solo esteticamente ma da quello che è sincero e vero. Pian piano stiamo andando a costruire delle cose che sono un po’ distanti da loro perché è giusto e naturale. Parti da te, dal tuo mondo e pian piano ti allontani per cercare, sempre con il tuo approccio, però per cercare altro. In quest’ultimo spettacolo volevo entrare un po’ di più in quello che emoziona, perché hanno una età che è quella delle grandi emozioni, che scoppia il cuore, che piangono all’improvviso. Tendenzialmente si cerca sempre di comunicare una visione serena, una dimensione gioiosa, che loro possiedono…ma c’è anch’il rovescio della medaglia. C’è l’aggressività, ci sono le violenze che subiscono. Volevo scavare un po’ lì.

Noto che negli spettacoli ci sono musiche leggere, come Farfalle di Modugno. Ma in genere inizi lo spettacolo con un pezzo bello tosto, tragico, ad esempio quel tema, di Bach credo, che si sente anche nel film Barry Lindon di Kubrick.
È un gioco che faccio io. Lo spettatore va catturato subito, va tenuto lì… poi la tensione si può allentare e sbloccare un po’, ma poi si deve richiudere con un finale poetico, forte, intenso. All’interno ci possono essere momenti più delicati: in uno spettacolo è difficile mantenere sempre una tensione, ci sono dei momenti che cadono, e allora è meglio che ciò accada all’interno. Solitamente poi uno si ricorda l’inizio e la fine di uno spettacolo.

Perché fai questo lavoro?
Perché fondamentalmente mi piace esplorare l’essere umano e mi sono ritrovata attraverso questo percorso di danzatrice, a coreografare e dirigere gruppi, a sperimentare vie parallele come lo shiatsu, lo yoga. L’incontro con questo gruppo di ragazzini mi permette di continuare l’esplorazione dell’essere umano e la danza è uno strumento per tirare fuori il meglio.

Come si sposa questa ricerca con la bellezza?
Tutto ciò che è vero e sincero è bello, qualunque forma abbia. Il bello che esce dalla danza ti fa diventare bello anche se esteticamente non sei un Adone. Ti illumini, non so come dire… Quando riesci a tirar fuori quella gioia chiunque diventa bello, bellissimo. Questa è la potenza dell’arte e, per l’esperienza che ho sia con la disabilità, che non, rimane dentro di te tantissimo, ti dà fiducia, ti fa crescere, ti fa trovare la tua strada. Ho incrociato tanti giovani e ognuno ha trovato la sua strada. Al di là del prodotto artistico, c’è il bisogno creativo di canalizzare l’energia in quello.
La cosa che mi dispiace è che non sono bravissima a valorizzare tutto il nostro lavoro, ma forse venderlo è un’altra professione, ci sono quelli che riescono a farlo. Assieme al gruppo dei ragazzi Down dell’associazione Ceps di Bologna abbiamo fatto degli spettacoli: se ci fosse più risonanza sarebbe importante per loro e per tutti. I ragazzi delle scuole dovrebbero vederli; gli adulti e gli operatori vanno bene, danno fiducia, però secondo me dovrebbero vederli i coetanei. Farebbe capire ai ragazzi quante potenzialità ognuno di noi possiede. Questa diversità è la diversità. Punto. Non è un’inferiorità.

Ti esprimo adesso un pensiero-domanda un po’ contorto perché non mi è chiaro nemmeno in testa. Il diverso esprime bellezza, d’accordo, ma secondo te è possibile per un Down farsi accettare esclusivamente come ballerino e non come ballerino Down? Ti chiedo questo perché è difficile disgiungere le due immagini, derivanti dall’essere ballerino e dall’essere Down. Un ballerino Down danza in un modo che lo espone al pubblico in una maniera particolare e speciale.
Lo stereotipo del ballerino è quello che vediamo in televisione… ma spesso in televisione siamo abbastanza lontani da tutto quello che è cultura e arte. Alla fine la bellezza nasce dall’essere totalmente in quello che stai facendo. Se ci credi, se quel gesto è intenso e vero, allora perdi l’immagine del Down, del brutto, del grasso, dell’alto, del basso, del magro… vedi tutt’altra cosa. È quella la bellezza: non consiste esclusivamente nel riuscire a tirare la gamba fino a qui o girare su se stessi venti volte. Poi se c’è anche questo, va bene, tanto meglio, il virtuosismo non fa mai male. Ma la danza è arte, non ginnastica, non è dimostrare quanto posso saltare o girare, non è dimostrare quanto il mio corpo sia agile e snello e mi permette di fare questo o quell’altro. L’arte è altra cosa, all’arte interessa di che cosa carichi questo gesto, questo movimento, che qualità di energia emana. Se c’è un corpo fatto in un certo modo meglio, ma, ripeto, alla fine non te ne accorgi. Se il gesto è potente, sincero, perdi i confini, ti arriva totalmente l’emozione, al di là del fatto se sei Down. Più persone che hanno assistito allo spettacolo mi han detto che se non lo avessero saputo che i ballerini erano Down non se ne sarebbero accorti.
Alcuni di questi ballerini stanno crescendo, stanno migliorando. Poi c’è da dire che loro sono di una generosità che ti sfinisce, ti stanca, richiede molta attenzione, molto tempo. È come se sempre loro avessero i nervi a fior di pelle. Tutto quello che arriva loro lo sentono, lo avvertono, lo incamerano. Secondo me non hanno filtri. Per quanto riguarda il lavoro sul corpo, la danza, ma anche le altre discipline, ha a che fare con il fattore mentale (che non va confuso con il razionale). Come agisce la mente sul corpo è fondamentale perché tante e tante volte blocca la persona. Ci sono il giudizio, le paure, e ce ne sono di contorte. I ballerini Down hanno fisicamente una disponibilità e un desiderio di esprimersi enormi, perché forse gli risulta più facile. Il fattore mentale è molto meno potente ma non solo a livello cognitivo, è meno presente e quindi sono più liberi, sono più disponibili, si fanno trasportare subito. Nei ritiri-vacanze che abbiamo vissuto insieme la cosa divertente è che loro non si fermano mai, improvvisano continuamente, loro sono già lì… cosa che in un’altra situazione, dove c’è la “normalità”, non esiste: uno si vergogna, si blocca…

Però l’arte è anche controllo.
Infatti pian piano loro stanno acquisendo questo controllo, però hanno anche questa libertà, io la chiamo un non-filtro del mentale, per cui ti danno tantissimo, sono aperti.

Tu proponi una disciplina?
Io sono molto severa e quando si lavora si lavora tutti assieme. Quest’anno ho fatto un esperimento: loro conducono il riscaldamento. C’era questa idea di far condurre le lezioni ad alcuni di loro verso un gruppo di studenti. Giovanni Brischetta e Chiara Lizzi lo fanno con i bambini della scuola materna.
Ognuno di loro, a turno, guida, dà agli altri le indicazioni. Si riscaldano e lavorano in gruppo, tutti devono seguire la persona che in quel momento danza, anche chi sta seduto a guardare fa parte del lavoro. Chi sta lavorando ha bisogno dell’energia di tutto il gruppo. Si sentono gruppo.

