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Autore: admin

Come una star, vorrei diventare famoso!

Di Alessandro Pederzoli

Ciao Antonio, qui Ale.
Da un po’ ti “conosco” perché ho visto il tuo sito e soprattutto perché ti ho ascoltato in puntata su Radio2. Eri ospite della trasmissione “L’altrolato” di Federico, mio amico. Io lavoro per “Accaparlante” una cooperativa sociale di Bologna che si occupa di fare un lavoro di tipo culturale sulla promozione della persona attraverso la costruzione di un’immagine positiva della disabilità.
Scrivo anche per la rivista “Hp-Accaparlante”, edita dalla casa editrice Erickson di Trento, di cui noi ne siamo autori. Per questa rivista curo alcune rubriche, tra cui una su “progetto di vita”. Vorrei scrivere di te e del tuo grande progetto: diventare famoso.
Dimmi se è ok…Grazie, A.

 Ciao Alessandra, piacere di conoscerti! Anche dal modo in cui scrivi assomigli molto a Federico ;-)).
È fantastico sapere del tuo interesse del mio progetto e sarei felicissimo di essere citato nella tua rubrica… fammi sapere se ti serve qualcosa. Un abbraccio e, anche se un po’ in ritardo, felice anno nuovo!
Antonio Gaddari

 È lui l’autore del sito www.wannabeavip.com la cui originalità spicca sin da una prima navigazione. Un sito con una storia tutta particolare.Questa pagina nasce dal verificarsi di una serie di eventi che hanno cambiato la mia vita e mi hanno spinto a intraprendere un percorso obbligato. Vedrò di essere un po’ più chiaro. Un incidente stradale, avvenuto nell’estate del 1989 con tutta la mia famiglia, e un susseguirsi di negligenze da parte dei medici nelle ore successive, mi causarono una lesione midollare che mi ridusse, e mi riduce tuttora, a uno stato di tetraplegia (paralisi di tutti e quattro gli arti). Dio volle che l’incidente mi capitasse all’età di cinque anni per offrirmi la possibilità di vivere la mia vita con la capacità, ormai non comune, di apprezzare tutto ciò che ci arriva senza mai dare nulla per scontato”.
Antonio da qualche anno può rimanere seduto solo poche ore, ecco perché non riesce a trovare un’occupazione neppure a regime di part-time. Antonio però può comunicare in maniera completa e lo fa tramite la voce. Grazie a un software specifico (Dragon Naturally Speaking) riesce a impartire ordini al pc; in questo modo, parlando a un microfono, può scrivere.
Antonio ha un grande progetto: diventare famoso. “Ogni giorno leggo e vedo ovunque personaggi dello spettacolo che sono famosi e pieni di soldi solo grazie al loro aspetto fisico e alle loro storie d’amore con altri personaggi celebri. Vedo decine di migliaia di persone che spendono fior di soldi per votare il loro personaggio preferito in tutti i reality show del momento, e questo mi dà da pensare”. Così ha pensato. Ha pensato come in questa società nulla valga quanto la bellezza e la perfezione fisica. Viviamo immersi in relazioni superficiali, in cui si mette in gioco solo in parte la propria persona, tenendosi fuori: cercando la via più semplice e meno impegnativa.
L’intelligenza, la capacità di comunicare, le emozioni profonde, dice Antonio, sono ai margini: non sono abbastanza importanti. Così prosegue: “L’unico modo che ho per smentire tutto questo è dimostrare che tutti possono essere tutto ciò che vogliono, saltando quei muri che noi crediamo reali ma che in realtà non esistono. Ce li creiamo noi stessi, ponendoci dei limiti che ci servono per dare una giustificazione alla nostra coscienza che altrimenti ci farebbe star male”.
L’obiettivo di Antonio stupisce e sconvolge allo stesso tempo: diventare famoso. Vuole attirare l’attenzione e l’interesse delle persone attorno a sé. Non ha un editore e decide, attraverso la rete, di farsi editore di se stesso. Da qui l’idea di questo blog/sito.
La sezione principale è un diario attraverso il quale Antonio comunica con i lettori la sua quotidianità. Lo fa tutti i giorni, nessuno escluso. Così come i personaggi famosi e importanti tengono rubriche sui settimanali o sulle loro pagine web personali, nelle quali aggiornano i lettori sulla loro vita, così vuole fare lui. Quella che comunica è la quotidianità spicciola, nella quale racconta quello che gli accade tutti i giorni, gli incontri che fa, gli amici con i quali trascorre il suo tempo. Sono giornate piene quelle di Antonio, ecco perché non si tratta certo di un angolo di tristezza del quale sono protagoniste la desolazione e la noia di spazi vuoti fatti di reclusione. Antonio si racconta con grande ironia: e questa probabilmente è la chiave di lettura di tutto il sito.
