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Autore: admin

Non si deve “prevenire” la vita dei figli

Con l’anno nuovo arriva dall’America la prima notizia sconvolgente: la piccola Ashley, 9 anni anagrafici ma il cervello di una neonata a causa di una grave lesione cerebrale chiamata “encefalite statica”, è stata condannata dai genitori a rimanere per sempre nel corpo di una bambina di sei anni. Proprio così: cervello di neonata, età anagrafica in costante, normale crescita, corpo di una bambina di 6 anni di vita, sospesa per sempre tra l’infanzia e la pubertà, per scelta di genitori e medici che hanno deciso di congelare il suo orologio biologico all’età di sei anni, anche se, essendo perfettamente sana dal punto di vista fisico, dovesse vivere fino a cent’anni. Il padre e la madre l’hanno soprannominata “the Pillow Angel”, l’angelo del cuscino, perché sta dove la metti, letteralmente. Nonostante questo, quando si manifestarono i segni della pubertà imminente, i genitori, in accordo con i medici nello stato di Washington decisero di bloccare il progresso fisico della loro figlia con interventi chirurgici (le hanno tolto genitali, seno, appendice) e con terapie di estrogeni perché non si sviluppasse oltre l’età fisica che aveva raggiunto e perché rimanesse per sempre bambina nel corpo, oltre che nella mente. Questa rivoluzionaria “terapia” ha preso il nome di “Ashley treatment”. I genitori hanno addirittura aperto un blog, in cui raccontano dettagliatamente gli aspetti tecnici e le motivazioni che li hanno portati a elaborare questo trattamento insieme ai medici, e giustificano la loro scelta sostenendo che un corpo leggero e maneggevole sarebbe stato solo un vantaggio per la bambina. Infatti, è più facile gestire un corpo di un metro e trenta per trenta chili di peso, piuttosto che il corpo di una donna adulta. I genitori hanno addotto come motivazioni non la loro comodità nell’assistenza, ma il fatto che un seno abbondante avrebbe potuto essere un ingombro, causare piaghe, attirare malintenzionati nel caso in cui Ashley fosse stata ricoverata in una struttura (sic!), il ciclo avrebbe causato dolori e disagi. L’appendice, addirittura, è stata asportata perché, se si fosse infiammata e quindi avesse prodotto dolori alla bambina, i genitori non se ne sarebbero accorti dal momento che Ashley non è in grado di parlare. In realtà, nel sito i genitori insistono sul fatto che Ashley è vigile come lo può essere un neonato, sorride quando è serena e quando ascolta la musica, specie quella di Andrea Bocelli, o quando è circondata dai fratellini o altri coetanei. Dunque, perché mai i genitori non avrebbero dovuto capire se la bambina fosse stata male? Inoltre, i genitori affermano che il seno l’avrebbe caratterizzata sessualmente, rendendola facile preda di malintenzionati: ma i genitori avrebbero vigilato così poco su di lei da permettere che questo accadesse? E, anche se fosse stata ricoverata in una struttura, un welfare all’avanguardia come quello degli USA avrebbe permesso una cosa simile? I genitori sono professionisti benestanti, l’avrebbero mai ricoverata in una struttura dove potessero accadere tali episodi? Inoltre, con i tempi che corrono, come ci insegna la cronaca, a certi pericoli sono quasi più esposti i bambini che gli adulti!
Scrive il padre: “Lasciarla diventare una donna adulta non avrebbe fatto null’altro che esporla a dolori e indegnità senza scopo”. Ma si può definire un’indegnità crescere normalmente almeno nel corpo, anche se la mente non lo può fare? È indegno che la natura faccia il suo corso? Ed è giusto negarle totalmente e definitivamente la possibilità di un futuro normale? Quello che viene definito “il suo bene” non è un bene oggettivo, lo hanno deciso i genitori: questo va contro il principio della dignità della persona umana, specie se a causa di un deficit la persona interessata non può dire la sua. Anche se ormai sappiamo che chi non si può esprimere a parole, quasi sempre trova altri mezzi di comunicazione col mondo esterno.
Anche in Italia da tempo ormai assistiamo a episodi in cui il corpo viene usato come arma di ricatto: si pensi al caso Welby, o agli scioperi “politici” della fame e della sete. Tutto ciò toglie dignità alla persona, stravolgono il ciclo naturale della vita, spesso per una strumentalizzazione di chi sta intorno a queste persone e pensa di poter gestire il corpo degli altri, addirittura intervenendo chirurgicamente o inducendo la morte. La cosa preoccupante è il fatto che esistono addirittura casi forse più gravi, come quelli legati al protocollo di Groningen, in Olanda, che prevede, nei casi di serie malformazioni e disabilità, che i piccoli che hanno meno di 12 anni possano essere sottoposti a eutanasia.
A proposito del caso Ashley, in tanti hanno espresso la loro opinione. Significative sono state le parole della signora Cometto, madre di una ragazza trentatreenne affetta da una grave encefalopatia che non la fa parlare, camminare, alimentare da sola, né rendersi conto di quel che le succede intorno. “Eppure”, dice la madre, “neanche per un momento in questi anni, seppure la vita mia e di mio marito certo non è stata facile, ho pensato di ‘alleggerirmi’ facendo danno a lei. Perché di questo si tratta nel caso di questi genitori: per ‘comodità’ di gestione, per alleviare i disagi che la crescita avrebbe apportato, hanno stravolto il ciclo naturale della vita di questa creatura, che meritava di crescere comunque, nel suo modo particolare e diverso. Mia figlia spesso ha dato segni di disagio. La riposta è stata affrontare la situazione e trovare soluzioni di volta in volta. Se non sorride so che per mia figlia c’è qualcosa che non va. Se lo fa, invece, so che sta bene. Certamente ha delle esigenze in più, e per questo abbiamo cercato di costruire la nostra vita insieme a lei, per lei. Questi genitori, invece, hanno ‘adeguato’ la loro figlia alle loro esigenze, e non viceversa. Occorre rispetto e dignità per ogni essere umano, che abbia o no una disabilità intellettiva. Purtroppo questo tipo di disabilità nella nostra società è ritenuta, ancora oggi, meno degna di attenzioni. Nessuno si sceglie la vita che ha, ma una volta che c’è la vita va rispettata. Mia figlia sta bene fisicamente perché la curiamo. È amata. Ho visto persone più sane di lei molto più infelici. Lei è capace di sorridere. E se lei non ci fosse stata, nemmeno io avrei potuto capire e imparare tutto quello che so: ho imparato ad apprezzare la vita, a condividere le difficoltà con gli altri. Guardando lei ho imparato a capire con più profondità le persone che ho intorno. La vita è dignitosa se ci viene consentito di renderla tale”.
Come afferma la signora Cometto, quasi sempre è proprio la famiglia a fare la differenza per una persona disabile. Certo, si rischia che le famiglie si isolino, e i genitori pensino di essere gli unici in grado di accudire al meglio il proprio figlio, senza pensare al “dopo di noi”. In questo entra in gioco l’assistenza pubblica, che dovrebbe garantire le migliori condizioni di vita possibili a tutti, indipendentemente dai deficit che si possono avere.
Ognuno ha diritto al suo corpo, i genitori che hanno trattato così il corpo della figlia non hanno rispettato questo diritto fondamentale della persona umana, che è insieme anima e corpo. La famiglia di Ashley è istruita e benestante, in America c’è uno stato sociale ben organizzato, ci sono operatori e assistenti sociali, i genitori difficilmente, in questi casi, sono lasciati soli a occuparsi dei figli. Sembra dunque puro egoismo, una forma di difesa. Bisogna riconoscere che è anche questione di mentalità, e di trovare le persone giuste di cui fidarsi per l’aiuto nell’assistenza del familiare disabile. I genitori di Ashley hanno avuto paura che, essendo comunque una futura donna indifesa, e dovendola prima o poi lasciare sola su questa terra, qualcuno avrebbe potuto approfittarsi di lei, o non essere in grado di assisterla tanto amorevolmente e attentamente quanto loro. Ciò dipende però in gran parte dai genitori stessi, che devono scegliere gli aiuti e i collaboratori giusti fin da subito, persone di cui potersi fidare. Spesso i genitori pensano di essere gli unici che conoscono le esigenze dei figli, dunque gli unici che li possono curare in maniera adeguata. Come dicevamo poco sopra, entra in gioco la questione del “dopo di noi”, e del fatto che spesso i disabili vengono tenuti in casa quasi senza rapporti sociali al di fuori della famiglia, perché in famiglia, pur in buona fede, pensano di proteggerli dal mondo. Invece questo atteggiamento spesso è controproducente. Nel caso particolare, poi, questa sorta di gabbia protettiva della famiglia si scontra con la mentalità diffusa in America, per cui i genitori non vedono l’ora che i figli, appena maggiorenni, escano di casa, perché per tale società è normale che ciò avvenga ed è segno di maturità. Se i figli che studiano al College o lavorano non si rendono indipendenti dalla famiglia, gli americani sono portati a credere che qualcosa non vada in loro.
Inoltre, anche per i genitori di figli cosiddetti “normali” è impossibile pensare di prevenire tutti i pericoli cui, vivendo, sono esposti. Seguendo questo esempio, si potrebbe arrivare a far sterilizzare figli dai comportamenti a rischio o troppo libertini, o pensare di togliere organi nella possibilità che questi possano ammalarsi. Nessun genitore avrà mai il controllo totale sulla vita del figlio, nessuno può evitare che ognuno faccia le proprie, peraltro utili, esperienze di vita ma soprattutto nessuno può prevenire il cancro o altre malattie in cui i propri figli potrebbero malauguratamente incorrere. Non si può “prevenire” la vita dei figli. Evitare che questi facciano esperienze, a costo di dover poi rimediare a qualche loro errore, significa renderli adulti fragili e irresponsabili, così come prevenire ogni banale influenza non permette ai figli di rafforzare il proprio sistema immunitario. I genitori esageratamente protettivi non solo non lasciano i figli liberi di vivere, ma sono loro stessi a non vivere. Il caso Ashley ci mostra come, talvolta, dietro questa iperprotezione dei genitori si nasconda un certo egoismo di fondo, che in questo caso estremo ha negato la possibilità di una vita normale, almeno nello sviluppo fisico, a una bambina a cui non sono stati tolti solo degli organi, ma con essi anche la sua dignità di futura giovane donna.
 

Tra dual-ski e robottini, discese sulla neve per una montagna accessibile a tutti

Il testo riporta, l’esperienza vissuta da Ambrogina Bertone, educatrice professionale che lavora nel distretto di Porretta Terme – Azienda USL di Bologna diretto da Mara Morini.
All’interno del distretto l’educatrice svolge funzioni di referente per i progetti sulla disabilità. Il corso, che rientra nelle azioni del programma aziendale disabilità, si è svolto anche grazie a una convenzione voluta e sottoscritta per il C.I.P. (Comitato Italiano Paralimpico) dal Presidente Giovanni Preiti e per l’Azienda dal Direttore Generale Franco Riboldi.