Com’è che entrano ed escono in scena? C’è un ordine? Chi dirige l’entrata?
Lo decido io, ma chi guida le entrate e le uscite sono sempre più spesso loro. Alcuni si ricordano la scaletta meglio di noi, dietro le quinte sono diventati bravissimi.

Arriva sempre il momento in cui l’allenatore di una squadra di calcio deve decidere se far giocare tutti o vincere la partita facendo giocare solo i migliori. Tu cosa scegli?
Faccio giocare tutti. Ma stiamo parlando di una cosa in evoluzione. È chiaro che il punto di vista creativo, il risultato artistico è un mio bisogno, una mia necessità. Però, come poi anche con altri gruppi, sono bene cosciente del lavoro che ci sta in parallelo. Cerco di portare avanti tutte e due. Si vede il risultato nel tempo.
Se manca l’energia cerco di farla saltare fuori. Nella costruzione dello spettacolo dò a tutti la possibilità di esserci ma nell’ultimo spettacolo ho tolto dei pezzi perché ho imparato a dire di no. È
successo che dopo tanto spiegare e stimolare due ragazzine non mi rispondevano. Alla fine ho detto loro: “ Ragazze, o me lo fate come ve lo sto chiedendo o cambio”. E in effetti ho cambiato.
Son convinta anche che per fare un buon lavoro da un punto di vista artistico l’armonia di gruppo sia importante e non si crea con la competizione. Un pochino, sana, però è giusto che ci sia. In questo gruppo non c’è invidia, per fortuna, si aiutano tra loro, sono molto di sostegno l’uno con l’altro. Ciò dipende molto da chi conduce, dipende molto da come fai tu passare le cose. Cerco di portare avanti sia la partecipazione che il risultato artistico, ma non è facile far comprendere alcune scelte per esempio ai genitori o ai miei collaboratori. Quello di parlare con i genitori senza alimentare tensioni è per me un lavoro difficile, non sono quella che accoglie, e infatti in questo mi faccio aiutare da una mia collaboratrice, Sabrina Monaco, che sa farlo meglio di me. Io ho più una visione di trattarli nel lavoro come tutti gli altri

Cosa ne pensi della attuale e molto in voga terapizzazione dell’arte?Non ti pare che sia una sorta di semplificazione e che rimandi a una visione troppo “ottimistica” della realtà?
Io detesto l’art- theraphy, ho anche dei pregiudizi. Penso cioè che l’arte in sé e per sé ha già questo compito di portare a evolverti. Costruirci sopra delle piccole o grandi strutture, mi sembra di racchiudere, di chiudere un canale: l’arte è libertà.

In scena mi sembra che ci siano principalmente tre modalità di ballo: in una c’è un ballerino normodotato che fa da specchio all’altro Down, come a ricordargli i gesti da fare; poi c’è una modalità mista in cui la danza del ballerino Down e quella del normodotato si intrecciano ma ognuna è autonoma; infine alcune volte i Down danzano totalmente da soli.
In questo ultimo gruppo in cui ho lavorato non sono arrivati tutti allo stesso livello. È evidente che chi è arrivato solo l’anno scorso fa più fatica. Poi c’è anche il carattere da tener presente: è importante trovare le sintonie, capire quali sono due energie che si compensano. Se si riesce a far lavorare tutti con tutti è un’occasione di arricchimento, ma per qualcuno alla gestione di una sequenza strutturata non ci siamo ancora arrivati. Altri sono migliorati tantissimo.
Vorrei portare in giro lo spettacolo ma siamo in tanti e siamo costosi. Stiamo progettando di individuare due o tre danzatori Down, se serve, all’occasione, per fare una tournée. Magari non sono tutti disponibili e non è detto che tutti possano entrare.
Vorrei però uscire dal solito giro delle associazioni. Quello che vorrei fare è sì rendere al pubblico un lavoro che c’è dietro, sulla disabilità, ma non solo sul canale della disabilità. C’è un festival delle abilità differenti a Carpi ma ancora non siamo riusciti a entrarci. Vorrei però trovare anche altre situazioni-festival. La mia convinzione è che l’arte dovrebbe essere portata nelle strade. Bisogna riportare la danza al popolo.

Ho chiesto anche a Giovanni Brischetta, un danzatore Down, di parlarci del suo lavoro con Paola Palmi. Ecco cosa ha scritto di getto.
Io Giovanni Brischetta esprimo il mio corpo nella danza e cerco di creare una forma ideale per mettere all’ordine tutta la mia grinta e talento con tanta buona volontà e determinazione e anche energia per poi farla vedere a tutto il pubblico quando comincia lo spettacolo.
Durante le prove sudiamo così tanto perché a forza di lavorare mettiamo tutto il nostro impegno su Paola e grazie a Paola abbiamo imparato ad ascoltarla e mettere in pratica tutte le nostre conoscenze e abitudini di livello didattico visivo e tecnico.
Queste forme di creazioni fanno in modo di vedere il fascino di un uomo che sa danzare e soprattutto sa improvvisare nei pezzi singoli oppure nei pezzi misti.
Se volete sapere nello specifico c’è il vostro coreografo che vi sa rispondere alle vostre domande.
Io sono molto bravo a creare le atmosfere e coreografie e cerco di mettere la volontà così grande nel nostro progetto danza.
Il mio comportamento nella danza sta cercando di fare capire che la buona attenzione è dentro.
La mia anima vuole che io devo improvvisare ancora perché il mio spirito è ancora pronto deciso e determinato per mettere l’ultimo sforzo in me stesso e la cosa più importante è quella di resistere fino in fondo e di guardare dentro al mio cuore in profondità.
Giovanni Brischetta

Per saperne di più:
contattare Paola Palmi, cellulare 338/843.63.57

L’orlo della follia: il progetto ProMenPol e le tendenze europee in ambito di salute mentale

Di Massimiliano Rubbi

La salute mentale, nonostante le significative evoluzioni della psichiatria e della cultura negli ultimi decenni, resta per molti associata a un servizio destinato ai “matti” – una categoria ben definita e nella quale si sarebbe sdegnati di essere inclusi. Eppure l’Unione Europea, citando alcuni studi, indica che il 27% dei cittadini europei affronta nella propria vita problemi di salute mentale. Più che individuare la numerosità di un gruppo, questo dato indica la labilità dei suoi confini; di qui la necessità di un approccio positivo e generale alla salute mentale, come componente della salute di tutti i cittadini e perciò da promuovere nell’intera popolazione.
In questa prospettiva si colloca ProMenPol, un progetto europeo avviato nel gennaio 2007 che punta a rendere disponibili conoscenze standardizzate per la promozione del benessere mentale, come parte integrante delle politiche sanitarie e sociali complessive. Del progetto, e di questo nuovo approccio al tema della salute mentale, abbiamo parlato con Katrin Zardo, psicologa dell’Istituto Federale tedesco per la Sicurezza e la Salute Lavorativa di Dortmund che coordina il progetto.