“Non ho un editore, non ho un lavoro, questo strumento mi serve per avere della visibilità. Vorrei arrivare alla televisione”.
Chi non lo vorrebbe? Siamo in un tempo nel quale approdare alla televisione, ancora di gran lunga il medium capace di raggiungere il numero maggiore di persone, perché più visto, più seguito e più presente nelle case degli italiani, significa raggiungere, in qualche misura, la notorietà.
Un blog, una vita messa in piazza attraverso questo diario quotidiano, raggiunge dunque due obiettivi evidentemente importanti per Antonio: fidelizza tanti lettori che si interessano a lui e alla sua quotidianità, e attira l’attenzione di quanti lavorino nel campo delle comunicazioni. Perché Antonio è un grande comunicatore di se stesso. Non fa filosofia, non ragiona intorno ai massimi sistemi, non si erge sul podio di chi si sente autorizzato a spiegare la vita solo perché in una condizione più “sfortunata”. Parla di sé. Questa è la lezione. Non racconta la realizzazione di grandi imprese, non fa sfoggio di grandiosi risultati raggiunti. Antonio parla di normalità, la sua vita raccontata con questa semplicità diventa incredibilmente interessante. Forse quello che incuriosisce, e attira allo stesso tempo, è proprio il fatto che Antonio non vuole diventare famoso per aver compiuto grandi opere, seppur nella condizione della disabilità: Antonio vuole che la sua vita normale diventi famosa. Ecco perché ambisce per esempio a occupare spazi sul mezzo televisivo, ecco perché spera in una qualche presenza in un reality; così come è in cerca di un editore che pubblichi una sua autobiografia.
Ironia dunque nell’approccio, ma anche molta fantasia: che in lui si traducono felicemente in spirito d’iniziativa. In una sezione del sito, chiamata Imvalid store, Antonio lancia un marchio di abbigliamento da lui ideato che gioca sui termini e sulle assonanze delle parole. Propone due magliette, versione maschile e femminile, manica corta per uomo e manica lunga per donna, che sui colori del bianco e nero fa spiccare la scritta IMVALID. “Ho deciso di provare a lanciare un marchio d’abbigliamento, chiamato IMVALID, con riferimento al significato in inglese sono valido, sono in grado, io valgo; contrapposto alla pronuncia in italiano, che assomiglia alla parola invalido”. Idea bizzarra, questa, che Antonio spiega così: “A prescindere dalla condizione in cui ci si trova, ognuno di noi è in grado di superare ostacoli e di riuscire a realizzarsi in qualsiasi campo si voglia e ci si impegni. Per cui chi indossa questo marchio può essere per esempio uno studente, che ha appena preso una bocciatura e si rimbocca le maniche per essere promosso alla prossima occasione, oppure una persona licenziata, che inizia a cercare subito un nuovo lavoro con ottimismo e tenacia, o, ancora, qualsiasi persona che ha fiducia in se stesso e non c’è nulla che lo scoraggi, a un ragazzo innamorato che cerca di far colpo su una ragazza mostrando i suoi lati migliori, fino ad arrivare all’esempio di un laureato in ingegneria che fa il barista d’estate per continuare a migliorarsi sempre più con master e tirocini d’inverno, con la consapevolezza che chi s’impegna la vince. Chi veste Imvalid è una persona che è consapevole della propria forza e non ha paura di affrontare le difficoltà della vita che, a ognuno di noi, il destino riserva”.
Così Antonio propone un gioco di parole da indossare, un’idea non certo riservata alla categoria delle persone disabili. Lo spiega lui stesso. E rientra perfettamente nella sua logica che impregna il sito di ogni suo pensiero.
Antonio è arrivato su Radio2, si è raccontato su Radio24; ha partecipato a una puntata di Screensaver (Rai 3) e a lui sono stati dedicati diversi articoli sulla stampa locale sarda. Ma soprattutto Antonio è raggiungibile facilmente da quanti abbiano il desiderio di conoscerlo. È certamente diventato un personaggio, grazie alla sua energia, ironia e fantasiosa creatività. Questo uno dei progetti per la sua vita.  