“La disabilità è ciò che hai dentro di te: quello che si vede, che è fuori di te, non ti interessa”: questa è una frase detta da una persona con una disabilità motoria importante (amputazione bilaterale sotto il ginocchio) che ha partecipato al corso e che, per riavvicinarsi dopo il grave incidente allo sport sulla neve, ha frequentato con successo lezioni di snow-board.
Questa frase richiama ciò di cui parlerò e va letta pensando al contesto in cui si è svolto il corso.
Premetto che parlare di questa esperienza senza un coinvolgimento emotivo e personale risulta molto difficile, perché l’esperienza in se stessa ha richiesto questo investimento: ma d’altro canto sappiamo che la ricchezza o fatica delle nostre professioni, di tutte le professioni che si muovono sullo scenario delle relazioni, è talvolta – anche – quella di fungere da veicoli di storie, esperienze, emozioni, culture e diritti. E di tutto ciò il corso è stata un’impegnativa ma anche ricca opportunità.
Avete mai provato ad avere come compito, magari nel vostro ruolo istituzionale, quello di vivere sulla vostra persona con limiti e risorse, sulla vostra emotività con paure e gioie, sulla vostra professionalità per consolidare alcuni vostri strumenti ma anche per metterne in discussione altri, con altre persone anche non professionalmente “sociali”, attraverso l’utilizzo di sconosciuti ausili ma non solo… il provare cosa proverebbero gli altri?
Bene, questo è stato “Educare allo sport sulla neve” attraverso un processo di ri-educazione.
Il corso si è svolto nella seconda settimana di marzo, a Vidiciatico, un paese dell’Appennino tosco-emiliano, che accoglie il turismo legato alla stazione sciistica del Comprensorio del Corno alle Scale.
La realizzazione del corso in questo Appennino ha un suo significato ben preciso in quanto rientra in un obiettivo del “programma per la tutela delle persone con disabilità” dell’Azienda USL diretto dal Dr. Marostica, che fra le finalità ha quella di valorizzare l’Appennino facendolo conoscere e rendendolo accessibile al maggior numero di persone, anche a quelle provenienti dalla (non così poi lontana) città: un discorso, per cui, di qualità di vita per tutti i cittadini, nonché di integrazione.
Difatti: quante persone sanno cosa offre il territorio che le circonda? Quante di queste hanno mai pensato di scoprirlo? Pochissime. Per alcuni conoscere o meno il territorio, nelle sue risorse e potenzialità, può significare più di una decisione sul se fare o meno una gita, imparare o meno a sciare, perché molti pensano che, a priori, questa possibilità sia a loro preclusa a causa dell’handicap che vivono in seguito ad una condizione di disabilità.
Pensare, credere e sostenere che lo sport è un diritto e risorsa di ogni cittadino e riconoscendo quindi allo sport un’alta potenzialità di integrazione sociale e superamento di una condizione vissuta come difficoltà, è più che una risorsa: è una grande scommessa. Scommessa che, vi garantisco, va vissuta e può essere vinta.
Il gruppo era più che caratterizzato da un aspetto multidisciplinare. Quest’esperienza è stata insieme vissuta da: volontari con professioni diverse, insegnanti di scuole superiori, rappresentanti del C.I.P., psicomotricisti, educatori professionali – del settore pubblico e del privato –, il tutto sotto la competente, professionale e gradevole “guida” di tre maestri di sci: Lorenzo Migliari, campione olimpico nonché responsabile tecnico dell’attività di sci del C.I.P. di Bologna, e Paolo e Giuseppe Morandini, appartenenti alla Guardia di Finanza di Predazzo. I maestri hanno pazientemente condotto il gruppo nell’acquisizione di un bagaglio formativo ben preciso: la conoscenza della possibilità per le persone disabili di praticare lo sci alpino e, prima ancora, di conoscere i propri limiti, divertirsi, giocare all’interno di un evento sportivo, lasciarsi andare, instaurare nuove relazioni, vivere nuovi contesti e in questi misurarsi, acquisire o risvegliare regole di comportamento di vita comunitaria al di fuori del “solito contesto”, riscattare una propria immagine sociale, raggiungere miglioramenti nella mobilità articolare e nella coordinazione motoria, concepire lo sci non più come sport per pochi eletti, vivere in spazi aperti a contatto con la natura…
Questi i, non poco ambiziosi, compiti assegnati al singolo corsista che, attraverso la propria esperienza personale, nel senso di vissuta sulla propria persona, poteva provare cosa vuol dire essere contenuta in un dual-ski , condotta su una seggiovia e, senza possibilità alcuna di poter intervenire con il proprio corpo, lasciarsi da altri guidare in una discesa. Oppure: sciare a occhi bendati lasciandosi guidare. O ancora: vivere la responsabilità nella guida di un non vedente e condurlo su una discesa… tanto altro!
Tutto questo passa attraverso la tua persona, attraverso la tua capacità di entrare in relazione, di trasmettere sicurezza, fiducia, alti valori di rispetto dell’altro, delle sue capacità, risorse, ma anche paure e diffidenze verso una realtà che, veramente spesso, non gli permette grandi possibilità di riscatto della sua personalità e immagine.
In questa esperienza sono stati di grande valore umano, connotato da una indescrivibile capacità relazionale, simpatia e affettuosità, tre persone adulte non vedenti – del gruppo faceva parte una coppia di sciatori professionisti, Giovanna e Maurizio e Silvia Parente, campionessa italiana di slalom gigante nelle Paralimpiadi del 2006, accompagnata dal compagno Lorenzo Migliari uno dei tre maestri di sci – che si sono “adoperate” ad affiancare i corsisti nelle esercitazioni-guida svolte con l’ausilio di un robottino attraverso il quale, con segnali convenzionali, la guida indicava il percorso sulla pista: la partecipazione di persone non vedenti, adulte, è stata importante in quanto si è potuto lavorare bene sul ritorno che le stesse, sulle esercitazioni e le loro impressioni, davano ai corsisti: non pochi i momenti di “panico” e difficoltà nei quali, magicamente, le persone non vedenti percepivano la difficoltà della guida-corsista e prendevano loro in mano la situazione correggendo e incoraggiando la guida stessa.
I corsisti hanno avuto anche la possibilità di apprendere come avviare una persona non vedente alla pratica dello sci. Un ragazzino di 13 anni, che frequenta l’Istituto “Cavazza” di Bologna (uno degli enti che hanno sostenuto l’iniziativa), ha trascorso alcuni giorni con la sua famiglia a Vidiciatico: la sua curiosità verso lo sci e l’approccio allo sport hanno permesso a tutta la famiglia di trascorrere una piccola vacanza in montagna e vivere momenti di relax. Nell’insegnamento al ragazzino abbiamo potuto apprendere anche “grandi-piccoli” insegnamenti su come avvicinare una persona non vedente agli ausili: descrivere, spiegare come è fatto uno sci, un dual-ski, ma anche assicurarsi che ne abbia cura, che lo sappia utilizzare correttamente, sono tutti passaggi importanti che si basano su una relazione che si deve instaurare e che deve essere particolarmente curata tenendo conto della persona (avvicinarsi al suo corpo e muoverlo) e della sua incolumità anche fisica (muoversi in sicurezza).
Uno spazio teorico, seppure “condotto” senza schemi preordinati ma molto proficuo e serio, alla sera permetteva a tutti i partecipanti di raccontare, ri-elaborare e trasmettere i momenti più significativi della giornata. Il proprio vissuto ma anche l’importanza dei ruoli (la relazione educativa / l’intervento del volontario/l’insegnamento dell’istruttore…): anche di questo abbiamo “fatto tesoro” e raccolto in un video che varrà per tutti come testimonianza e utile materiale di lavoro e riflessione.
Stessa iniziativa è stata organizzata la settimana precedente presso il Comprensorio del Cimone, sempre in collaborazione fra gli stessi enti fra i quali non sono ancora stati citati: il Collegio Regionale Maestri di Sci, il Ministero della Pubblica Istruzione, l’AIAS di Bologna, il Centro Documentazione Handicap di Bologna, la Fondazione per lo Sport Silvia Rinaldi, il GLIP di Bologna, la Provincia di Bologna, la Provincia di Modena, e i Comuni dei due Comprensori.
Come sempre, si potrebbe dire che qualcosa poteva essere fatto diversamente: ma veramente prezioso e di alta utilità sociale, è l’impegno di chi al nascere di questa iniziativa ha creduto e ha lavorato, seminando e delineando un “percorso di diritto” per una migliore qualità di vita, per tutti.
E come le migliori semine, anche questa interessante azione formativa vuole crescere e divulgarsi: tanto è già stato fatto con il coinvolgimento di S. e L. Boni, due maestri della locale scuola di sci “Freestyle”, i quali, essendo stati istruiti all’utilizzo degli ausili e avendo partecipato all’esperienza, fanno parte della ricchezza acquisita. Con queste nuove visioni e prospettive, tanto resta, anche materialmente, con gli ausili che sono rimasti in montagna qui su questo territorio, sul quale molto si sta investendo: qui tutti attendiamo nuovi sportivi. I robottini, i dual-ski sono stati preziosissimi veicoli di trasmissione di messaggi, di novità e curiosità per gli altri sciatori, aiutando così a superare alcune barriere!
Pare retorico ma, per onestà verso noi stessi e verso chi ci ha guidato in questa esperienza, va detto: la “ricchezza” personale e professionale prodotta in ogni corsista è inestimabile, e questa non la terremo solo per noi, in alcun senso.
I due gruppi stanno già lavorando: stiamo raccogliendo impressioni, elaborati e producendo documenti per, in autunno, poter raccontare e mostrare di più e… per poter contagiare in vista dell’inverno successivo.
 

Quella volta che parlai con Orecchie a sventola del figlio che non ho

Sono un potenziale papà, potenziale perché per il momento non ho una compagna e anche se l’avessi l’idea di diventare genitore mi farebbe tremare le vene dei polsi. Tutti ora mi dicono che la paternità è una cosa che ti cambia la vita in meglio, decisamente in meglio. La paternità è una cosa che va vissuta, ti dà una gioia che è impossibile descrivere.
Ci penso? Certo che ci penso, eccome se ci penso!
In quelle giornate nelle quali le “ragioni del cuore” hanno il sopravvento, mi ritrovo spesso a pensarmi genitore, alle cose da fare con il figlio, mio figlio, alle cose che potrei insegnargli: a camminare, a corrermi incontro, la prima volta in bici senza le rotelle… le cose del cuore, le cose che ci danno gioia.
No ho figli, un giorno potrei averne uno… e se il mio potenziale figlio avesse un deficit?
È una cosa molto strana non ci si pensa quasi mai, “le ragioni del cuore” vogliono solo il meglio, ma in fondo cosa vuol dire meglio?
Molti mi hanno detto che la salute è molto: “Spero che mio figlio cresca sano”… Ma un individuo con una disabilità non è mica per forza ammalato, conosco alcune persone disabili che godono di salute migliore della mia; e allora cosa ci aspettiamo dalla vita? Qualcuno, forse un pochino più coraggioso, mi ha detto: “Io spero sia normale!”.
… Spero sia normale…
E poi succede, ti ritrovi genitore. Ti occupi amorevolmente del tuo bambino fin dal primo giorno, canticchi melodie sul radioso futuro e fai il possibile per proteggerlo dagli eccessi delle persone, fino a quando, un paio di anni dopo, un medico ti spiega quello che in realtà tutti sapevano da tempo.

Quando l’indomani mattina si svegliò nell’armadietto, Orecchie a sventola udì una voce che piangeva. Si alzò e corse nella camera da letto dei genitori, dove meno di un’ora prima Bjork aveva dato alla luce una minuscola bambina cianotica. "Sì, sì,” aveva detto Askild non appena si era reso conto di essere stato defraudato di un altro figlio maschio, “lei non ci può fare niente”. Nell’arco degli anni adottò un atteggiamento nettamente discriminatorio nei confronti dei tre figli: “Voi due,” diceva spesso ai maschi, “dovete darvi una mossa, altrimenti sono legnate!”. Mentre per quanto riguardava la bambina, si limitava a dire: “Santo cielo, fa quello che può”. E quando era brillo, cosa che capitava spesso e volentieri, si sentiva traboccare il cuore e la prendeva in braccio imitando i suoi strani borbottii.
(Brano tratto da: Testa di cane di Morten Ramsland)

Il medico gli spiegò che la piccola era cerebrolesa, e che con ogni probabilità non avrebbe mai parlato. Dopodiché un vento gelido si insinuò nel suo cuore. Ma questo non significa che prese a trascurare la figlia: apparentemente non era cambiato nulla. “Non si può fare un solo appunto sul modo in cui l’ho tirata su,” disse molti anni dopo, “però ho sempre avuto un debole per i maschi”.
“Su, saluta come si deve la sorellina,” disse Askild sollevando Orecchie a sventola per fargli dare un bacio alla neonata.
“No, non voglio,” protestò Niels junior, ma il padre fu irremovibile.
“Forza,” brontolò, “dalle un bacio sulla guancia!”.
(Ibidem)
L’atmosfera magica era bel’e sparita e, mentre tornava a casa percorrendo le strade di Bergen insieme alla piccola Anne Katrine, Bjork capì che doveva occuparsi di più del figlio. Non potevano permettersi di perdere anche lui.
(Ibidem)

Bjork si destò, ordinò di mettere a letto i bambini e si trincerò sotto un’altra coperta, per poi abbandonarsi di nuovo ai sogni…
Nei trent’anni che seguirono, Bjork acquisì un terrore per le finestre aperte, un’attenzione maniacale per le correnti d’aria, un debole per le maglie di lana e un’ossessione quasi patologica per le sciarpe. “Ricordati la giacca, la sciarpa e attento a non prendere freddo,” raccomandava a turno a tutti i membri della famiglia quando stavano per uscire. Pezzo di ghiaccio, avrebbe bisbigliato Zanna. Io, invece, ho voluto interpretare la faccenda sotto un’ottica leggermente diversa: ossia, come un terrore del freddo, di quello che aveva sentito dentro di sé quando, nel 1954, il dottor Thor aveva formulato la diagnosi. L’indomani nessuno in famiglia notò qualche cambiamento nel suo modo di trattare la figlia: l’unica differenza palese rispetto al giorno prima consisteva nel fatto che, all’ora di metterla a letto, la canzone sul radioso futuro scomparve per sempre dal repertorio ma, guardando con gli occhi della zia grassona, vedo comunque un certo distacco, su cui non mi soffermerò oltre. Per contro, i cambiamenti della vita emotiva di Askild furono chiari a tutti: già la sera dopo si adoperò con tutte le forze per far camminare la figlia, e nelle settimane che seguirono provò con astio crescente a insegnarle a dire “papà”. All’inizio ottenendo come unico risultato il pianto, ma quando infine, all’età di sei anni, Anne Katrine cominciò a camminare e a sette pronunciò la parola magica “papà”, Askild considerò questi progressi un merito personale, anche se ormai aveva bel’e rinunciato a insegnare alcunché alla figlia.
(Ibidem)

Il libro mi capitò tra le mani per sbaglio. Non ricordo chi mi disse che non sei tu che scegli i libri, ma solo loro che scelgono te…A questa affermazione ho sempre sorriso e con una scrollata di spalle me ne andavo in libreria a scegliermi il libro che più mi piaceva.
Poi è successo che ho visto la copertina di Testa di cane e il libro mi è finito in mano, giuro che non io non ho fatto niente.
Inizio a leggerlo e devo ammettere che è proprio bello, mi rapisce e non posso far a meno che continuare la lettura. Poi arriva, arriva come un lampo e non posso far a meno che fermarmi, poggiare il libro e pensare.
Un figlio. Mio figlio con una disabilità! Ci penso per un po’ perché sono turbato, sono turbato e un po’ mi dà anche fastidio… Come è possibile? Lavoro nel mondo dell’handicap, lavoro in un posto che ha sposato un’idea di disabilità non come cosa negativa ma come una risorsa. Io ci credo, quando parlo di questa cosa mi infervoro, sono sicuro del fatto che una persona con un deficit sia uguale a un’altra normale, sono arciconvinto… Ma adesso ci potrebbe essere mio figlio e io non so più cosa pensare, la prospettiva cambia bruscamente e ho paura.
Cosa accadrà adesso nel rapporto con la mia compagna, è vero che la mia vita adesso non sarà più la stessa? Sarà vero che tutte le mie energie adesso saranno rivolte a mio figlio, a quel figlio che: “… la prima volta in bici senza rotelle”?
Per un po’ mi ritrovo a camminare per casa senza bene capire a cosa sto pensando.
Ho paura che l’affetto che dovrei provare per mio figlio possa risentire della presenza del vento gelido che ho nel cuore, e ho paura di arenarmi sulla spiaggia, nel perdermi cercando di dimostrare che mio figlio è normalissimo, proprio come succede al padre protagonista del nostro libro.
Sboccerà mai l’amore tra me e questa creatura? Comincerò mai a partecipare ai suoi giochi muti e lo porterò giù in strada con me, e come reagirò quando incontrerò gli occhi delle persone con le quali un tempo mi fermavo a chiacchierare sotto casa e ora se la filano sull’altro marciapiede?
Sinceramente non so darmi delle risposte e questo mi lascia ancora più stordito.
Forse, ha ragione il piccolo Orecchie a sventola, devo smettere di pensare e di ragionare troppo su questa faccenda, in fondo il trionfo vero arriverà solo quando i vecchi amici pian piano smetteranno di raggiungere l’altro marciapiede e prenderanno ad avvicinarsi per dividere le loro esperienze di genitore con me perché avranno capito che io non ho paura e che mio figlio è semplicemente normalmente diverso.