Che cos’è in breve il progetto ProMenPol?
ProMenPol (Promoting and Protecting Mental Health – a sostegno della politica attraverso l’integrazione di ricerca, approcci e pratiche attuali) è un progetto di 36 mesi intrapreso da partner di Germania, Austria, Irlanda, Finlandia, Estonia, Grecia, Belgio e Paesi Bassi. Il progetto è un’Azione di Coordinamento finanziata dalla Commissione Europea entro il 6° Programma Quadro di ricerca. È guidato dall’Istituto Federale per la Sicurezza e la Salute Lavorativa tedesco (BAuA – Bundesanstalt für Arbeitsschutz und Arbeitsmedizin).
Il progetto mira a sostenere le pratiche e le politiche per la promozione della salute mentale nel periodo 2007/2009 in questi tre contesti: scuole, luoghi di lavoro e residenze per anziani. Obiettivi specifici di ProMenPol sono:
• identificazione e ri-confezionamento degli strumenti per la promozione e protezione della salute mentale entro tre contesti – scuole, luogo di lavoro e residenze per anziani;
• produzione di un sistema di gestione delle conoscenze sistematico e facilmente navigabile, popolato di informazioni utili, fonti chiave e collegamenti web importanti;
• organizzazione di una serie di progetti pilota di implementazione per valutare e recensire la base di conoscenza e gli strumenti di lavoro;
• produzione di un insieme di principi di politica multi-settoriali progettati per promuovere e sostenere iniziative sulla salute mentale più fattive e mirate in ognuno dei settori;
• creazione di collaborazione sostenibile tra gli attori chiave del progetto per diffondere i risultati nelle fasi finali del progetto e oltre.
Ogni anno ProMenPol organizza una conferenza per operatori professionisti cui segue un laboratorio di politiche per decisori politici nazionali ed europei. Questo consentirà un mutuo scambio di informazioni a proposito della salute mentale positiva tra esperti e un opportuno feedback per i responsabili della progettazione di servizi e politiche. Nel nostro sito web, www.mentalhealthpromotion.net, è possibile avere informazioni, iscriversi alla nostra newsletter trimestrale e consultare un volantino in italiano del progetto.

Come descrivereste gli obiettivi del progetto in relazione alla promozione del benessere mentale e alle altre linee guida proposte dalla UE nel campo della salute mentale?
Molte delle politiche, della ricerca e dei materiali pratici disponibili nel campo della salute mentale trattano della malattia mentale nelle sue varie forme. Comunque, il progetto ProMenPol si concentra sulla promozione e protezione positiva della salute mentale, cioè il mantenimento di un buon benessere mentale e la protezione della salute mentale da influenze dannose.
Pertanto, il progetto sta utilizzando l’ICF (Classificazione Internazionale del Funzionamento, della Salute e della Disabilità) per categorizzare gli strumenti nel suo database online. A differenza della ICD (Classificazione Internazionale Statistica delle Malattie e dei Problemi di Salute Collegati), l’ICF mette le nozioni di “salute” e “disabilità” in una nuova luce. Riconosce che ogni essere umano può sperimentare un decremento nella salute e di conseguenza sperimentare un certo grado di disabilità. La disabilità non è qualcosa che capita solo a una minoranza dell’umanità. L’ICF quindi rende “tendenziale” l’esperienza della disabilità e la riconosce come una esperienza umana universale. Spostando la messa a fuoco dalla causa all’impatto, essa colloca tutte le condizioni di salute su una medesima posizione, consentendo loro di essere comparate utilizzando una metrica comune – il “righello” di salute e disabilità. Inoltre, l’ICF prende in considerazione gli aspetti sociali della disabilità e non vede la disabilità solo come una disfunzione “medica” o “biologica”. Includendo fattori contestuali, in cui sono elencati i fattori ambientali, l’ICF consente di registrare l’impatto dell’ambiente sul funzionamento della persona.
Parlando in generale, l’approccio del progetto è molto in linea con concetti rilevanti della UE, come la salute in ogni approccio alle politiche o la prospettiva della durata della vita. In aggiunta, il progetto si concentra particolarmente sul collegare decisori politici, professionisti e ricercatori attraverso i nostri eventi, ad esempio il nostro workshop annuale sulle politiche. In questo modo ProMenPol aiuta a identificare gli obiettivi politici e a contribuire all’azione.

A partire dalla vostra esperienza, pensate che politiche e buone pratiche sulla salute mentale nei diversi paesi UE siano ben integrate, o c’è ancora un forte bisogno per l’integrazione e il confronto tra operatori?
Molti paesi nella UE hanno politiche, strategie e piani di azione che includono un impegno alla promozione e prevenzione della salute mentale. Purtroppo, questo non sfocia necessariamente in azione. D’altro canto, ci sono esempi di buone pratiche nella promozione e prevenzione in stati membri e in paesi candidati che non hanno ancora un piano di azione nazionale. Nel complesso, penso che ci sia ancora un forte bisogno di integrazione tra operatori diversi, cioè di vivere veramente l’idea della salute (mentale) in tutte le politiche.

Nella promozione generale del benessere mentale, quali ruoli rispettivi ritenete che abbiano gli operatori della salute mentale e le “persone in genere” coinvolte in relazioni con persone mentalmente malate, come parenti, vicini, colleghi di lavoro, amici, e in che modo tali categorie potrebbero cooperare a questo scopo?
In ProMenPol abbiamo adottato un approccio per contesti, riconoscendo che la salute è creata e vissuta dalle persone entro i contesti della loro vita quotidiana: dove imparano, lavorano, giocano e amano. È in questi contesti che occorre adottare misure per proteggere e migliorare la nostra salute e la salute di chi sta intorno a noi. Proprio per questa ragione alle nostre conferenze si possono incontrare manager delle risorse umane o insegnanti di scuola piuttosto che, per esempio, uno psicoterapista. Ma questo anche perché noi non abbiamo a che fare solo con i malati mentali, ma con il benessere mentale della popolazione generale.
Sotto questo aspetto, la competenza degli operatori della salute mentale è ancora molto richiesto in merito al trattamento dei malati mentali, così come per dare alla luce la base di conoscenze al fine di poter formare le “persone in genere” nei loro modi rispettivi.

Su un piano più generale, quali paradigmi e azioni culturali pensate che siano richiesti per creare un contesto non discriminatorio per la malattia mentale?
La creazione di un contesto non discriminatorio richiede azioni a vari livelli e non può essere ottenuta nel breve periodo. A livello politico, occorre che la legislazione assicuri uguaglianza di opportunità, ma forse ancor più importante è che i politici agiscano come modelli di ruolo nei termini dei propri rispettivi atteggiamenti e comportamenti. Lo stesso si applica a giornalisti, insegnanti, datori di lavoro, ecc. Quindi, le campagne di informazione potrebbero volersi concentrare su questi gruppi di influenza, ma alla fine ciò dipende da ognuno di noi. Un approccio che ha dimostrato di essere piuttosto efficace è l’inclusione di persone che sono state colpite da condizioni di salute mentale, ad esempio il lavoro in “trialog” (utenti, famiglie e professionisti della salute mentale).