Il diritto al dovere

Di Stefano Toschi

Giuseppe Mazzini scrive un’opera intitolata I doveri dell’uomo, la quale si rivolge agli operai cui gli ideologi tentano di far credere di avere solo diritti da rivendicare nei confronti dei padroni. Mazzini, invece, sottolinea l’importanza dell’educazione dell’umanità, e ricorda loro che, prima di avere dei diritti, l’uomo ha dei doveri nei confronti dei suoi simili. Che scopo ha, infatti, rivendicare il diritto alla felicità, se nessuno si impegna perché si creino le condizioni per essere felici? Che senso ha rivendicare dei diritti, se nessuno fa il proprio dovere affinché sussistano le condizioni perché questi si possano esercitare? Mazzini elenca una serie di doveri nei confronti della legge, della Patria, di se stessi, del progresso, di Dio, dell’umanità, della famiglia, dell’educazione, della libertà, doveri che vanno esercitati proprio se si vogliono ottenere anche dei diritti in questi ambiti. I doveri, naturalmente, precedono i diritti, perché forniscono le basi per la fruizione di questi ultimi: dove non c’è niente non si può rivendicare niente.
Anche quando si tratta di persone disabili si parla sempre di diritti e mai di doveri. Questo atteggiamento è sbagliato, un po’ come quando si crede che i portatori di handicap siano santi e non possano peccare solo perché non hanno piena libertà di azione. Si parla di diritto alla sessualità come se il disabile non potesse avere una storia normale. Si trattano i diritti umani come se un giudice potesse decidere sul diritto alla vita: questa diventerebbe un mero contratto con la possibilità di essere sciolto in qualsiasi momento, se non viene rispettato il diritto alla realizzazione dei propri piaceri, che si potrebbe in tal caso di fatto pretendere. Invece, la persona con deficit ha sì dei diritti, ma anche dei doveri. Se si digitano le parole “diritti handicap” su un comune motore di ricerca escono 1.820.000 voci. Non si trova nessuna voce se si cerca invece “doveri handicap”, anzi, l’unica cosa che si trova è una serie di indicazioni di doveri delle persone cosiddette normali e della società nei confronti delle persone disabili.
Anche la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 10 Dicembre 1948, usa 30 articoli più il preambolo per sancire dei diritti, e solo nell’incipit dell’articolo 29 ricorda che l’uomo ha anche dei doveri nei confronti della società in cui vive.
Ciò che sancisce forse l’inizio di questo tipo di mentalità volta all’ottenimento di diritti e non al rispetto di doveri si ritrova nella Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America, in cui si legge: “Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per se stesse evidenti; che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro creatore di alcuni Diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca delle Felicità”.
Questi sono concetti più che giusti e diritti inalienabili, ma è opportuno notare in primis che la società, che dovrebbe garantire dei diritti, ha modo di fare ciò solo se chi la compone si impegna a compiere il proprio dovere nei confronti di essa. Inoltre, il diritto alla ricerca della propria felicità vale solo se rispetta principi basilari quali il neminem laedere e non presuppone che, per ottenere la felicità, ci si debba sottrarre all’esercizio dei propri doveri, anche se scomodi o impegnativi. Infatti è impossibile trovare felicità e stabilità in una società in cui vige l’anarchia, in cui cioè tutti sono impegnati nella ricerca di beni personali, perché se non si rispettano i doveri fondamentali della vita in società e questa non riesce pertanto più a reggersi, non viene di conseguenza garantito da essa nessun diritto, ma si sprofonda nello stato primitivo descritto efficacemente da Hobbes con la celeberrima frase homo homini lupus.
Il concetto di dignità della persona non deve essere basato solo sulla rivendicazione di diritti, ma anche su quello che la persona può dare. L’uomo è tale in quanto è capace di seguire una morale condivisa, nessuno è così povero di “umanità” da non dover seguire delle regole etiche, anche se ha qualche deficit o non è in grado di compiere determinate azioni. Ognuno, quindi, ha il diritto di esercitare i propri doveri, e questo è il diritto fondamentale. Ovviamente esso vale anche per le persone con deficit. Queste ultime, inoltre, indotte dalla mentalità corrente a ritenere di avere solo diritti da reclamare e difendere, talvolta sono portate a confondere i propri diritti con delle pretese di normalità che però tali non sono. Le lotte per la tutela di diritti fondamentali come quello alla vita, al rifiuto dell’aborto terapeutico, vengono confuse e fanno spesso meno scalpore delle battaglie più “scandalistiche” quali quelle per l’apertura di case chiuse apposite per disabili o il diritto ad avere la disponibilità di operatrici sociali sessuali come quelle che già esistono in Olanda. Questi non sono diritti neanche per le persone cosiddette normali. Il disabile, inoltre, si dovrebbe sentire offeso da tali proposte, perché esse presuppongono che una persona portatrice di deficit non riesca ad avere una propria vita sociale e sentimentale appagante. Inoltre non è certo con l’amore mercenario che si risolvono i problemi di socializzazione e di rapporti umani delle persone. L’uomo va educato all’amore, non alla soddisfazione mera dei bisogni fisici. Questo vale per tutti, disabili e non.