 

I trent’anni di “ZAC ZAC ZAC”

Come ogni sera, seduti attorno al tavolo della cucina, aspettando di vedere l’unico telegiornale della giornata, ci sintonizziamo su Rai1, e ci accoglie il faccione lampadato di Carlo Conti che ci introduce al gioco finale della ghigliottina. La prima parola, che senza alcuna ragione dimezza il montepremi della campionessa della serata è “4 Agosto”. Subito il mio cervello inizia a frullare, ma l’unico collegamento che mi viene è S. Nicodemo. Cala, spietata, la seconda parola: “77”, e io penso alle gambe delle donne. Ma che nesso ci può essere fra S. Nicodemo e le donne? Non ci voglio nemmeno pensare. La seguente è “Cambiamento”… ancora non vedo alcun nesso logico. La quarta, che finalmente la concorrente azzecca (ma per pura fortuna secondo me) è “30”. Tombola!, penso spazientito, ma cosa sono tutti questi numeri stasera? Il 4 di Agosto, il 77, il 30… sono decisamente confuso.
Provo a fare somme e sottrazioni, cerco di ripescare nei miei ricordi un evento storico avvenuto il 4 Agosto, ma a scuola la storia non era la mia materia forte… Ehi! Proprio la parola scuola mi fa intravedere un lumicino lontano lontano… Che la parola segreta sia… Ma l’ultima delle cinque parole elencate da Carlo Conti mi ributta nel buio totale, perché è “Zorro”. Zorro?! Ma allora ero completamente fuori strada! Io infatti avevo pensato che la soluzione fosse “integrazione”, e fino a qui ci rientrava tutto. Vi interessa il mio ragionamento? Allora, tanto per cominciare il 4 Agosto dell’anno 1977 è stata emanata la Legge sull’integrazione scolastica per gli alunni in situazione di handicap nelle scuole statali; trenta sono gli anni passati da quella data (già trenta?), in cui è iniziato quel processo di cambiamento che sta diventando storia…
Sarebbe tutto più semplice se Zorro non scombinasse i miei piani. Dunque, Zorro era un bandito messicano che difendeva il popolo dalle tirannie del governo. Il suo stile dark con mantello, mascherina, cappello e cavallo nero mi ha sempre affascinato. Ancor più di lui mi ha sempre affascinato il suo aiutante: Bernardo era muto e con la gente faceva finta di essere anche sordo, solo Zorro conosceva il suo segreto così come solo Bernardo conosceva quello di Zorro. Quella di Bernardo era un posizione davvero strategica: fingendo la sordità egli poteva carpire dalla gente informazioni utili senza essere minimamente sospettato. Tra Zorro e Bernardo c’era quindi una grande complicità e una reale integrazione.
Un’altra cosa che mi piaceva molto di Zorro è che lui lascia il segno del suo passaggio… Giusto! Anche l’integrazione lascia un segno! In questi trenta anni l’integrazione ha lasciato migliaia di segni, ognuno dei quali è stato un fondamentale tassello per un cambiamento culturale e sociale. L’integrazione deve lasciare un segno, altrimenti è solamente “inserimento” (in effetti nella parola inserimento non c’è la Z!).
Ecco trovata l’analogia tra Zorro e integrazione… Allora io scommetto sulla mia soluzione! Dopo la suspence ecco Carlo Conti che tira fuori la soluzione dalla busta colorata, lentamente gira il foglio e… Avevo ragione! Peccato, avrei potuto vincere centomila euro!
E voi in questi anni quanti segni avete lasciato? Allora cavalcate il vostro nero destriero Tornado e… ZAC ZAC ZAC a tutti!
 

Il leone e la zebra

Parecchi anni fa ho visto un documentario sulla vita animale nella savana, uno di quei classici documentari che ogni tanto fa bene guardare perché si vede un mondo pre-umano, come se l’uomo non fosse mai vissuto su questo pianeta (il che a conti fatti sarebbe stato meglio per tutti gli altri esseri viventi, dato che sono tantissime le specie che si stanno estinguendo a causa della nostra acuta intelligenza). Il documentario descriveva le varie tattiche che molti erbivori mettono in pratica per difendersi dai predatori: una di queste è tipica delle zebre. La fatidica domanda che ci chiediamo dalle scuole elementari – “Ma perché le zebre sono juventine? Perché sono a strisce bianche e nere?” – finalmente ha una risposta. Attraverso la selezione naturale, le zebre hanno sviluppato il loro caratteristico manto per essere meno individuabili dai predatori e per un motivo semplice e molto interessante. Quando il leone di turno scatta dietro a un branco, il fatto di vedere passare decine di zebre tutte uguali, centinaia di righe bianche e nere in movimento, gli fa perdere la concentrazione, non riesce cioè a concentrarsi su una zebra in particolare… per cui finisce quasi subito per spomparsi e lasciar perdere… almeno qualche volta. Se non c’è una zebra che abbia una qualche particolarità, che sia ad esempio più isolata dal branco, o resti indietro perché è più lenta, per il leone è difficile fissare le sue energie su una in particolare e alla fine questa tecnica di fuggi-fuggi di massa, di confusione di massa funziona.
È molto interessante questo meccanismo psicologico, ed è lo stesso, credo, di quello che accade quando consideriamo le ingiustizie su questo pianeta: nel loro insieme ci sembrano una massa indistinta e il nostro possibile apporto per trovare una soluzione sembra veramente una goccia nel mare. Migliaia di bambini muoiono ogni giorno per fame, ma questo fatto non emerge nemmeno più da questa massa indistinta: come si dice, non fa notizia. Qualcosa qua e là emerge, quando fa rumore, per poi quasi subito inabissarsi nell’oblio. Oggi sono i tragici fatti che accadano in Birmania, gli stessi che abbiamo visto nel 1989 sulla piazza di Tien An Men. Ma ancora il Darfur, il Tibet, l’Iraq… e via così finché la nostra attenzione si perde, si spompa, per magari approdare a cose più terra terra, alle quali alla fine applichiamo una attenzione maggiore, come il rigore non dato (come al solito) proprio alla Juventus.

Numeri come zebre
Prendo in mano un numero della rivista “Amici dei lebbrosi” (per l’esattezza il n. 7/8 di quest’anno), organo dell’AIFO, la ONG degli amici di Raoul Follerau. Ci trovo un articolo di Giampiero Griffo che ci informa che: “Le persone con disabilità sono circa 650 milioni e l’82% di loro vive in paesi in cerca di sviluppo. Il 98% di queste persone non ha accesso ai servizi riabilitativi. Nel mondo più dell’85% delle persone con disabilità non ha un impiego e solo il 2% dei minori ha una educazione formale”.
Cosa di prova a leggere una cosa del genere? 650 milioni? Sono circa un decimo della popolazione mondiale! A leggere questi numeri ci si sconforta, si è presi da una sorta di apatia e di rigetto. Anche perché è evidente che nel Sud del mondo la disabilità non è frutto del caso, non è frutto di processi che non sono ancora sotto il nostro controllo. Anzi. A differenza della maggior parte dei casi che si presentano nei nostri paesi, nel Sud del mondo la disabilità è frutto di ingiustizia. Si stima che il 50% delle disabilità sono prevenibili e direttamente causate dalla povertà. Fame, malnutrizione, disabilità e povertà sono legate; la malnutrizione causa circa il 20% delle lesioni. Ma come se non bastasse ci sono anche poveri di serie A e poveri di serie B. Leggiamo infatti poco più avanti: “La condizione di disabilità è causa ed effetto di povertà perché le persone con disabilità sono soggette a discriminazioni e a mancanza di pari opportunità che limitano la loro partecipazione sociale e violano i loro diritti. La visione negativa che la società trasferisce sulle persone con disabilità produce un fortissimo stigma sociale che ha conseguenze nella vita economica, culturale, politica e sociale. In caso di guerra, di catastrofi naturali e umane le persone con disabilità sono le prime a patire le terribili conseguenze delle emergenze, spesso con la morte e la mancanza di attenzione alla loro condizione. Per questo le persone con disabilità rappresentano i più esclusi fra gli esclusi, i più discriminati fra i discriminati, i più poveri tra i poveri”.
Povertà e disabilità sono strettamente correlate ed entrambe sono frutto di una ingiustizia di fondo, quella che vede una non distribuzione della ricchezza tra gli abitanti di questo pianeta. La Banca Mondiale stima che le persone con disabilità sono comprese tra il 20% dei più poveri dei poveri.
La disabilità riguarda non solo gli individui ma anche le loro famiglie e le comunità. Si ritiene che la vita del 25% della popolazione nella regione Asiatica sia influenzata dalla disabilità.
Il leone a questo punto si ferma. Quando si parte con l’intento di colpire preciso, di essere efficaci, di dare una zampata alle ingiustizie, anche le buone intenzioni di fronte a questo disastro restano sconcertate, non si sa da dove partire. La massa di milioni di poveri resta lì, indistinta, imprecisa e il senso di impotenza ci invade.

Da azione a relazione
Ma nello stesso numero di “Amici dei lebbrosi”, troviamo una via di uscita dallo stallo. Troviamo una risposta. L’AIFO è una ONG che è riuscita a mettere in piedi tantissimi progetti di aiuto basati su quella che viene chiamata la Riabilitazione su Base Comunitaria, partendo cioè dalla consapevolezza che l’unico modo di operare un cambiamento in positivo è fare leva sulla comunità. Non serve tanto costruire un ospedale nel deserto ma è molto più efficace dare la formazione e gli strumenti per la riabilitazione innanzitutto ai disabili stessi, alle loro famiglie, agli insegnanti del villaggio, agli operatori sociali che vivono lì.
Dai milioni di poveri, dalla massa indistinta di disabili, attraverso la finestra della rivista “Amici dei lebbrosi” emergono invece delle storie, delle persone, dei volti, come quello di Pupala Satyavati, una ragazza che è riuscita a vincere la lebbra. Veniamo a sapere della possibilità di creare gemellaggi come quello tra la scuola primaria di Dolceacqua (IM) e la scuola Naye Asha in India. Oppure ancora troviamo esperienze concrete come quella straordinaria dei “Tambores do Tocantins”, di Porto Nacional in Brasile, che quest’anno hanno fatto una tournée proprio qui in Italia e che sono nati con lo scopo di contribuire alla preservazione delle tradizioni brasiliane, particolarmente nell’area della percussione. Si sono così resi accessibili a bambini, giovani e adolescenti il contatto e la conoscenza delle proprie radici musicali attraverso la riscoperta delle tecniche di costruzione degli strumenti, salvando dalla scomparsa alcuni di questi, come il tamburo di Rabo o Roncador, il tambor de barro.
Non più una massa grigia e indistinta ma persone e volti, colori e storie.
Il grande salto si fa poi quando dalla logica dell’azione passiamo a quella della relazione, e anche la logica dell’aiuto diventa un’altra. Non è più la logica del leone che aggredisce e colpisce. Nella relazione avviene uno scambio e il gioco delle parti non è più a senso unico, si ribalta. Anche i numeri cambiano: la relazione si può avere solo con poche persone. Don Milani, che pure era un uomo dal cuore aperto, diceva che non si può amare più di 40 persone! L’aver cura, dice il teologo brasiliano Leonardo Boff, è quello che ci rende umani, è la cifra del nostro essere. Individualmente possiamo aver cura solo di poche persone, la relazione avviene solo con chi ha un volto, la relazione si dà tra persone che hanno deciso di fare un cammino insieme. Madre Teresa di Calcutta, a chi le chiedeva qual era la persona più importante della sua vita, ha risposto: “Quella che ho davanti in questo momento”. Non serve quindi andare a cercare tanto in là, ognuno di noi incontra persone ed è a partire da queste persone cui abbiamo iniziato a voler bene che possiamo attuare un cambiamento. È come dire che il vero cambiamento parte da noi stessi, in quanto ci lasciamo cambiare dalle persone che abbiamo incontrato. Paulo Freire diceva: “Nessuno libera nessuno. Nessuno si libera da solo. Ci liberiamo insieme nella comunione”. La risposta è nell’essere comunità, abbandonando la logica del primo mondo che come un leone vuole colpire la zebra, vuole arrivare in un paese del Sud del mondo e cambiarlo in meglio, senza avviare un confronto con la comunità e in questo confronto ridisegnare i propri obiettivi e atteggiamenti. Max Robson, un educatore brasiliano di Vila Esperança, che è uno dei tanti progetti aiutati da AIFO, lo ha detto bene durante un incontro in una scuola elementare di Casalecchio di Reno (BO): “Non ci sono bambini poveri e bambini ricchi. Ci sono solo bambini ricchi, alcuni dei quali poveri di soldi”. Aiutare vuol dire quindi scoprire questa ricchezza, viverla insieme, scoprire che, per dirla sempre con le parole di Robson, la persona non è il problema ma la soluzione del problema.
C’è sicuramente un livello politico sul quale dobbiamo fare pressione perché ci sia un cambiamento di attenzione e prospettiva. Basti pensare che perfino le attività di cooperazione internazionale allo sviluppo non si occupano delle persone con disabilità (una ricerca ha fatto emergere che nei paesi della Unione europea solo il 2-5% dei fondi è destinato a progetti sulla disabilità).
Ma c’è un altro livello, ed è alla portata di tutti noi. La domanda allora non deve essere più: “Cosa fare e come farlo?” – ma dovrebbe essere: “Sono disposto a incontrare l’altro e a fare un cammino di strada insieme a lui?”.
 