ProMenPol, secondo quanto è esposto nel suo sito web, si concentra su tre contesti: “scuole, luoghi di lavoro e residenze per anziani”. Come considerate un quarto contesto, che è anch’esso rilevante per le persone mentalmente malate e più probabilmente ricade nel burn-out, cioè la famiglia?
La famiglia è decisamente un contesto molto critico, che può essere un fattore sia protettivo che di rischio a proposito della salute mentale di ogni membro. In ProMenPol abbiamo scelto di concentrarci su contesti che possono essere influenzati anche a un livello organizzativo. Comunque, la famiglia può ancora essere inclusa in modo trasversale in ciascuno degli altri contesti.

In Italia, a partire da alcuni eventi di violenza che hanno coinvolto persone mentalmente malate, alcuni osservatori hanno contestato la scelta di chiudere i manicomi fatta nel 1978 sulla base delle concezioni psichiatriche di Franco Basaglia. Da un punto di vista europeo, l’opzione della de-istituzionalizzazione per le persone mentalmente malate è acquisita o è ancora sfidata da visioni più “contenitive”? E quale visione abbraccia il progetto ProMenPol a proposito del “posto nel mondo” delle persone mentalmente malate?
Come già detto parlando della ICF, l’esperienza di qualche tipo di disabilità è un’esperienza umana universale. Chiunque può essere colpito dalla malattia mentale, e chiunque stia soffrendo di tali condizioni dovrebbe avere l’opportunità di partecipare alla società nel massimo grado possibile. Per quanto ne so, peraltro, non c’è una visione comune a livello europeo a proposito della questione su in quale grado e in quali modi le persone dovrebbero essere istituzionalizzate, poiché gli stati membri stanno mantenendo la responsabilità principale per la fornitura delle cure sanitarie.

Per informazioni:
ProMenPol
BAuA – Bundesanstalt für Arbeitsschutz und Arbeitsmedizin
Gruppe 1.2: ProMenPol
Friedrich-Henkel-Weg 1-25
44149 Dortmund – Germany
Fax +49 (0)231-9071-2537
Sito web: www.mentalhealthpromotion.net

Katrin Zardo (project manager): Tel. +49 (0)231-9071-2303 – E-mail zardo.katrin@baua.bund.de
Dr. Karl Kuhn (project leader): E-mail kuhn.karl@baua.bund.de

Lettere al direttore

Risponde Claudio Imprudente

Salve,
sono Agnese Fantin, insegnante di una classe seconda in una scuola primaria nella provincia di Treviso.
Le scrivo per farLe i miei complimenti per il suo libro Il principe del lago.
È strano come io sia giunta a leggere questa favola: non ho acquistato il libro, l’ho trovato per caso nella biblioteca della scuola in cui lavoro. E questo è ancora più strano se penso che nella scuola, essendo privata, non vengono mai iscritti (e penso non verrebbe comunque accettata l’iscrizione) bambini diversamente abili.
È senza dubbio una grave mancanza questa: la scuola di per sé funziona benissimo, le insegnanti sono giovani e motivate, ma si sente molto la mancata presenza di bambini diversabili.
Penso proprio che promuoverò un’attività di lettura nella mia classe del suo libro, nel secondo quadrimestre.
Ancora complimenti e buon lavoro!
Agnese.

Che bello cara!
Tu hai centrato il nocciolo della questione. Credo che una scuola senza diversabilità sia come una pasta al pomodoro senza pomodoro, come il vestito di Arlecchino senza colori, come la birra senza alcool, come una partita di calcio senza il pallone, come parlare senza comunicare. Credo si sottovaluti con troppa semplicità che vivere e frequentare le diversità sin da piccoli sia un’esperienza di crescita fondamentale. Pochi mesi fa un’insegnante mi parlava di quanto si fosse rivelata interessante la presenza in classe di tanti alunni stranieri. Non facile da gestire, inizialmente, per ragioni che si possono facilmente immaginare, a partire dalla difficoltà nel parlare l’italiano, ma capace in breve tempo di arricchire tutti, di fornire occasioni per ragionare su argomenti inaspettati, approfondire alcune materie in modo particolare e più coinvolgente.
Vedi, cara Agnese, non c’è altra possibilità che affrontare la diversità da questo punto di vista, non come problema che richieda l’ennesimo intervento di uno specialista, ma come elemento che contribuisca in modo determinante a creare un clima culturale e “strutturale” nuovo, come dice Andrea Canevaro. E l’incontro con la diversità non può essere solo raccontato, ma deve avvenire in modo non mediato, deve essere una conoscenza e un’esperienza diretta. Per questo non è pensabile una scuola priva della presenza di abilità diverse. Non posso che augurarmi che un giorno la scuola in cui lavori si liberi di questo limite evidente e che sappia fare dell’accoglienza una caratteristica forte della sua identità.
Tu tieni duro, e vedrai che il “clima” cambierà.
Buon meteo a tutti!

Ciao Claudio, mi chiamo Mena sono sposata con Antonio da 23 anni, ha la sclerosi multipla da circa 12 anni, nell’ultimo anno è visibilmente peggiorato. Spesso mi sono imbattuta nei tuoi articoli su “Il messaggero di S. Antonio” e ora stavo navigando in internet, sulle pagine di Superabile e ti ritrovo. Mi piace quello che scrivi, la tua autoironia, il dire le cose senza peli sulla lingua.
Leggi, aiuti, volontariati…: ma dove sono per chi resta in città, in questa torrida estate. Ho fatto la domanda di assistenza integrata per mio marito Antonio, noi non abbiamo figli, io ho 43 anni, lui 47. Fino allo scorso anno l’ho sempre accudito da sola, ma ora che è peggiorato?
Abitiamo a Barra, provincia di Napoli, e come dicevo ho presentato domanda di assistenza il 29 maggio. Dopo vari tentativi di farmi desistere, l’impiegata assistente sociale finalmente ha accettato la domanda. “Avete l’assegno di accompagnamento, mettete qualcuno privato”; “già” ho risposto “se metto qualcuno non bastano 450 euro, ci vuole di più e poi per come sta messa l’assistenza sanitaria, come le pago le tante medicine a pagamento o le visite specialistiche private, di cui dobbiamo usufruire, visto che a volte i tempi di attesa sono lunghi per le visite ASL?”. Non si sono ancora fatti vivi quelli del servizio sociale, tanti BLA BLA BLA per le persone diversamente abili, tante leggi sui diritti, agevolazioni, tanto che se sei un normodotato ti viene il desiderio di essere disabile. Scusa, se ti ho scritto cose che già sai, ma cerco un orecchio che sappia ascoltare e capisca quello che significa. Ti saluto a presto
Mena Buonomo da Napoli.