Uguali o diversi?

Di Giovanni Preiti

Questo è un interrogativo che da anni, come Progetto Calamaio, proponiamo agli studenti delle classi di tutta Italia. Durante gli incontri nelle classi facciamo ai ragazzi la seguente domanda: “Secondo voi Stefania (che è un animatore del Calamaio in carrozzina, per chi non la conoscesse) è diversa o uguale a voi?”. Questo quesito può essere facilmente traslato al mondo sportivo: gli atleti disabili sono uguali o diversi dagli atleti normodotati? In questi anni mi sono sempre battuto per fare in modo che i diritti degli atleti disabili fossero gli stessi di quelli dei normodotati, per far sì che le strutture siano accessibili a tutti, per cercare di creare la cultura dello sport per persone disabili. Ma dove siamo arrivati adesso? Sicuramente ci sono stati grandi miglioramenti, anche se siamo ancora lontani da una situazione ideale. In realtà non so bene neanche quale sia la situazione ideale; forse bisognerebbe che nelle scuole, nei centri sportivi, nei palazzetti, negli stadi, sulle piste da sci, ma anche nei giardini pubblici, ci fosse la reale possibilità di far praticare a tutti lo sport. La realtà è che lo sport non è uguale per tutti, e l’Italia è proprio l’esempio di questo: ci sono grandi differenze di interesse, di investimenti, di cultura all’interno del mondo dello sport italiano, basta fare un ragionamento sui numeri. Ad oggi il CONI, che è l’organo che ha la giurisdizione dello sport in Italia riconosce: 43 federazioni sportive, 17 discipline associate, 17 enti di promozione nazionali, un ente di promozione territoriale, 18 associazioni benemerite; sono affiliate al CONI oltre 65.000 società sportive e il numero di tesserati è superiore a 8 milioni. Di queste più di un terzo sono società di calcio, il resto va diviso per le restanti 42 federazioni, dentro queste c’è il CIP, Comitato Italiano Paralimpico, che nel 2006 contava 642 società affiliate; ora non conosco tutti i numeri dello sport in Italia, ma credo che il CIP si trovi nella stessa situazione, almeno per quello che riguarda i numeri, di altre federazioni e rientra quindi tra quelli identificati come sport minori. Bisogna quindi essere consapevoli che in Italia tutti gli sport sono diversi dal calcio e da pochi altri; è quindi impossibile solo pensare a una situazione di uguaglianza. Non verranno mai spesi milioni di euro per costruire stadi per persone disabili, o piste di pattinaggio, o campi da baseball, o da pallamano; l’importante è che per chi vuole praticare uno sport, ci sia la possibilità di farlo, anche se ha un deficit. Quello che credo di poter affermare con tranquillità, al di là di quanto la maggior parte delle persone possa immaginare, è che non ci sono grosse differenze tra atleti disabili e non disabili, questo nel bene e nel male; non sono solo luci quelle che brillano sugli atleti paralimpici, ad oggi non si sono riscontrati casi di doping tra i nostri atleti paralimpici e mi auguro che non ce ne siano mai, ma nelle altre nazioni non è così. Leggendo un’intervista sul sito delle recenti Paralimpiadi di Torino a Danilo Destro, vice-campione italiano di Curling, alla domanda su cosa pensa del doping risponde così: “Lo sport è competizione, le pressioni a cui sono sottoposti gli atleti sono crescenti e c’e’ chi, per ottenere risultati migliori e non essere tagliato fuori da un mondo sportivo sempre più esigente, si spinge oltre. Non mi sento di escludere che il doping possa riguardare anche il mondo Paralimpico”. Vi sono stati cinque casi di doping ad Atene, che hanno sporcato l’immagine di uno sport simbolo di una rinascita sociale, di vittorie sulle avversità della vita. Un controsenso della umanità e non soltanto agonistico, forse è un segno di uguaglianza, un tentativo di adeguarsi allo sport dei record e della ricerca delle prestazioni oltre ogni regola. Di una cosa sono certo: i “dopati” delle Paralimpiadi hanno un peso in più sulla coscienza, possono sentirsi uguali a quelli normali, purtroppo. Noi del Calamaio chiudiamo il gioco dell’uguale o diverso, cancellando la “o” e mettendo una “e”; sì gli sportivi disabili sono uguali e diversi dagli altri; quello che mi auguro è che siano uguali nel raggiungere, con il cuore, con il sudore e con il cervello ogni traguardo, e diversi come sono tra loro diversi tutti gli uomini.