IN macchina… si vive e si viaggia meglio

Prossima l’uscita di “GuidAbile” quarta pubblicazione della collana “Incontri Coloplast”, di cui la Cooperativa Accaparlante è autrice, preceduta da due guide turistiche che scoprono percorsi accessibili nelle città di Verona e Napoli e da “AbitAbile” una pubblicazione che riguarda l’accessibilità degli spazi domestici.
Una guida dedicata al mezzo di trasporto privato per eccellenza: l’automobile. Molti sostengono come l’auto sia uno dei grandi amori degli italiani. In tutte le nostre case ne è presente almeno una; ormai le famiglie hanno a disposizione un mezzo per ogni componente che spesso evolve nel tempo con la crescita dei figli, per passare dal motorino dei 14 anni alla macchina con lo scoccare della maggiore età. Questo rende come nel nostro paese si affidi all’auto la responsabilità maggiore dei nostri spostamenti. La nostra libertà di movimento sembra essere garantita da un’auto di nostra proprietà o comunque da un’auto con cui potersi liberamente muovere. L’automobile ci permette di non essere vincolati a orari per i nostri spostamenti, come invece i trasporti pubblici ci impongono; sembra essere la possibilità di muoversi senza limiti, se non quelli imposti dalle norme di circolazione vigenti. Se questo è vero per chiunque, lo è a maggior ragione per persone che abbiano problemi di mobilità o di deambulazione, magari a causa di un deficit fisico.
GuidAbile” si propone di essere uno strumento soprattutto utile per chi lo prenda tra le mani, al cui interno trovare tutte le informazioni necessarie a intraprendere il percorso per mettersi alla guida. Una prima parte è dedicata all’iter per prendere la patente o per riclassificare una patente già in possesso (si pensi al caso di una disabilità acquisita o progressiva): a partire dalla visita presso la Commissione Medica Locale, fino ad arrivare all’esame di guida conclusivo. Un secondo capitolo, la sezione più corposa della pubblicazione, è dedicato agli adattamenti dei veicoli e alla presentazione di tutte le soluzioni tecniche approvate dal Ministero dei Trasporti per la guida delle persone disabili: dalla guida in carrozzina ai singoli dispositivi (affiancati dai codici comunitari stabiliti dalla Comunità Europea), quali freno, frizione, centraline per l’azionamento dei comandi elettrici, acceleratore, dispositivi per l’ingresso in auto, ecc. Un terzo capitolo viene riservato alle questioni di natura puramente fiscale e tributaria legate all’acquisto e all’adattamento dell’auto. A chiusura, una panoramica sulle norme di circolazione e sosta quali richiesta del contrassegno, posteggi riservati e circolazione nelle zone a traffico limitato. La pubblicazione è corredata di informazioni utili nelle quali sono riportati i riferimenti dei centri che si occupano di accompagnare la persona in tutto questo iter della “messa alla guida” dislocati su tutto il territorio nazionale.
Una ricca panoramica che rende la natura di “GuidAbile”: uno strumento pensato per persone alla ricerca di risposte pratiche e di soluzioni concrete. Si tratta cioè di un prezioso vademecum ricco di informazioni pratiche per orientarsi nella moltitudine di norme, regolamenti e consuetudini, spesso poco comprensibili ai più, che a volte rendono davvero difficile capire cosa vada fatto e come. Coerentemente con quanto realizzato con la precedente pubblicazione, “AbitAbile”, anche questo lavoro punta molto sul significato fortemente evocativo che l’automobile, così come la casa, ha in sé.

Viaggiare, spostarsi e superare gli ostacoli del movimento
Quando abbiamo cominciato a pensare come doveva essere questa guida, ci siamo posti alcune domande. La macchina pensata solo come un mezzo di trasporto o come uno strumento per l’autonomia? Probabilmente i due pensieri non discostano molto o, comunque, uno non esclude l’altro. L’auto evidentemente è un mezzo di trasporto che ci serve per essere autonomi o, comunque, per migliorare la nostra autonomia. Non solo ci permette di non essere vincolati ai trasporti pubblici ma è un qualcosa che è nostro e che, come tale, può essere personalizzato. Viaggiare su un mezzo che sentiamo essere “nostro” fa spesso la differenza. Così come la casa, anche l’auto non è solo un contenitore cui noi ci adeguiamo: dovrebbe essere più vero il contrario. La macchina, un mezzo per spostarci, che sia invece costruito attorno a noi, secondo una prospettiva completamente ribaltata: anche l’auto può essere a nostra misura. Questo è vero soprattutto quando la persona che si mette alla guida ha difficoltà di movimento e necessità di adeguamenti per poterlo fare. Si tratta a questo punto di apportare delle modifiche al mezzo capaci di integrare le capacità della persona: i dispositivi non sono altro che accorgimenti, talvolta anche molto semplici, che si sostituiscono a movimenti impossibili per la persona al volante. Quando non arriva la mano dell’uomo, arriva la tecnologia.
Chi ha già percorso questo iter sa bene come tutte queste modifiche all’auto in realtà vengano imposte da una Commissione Medica in sede di visita per l’ottenimento dell’idoneità e potrebbe dunque obiettare quanta poca sia la libertà dell’individuo nell’adattarsi il mezzo, per costruirselo a propria misura. In parte è vero. In parte no. Ciascun dispositivo esiste in diversi modelli proprio per andare incontro alle possibilità e alle esigenze della persona che dovrà farne uso. Ed è assolutamente vero come si tratti di dispositivi molto più personalizzabili di quanto non si pensi, nei quali è importante che si ascolti anche la voce della persona per la quale sono pensati. Il ruolo dei Centri di Mobilità spesso va in questa direzione: rendere il più personalizzato possibile tutto il percorso di adattamento dell’auto, a partire dalle prescrizioni delle Commissioni Mediche.
La persona dunque ha sempre un ruolo. Un ruolo fondamentale e mai passivo.

Un’auto a misura
Un’auto costruita attorno alle esigenze, ma anche ai gusti, della persona. Uno strumento per muoversi e per migliorare la propria autonomia. Tutti ricordiamo, credo con piacere, l’arrivo dei 18 anni, per tutta una serie di motivi, non ultimo proprio l’atteso traguardo della patente. E non certo per avere quel pezzo di carta rosa in tasca. La patente è per tutti una meta ambita proprio perché rende la libertà degli spostamenti. Sembra quasi sancire il “non dipendere più da nessuno”. Restringendo il campo e limitandolo più semplicemente a quello degli spostamenti non si va a toccare comunque l’enorme valore che la libertà di spostarsi in autonomia porta con sé. Questo probabilmente è più vero quando si tratta di persone che già nella vita quotidiana godono di autonomie ridotte a causa di un deficit. La persona disabile che arriva a rendersi autonoma nella gestione degli spostamenti aggiunge un pezzo importante a quel puzzle che è la costruzione della propria vita. Allora suonerà diversamente anche solo la scelta di un lavoro che presupponga uno spostamento dalla propria abitazione, si apriranno tutte quelle possibilità legate ai mille movimenti che ormai riempiono la vita di chiunque. Non avere sempre bisogno di qualcuno per viaggiare significa anche acquisire sempre maggior libertà in tutti quei processi decisionali che riguardano la propria vita.
Questo è vero anche per tutti coloro che magari non riescono a guidare ma possono comunque prevedere la messa in uso di un’auto di proprietà che, magari, venga adattata per il trasporto. Adattare un’auto propria e viaggiare con quella è sostanzialmente differenze rispetto al dover dipendere costantemente da taxi o da mezzi adattati di una qualche associazione o ente che si occupa di trasporto per persone disabili. Questi servizi sono assolutamente fondamentali. Ma laddove vi sia la possibilità, la voglia e le risorse per adeguare un mezzo e lasciarlo poi alla guida di qualcuno che si presta a farlo, si tratta comunque di operare nella direzione di un’acquisizione di maggior autonomia. Anche solo per la banalità di poter scegliere quale macchina, di che colore, con quale rampa per salire e con quale tappezzeria per i sedili. E rimane comunque qualcosa di costruito ad hoc. Forse in questo caso non ci sarà la libertà di partire all’orario preferito se non previo un accordo con qualcuno che guida al nostro posto ma… le chiavi saranno sempre nelle nostre tasche. E… anche questa è una bella autonomia e un bel pezzettino di quel puzzle.

 

Il mito del “buon disabile”

Al di là dei frequenti episodi di bullismo delle cronache recenti, parallelamente, e forse per reazione, va alimentandosi una visione falsamente buonista dell’handicap, che finisce spesso col rivelarsi deleteria per le persone con deficit.
Per esempio nel cinema capita spesso di osservare questa percezione piuttosto edulcorata. Facendo una piccola ricerca su internet, si nota subito la quantità di titoli che vedono fra i protagonisti soggetti con qualche disabilità, soprattutto sensoriale o psichica. Ma poche sono le commedie che trattano questo argomento, i più sono film drammatici che insistono sulle condizioni di svantaggio dei soggetti disabili e sulle difficoltà che la loro debolezza comporta. Come nel Settecento esisteva il “mito del buon selvaggio”, così oggi esiste il “mito del buon disabile”. Quest’ultimo sembra essere una sorta di santo nell’immaginario collettivo, che non può fare nulla di male o che, comunque, non risponde direttamente delle sue azioni se, per esempio, ha qualche handicap mentale. Ma il fatto che chi è immobile in carrozzina o in un letto non abbia libertà di azione, non significa che non abbia pensieri sbagliati o che, potendo, non farebbe qualcosa di male. Racconterò al riguardo un piccolo aneddoto: mi trovavo a Loreto in compagnia di mia madre quando due anziane signore si sono avvicinate con un’espressione eloquente a metà fra la compassione e la tenerezza. Dopo avermi salutato con il tono di chi parla a un bambino di cinque anni, hanno cominciato a toccarmi, più o meno come si fa con la reliquia di Sant’Antonio da Padova, dicendo che volevano portare con sé un po’ della mia santità, perché sicuramente io godevo di una considerazione particolare da parte del buon Dio e avrei concesso loro, per intercessione, qualche grazia! Insomma, neanche Padre Pio gode di tanta fiducia! Se avessi saputo prima di avere a disposizione questo “canale privilegiato” ne avrei sicuramente approfittato per qualche piccola richiesta personale, o per dispensare grazie ai bisognosi! Scherzi a parte, non è da sottovalutare questo “mito del buon selvaggio” in versione del “buon handicappato”: infatti, il primo veniva usato, in epoca coloniale, per coprire i maltrattamenti e le vessazioni di cui erano vittime gli indigeni del Nuovo Mondo.
L’incontro col diverso è sempre ambivalente: se da un lato il confronto intimorisce, dall’altro ci si figura una persona immobile in una carrozzina al pari di un “selvaggio” fermo allo stato di natura, innocente e non sottoposto alle diverse cause di corruzione dell’uomo che vive in società. Spesso ci sono persone e correnti politiche che, apparentemente, si battono per i diritti dei “diversi”, per poi magari sostenere idee abortiste o a favore dell’eutanasia, quindi che colpiscono i più deboli fra i deboli, perché totalmente indifesi. Ecco allora di nuovo la contraddittorietà dei tempi delle grandi scoperte geografiche: da un lato si promuove il mito del diverso come più felice nella sua invidiabile e incorrotta innocenza, dall’altro si cerca in tutti i modi di “civilizzarlo”, portando quella corruzione del progresso che non aveva apparentemente subito prima.
Anche il cinema offre la stessa visione buonista del “selvaggio – handicappato”: quest’ultimo è sempre presentato in uno stato di natura, in una situazione di innocenza incorrotta. Poi, i cosiddetti “normali” intervengono e macchiano il candore del “diverso”. Quasi tutti i film sull’argomento presentano in maniera simile il soggetto disabile, sia che abbia qualche deficit fisico, sia mentale. L’incontro con la normalità sconvolge gli equilibri, e il disabile diventa, a seconda dei casi, vittima o carnefice, mai equilibrato o saggio, e neppure realmente cattivo. Tutte le azioni che, nella pellicola, il disabile compie, sono giustificate dalla sua impossibilità di fondo a “peccare”, o a fare del male volontariamente, o a essere ritenuto totalmente colpevole del proprio operato.
Diffusa è l’idea che l’innocenza dipenda anche dall’immobilità fisica o culturale, che fa rimanere le persone come bambini. A me, per esempio, è capitato non solo di essere creduto molto più giovane di quanto io non sia in realtà, ma addirittura che mi scambiassero per il figlio di un mio collaboratore, più giovane di me di vent’anni! Inoltre, si tende sempre a dare del tu alle persone disabili, e in generale a coloro che appaiono in condizione di debolezza e inferiorità: per esempio, spesso le persone anziane si sentono chiamare “nonno” anche da perfetti sconosciuti, nei negozi come negli ospedali o per strada. Tendenzialmente il “tu” si usa per simpatia ma, se usato fra due adulti che non si conoscono, senza esplicito consenso di uno dei due, sottolinea un rapporto percepito come non paritario. Nel caso degli adulti con deficit, essi vengono sempre chiamati “ragazzi”, anche quando hanno cinquant’anni, proprio come i selvaggi, che a nessuno verrebbe in mente di chiamare “signore”! L’appellativo “ragazzi” usato per le persone con disabilità è diventato quasi un luogo comune: anche gli ospiti dei centri, delle comunità o simili vengono sempre, genericamente definiti “i Ragazzi”, e talvolta sono proprio i loro stessi genitori che tendono a mantenere il figlio disabile in questa sorta di eterna fanciullezza, in un limbo in cui le potenzialità, anche se limitate, di autonomia della persona disabile vengono azzerate, dato che i genitori si sentono più tranquilli nel seguire personalmente il proprio figlio. Frequentemente, anche nel caso di giovani perfettamente normali, si vivono con eccessiva apprensione le manifestazioni di indipendenza dei propri figli, talvolta limitandone le scelte e l’autonomia. A maggior ragione, dunque, i genitori dei ragazzi disabili tendono a essere iper protettivi, e il fatto di mantenerli sempre “ragazzi”, anche solo a parole, dà loro l’idea di poterli meglio proteggere. Addirittura, è di non molto tempo fa la notizia di due professionisti americani che hanno sottoposto la figlia disabile di nome Ashley a una serie di interventi e trattamenti ormonali per mantenerla per sempre bambina nel corpo, come lo è nella mente. Questo è stato fatto soprattutto per poterla meglio gestire dal punto di vista dell’assistenza, quindi con una motivazione fondamentalmente egoistica. Tuttavia, essi hanno giustificato la loro decisione proprio sostenendo di voler proteggere la piccola Ashley dai pericoli che il mondo esterno riserva alle giovani donne e dai fastidi che si sarebbero aggiunti con la pubertà al suo già sofferente corpicino. Anche molti genitori di figli perfettamente normali li chiamano “il mio bambino” anche a cinquant’anni, e questo nomignolo affettuoso in realtà influisce sulla percezione di sé e sulla psiche dei soggetti, regalando la convinzione di essere davvero ancora bisognosi dell’aiuto della mamma, o comunque di essere legittimati a ricorrere ad aiuti esterni di fronte a ogni minima difficoltà.
Abbiamo paragonato la visione attuale dell’handicap a un “mito”. La funzione del mito dovrebbe essere quella di spiegare, in termini più facilmente comprensibili, realtà complesse riguardanti l’uomo e il mondo che lo circonda. L’handicap stesso, con la sua “trasparenza”, può svolgere una funzione simile, quella di rendere evidenti limiti e caratteristiche della natura umana, palesandoli come sotto una lente di ingrandimento, rendendoli più chiari, proprio perché l’handicap non può nascondersi, a differenza delle mancanze dei cosiddetti “normali”, che spesso vengono celate molto abilmente agli occhi degli altri. Nell’antichità classica, i poeti usavano il mito per dare risposte agli interrogativi fondamentali dell’uomo (anima, mondo, Dio, ecc.), e raccontavano favole che spiegassero concetti elevati anche ai semplici. I primi filosofi ionici basarono il loro pensiero filosofico sulla critica prepotente di questo sistema, affermando che solo la scienza, la filosofia, potesse dare risposte vere a questi grandi interrogativi, mentre i poeti, con i loro miti, confondevano le idee alle persone comuni, ingannandole sulla realtà delle cose, mescolando fantasia e verità. Platone, poi, restituì dignità al mito, utilizzandolo come strumento didattico per eccellenza. Più tardi, il Gesù dei Vangeli si esprimerà spesso per mezzo di parabole, proprio per far arrivare il suo messaggio a tutti. Ecco perché la sua “trasparenza” rende il disabile, buono o cattivo che sia, un “mito” vivente… in senso (non solo) pedagogico!
 