“L’estate sta finendo e un anno se ne va…” cantavano i Righeira negli Anni ’80.
Quando ascolto questa canzone mi viene una tristezza abissale… È proprio vero che ogni anno l’estate finisce e si chiudono gli ombrelloni.
Il problema però è quando per qualcuno gli ombrelloni non si aprono neanche.
Mi chiedo sempre cosa si faccia in città durante l’estate, quando la maggior parte delle persone se ne va in vacanza e si rimane in quattro gatti. (Ma perché i gatti sono sempre quattro? Mah!).
A dir la verità qualche anno fa mi è capitato di trovarmi in città il 16 agosto.
Oltre al caldo torrido avevo bisogno di andare in bagno.
Ho cominciato quindi a cercarne uno.
Il primo bar… chiuso per ferie.
Il secondo… chiuso per lutto.
La pipì aumenta.
Passiamo ai ristoranti: il primo chiuso per ferie.
Il secondo in ristrutturazione.
La pipì aumenta. Panico!
Vedo un bel portone, proviamo a suonare.
Interno 1: non risponde.
Interno 2: non risponde.
Interno 3: … mi aprono!
Finalmente un bell’atrio dove emulare Benigni nel Piccolo Diavolo… ovviamente con l’ausilio di un bicchiere.
Dove voglio arrivare con questa storia?
Se ci pensi non è tanto diversa da ciò che è capitato anche a te e a tuo marito.
Già i servizi sono limitati, in estate poi sono praticamente assenti.
Se poi ci proiettiamo un po’ nel futuro, la probabilità di ricevere qualche servizio in più diminuisce drasticamente: basta solo pensare alle politiche sociali degli ultimi governi.
Cosa fare allora?
Protestare per richiedere i servizi dovuti?
Lottare per ottenere qualche garanzia in più?
Rivendicare ciò che dovremmo avere per legge?
Sì, indubbiamente è necessario far valere i nostri diritti e ottenere i servizi che ci spettano. Però non basta. È indispensabile anche proporre un’azione concreta coinvolgendo i privati nella creazione di una rete che sopperisca alle mancanze presenti, senza però sostituirsi a chi deve garantire questi servizi ma supportando le situazioni di disagio come la tua.
Il mio augurio per la prossima estate non è solo quello di trovare dei bar aperti… di aperto ti auguro anche di trovare un ombrellone.
Aloa!

Lettere al direttore

Ciao Claudio,
ti scrivo per salutarti. Sono stata a un incontro organizzato da te e dai tuoi colleghi, i primi dello scorso novembre, vicino Vicenza. Volevo avvicinarmi e salutarti, ma già eri sufficientemente preso da altre persone.
Io conosco te, ma tu non conosci me… questa non è una bella cosa. Mi chiamo Roberta, ho 29 anni e vivo a Catania. Mi trovavo a Vicenza perché sto frequentando il corso di abilitazione per il sostegno alla Ca’ Foscari a Venezia.
Come 2° lavoro insegno, già da due anni, Italiano e Latino nei licei; come primo lavoro sono imprenditrice… di una società di formazione post-laurea. Non l’ho fondata io, ma ci lavoro da 4 anni, e pochi mesi fa ne sono diventata socia (eh eh che soddisfazione.. 🙂
Prima ti dico il secondo lavoro e dopo il primo… che cosa strana… forse perché te li ho detti nell’ordine di importanza che questi mestieri hanno per me.
Ti scrivo perché per me è stato un piacere conoscerti, e dato che Tutto, proprio Tutto, secondo me parte dalla Comunicazione, avevo il piacere di dirtelo (poi mi è tornato in mente di salutarti perché poco fa stavo sbirciando sul sito di accaparlante..!)
A te come va?
Immagino sempre impegnato tra le varie cose che segui.
Ti mando un caro saluto. Buon lavoro… e spero che tu mi risponda.
Roberta

Cara Roberta,
nelle notti tempestose, quando la pioggia si mischia alla grandine e picchia sulle mie finestre, faccio sempre lo stesso incubo: mi trovo tra i banchi della scuola superiore, ed entra l’arcigna professoressa di latino, coi suoi occhiali simil-tartaruga al collo. Si siede alla cattedra, e senza nemmeno guardare la classe, scorre col dito artritico il registro. Sto in apnea per non farmi notare, ma non funziona, perché lei a un certo punto dice: “Imprudente! Mi declini il verbo leg?re al tempo perfetto”. Sono atterrito, ma ho passato tutta la Domenica a studiare, non ho nemmeno sentito “Tutto il calcio minuto per minuto”, e quindi sono preparato. Faccio per rispondere, e guardo verso la mia lavagnetta trasparente, ma lei nemmeno mi guarda. Dice: “Allora? Vedo che non si è preparato…”. Mi agito nel banco, vorrei che si alzasse per venire a leggere la mia risposta, ma lei niente. A questo punto del sogno mi sveglio sempre, in un bagno di sudore, mentre la grandine continua a battere sulla mia finestra. Ho soprannominato questo incubo ricorrente “L’incomunicabilità nella comunicazione”. La questione è: la comunicazione a senso unico, è vera comunicazione? Quella professoressa stava realmente comunicando con me? Per farlo avrebbe quanto meno dovuto guardarmi, avvicinarsi, leggere la mia lavagna. Invece lei pretendeva che io comunicassi con lei sullo stesso piano, senza tener conto di quello che era il mio modo di comunicare. Questo per dire che il comunicare cambia a seconda dei mezzi che ciascuno ha a disposizione. Un bravo comunicatore è colui che sa spostarsi su piani di comunicazione sempre differenti, ricordandosi sempre che la comunicazione è biunivoca.
E che dire… bevete tanto lattino, che vi fa bene.
Claudio Imprudente

Carissimo Claudio,
prendo spunto dalla conferenza che abbiamo tenuto insieme a Cuneo per riflettere sul ruolo che hanno i genitori per promuovere l’integrazione dei figli diversabili nella collettività.
I genitori sono coloro che meglio di qualsiasi altra persona conoscono la loro prole. Studiamo e scriviamo proprio per validare scientificamente le narrazioni dei percorsi educativi dei genitori. Facciamo in modo che vengano chiamati nelle scuole, nelle ASL come formatori. Prima una presentazione scientifica in modo che le narrazioni vengano ascoltate con lo stesso rispetto con il quale vengono ascoltati gli esperti (non sono sfoghi o testimonianze ma percorsi scientifici) e poi i genitori narrano. Come Centro Nazionale raccogliamo le narrazioni, le facciamo pubblicare dalla rivista “Handicap&Scuola” e poi organizziamo Corsi di aggiornamento e Convegni in modo che le scuole e le ASL e i Comuni imparino dalle narrazioni dei genitori.
In Toscana il Centro Servizi per il volontariato (CESVOT) ha appena pubblicato tramite l’Associazione Sesto Senso di Siena con Gianni Scopelliti una raccolta di percorsi educativi dei genitori che speriamo vengano utilizzati come formazione dei volontari che si occuperanno dei nostri ragazzi. Così anche L’AIPD di Pisa Livorno con Enrico Barone ha pubblicato nel 2004 una raccolta di narrazioni. Nel 2001 qui a Torino, dove è nata la Pedagogia dei Genitori, è stata pubblicata una raccolta di narrazioni. Tra poco ne uscirà un’altra con esperienze italiane e straniere.
Augusta e Riziero Zucchi