Quello strano fascino del bastone

DI Pierluigi Sera, laureando in economia e commercio, al momento prestato al mondo dell’ottica

FOREMAN: “Voglio che tu faccia una biopsia della materia bianca cerebrale”. DR. HOUSE: “Ah, certo come darti torto, il mondo è invivibile per chi è dotato di intelligenza superiore, ho sempre invidiato gli animali domestici e i bambini ritardati, […] un millimetro e puoi passare il resto della tua vita senza trattenere la saliva in bocca”. FOREMAN: “Molto meglio disabile che morto”. DR. HOUSE: “Certo hai davanti a te un esempio così sexy, solo che in realtà non è affascinante come sembra…”. FOREMAN: “La biopsia ci dirà esattamente cosa non va”. DR. HOUSE: “Gli antibiotici potrebbero fare lo stesso”. FOREMAN: “È solo un’ipotesi”. DR. HOUSE: “Proviamo e vediamo”. FOREMAN: “Con gli antibiotici ricomincerà il dolore”. DR. HOUSE: “Il dolore ci porta a sbagliare le decisioni, la paura del dolore è anche peggio, spesso…”.
(Dialogo tratto dalla serie televisiva “Dr. House”, Stagione 2, Episodio 21 intitolato “Euforia”)

[…] dovrebbe andare in archivio e chiedere allo Zoppo: una situazione imbarazzante, un individuo insopportabile e scostante. In verità lo Zoppo si chiama Poli Ugo, la sua qualifica è di vice ispettore aggiunto, ma in questura nessuno ormai ricorda né il primo, né la seconda. È diventato lo Zoppo […]
Parlargli, anche solo di lavoro, significa sopportarne il sarcasmo pesante, la sua aria di superiorità e non badare alle offese. In caso contrario si rischia di passare alle vie di fatto, e con lo Zoppo, munito di pesante bastone in aiuto alla gamba destra massacrata, si rischia di prenderle perché non possiede un minimo di umanità. A colpi di bastone ha reso invalido un giovane che gli aveva rubato la bicicletta: fate voi! […]
Il suo modo di comportarsi è certo una maniera di vendicarsi, ma si tratta di una vendetta interiore, fine a se stessa e che non esce dalla mente dello Zoppo. Allora che vendetta è? Ci vorrebbe un Freud e io non ne conosco. Poli Ugo, vice questore aggiunto, è un individuo interessante da seguire. Meno monotono di Sarti Antonio, sergente […]
(Brano tratto da Loriano Macchiavelli, Sarti Antonio e il malato immaginario)