Pechino 2008, un’Olimpiade giusta?

Pochi giorni fa, in uno dei tanti convegni al quale partecipo, sulla tematica dello sport per i disabili, mi sono trovato a dover difendere il valore di una Olimpiade. Infatti uno dei relatori, uno psicologo che si occupa di sport come mezzo per il recupero di persone con problemi mentali, dopo aver delineato lo scenario dei risultati raggiunti dallo sport in Italia e dopo il racconto dell’esperienza di uno dei nostri atleti paralimpici campione a Torino 2006, ha preso subito le distanze dicendo che il valore dello sport non veniva di certo tracciato da quelli che sono i comuni confini federali, politici e mediatici dello sport attuale che vedono in Pechino 2008 il prossimo grande traguardo. Come presidente, seppur solamente di un Comitato Provinciale Paralimpico, mi sono sentito di dover comunque difendere il significato puro dello sport e gli ho risposto che se eravamo seduti allo stesso tavolo e parlavamo insieme davanti a una platea, i nostri confini non potevano che essere condivisi. Gli ho ricordato che anche in passato c’eravamo già incontrati per giocare sullo stesso campo da calcio come avversari e ora eravamo lì per delinearli assieme quei confini. Inutile dire quanto siano importanti per noi le Paralimpiadi, come mezzo di promozione. Grazie a Torino 2006, alla nomina a Commissario Straordinario della Federcalcio del nostro presidente nazionale Luca Pancalli, e anche a uno spot televisivo di un noto istituto bancario del quale era protagonista Emanuele Pagnini, uno dei nostri atleti disabili della nazionale di sci, il CIP (Comitato Italiano Paralimpico) ha fatto un grande passo mediatico, rendendo visibile una dignità già conquistata dal punto di vista legislativo con la L. 189/2003. Questo ha significato la possibilità per tante persone disabili di conoscere l’opportunità sociale di fare sport. In realtà, so bene che lo scenario che si prospetta a meno di un anno da Pechino 2008 è terribile: un milione e mezzo di persone sfrattate nella città di Pechino per le costruzioni e la ristrutturazione della città olimpica, un intero quartiere storico che è stato raso al suolo e ricostruito come distretto commerciale per le Olimpiadi. Secondo il COHRE, Centre on Housing Rights and Evictions, ben 1.250.000 persone sono già state sfrattate a Pechino come risultato dello sviluppo urbano legato ai Giochi Olimpici. Almeno altre 250.000 persone saranno sfrattate nel prossimo anno per raggiungere un totale di 1.500.000 persone che avranno perso la loro abitazione a causa delle Olimpiadi. Di queste, più di 30.000 persone all’anno sono state gettate nella povertà a causa della demolizione delle loro case. Ad aggiungersi a questi numeri, il livello di violenza e repressione contro le vittime degli sfratti forzati è stato e rimane un problema. Lo studio del COHRE, evidenzia però come il fenomeno sia da associarsi più in generale alle grandi manifestazioni come i Giochi Olimpici: per le Olimpiadi di Seul del 1988, 720.000 persone furono allontanate con la forza dalle loro abitazioni e radunati in campi di raccolta. Ad Atlanta nel 1996, la ristrutturazione cittadina portò all’allontanamento di 30.000 poveri e alla demolizione di 2.000 appartamenti in case popolari così come per le Olimpiadi di Atene furono introdotte nuove leggi per rendere più facili le operazioni di esproprio e centinaia di Rom furono mandati via dai loro accampamenti. In Cina, il paese premiato per l’organizzazione dei giochi olimpici, simbolo della fratellanza e unione tra gli uomini, manca il riconoscimento dei fondamentali diritti dell’uomo, come la libertà di stampa, di opinione e ogni anno vengono eseguite centinaia, forse migliaia, di condanne a morte. Purtroppo, anche durante i giochi, il regime torturerà o ucciderà qualcuno, all’ombra di qualche carcere. Inoltre la Cina ha iniziato a costruire un’autostrada di 108 chilometri sul lato tibetano dell’Everest, per facilitare il percorso dei tedofori (la torcia percorrerà 137mila chilometri con 22mila tedofori attraverso i 5 continenti). Nonostante per questi lavori le preoccupazioni ambientali sono presenti, non è chiaro però se il progetto di costruzione della strada creerà complicazioni alla fragile natura della regione himalayana. La costruzione della grande opera (del costo di 19,7 milioni di dollari) dovrebbe essere ultimata nel giro di quattro mesi. Ciò permetterà ai tanti turisti, scalatori, operatori vari e giornalisti che accorreranno in massa sull’Everest, di portarsi dietro tutte le loro diavolerie tecnologiche, preludio di un grosso inquinamento nella zona allorché tutte le televisioni del mondo saliranno a queste altitudini per accertarsi che la torcia bruci. Tuttavia, tra le comunità montane dell’Himalaya, c’è chi teme che i grandi lavori sul Tibet proseguiranno anche dopo le Olimpiadi. Sembra difatti che il governo di Pechino abbia investito un fiume di denaro per “conquistare il Tibet”: entro il 2010 saranno spesi circa 10 miliardi di euro per 180 opere infrastrutturali; dal prolungamento della recentissima linea ferroviaria Pechino-Lhasa, capitale del Tibet, fino a Xigaze, seconda città tibetana, alla realizzazione di acquedotti, linee elettriche e linee telefoniche. In questo modo la maggior parte dei tibetani (in maggioranza dediti alla pastorizia) dovrebbe essere raggiunta dall’influenza del governo cinese e dalle trasmissioni televisive di Pechino. E come ciliegina sulla torta sarà messa a dura prova anche la salute degli atleti dalla disastrosa situazione ambientale di Pechino. L’aria di Pechino è ormai la peggiore al mondo, e i primi a farne le spese sono i pechinesi. Ma per gli atleti, i pochi giorni di permanenza saranno più che sufficienti a lasciar loro tracce indelebili dell’inquinamento della capitale cinese.
Di fronte a tutto questo verrebbe voglia a chiunque di boicottare un così grande crimine, ma credo che ormai sia troppo tardi. Io, nel mio piccolo, chiederò ai miei atleti paralimpici di rappresentare e di difendere non solo l’onore dell’Italia che con tanti sacrifici hanno meritato, ma di difendere di fronte a tutti l’onore dell’uomo, e della civiltà che ha raggiunto, senza dover mai più in futuro pagare un così caro prezzo.

 

La Z sarà la prima

È in quarta che tutti scoprono Zinkoff. È sempre stato lì, naturalmente, nel quartiere, a scuola da dieci anni. Lo conoscono già come il bambino che ride troppo e, fino all’operazione, come “il bambino che vomita”. In effetti, Zinkoff non fa proprio niente di speciale per farsi scoprire. Come sempre, è l’occhio di chi scopre, a cambiare, non l’oggetto della scoperta. La scoperta di Zinkoff ha inizio il primo giorno di scuola. Hanno un nuovo insegnante: il signor Yalowitz, il loro primo maestro-uomo. Il signor Yalowitz sta in piedi davanti ai banchi e sfoglia con attenzione i cartellini delle presenze, come se volesse imparare ogni nome a memoria. Dopo un po’ li mescola, e quando ha finito solleva il primo. – Zinkoff – dice, senza staccare gli occhi dal cartellino. – Donald Zinkoff. Dove sei? Zinkoff, che ormai sa qual è il suo posto, è già nelle retrovie: ultimo banco nell’ultima fila. Scatta sull’attenti: – Sono qui, signore! – annuncia. Un sorriso guizza sulla faccia del maestro. Alza lo sguardo. – Zinkoff… Zinkoff… Vuoi sapere una cosa, Zinkoff? – Sì, signore! – Sei la prima Z che mi sia mai capitata in una classe. Non è facile essere una Z, vero, Zzzzzzinkoff? A dire la verità, Zinkoff non ci ha mai pensato. – Non saprei, signore. – Be’, non è facile, credi a me. Io ero una Y. Sempre all’ultimo banco. Sempre l’ultimo della fila. Condannato dall’alfabeto. Che ne pensi Zinkoff? Zinkoff non sa che pensare, e lo dice. Quanto ai suoi compagni, pensano: Dunque è questa la quarta. E forse perché è una classe più avanti, o forse perché hanno un maestro-uomo con modi rudi da uomo, però hanno l’impressione che sarà una forza e si sentono gonfiare d’orgoglio. L’insegnante punta il dito. – Zinkoff, ti piacerebbe sperimentare la vita in prima fila? Zinkoff sgrana gli occhi. – Avanti, ragazzo, vieni qui! – E lo invita con gesto grandioso. – Yahooo! – grida Zinkoff, e corre in prima fila. Quando il maestro ha finito, Zinkoff è al primo banco e Rachel Abano nelle retrovie. In prima fila insieme a Zinkoff ci sono una W, una V e due T. Grazie al signor Yalowitz, la prima persona a scoprire Zinkoff è Zinkoff. A differenza delle maestre di seconda e di terza, il signor Yalowitz sembra contento di lui. La prima settimana, per esempio, ogni mattina che Zinkoff entra in classe, il maestro annuncia: – E la Z sarà la prima! Un giorno che arriva alle 7.30 trova Zinkoff che gioca tutto solo in cortile. – Arriverai in anticipo al tuo funerale, ragazzo! – gli grida. Anche il signor Yalowitz nota l’atroce calligrafia di Zinkoff. – Messer Z – gli dice – ogni volta che metti penna su carta, accadono cose indescrivibili. – Però lo dice ridendo, e aggiunge: – Meno male che hanno inventato le macchine da scrivere!
(Brano tratto da Jerry Spinelli, La schiappa)

L’importanza della fiducia, in una relazione, che porta a una crescita, e a una espansione, delle proprie capacità, è ciò che viene definito: l’“effetto Pigmalione”.
Pigmalione, nel mito narrato da Ovidio, era uno scultore, senza compagna, ma con tanta voglia di amare, e il suo desiderio un giorno divenne talmente forte, da portarlo a pregare Venere di fargli incontrare una ragazza bella come la statua che aveva appena creato. Venere, mossa a compassione, animò la statua della quale Pigmalione si era innamorato.
Il mito di Pigmalione è stato ripreso dallo psicologo Rosenthal , che, segnalando alcuni dei bambini di una classe a un’insegnante come dotati di un’intelligenza superiore, li rese dopo un anno gli alunni migliori. Rosenthal dimostrò così che, seppur scegliendo a caso dei bambini nella classe, era possibile trasformare gli stessi, nel medio periodo, in alunni inequivocabilmente bravi. Come era stato possibile tutto questo? Semplicemente l’insegnante, pensando di avere a che fare con bambini realmente dotati di un’intelligenza superiore, aveva dimostrato loro totale fiducia. Come fa il professor Yalowitz con Zinkoff: lo chiama in prima fila, nonostante sia una Z, gli ricorda ogni giorno che la Z sarà la prima, scherza sui suoi “difetti” ricordandogli che se ha una brutta calligrafia ci sono sempre le macchine da scrivere. Punta su i “sa fare” del ragazzo, sulle competenze che già possiede, per espanderle, facendo entrare in gioco quell’elemento magico che è la fiducia, e cioè: non avere dubbi sul fatto che la zeta Zinkoff può farcela. Il professor Yalowitz è il Pigmalione del piccolo Zinkoff. Ed è la lezione più importante per Donald. Perché Zinkoff è sì diverso, ma è in un contesto di fiducia che maturano le sue competenze e la sua personalità.
Ed è nello stesso ambiente che queste differenze diventano i talenti della zeta Zinkoff, e non la sua condanna. Con la supervisione del saggio professor Yalowitz, il gruppo può conoscerlo e accoglierlo, nella sua preziosa diversità.