Cari Augusta e Riziero,
che piacere risentirvi! A proposito dei racconti dei genitori, lo sapete che cosa mi diceva sempre mio padre? “Valà Claudio che hai visto un bel mondo!”. Questa frase di mio padre è stata un ritornello per la mia adolescenza: me la ripeteva almeno due volte al giorno. Forse lui non conosceva il vero significato di quello che diceva, o forse vedeva oltre… Ma proviamo a esaminare la frase: “Valà Claudio” è una tipica espressione di sdrammatizzazione della situazione (può essere applicata alle più varie…) quindi sono stato educato a sdrammatizzare. Sdrammatizzare a mio avviso è il sale di una relazione fra genitori e figli, specialmente se il figlio è diversamente abile. Mio padre non era né pedagogista né psicologo, ma ogni volta che pronunciava quella frase mi iniettava ironia pura a piccole dosi. Ma continuiamo l’analisi. “Che hai visto”: qui è chiaro come mio padre mi faceva vedere, fare esperienza, mi portava dappertutto: mare, montagna, città… Con lui ho viaggiato moltissimo, insomma ho percepito che non si vergognava di me, e questo mi ha educato a non avere io stesso vergogna. Altro che pillole di autostima! Ci tengo a sottolineare che tutto questo non è per nulla scontato: ho tanti esempi davanti agli occhi di padri che causa la difficoltà hanno delegato alla madre il rapporto con il figlio. Io ho quindi avuto il grosso vantaggio rispetto ad altri di respirare aria di alleanza fra mio padre e mia madre: un’alleanza che non è altro che la “pedagogia della fiducia”, teoria che il professor Riziero Zucchi porta avanti da molti anni.
“Un bel mondo”: qui sembra esserci l’intoppo: ma come fa un disabile a vedere un bel mondo? È un paradosso! L’educazione al paradosso è una carta vincente perché è un continuo uscire fuori dagli schemi, dai preconcetti e dai pregiudizi. Devo confessarvi che mio padre, assieme a mia madre, mi hanno un po’ “drogato” nel senso che oltre alle iniezioni di ironia, ricevevo anche dosi di positività: tutti questi ingredienti sono racchiusi in una ricetta chiamata “Valà Claudio che hai visto un bel mondo” che mi ha permesso di vedere le mie prospettive non più in bianco e nero ma finalmente a colori! Questa è una ricetta che vale per tutti: basta cambiare nome; perciò tirate fuori il ricettario (non le ricette di Suor Germana) e appuntatevi questa frase: “Valà nomedichivolete che hai visto un bel mondo!”. Ma voi, lo fate vedere un bel mondo ai vostri figli?
Con affetto,
Claudio.

Ciao Claudio carissimo,
ti segnaliamo un’iniziativa che ti vede coinvolto (seppur come citazione!): stanno organizzando Comune di Cagliari “una giornata per i disabili” la terrificante festa al luna park (così almeno un giorno le persone con disabilità possono divertirsi!): tu ci ricameresti su uno dei tuoi teatrini o meglio qualche barzelletta!
Insomma, c’è di mezzo nell’organizzazione anche la consulta comunale delle associazioni di cui facciamo parte (ahinoi, è tutta da costruire perché non funziona per niente), siamo gli unici a esserci opposti con fermezza, come facciamo ormai tutti gli anni (si, sono recidivi) per tutti i motivi che conosci e che condividiamo
Sai quale è lo slogan del volantino? una tua frase!!!! te la riporto integralmente (poi ti faccio scannerizzare l’invito così lo vedi con i tuoi occhi).
Chi ha detto che sono disabile?
Ci sono ricchezze intatte e potenzialità infinite dentro noi cosidetti "handy”.
Voi "normali" non le potete capire e nemmeno lontanamente intuire
Claudio Imprudente
Ma l’ultima frase l’hai mai detta???????
Mah, facci sapere.
Un abbraccio e a prestissimo
Francesca per l’Abc
P.s. w la zuppa gallurese!

Aloa Francesca,
che bello il Luna Park! Chissà poi perché si chiama “Luna” Park? Si potrebbe chiamare anche Sole Park, Fiore Park… ma questo mi sa tanto di Disabile Park. Ho sempre desiderato di sparare ai barattoli di latta, vincere i pesciolini rossi e strafogarmi di zucchero filato. Ma ci saranno tutte queste cose in un parco di divertimenti per disabili? Come sarà fatto? Proviamo a immaginarlo!
Fra i vari stand non potrà assolutamente mancare lo “scaccia la talpa col martello”, ma la testa non sarà di talpa… bensì di bambini Down che sbucano all’improvviso e fanno delle belle pernacchione rumorose! Per le montagne russe il risparmio sarà evidente: non c’è alcun bisogno di vagoni: si mettono i disabili in fila e si attaccano le carrozzelle direttamente alla rotaia! Almeno che servano a qualcosa queste ruote! Peccato che non tutti abbiano una cintura… beh, pazienza! Non si può mica pensare a tutto! Ma il gioco che preferisco in assoluto è “sparare al disabile che sfreccia in carrozzina”: da dietro al bancone devi prendere bene la mira… la parte più divertente è quando riesci a forargli le ruote: se riescono a non cadere rovinosamente, perdono velocità e bloccano la fila con una serie di tamponamenti a catena, poi una volta fermi hai tutto il tempo di stenderli con calma! E la casa degli orrori? Carrozzine indemoniate che investono gli educatori, un enorme disabile tipo Polifemo (dopotutto aveva un occhio solo…) che si dimena e urla, oppure disabili di cera che si animano improvvisamente e ti alitano in faccia, cani per ciechi che diventano mannari e si mangiano il disabile! Sarebbe davvero un’idea originale, non trovi?
In ogni caso io non ho mai detto quella frase che compare sul volantino. Mi spendo a parlare di integrazione e ti pare che possa fare una distinzione fra noi “gli handy pieni di ricchezza” e voi “i normali che non capite”? Devo confessare che leggendo questa frase mi sono sentito un po’ una specie di fenomeno da baraccone… ma questa è un’altra storia! A proposito, quanto facciamo pagare il biglietto d’ingresso?
Aloa!
 