 

Questo fratello… un grande fardello!

Il due settembre scorso la BBC1, la celebre emittente pubblica del Regno Unito, ha mandato in onda Coming Down the mountain, un’opera teatrale scritta per la televisione da Mark Haddon, lo scrittore reso celebre anche al pubblico italiano per il suo romanzo Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte, il cui protagonista, tra l’altro è un ragazzo autistico.
Un prodotto originale questo trasmesso dall’emittente pubblica inglese, interessante e coraggioso al tempo stesso, capace di mettere in scena un aspetto che spesso rischia di rimanere in penombra e di essere sottovalutato: i problemi, le difficoltà che possono derivare dall’avere un fratello o una sorella con la sindrome di Down. Una tematica interessante sviluppata dal regista, e autore, in un modo caldo, leggero e, a tratti, anche comico.

Il quindicenne David è depresso. Ma sarà anche arrabbiato e infuriato con il padre e con il mondo intero, oltre che con il fratello. Ben, fratello Down di David è causa dei suoi problemi. David sente il peso di avere un fratello come Ben perché sente la sua vita dipendere da lui: finite le lezioni David non può permettersi il lusso di andare a casa da amici, deve riaccompagnare Ben a casa; David non può uscire con una ragazza, c’è Ben da accompagnare di qua e di là. Ma poi, chi sceglierebbe di uscire con uno che ha un fratello così?
Nonostante tutti questi pensieri David trova una ragazza effervescente, Gail, e improvvisamente sembrano scomparire tutte quelle circostanze che parevano rendere la vita di David impossibile. La tranquillità però non dura a lungo: la famiglia infatti decide di trasferirsi dal quartiere benestante e trendy di Londra a Matlock, dove c’è una scuola speciale, perfetta per Ben. Questo è davvero troppo. David si trova distrutti i suoi precari equilibri di adolescente, ancora una volta a causa del fratello. Gail ovviamente lo lascia per un ragazzo che ha un negozio di tatuaggi perché, passi pure il fratello Down, che già di per sé è un bel punto di domanda, ma un ragazzo che in più vive a Matlock poi no. È troppo.
È pesante la reazione di David che infuria con il padre scaricando tutte le delusioni, le fatiche e soprattutto esplicitando quell’enorme rabbia che si alimenta ogni giorno di più nei confronti del fratello Ben. David ha perso la ragazza, gli amici, la scuola. Tutto per andare incontro a un’esigenza del fratello. Il mondo sembra ruotare intorno a lui, la vita della famiglia, David compreso, è in funzione delle debolezze di Ben. E le esigenze e debolezze di David? Le attenzioni si rivolgono a Ben, il resto si adegua, per forza o per amore, ma si adegua.
David non sopporta più questa situazione e trova come unica soluzione l’uccisione del fratello. Non esistono alternative. Così i due partono per il nord del Galles e se non fossero solo due ragazzi, in un paesaggio sostanzialmente diverso, sembrerebbe di rivedere alcune scene del celebre film Rain man. Insieme risalgono il massiccio di Snowdon e una volta in cima David spinge il fratello con l’intenzione di farlo cadere nel precipizio, in cui avrebbe trovato la morte. Il Down che cade dalla montagna. Del resto, è giusto così: l’equa punizione per chi ha distrutto la vita, già di per sé così difficile, dell’adolescente David.
Tutto come pianificato ma qualcosa va storto: Ben infatti non cade nel precipizio e si ferma molto prima, su uno sperone sul quale si fa qualche graffio ma niente di più. David ha fallito, ha tragicamente fallito nel tentativo di eliminare il problema della sua vita. Ben è vivo e David sembra avere la pacata e rassegnata certezza che proprio da lì si deve ricominciare tutto.
Dopo questa esperienza di vita e morte, tutto sembra mettersi al positivo e il rapporto dei due fratelli comincia ad andare decisamente meglio. David incontra Alice, anche lei frizzante e un po’ selvaggia che accoglie Ben. È sempre così carina con lui… Chissà magari avere un fratello Down può essere un aiuto da sfruttare per trovare delle ragazze…
Poi è Ben a trovare una ragazza e tutto va meglio pure in casa. E David, che è un amante dell’arte, smette di dipingere solo teschi e orrori e comincia a dipingere mucche su deliziosi prati di fiori. E la storia finisce.

Narrazione, se vogliamo, anche abbastanza semplice e poco elaborata. Si tratta poi in fondo di una relazione molto difficile, tra due fratelli entrambi nell’età dell’adolescenza: età di per sé difficile a cui si aggiunge il fatto che uno dei due ha la sindrome di Down. Il maggiore dei due vuole eliminarlo. Poco creativo dunque Haddon, nel creare questa storia; probabilmente ha riservato la sua creatività alla presentazione dei personaggi e delle situazioni. Non è facile rendere una problematica del genere riuscendo anche a fare dell’ironia, non è facile creare dei personaggi che mettono in scena queste dinamiche, che siano credibili e mai patetici o troppo costruiti su frasi fatte. L’intento di Haddon, come riporta in alcune interviste pubblicate da “The Guardian”, è proprio quello di smuovere il telespettatore che si “impoltrisce davanti alla televisione la sera, con il telecomando tra le mani”. Riesce a farlo, facendo sorridere e riflettere allo stesso tempo.
Ciò che è particolare nel prodotto inglese è l’aver spostato l’occhio della telecamera dal soggetto disabile al fratello. Ben in realtà non è il protagonista del film tv: David è il protagonista, dai suoi occhi è guardata la realtà e il mondo inquadrato dalla macchina da presa. È David che conduce la storia, perché è lui a “subire” la disabilità del fratello.
Da un lato dunque vediamo il ragazzo Down coccolato dalla famiglia e ascoltato in ogni sua esigenza, dall’altro vediamo la “normalità” messa in crisi da questa disabilità. Coraggioso Haddon nel compiere un’azione di questo tipo capace di smontare da un lato il buonismo di una relazione normodotato-disabile sempre orientata a vedere il disabile nella situazione di difficoltà e il normodotato nella situazione di chi aiuta (e se lo fa, è pure bravo), e dall’altro di mostrare non solo la difficoltà nella normalità ma anche addirittura la rabbia che la disabilità porta nella vita di questo fratello adolescente.
Un punto di vista particolare e, probabilmente anche molto credibile: gelosie tra fratelli sono all’ordine del giorno, se poi uno dei due ha una qualche forma di disabilità forse il rischio aumenta. Haddon forse ha rischiato. Ha rischiato anche la BBC1 a mandarlo in prima serata. Probabilmente qualche telespettatore ha raddrizzato la schiena su quel divano dello zapping; probabilmente qualcuno, invece, ha storto il naso infastidito, perché colpito nel segno da qualche pensiero di fastidio, almeno una volta nella vita, provato verso la disabilità; qualcuno ne sarà anche stato offeso ma forse qualcuno vi si sarà identificato e non per questo si sarà sentito meno buono. Perché in fondo Ben non muore, David comprende, riconosce la sua rabbia e la tramuta in un qualcosa che lo avvicina al fratello. Senza che il mondo attorno ai due fratelli sia cambiato, senza che Ben sia meno Down, ma con un David evidentemente cresciuto grazie a una esperienza che, nel disperato tentativo di allontanare definitivamente i due fratelli, li avvicina inesorabilmente.

 

Sul grande schermo

Elle s’appelle Sabine. “Lei si chiama Sabine”, l’esordio per Sandrine Bonnaire nelle vesti di regista. Un grande successo al Festival del Cinema di Cannes dove ha portato a casa il premio come miglior film della Quinzaine des Realisateurs. La Bonnaire viaggia vorticosamente nel tempo per raccontare la storia di Sabine, la sorella autistica rinchiusa da anni in un ospedale psichiatrico. Una serie di vicissitudini e di errori medici, un’esperienza traumatica di psicofarmaci e la difficile integrazione in ambienti a dir poco ostili, accompagnano il personaggio di Sabine che solo al termine trova un sottile e delicato equilibrio in una comunità nella quale riesce a ristabilire un contatto con il mondo. Il ritrovamento di alcuni filmati di famiglia che ritraggono e ripercorrono il vissuto di Sabine spingono la regista a raccontarne la storia. Le immagini accarezzano Sabine con leggerezza e maestria intrecciando una narrazione commovente ma non patetica, densa di significati e mai scontata. La vita di Sabine è raccontata con grandi e repentini passaggi temporali: talvolta è il tempo del passato, quello che si vede nei filmati girati durante l’infanzia della ragazza, a cui si alternano momenti in cui tutto sembra procedere in tempo reale. Il pubblico viene condotto ad amare la ragazza attraverso gli occhi della regista. La Bonnaire viaggia nel tempo e sembra quasi voler riparare un torto subito dalla sorella che ora diventa la protagonista di questo racconto a dir poco avvincente ed emozionante. La poesia è densa e riesce a sviluppare un intenso inno alla vita in cui anche la drammatica solitudine si riempie di emozione e di voglia di vivere.

La creatività divergente, detergente e… salvagente

Eccoci finalmente al quarto appuntamento dello Spazio Calamaio dedicato ai laboratori realizzati durante il convegno “Storie di Calamai e di altre creature straordinarie: disabili come educatori nell’esperienza di integrazione a scuola”, in occasione del ventennale del Progetto Calamaio a Bologna.
Il mio laboratorio era dedicato alla creatività e il pensiero divergente, partendo dalla constatazione che il primo atto creativo alla base degli incontri che svolgiamo in classe è quello di scollegare il termine handicap dall’universo abituale nel quale lo troviamo inserito, sia attraverso una sua ridefinizione con l’aiuto di contesti diversi (come la fiaba e il gioco), sia attraverso lo specifico del Progetto Calamaio, ovvero l’incontro diretto con la persona con deficit, che si sperimenta in quanto animatore con disabilità e diversabilità.
Un giochino all’uopo, del quale per intrisa cattiveria non daremo la soluzione ma che è abbastanza celebre e che potrete trovare ad esempio nel libro Change di Watzlawick (edizioni Astrolabio), è il seguente:

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connettere tutti i 9 punti con solo 4 linee rette senza staccare la penna dal foglio.

La difficoltà principale in questo gioco deriva dal fatto che questi 9 punti ci appaiono come un quadrato. In effetti noi vediamo un quadrato formato da 9 punti, non vediamo i 9 punti presi singolarmente. La percezione del problema, l’immagine che ce ne facciamo già inficia profondamente il nostro tentativo di trovare una soluzione. Prendiamo questo quadrato di 9 punti come una metafora dell’handicap: se cercheremo di superare o risolvere questo problema tracciando linee all’interno del quadrato (come ci porta il nostro naturale modo di pensare) non riusciremo mai a trovare la soluzione. La parola handicap è una parola impoverita perché collegata troppo spesso solo a se stessa (ai disabili, ai loro famigliari, agli operatori del settore, all’insegnante di sostegno, ecc.). È una parola povera di vita perché collegata quasi esclusivamente a un sapere tecnico, scientifico, specifico (medico, pedagogico, psicologico, ecc.). L’unico modo di risolvere il problema dei 9 punti è di uscire dal quadrato, scoprire che in effetti non abbiamo di fronte un quadrato ma solo 9 punti, scoprire che il quadrato è solo un modo di vedere i 9 punti.
Una volta abbiamo proposto il problema dei 9 punti in una scuola media e una ragazza ha detto: “Forse per risolverlo bisogna fare perno sui punti immaginari!” e subito dopo ha risolto il problema. È proprio qui il segreto, fare perno su punti immaginari esterni al quadrato, sforzarsi di immaginare questi punti, produrre una nuova immagine di handicap. Fare cioè perno sulla nostra creatività, perché una caratteristica essenziale dell’atto creativo è proprio quella di uscire dagli schemi cui il pensiero abitudinario ci imbriglia.
La soluzione è data dal muovere le linee partendo dal quadrato ma uscendone, ad esempio scoprendo che la parola handicap ha molto a che fare con lo sport, anzi nasce proprio come parola sportiva (pare che la mano–hand sul berretto–cap fosse il modo di dare uno svantaggio a un fantino più vincente degli altri). Se facciamo attenzione, si scopre così che ogni gioco al suo interno ha un handicap, una difficoltà, che è conseguente al nostro rapporto con le regole del gioco.
La creatività quindi sta tutta nel definire nuove regole, adattandole ai limiti delle persone, che rendano possibile l’obiettivo-fine di ogni attività ludica, ovvero giocare divertendosi. Nei laboratori dove proponiamo il giochino dei 9 punti, quando dopo alcuni minuti tutti sono già alle prese con la ricerca spasmodica della soluzione, le scarabocchiature e lo stress, il conduttore dell’animazione propone: “Volete un aiutino?”. Molti dicono di sì ma molti dicono di no… Ragionare sul perché accade questo è molto importante. Molti non vogliono essere aiutati perché non sarebbe più divertente, vogliono farcela da soli, sentono cioè che possono farcela e che saranno ricompensati dalla soddisfazione di aver superato la difficoltà, cioè l’handicap, in cui consiste il sale di questo gioco, come quello di tutti i giochi. Non esistono infatti giochi che non abbiano una qualche difficoltà-handicap al loro interno. Nel calcio, ad esempio, la porta non è larga trenta metri (sarebbe troppo facile mettere la palla dentro, ci sarebbe troppo poco handicap) e nemmeno è di un metro, difesa magari da due portieri (sarebbe troppo difficile metterla dentro, ci sarebbe troppo handicap). L’handicap è come il sale per la minestra: senza non avrebbe sapore, troppo la renderebbe immangiabile. Il segreto è dosare il sale, dosare la difficoltà, dosare l’handicap: solo così possiamo giocare divertendoci. Il divertimento nasce da un equilibrio tra successi e insuccessi, tra difficoltà e superamento della difficoltà. Il divertimento nasce nello spazio compreso tra due momenti di un ipotetico segmento, in cui a un capo sta “troppo handicap” e dall’altro “pochissimo handicap”: nel primo caso non possiamo giocare, nel secondo non ha senso giocare. Nel primo caso, troppo handicap, la difficoltà impedisce lo scopo stesso del gioco (nel calcio è metter la palla dentro e quindi, con una porta larga un metro e due portieri, tutte le partite probabilmente finirebbero in parità!). Nel secondo caso, pochissimo handicap, sarebbe troppo facile raggiungere l’obiettivo del gioco e quindi non ci sarebbe divertimento (con una porta larga 30 metri, tutti farebbero gol a ogni tiro, e di conseguenza la partita sarebbe continuamente interrotta dalla ripresa del gioco a metà campo, non si potrebbe capire il valore né dei portieri né dei giocatori, e in definitiva il risultato finale della partita dipenderebbe più dalla casualità che dal valore delle due squadre in campo).
In questo senso la parola handicap ha due accezioni: una negativa e l’altra positiva. La negativa è quella per cui l’handicap è sostanzialmente lo svantaggio causato dalla presenza di un deficit che rende più difficile il rapporto con l’ambiente: in questo senso l’handicap va ridotto, bisogna lavorare per diminuirlo. Ad esempio, le barriere architettoniche vanno abbattute, il che tra l’altro, crea un mondo più a misura per tutti, perché le persone a ridotta mobilità che si troverebbero avvantaggiate da un ascensore largo o un bagno accessibile, non sono solo quelle con deficit, ma anche le persone anziane, le mamme con il passeggino, il manager con la valigia da viaggio, ecc.
Nella seconda accezione, invece, scopriamo che l’handicap ha anche una dimensione positiva se riusciamo a creare un sistema di regole di gioco per cui sia possibile divertirsi. Se si gioca e non ci si diverte, qualcosa non va… Magari basterebbe ridefinire le regole che non sono adeguate e non pensare che siamo noi a non essere adeguati.
Diversità e divertimento
hanno la stessa radice latina, devertere, cioè percorrere altre strade, volgere lo sguardo altrove: questa concezione di handicap, per cui lo consideriamo essenziale al divertimento, ci porta al centro quindi del pensiero divergente, ovvero del pensiero creativo. Ecco perché l’handicap in sé, come il sale in sé, non è il punto da mettere a fuoco, non è un alimento, non ci interessa, ma è invece essenziale nel suo essere in rapporto con le regole di ogni gioco. Condividiamo cioè la percezione dei più che non si interessano all’handicap in quanto tale. È giusto così. Ma invece di lamentarsi di questo e di operare con il pensiero convergente proponendo spazi dove si parla in termini medici e specialistici del mondo dell’handicap, invece di proporre l’ennesimo spazio chiuso, l’ennesima giornata del disabile, l’operazione più creativa che possiamo fare è smarcarci da questo ricadere nel quadrato (anche se qualche volta purtroppo sono i disabili, le famiglie stesse o gli specialisti a fare quadrato). Il senso dei nostri incontri nelle scuole è scoprire e svelare la creatività che viene liberata dall’interazione tra l’handicap e il grande gioco della vita (nella quale siamo sempre pedoni, come dice Mongo nel film Mezzogiorno e mezzo di fuoco di Mel Brooks, e chi non conosce la battuta si vada a vedere il film, essenziale a mio avviso nella formazione di qualsiasi persona si occupi di educazione e animazione).
La divergenza del Calamaio è anche quella degli occhi di Ben Turpin, lo strabismo che fa ridere, di chi sa considerarsi con autoironia, che è l’arma più vincente che abbiamo quando parliamo agli studenti. Ci possiamo ispirare ad esempi altissimi di autoironia come quelli che si trovano nella cultura yiddish (si veda al proposito il libro edito da Piemme e curato da Moni Ovadia Così giovane e già ebreo, una serie esilarante di storielline yiddish raccolte da M. A. Ouaknin e D. Roetnem). Attraverso un modo di porsi diretto, l’animatore con deficit si presenta come una persona che appunto anima, propone dei giochi, fa divertire… al di là del suo deficit stesso. In genere non si distingue tra la persona e il deficit di cui è portatrice. Il Progetto Calamaio invece nasce nell’incontro tra un animatore e gli studenti di una classe, nel quale il deficit, la carrozzina, la lavagnetta per comunicare sono sì presenti ma non sono il tema più importante dell’incontro. “Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda il dito” dice un proverbio orientale. Il tema che più ci interessa non è il deficit (questo sì di una categoria di persone) ma è appunto l’handicap, gli strumenti creativi per ridurlo o per valorizzarlo attraverso una ridefinizione delle regole, il tema vero è l’handicap di tutti, anche quello dei normodotati gravi, ovvero l’imbarazzo e le incomprensioni che nascono dalla non conoscenza della diversità.
Quello che interessa non è quindi attirare l’attenzione degli studenti su una categoria protetta (il che farebbe pensare alla Lipu), ma quello di vedere come la crisi che il deficit produce in qualsiasi sistema di regole codificato e tendenzialmente statico, può essere rigenerativa, divertente, sana… Scoprire che Claudio non parla ma comunica lo stesso con il metodo della lavagnetta trasparente può far nascere una serie di pensieri che ci interessa molto limitatamente. Ad esempio: “Guarda che cosa si può fare (per i disabili) con gli ausili (per i disabili)! Che forza d’animo che ha avuto Claudio! Che sensibilità e intelligenza!”. Molto più significativo è scoprire assieme ai ragazzi che si può comunicare anche senza parlare, che ci vuole una buona dose di allenamento e di creatività, che non è notoriamente utile solo alle categorie protette, ma a tutti gli esseri umani.
Il Calamaio in questi vent’anni ha dunque scoperto di essere strabico, senza macchia e senza paura nelle tempeste della vita, utile a tutti, perché è creativo, divergente, detergente e salvagente.
 

Vedi Napoli e poi… ci torni!

“Nulla si può fare ma tutto è consentito!”. È questa massima della nonna materna del signor Galliano, di professione taxista, che ci introduce a Napoli. In realtà, nel tragitto percorso assieme a bordo del suo taxi, che dall’aeroporto Capodichino ci ha condotto fino al centro città, il sig. Galliano non si è limitato alla citazione della da lui definita “nerboruta” ava buonanima, ma si è lungamente soffermato su molti argomenti. Ha declamato il fascino della sua città, dei suoi tanti pregi e di qualche difetto; ha raccontato della sua esperienza di genitore e della bellezza di crescere in famiglie numerose (si è detto un po’ dispiaciuto di non avere tantissimi figli ma solo cinque!). E alla fine è giunto a evidenziare le pecche di un “stravagante” sviluppo urbanistico fino a un paio di digressioni un po’ astiose su due temi che hanno tenuto banco la scorsa estate: il “Decreto Bersani” per la liberalizzazione di alcuni settori del commercio, tra cui quello dei taxi. E il bombardamento mediatico che, sempre a suo dire, ha ingiustamente dipinto il luogo dove lui vive (il quartiere di Scampia), come una zona di guerra.
Al di là di tutto, all’arrivo in città, in un bell’albergo appena dietro il Duomo, non ci eravamo pentiti di aver scelto Napoli per realizzare l’ultima guida accessibile della collana “Incontri” (frutto della collaborazione con Coloplast). Inoltre, avevamo già un primo termometro degli umori della città, che ci avrebbe aiutato nel nostro soggiorno nel capoluogo partenopeo.
Ecco, forse l’essenza del fare turismo inizia proprio da qui. Dal prendere contatto con il territorio, con il sentire delle persone che lo abitano e lo respirano quotidianamente. Da questo punto di vista, il sig. Galliano rappresenta un passaggio obbligato per l’approdo a un vero turismo emozionale. L’anello di congiunzione tra il “Dove? Sì, ci sono stato… mmm… bello” e il “Caspita se mi ricordo! È un’esperienza che mi porterò dentro per parecchio tempo!”.
Per il gruppo di lavoro del Centro Documentazione Handicap di Bologna e della Cooperativa “Accaparlante” quest’approccio è divenuto da tempo una precisa scelta operativa. E il processo di costruzione di una guida accessibile è fatto anche molto di questo. Parlare con le persone, chiedere loro consigli su come dove e perché andare lì… È bello sentire le “impressioni di pancia”. Tipo: “Si, va bene, il museo del Tesoro di San Gennaro sarà anche una tappa obbligata ma lei, dovendo pagare, ci andrebbe?”. Per il rispetto dovuto al Santo, ometteremo qualunque risposta in merito. Nel condurre la rilevazione sul territorio ci si comporta un po’ come farebbe un antropologo nell’intento di elaborare una metodologia di ricerca sulla comunicazione urbana. Ci si perde nella città, tra i suoi vicoli, i suoi palazzi, e non per caso ma perché ci si vuole perdere; si gode nello smarrirsi. Per cercare, scoprire… per vivere e comprendere al meglio il luogo che si visita.
Certo è che per stilare un itinerario di qualità secondo i crismi dell’accessibilità servono almeno due differenti dotazioni. Una tecnica: un metro, un “occhio clinico” per le pendenze, i restringimenti delle passerelle e degli scivoli, le altezze delle pulsantiere; un bagaglio di conoscenze normative sul tema delle barriere architettoniche e un’attenzione agli aspetti logistici. L’altra, sempre attenta alla “dotazione tecnica” ma che potremmo definire più godereccia, richiede: una discreta passione per la tradizione enologica e gastronomica del nostro Paese, un interesse a scoprire il locale “rustico”, il luogo fuori dai giri del turismo di massa. Una buona capacità di valutare se e in che termini valga la pena di adattarsi temporaneamente a una situazione accessibile con difficoltà (in attesa di una completa accessibilità) come quella di un hotel, un ristorante, un museo, valutando cosa viene offerto in cambio dello sforzo.
Questo concetto merita un approfondimento. Pensando a una guida su Napoli era logico supporre l’esistenza di problemi di accessibilità. Intanto per ragioni strutturali: Napoli si sviluppa su un territorio tutt’altro che pianeggiante, con molte zone decisamente “faticose” (ad esempio, in cima a impervie salite) e diverse sostanzialmente inaccessibili. Il cuore del centro storico ha una pavimentazione a lastroni e/o sampietrini che col traffico di auto e moto tende a dissestarsi, rendendo la percorribilità per le carrozzine molto più difficoltosa.
Sta di fatto che cercare di non perdere di vista la logica del “entro certi limiti si può provare ad adattare il presente al possibile” normalmente consente di ottenere risultati insperati.
Questa logica si riflette direttamente nel metodo di lavoro per la costruzione di itinerari accessibili, soprattutto se teniamo presenti almeno quattro punti:
1. Spostamenti da un luogo a un altro
Si cerca di studiare e descrivere il percorso più adatto a chi si sposta con l’ausilio della carrozzina, o ha dei problemi di mobilità, privilegiando il passaggio su marciapiedi provvisti di scivoli, evitando strettoie, strade di difficile attraversamento.
2. Strutture da visitare
Ogni struttura segnalata all’interno degli itinerari è oggetto di un sopralluogo teso a verificarne e descriverne il grado di accessibilità, indicandone eventuali ostacoli.
3. Strutture ricettive
Gli hotel, i bar e ristoranti segnalati saranno valutati non sono per il livello di accessibilità e per la quantità di servizi offerti, ma anche secondo parametri legati all’accoglienza, all’ospitalità e alla cordialità.
4. Trasporti
Verranno fornite le informazioni sia per chi si sposta con l’auto che per chi utilizza i mezzi pubblici, compatibilmente con l’accessibilità del servizio locale.
Sulla base di questa semplice griglia, anche l’esito della rilevazione di Napoli si può definire sostanzialmente soddisfacente. Sono molte le strutture fruibili e visitabili, come ovviamente ve ne sono di inaccessibili. Qui come in altri città il valore aggiunto alla città è dato dai suoi abitanti. Parlare con i napoletani nei bar, per strada, sulla funicolare e un modo per farsi raccontare da loro la loro città, e, come accade molto spesso, questo è un viaggio nel viaggio.
La guida sarà presto data alle stampe ma nel frattempo qualche anticipazione per i lettori di HP-Accaparlante: il Castel Sant’Elmo, il Museo Nazionale e Parco di Capodimonte e lo splendido Caravaggio ospitato presso la Chiesa del Pio Monte della Misericordia, da vedere. Alla Trattoria da Nennella (nei Quartieri Spagnoli) e al volo per strada o seduti, nelle Pizzerie “Il Presidente” e “Da Matteo”, in via dei Tribunali, per mangiare.