In Africa è povera anche l’informazione

NAIROBI – Un incontro, a settembre 2007, tra giornalisti africani e giornalisti italiani. Uno scambio di materiali e informazioni sulle guerre dimenticate (centinaia) dell’Africa al di sotto dell’equatore. Finisce così, all’ambasciata italiana di Nairobi, il primo confronto tra la stampa estera presente in Kenya nei giorni del World Social Forum. A proporlo è padre Renato “Kizito” Sesana, giornalista e grande conoscitore del continente “nero” che incassa subito l’adesione della Federazione della stampa (Roberto Natale), dell’agenzia Redattore Sociale e di tutti quelli che la sera del 24 gennaio sono riusciti a raggiungere il centro di Nairobi per partecipare all’appuntamento promosso dalla Tavola della Pace di Flavio Lotti. Chi parla dell’Africa? E quando? Con quali immagini? Dove nascono le notizie nel continente più dimenticato di tutti? La guerra alla povertà in Africa si combatte anche dando più voce all’informazione, alzando quel volume che per troppo tempo è rimasto sottotono, ripetono in tanti. Poche radio commerciali, pochissime “comunitarie”, giornali un po’ troppo “governativi” e molti free-lance, tra fotografi e reporter, che cercano di far pubblicare in occidente – tante volte senza riuscirci – i racconti di quel poco che si riesce a sapere dell’Africa.

Il World Social Forum di Nairobi è stata così un’occasione anche per il fare il punto sulla situazione dell’informazione dall’Africa sul versante italiano. Giulietto Chiesa (oggi parlamentare europeo), Roberto Natale (Fnsi), Massimo Alberizzi (corrispondente del “Corriere della Sera”), padre Giuseppe Caramazza (direttore della rivista “New People”) e padre Renato “Kizito” Sesana della comunità “Koinonia”, Enzo Nucci (fresco di nomina come responsabile della sede di corrispondenza della Rai da Nairobi), la presidente dell’associazione stampa estera a Nairobi, Ulrike Kolea e la responsabile di “The Big Issue Kenya”, Diane Sengor (giornalista senegalese che ha realizzato anche il giornale quotidiano del Wsf, “African Flame”). Tante domande, poche risposte. E sempre le stesse. “Dall’Africa si riportano sempre storie negative – apre la discussione Ulrike Kolea – ma non è solo un problema dell’Africa. Qui è difficile seguire tutto perché l’Africa è grande. L’Europa è grande come solo il Sahara. E spesso mancano le immagini che accompagnano le notizie, così le storie sono meno vendibili. E non interessano ai giornali”. Per Dian Sengor serve invece “un’informazione sull’Africa fatta dagli africani e una maggiore formazione che porti a una più alta sensibilità pubblica”. “Mi capita di dovere ascoltare spesso i media internazionali – continua – per sapere quello che succede qui. Manca una coscienza nazionale e “The African flame” è una delle poche esperienze d’informazione fatta dagli africani per l’Africa. L’Italia ha e può avere un ruolo importante: non per niente la prima radio locale di Nairobi è nata grazie a una Ong italiana”.

E la grande stampa? Massimo Alberizzi, del Corriere, parla dell’ignoranza che c’è tra i giornalisti. Il vero problema – dice – è che non c’è specializzazione: “Esiste il giornalista sportivo, quello economico, quello esperto di borsa e finanza… Ma dov’è il giornalista esperto di Africa? Cosa vogliono leggere gli italiani dell’Africa?”. Enzo Nucci (Rai) racconta la sua “splendida anomalia”: “Solitamente quando un’azienda decide di aprire una sede all’estero ci sono ragioni di carattere economico e politico, e ad esempio questo può essere successo certamente per la Cina. Ma l’Africa non è mai rientrata in un progetto organico dell’azienda Rai, l’unica fonte d’informazione costante da questo continente è la rivista “Nigrizia”, l’agenzia Misna, oppure bisogna parlare con padre Kizito per sapere, dal di dentro, quello che sta succedendo. C’è poi un problema di non conoscenza: l’Africa è un continente composto da 54 stati, dove si parlano 2.100 lingue diverse (dal fondo della sala replica Kizito: “Io ci ho messo tre anni per capire qualcosa del Sudan…”). Ma la Rai che arriva in Africa è comunque un evento. C’è però un’altra faccia della medaglia: “Non basta mettere la bandiera su Nairobi – continua Nucci – serve continuità. Anche in questi giorni sul Wsf c’è un deficit d’informazione: la notizia è sottotono, i pezzi vengono messi nelle edizioni meno importanti dei Tg e non ci sono tanti giornalisti italiani. Ma l’Africa è la culla dell’umanità e merita di più. Diceva un pensatore africano: “Se Adamo ed Eva fossero nati nel Texas, la Cnn ce lo ricorderebbe tutti i giorni… ”.

Per Giulietto Chiesa “milioni di persone non sanno nulla di ciò che succede in Africa. È il segno che non interessa quello che accade qui? Falso. Quello che passa sull’Africa è solo quello che decidono coloro che hanno il potere di costruire l’agenda dell’informazione. Il sistema della comunicazione oggi fabbrica soltanto sogni e menzogne. Bisogna fare dell’informazione una battaglia politica”. “La paura dell’altro” è un altro dei difetti cui fa invece cenno padre “Kizito”: “Abbiamo parlato di provincialismo, ma anche noi giornalisti missionari molto spesso ci portiamo dietro non solo il provincialismo, ma anche il razzismo. Dobbiamo lavorare per tirarlo via: se siamo coscienti di questo dobbiamo fare un’informazione più seria”. Saluta citando l’esperienza di “The big issue Kenya”, il primo giornale di strada africano battezzato proprio durante i giorni del Forum e che nasce da un progetto che vede insieme l’editore del magazine on line www.newsfromafrica.org, Koinonia e il Kenya Young Congress Foundation di Kibera (Nairobi).
Chiude Roberto Natale, giunta Fnsi: “Questo è un lavoro che continua. Ci siamo incontrati, giornalisti e movimenti, con l’impegno di aiutarci a vicenda. Ne è nata un’alleanza singolare: Tavola della pace, enti locali, sindacato, riviste missionarie, agenzie del sociale. E il fatto che ora esista una sede di corrispondenza della Rai a Nairobi è un primo grande passo. Ma non basta: ora bisogna continuare a impegnarsi per la riforma del sistema dell’emittenza e per la riforma della Rai. Una riforma che coinvolge necessariamente sia i giornalisti che una buona parte della società civile”.
 