 

Gestione e marketing del non profit

Il concetto di consumo critico lo associamo spesso a un esercizio quasi burocratico di attenzione e selezione del prodotto: armati di lente di ingrandimento e di una calma da filatelici andiamo alla ricerca delle fregature sull’etichetta. Come è stato prodotto? È stata usata manodopera mal pagata e sfruttata? Ha inquinato l’ambiente? Il marchio appartiene a una multinazionale? Sarà biologico? Mi è utile veramente? E così via.
Bisognerebbe invece associare di più il consumo critico alla creatività. Un esempio: lo sport più consumato e consumistico nel mondo è il calcio. A Bologna, trent’anni fa, su iniziativa di un nostro collega che purtroppo non c’è più, Alberto Fazzioli, nasceva il calcio in carrozzina, ovvero uno sport adattato alle caratteristiche di giocatori con disabilità e diversabilità. In genere siamo portati a ritenere che dobbiamo essere noi ad adattarci alle regole delle varie discipline sportive: il calcio in carrozzina dimostra come invece tutte le discipline nascano da un atto creativo, dalla coscienza di essere in primo luogo consum-attori, cioè artefici delle cose che consumiamo.
Scomodando il buon Kant, se dovessimo scrivere una Critica della ragion pura del consumo critico, vedremmo che il prodotto, in quanto fenomeno, è da sempre soggetto alla nostra attività creatrice. La crescente, varia e complessa ricchezza dei prodotti che consumiamo ha indotto la pubblicità martellante e imperante a imporre un prodotto-noumeno, un prodotto la cui essenza ci sfugge, è inconoscibile a noi consumatori comuni mortali. Quasi quasi ormai accettiamo per fede che i prodotti industriali siano migliori di quelli che ci potremmo produrre noi con le nostre mani. Recuperare una dimensione creativa attraverso gesti semplici, come fare il pane in casa o cercare di riparare gli oggetti rotti (come facevano i nostri nonni), o inventare uno sport su misura per noi, è la vera cifra del consumatore critico.
 

Ride bene chi ride insieme: sottotitoli per non udenti a teatro

Probabilmente il fatto che un sordo sia tagliato fuori dall’assistere a uno spettacolo dal vivo, specie se comico e “di parola”, ci può sembrare una barriera quasi naturale e dunque invalicabile. A Londra e in Inghilterra, in una delle scene di prosa più vive del mondo, così era fino a 7 anni fa, quando dall’idea di tre persone con problemi di udito, e soprattutto dalle loro frustrazioni di spettatori teatrali, è nata STAGETEXT, un’associazione che ha mostrato come si può abbattere anche questa barriera. Ne abbiamo parlato con Lynn Jackson, responsabile delle comunicazioni esterne di STAGETEXT.

Come è nata STAGETEXT?
Nel marzo 2000, un viaggio a Londra di un gruppo di americani con difficoltà di udito che volevano un tour teatrale “uditivamente accessibile” si rivelò il catalizzatore per introdurre la sottotitolazione nel Regno Unito. Fu durante quella visita che Peter Pullan, Merfyn Williams e Geoff Brown, i fondatori di STAGETEXT, si conobbero. Tutti e tre hanno gradi diversi di sordità, erano appassionati di teatro, ma volevano avere accesso a recite in inglese, poiché non potevano seguirle attraverso l’interpretazione della lingua dei segni o sistemi di miglioramento del suono.
Il Theatre Development Fund di New York incaricò Geoff, allora Presidente della Federazione Internazionale degli Audiolesi, di vedere se alcuni teatri a Londra avrebbero permesso a un gruppo di persone sorde e con difficoltà di udito di partecipare a spettacoli con due stenografi giudiziari che stavano già fornendo servizi di sottotitolazione negli USA. La Royal Shakespeare Company (RSC) accettò una esibizione sottotitolata di Antonio e Cleopatra al Barbican Theatre, e al Lyric Theatre con Comic Potential di Alan Ayckbourn. Oltre 100 persone sorde e con difficoltà uditive parteciparono alle esibizioni e per la prima volta poterono seguire le recite e ridere insieme al resto del pubblico.
“L’ultima volta che sono andato a una commedia sono uscito all’intervallo in lacrime, totalmente demoralizzato dalla vista di tutti intorno a me in crisi di riso mentre io non riuscivo a capire una singola parola” ricorda Peter. “Dopo Comic Potential, le uniche lacrime nei miei occhi erano lacrime di gioia. È stato fantastico!”.
Il successo di questi spettacoli portò Peter, Merfyn e Geoff a discutere del futuro. Avrebbero dovuto aspettare che i visitatori americani portassero la loro unità di sottotitolazione di nuovo a Londra o provare a fare qualcosa loro stessi? Decisero di formare STAGETEXT, una associazione registrata che offre servizi e formazione per la sottotitolazione a teatri in tutto il Regno Unito. Parlarono a parecchi teatri per calibrare le loro reazioni all’idea. Peter investì il proprio denaro nell’acquisto dell’attrezzatura per sottotitoli dagli USA.
Lavorando a stretto contatto con la RSC, STAGETEXT sottotitolò la sua prima produzione, “La Duchessa di Amalfi”, al Barbican Theatre il 15 novembre 2000. La risposta di sordi nativi e acquisiti e audiolesi fu travolgente e lasciò tutti a reclamare di più.
I tre fondatori lavoravano su base puramente volontaria, rinunciando a tutto il loro tempo libero, viaggiando per il paese fornendo supporto tecnico per gli spettacoli e gestendo STAGETEXT. La sottotitolazione era decollata, e nel 2003, grazie a finanziamenti dell’Arts Council England (ACE), del Linbury Trust e della Esmee Fairbairn Charitable Foundation, STAGETEXT poté assumere personale pagato (uno a tempo pieno e due part-time), più affittare un ufficio a Wembley. Nel 2004, la domanda potenziale per la sottotitolazione e la qualità del servizio fu riconosciuta dalla decisione dell’ACE di rendere STAGETEXT un’organizzazione finanziata su base regolare.
In seguito alla nomina di un direttore generale nel gennaio 2005, i fondatori si sono ritirati dalla gestione quotidiana dell’associazione per svolgere il proprio ruolo come membri del Consiglio di Amministrazione. Oggi, STAGETEXT rimane un’associazione guidata da sordi, con 5 dei suoi 6 consiglieri che sono sordi o audiolesi. Nessuno di loro è stipendiato. L’ufficio oggi impiega sei persone (tre a tempo pieno e tre part-time), di cui due sorde.

Quanti spettacoli, e di quale genere, sottotitolate in media ogni anno?
Da nove esibizioni sottotitolate in sette luoghi nel suo primo anno, STAGETEXT oggi ne sottotitola oltre 200 ogni anno in più di 75 luoghi; queste variano da spettacoli di prosa, musical e pantomime a one-man-show. Sempre più teatri stanno investendo nelle proprie attrezzature di sottotitolazione, e i sottotitolatori locali vengono formati da STAGETEXT. Ciò è ovviamente molto più produttivo del mandare sottotitolatori e tecnici da altre parti del paese, e significa che i teatri possono offrire più esibizioni sottotitolate e sviluppare i loro pubblici locali.
Dal gennaio 2006, STAGETEXT gestisce con successo un servizio di sottotitolazione in Scozia, con tre sottotitolatori formati e qualificati. Circa 15 teatri vi stanno programmando esibizioni sottotitolate, con altre in corso di realizzazione. Servizi analoghi sono in programma per il Galles e l’Irlanda del Nord. La prima esibizione sottotitolata da STAGETEXT nella Repubblica di Irlanda è stata effettuata nel novembre 2007.
L’anno scorso, un’offerta di fundraising congiunto con l’associazione Vocaleyes, che fornisce descrizioni audio per persone cieche e con difficoltà visive, si è conclusa con un’assegnazione di oltre 1 milione di sterline dall’iniziativa Invest to Save del Tesoro britannico, per sviluppare la sottotitolazione e la descrizione audio. See a Voice (www.see-a-voice.org) sta lavorando con teatri da una parte all’altra del Regno Unito, che condivideranno attrezzature e sottotitolatori, per promuovere una crescente disponibilità di esibizioni sottotitolate.

Quanto del lavoro di sottotitolazione è preparato in anticipo, e quanto è eseguito dal vivo dal sottotitolatore?
I sottotitoli sono preparati in anticipo da un sottotitolatore appositamente formato. Questo richiede molte ore di lavoro e implica vedere lo spettacolo diverse volte, incontri con il team di produzione, lavorare a casa con un video o DVD della produzione, e gestire i sottotitoli la sera dell’esibizione.
I sottotitoli forniscono il testo integrale, e anche informazioni aggiuntive per i pubblici sordi o con difficoltà uditive, come nomi dei personaggi, effetti sonori, rumori fuori scena e descrizioni della musica. In questo differiscono dai sottotitoli per TV o opera: ad esempio, i sottotitoli in inglese per l’opera straniera sono principalmente per le persone udenti, sono rieditati rispetto al testo originale, e i nomi dei personaggi non sono mostrati, benché sia normalmente chiaro chi sta parlando.
A differenza dei sottotitoli per TV e opera, inoltre, la temporizzazione dei sottotitoli è cruciale per non anticipare battute importanti. Le parole appaiono nello stesso momento in cui sono pronunciate o cantate su un’unità (o più unità) a display LED, consentendo al pubblico sordo di reagire nello stesso momento del pubblico udente.
Alle volte, il sottotitolatore può mettere in scena un’improvvisazione dal vivo, per esempio in una pantomima, ma questo non è l’ideale in quanto c’è un ritardo nel sottotitolo che appare sull’unità, il che significa che il pubblico sordo reagisce dopo tutti gli altri.
Gli attori possono a volte cambiare le proprie battute, quindi il sottotitolatore può includere varie opzioni e passare a quella giusta durante lo spettacolo sottotitolato.
Insomma, la sottotitolazione non è dal vivo. Comunque, a volte utilizziamo uno stenografo qualificato per tradurre da parlato a testo se c’è una discussione post-spettacolo in teatro dopo un’esibizione sottotitolata. Ciò è estremamente prezioso, perché consente al pubblico sordo di parlare della produzione che ha visto, fare domande e sentirsi pienamente incluso. La trascrizione da parlato a testo è un’abilità completamente diversa dalla sottotitolazione e anche l’attrezzatura usata è diversa; comunque, la nostra unità di sottotitolazione può essere utilizzata per entrambi i servizi, dato che il software STT (Speech-To-Text) è compatibile. Gli stenografi STT si sono sottoposti a una formazione di parecchi anni e usano una tastiera fonetica che consente loro di trascrivere il parlato ad alta velocità. Loro lavorano con sordi nativi e acquisiti e audiolesi, in ogni genere di contesto.

Come si rapportano i pubblici udenti alla sottotitolazione aperta [visibile a tutti] durante gli spettacoli? E come si rapportano i registi e gli artisti al vostro intervento nello spettacolo?
Ogni tanto, un teatro può esprimere la preoccupazione che i sottotitoli distraggano il pubblico udente. Il nostro feedback indica che, complessivamente, le persone udenti trovano i sottotitoli utili (per esempio, se ci sono accenti difficili nella recita o se il linguaggio è arcaico o inusuale) oppure accettano il fatto che i sottotitoli siano utili alle persone sorde. A una piccola minoranza di persone udenti non piacciono del tutto.
È vitale che i teatri rendano chiaro nella loro produzione editoriale e alla biglietteria che una particolare esibizione verrà sottotitolata e spieghino cosa ciò significa. Comunque, in ragione del fatto che solo una o due esibizioni vengono sottotitolate, non è irragionevole attendersi un certo grado di tolleranza. STAGETEXT ha avuto ben poche lamentele sulla sottotitolazione da persone udenti, in effetti molte di esse la gradiscono e commenti da persone udenti come “Il teatro è per una minoranza, non per la maggioranza” sono estremamente rari.
Un direttore artistico a Londra ci ha detto: “Speravo che avremmo avuto un riscontro dal nostro pubblico designato, perché una percentuale del pubblico è udente e non ha bisogno dei sottotitoli; ma è molto interessante che il riscontro sia molto più ampio. Sono sempre incuriosito, sorpreso e eccitato dal fatto che anche quelle persone ne traggano qualcosa. Abbiamo imparato che un modo per farlo bene è impegnarsi fin dall’inizio. Il momento in cui il programma è stato concordato è quello in cui cominciamo. Abbiamo avuto ben pochi problemi con attori e altri membri del pubblico in relazione alla sottotitolazione”.

Come pensate che la sottotitolazione possa essere integrata con altri effetti visivi per essere parte dell’opera d’arte complessiva – e vi è mai capitato di essere coinvolti in un lavoro simile?
Benché sia utile che gli scenografi siano consapevoli che una produzione potrebbe essere sottotitolata, la nostra considerazione principale è che la posizione dell’unità di sottotitolazione sia il più confortevole possibile per il pubblico sordo, così che esso possa avere accesso alla produzione. STAGETEXT discute la posizione dell’unità con la compagnia di produzione o il teatro, così da averla il più vicino possibile all’azione. Alle volte, abbiamo potuto metterla nella scena effettiva; comunque, occorre considerare scene mobili, attrezzature del suono e stato dell’illuminazione, per cui questo non è sempre fattibile.

Avete informazioni su associazioni o aziende che forniscano un servizio di sottotitolazione dal vivo simile in altri paesi europei? E quali sono i vostri progetti attuali?
Penso sia corretto dire che STAGETEXT è stata pioniera nella sottotitolazione teatrale nel Regno Unito, e probabilmente in Europa. Come detto, c’erano due stenografi giudiziari che fornivano il servizio a New York prima del 2000 – ma penso da un paio d’anni. Nei primi tempi, usavamo i loro stessi unità di sottotitolazione e software, e quindi sviluppammo un altro tipo di software e comprammo unità di sottotitolazione leggermente più grandi. In quest’ultimo anno stiamo lavorando con un’azienda nel Regno Unito per sviluppare il nostro software personale e unità di sottotitolazione con LED ad alta definizione, che sono molto più facili da leggere; queste ultime le stiamo introducendo ora nei teatri in Inghilterra.
Sono a conoscenza del fatto che altre realtà negli Stati Uniti stanno fornendo la sottotitolazione in modo diverso, ad esempio usando schermi al plasma, ma non ho altre informazioni su questo. I progetti sono seguiti dal Theatre Development Fund di New York (www.tdf.org).
STAGETEXT ha recentemente sviluppato un proprio corso di formazione di 3 giorni per nuovi sottotitolatori, che, tra l’altro, spiega come i sottotitoli dovrebbero essere “formattati” a beneficio di sordi nativi e acquisiti e audiolesi.

Per informazioni:
STAGETEXT
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Tel.: +44 (0)20 7377 0540
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