Il mio vivere da figlia

Sono il padre e la madre di un figlio disabile che più spesso parlano di progetto di vita per il proprio figlio, che altro non è se non il progettarne il futuro così come, in misura maggiore o minore, un po’ tutti i genitori fanno, creandosi aspettative che sta poi alla vita e alle scelte del figlio esaudire o tradire. Ma di questo si tratta, sia che il figlio sia o non sia disabile: sono quei progetti intorno alla sua laurea, previsioni di quella commozione riservata al giorno del matrimonio, senza pensare poi alla grande emozione del diventare nonni. Tutto come da copione. Seppur nell’autoconvinzone che, nel pieno rispetto della vita del figlio, non crescano insieme a lui le ambizioni perché spetta solo a lui la costruzione e la realizzazione della sua vita. A maggior ragione il genitore del figlio disabile si sente nelle condizioni di poter davvero ragionare su un progetto di vita del figlio, spinto spesso da considerazioni sulla mancata autosufficienza e sulla necessità di assistenza.
Così come si sente parlare di progetto di vita quando si va a chiedere alla persona disabile che sta costruendo una propria vita adulta quali ne siano le ambizioni, quali i valori su cui fondarla, quali le strade intraprese e le scelte compiute. Così si trovano pagine di interviste a ragazzi disabili studenti universitari, a professionisti su sedie a rotelle, a genitori che hanno fatto la scelta di costruire una famiglia e di avere dei figli superando le difficoltà della disabilità.
Oppure è espressione ricorrente nell’ambiente dell’istruzione e nel mondo del lavoro, ambiti fondamentali per la formazione della persona e per la sua realizzazione personale, oltre che professionale. È l’insegnante che parla di come le scelte educative e le strategie di integrazione nell’ambiente scuola volgano alla costruzione del progetto di vita del bambino disabile che muove i primi e significativi passi già a partire dalla scuola dell’infanzia.

Un giorno di qualche anno fa a sangue freddo, un collega alzando la testa dal proprio pc mi chiese: “Senti ma… avrei una curiosità, tu come hai vissuto l’essere figlia di due persone disabili?”. Domanda alla quale credo di aver dato una risposta abbastanza grossolana che penso non abbia soddisfatto la curiosità del mio interlocutore. Ma solo in quel momento mi resi conto che, a dire la verità, io non ci avevo mai pensato. Eh sì, io ero proprio la figlia di due persone disabili. Allora, mettiamola così, non avevo mai messo al primo posto il loro essere disabili rispetto al loro essere genitori.
Forse per questo motivo quella domanda mi arrivò come una doccia fredda: da un certo punto di vista mi sembrò quasi una rivelazione del momento e, in quei pochi secondi intercorsi tra la domanda e il tentativo di risposta, dovetti fare i conti con una valanga di sensazioni e percezioni che avevano proprio a che fare con questo. Prendevo coscienza che avevo due genitori disabili la cui disabilità, in fondo, mi era sempre un po’ sfuggita. E per essere già a mia volta madre di una bambina e, a quel tempo, in attesa di un secondo figlio, non era una rivelazione di poco conto.
Ritornai sulla questione facendo i conti con me stessa, perché quando si ha una rivelazione non si può certo lasciar cadere la cosa come se non fosse successo nulla…Le rivelazioni portano sempre con sé delle conseguenze e sapevo di non voler lasciar scorrere quel fiume di strane sensazioni che mi portavano a ventisei anni a rendermi conto del mio essere di figlia e del loro essere di genitori. Così cercai in me delle risposte che avevano poco a che vedere con quella prima domanda, abbastanza superficiale se vogliamo, nella quale stava tutto e il contrario di tutto. E credo anche di averne trovate.
Come avevo vissuto il mio essere figlia di persone disabili? Lo avevo vissuta da figlia. E come tutte le figlie si innamorano del padre che vedono poco per motivi di lavoro e che incarna l’uomo dei propri sogni, si scontrano con la madre con la quale entrano in una competizione mai finita ma sempre complice; si mettono contro alle regole imposte ma vi sottostanno; fanno un po’ le adolescenti ribelli più per moda che per gusto; vanno avanti a testa bassa negli studi e nelle passioni fino a raggiungere i risultati desiderati e aspirati; tentano di inserirsi nel mondo del lavoro seguendo un po’ i consigli dei genitori un po’ facendo di testa propria; dipendono dalla famiglia ma si credono indipendenti più per autonomia di pensiero che per altro; e così via…in una fitta lista di comportamenti che da generazioni si ripetono più o meno sempre uguali nei processi di crescita dei figli.
Questo è stato il mio essere figlia. Io così ho vissuto la mia esperienza di figlia. E continuo a viverla. Ecco perché non mi tornavano i conti quando dovevo rispondere al collega incuriosito: non trovavo in questa fitta rete di dinamiche e di relazioni del mio essere figlia dentro e fuori la famiglia, l’essere disabili dei miei genitori.
“Non hai potuto fare esperienze che un genitore con le gambe buone ti avrebbe potuto far fare”. Vero. Infatti ne ho fatte altre. Io non sono mai andata a correre con mio papà. Poco male, correre per me è noioso. Non sono andata sulle montagne russe con mia mamma quando siamo andati insieme a Gardaland. Poco male, mi fanno venire il voltastomaco. Non sono andata a famiglia riunita a fare le camminate sui ripidi e scoscesi sentieri di montagna. Questione di pochi anni: dalla quinta elementare in poi ho passeggiato per i monti durante i campi estivi e invernali della Parrocchia.
Ho fatto altre esperienze con le persone. I miei genitori hanno molti amici, conoscenti e legami con persone disabili, perché legati dall’essere membri di associazioni, per esperienze di infanzia e di gioventù; questo mi ha portato a crescere non solo in una famiglia in cui la disabilità era, per forza di cose, la normalità, ma anche in un ambiente esterno altamente popolato da persone disabili.
Ecco, forse il punto sta qui: per me figlia di due persone disabili la disabilità era diventata la normalità e se litigavo con mia mamma me la prendevo con lei per il suo essere troppo apprensiva; se studiavo con mio papà lo facevo perché aveva una bella mente matematica e mi poteva aiutare. La loro disabilità non aveva nulla a che vedere con la loro genitorialità. E quindi nulla a che vedere con il mio essere e sentirmi figlia.
Non so bene quel collega cosa volesse sentirsi dire: forse si aspettava gli svelassi quanto mi era stato di peso il bastone o la carrozzina di mia mamma nella mia crescita, o forse si aspettava dicessi che erano genitori speciali perché disabili e allora più sensibili, più bravi, più comprensivi e tutta una serie di “più” che ci riempiono di luoghi comuni.
Nulla di tutto questo: due genitori normali, il cui essere speciali sta nel loro essere sempre stati dei genitori che c’erano, figure sulle quali appoggiarsi (nonostante il bastone), spalle su cui piangere e intelligenze con cui giocare; impositori di regole da scappare ma punti di riferimento su cui contare. Questo sono stati.
E la cosa che ora mi fa sorridere è che i ruoli sembrano essersi invertiti rispetto alle considerazioni iniziali. È il genitore del figlio disabile che si preoccupa del suo progetto di vita. E in questo caso come la mettiamo? Chi costruisce il progetto a chi?
Beh io credo che nella nostra famiglia ciascuno abbia collaborato in parte alla costruzione di quello altrui e ciascuno ci abbia messo del proprio per farlo. E questo è successo al di là di ruoli e, soprattutto, al di là di chi fosse o non fosse disabile. I miei genitori disabili, soggetti per cui qualcuno avrebbe dovuto pensare a un progetto di vita, si sono trovati invece a pensare alla vita della loro figlia… questa una bella inversione di rotta. Una bella sfida.