“Il malato immaginario”, titolo evocativo ed esilarante se ci si riferisse alla celebre opera di Molière, e non a una ben congegnata truffa alle casse del servizio sanitario nazionale, una sorta di “tangentopoli” ante-litteram, in cui il “nostro” Poli Ugo, lo Zoppo, come lo chiamano in questura, è intento a smascherare un ardito imbroglio tessuto in una rinomata clinica della Bologna bene, ed “Euforia”, in cui l’arci-noto e televisivo Dr. House, si trova ad affrontare, in una altrettanto facoltosa clinica universitaria made in Usa, una strana malattia che sta divorando il cervello di uno dei suoi più validi collaboratori e che ha come singolare principio un’immotivata e irrefrenabile euforia. Se Loriano Macchiavelli e David Shore, ideatore della serie tv, non fossero distanti nel tempo e nello spazio le analogie sembrerebbero a dir poco imbarazzanti e sarebbero pregati dalla pubblica piazza di fornire i propri alibi. Entrambi i personaggi, novelli Sherlock Holmes, con bastone e buona dose di arroganza, arrancano nella loro particolare ricerca della verità, la propria verità, e buona pace alle leggi e ai regolamenti. Spinti da un enorme spirito di rivalsa sul mondo dei “normali”, angeli scacciati da un paradiso che ormai irridono, sacrificano affetti e salute pur di mettere la parola fine nel terreno dove altri annaspano, sia esso un’incomprensibile malattia, o un intrigato caso di omicidio. Indagatori dell’animo umano, osservatori profondi, pronti a cogliere anche il più lieve cedimento o indecisione nel volto del loro interlocutore, che ne riveli i veri sentimenti e il vero intento, partono dall’assunto che tutti mentono. La fiducia nel genere umano è un lusso che non si permettono: Poli Ugo e Gregory House hanno sperimentato sulla propria pelle l’abbandono, la compassione o l’indifferenza dei loro simili. Fuggono la compagnia degli altri in una insensata e tragica messinscena che sancisca la loro totale autonomia, e se hanno bisogno di qualcuno, usano le persone come pedine di una invisibile e irrazionale scacchiera. Ma la fiducia nel raziocinio, nella razionalità dovrebbe vacillare, perché entrambi sono, se pur superiori alla media, uomini, e per questo fallibili, e forviati e ingannati da falsi indizi percorrono il sentiero che li conduce alla meta incappando in vicoli ciechi e cantonate plateali. È più facile, infatti, cadere nei tranelli e nelle trappole della vita se si cammina accecati dal proprio ego; la sicurezza di avere sempre tutto in pugno, e la situazione sotto controllo, rende tutti, nessuno escluso, più vulnerabili. Le analogie tra i nostri “eroi” finiscono qua, nascono e muoiono in una condizione che li ha strappati dalla loro vita precedente per catapultarli in un limbo popolato da tensioni psicologiche: l’amore/odio per le persone che hanno accanto, il rancore verso un mondo da cui si sentono emarginati o da cui si emarginano essi stessi, la colpa del loro stato che attribuiscono a qualcuno su cui però, non riescono a vendicarsi, l’ex-moglie per il medico e i superiori per il poliziotto. Per il resto sono Dr. Jekyll e Mr. Hide, due facce di una stessa medaglia, ma così opposte… House è l’amico guascone che tutti vorrebbero avere, il cinico malato della vita, che illumina le situazioni con le proprie battute sferzanti e brillanti, lo zio burbero a cui correre in caso di necessità. Il suo rapporto col potere è di sfida, non ossequioso, di scontro fino all’autolesionismo e il fine ultimo è il bene, anche se, travestendosi da dio minore, sancisce quale sia il bene a cui tendere; quando maltratta gli altri è per tirare fuori il meglio delle persone e, in una distorta visione di giustizia, indirizzarli verso la meta, un po’ come quei genitori ottusi che pretendono che i figli leggano l’affetto che hanno per loro dal numero di rimproveri che subiscono. Poli Ugo, invece, è un antieroe, uno che ha scarso rispetto per la vita altrui e vorrebbe vedere morti tutti coloro che non la pensano come lui. Una persona che si riempie di sussiego per i potenti, perché sa di non poterli battere, e calpesta chi ritiene più debole o inferiore. La sua intelligenza è vivida quanto quella di House, ma il suo fine ultimo è quello di incidere una bella “R” rosso sangue sui rapporti sui quali i colleghi si sono arenati, “R” che significa “Risolto”, e sancisce la propria supremazia sugli altri, ma non rivela mai a nessuno le proprie deduzioni, lasciando pericolosi criminali in giro per le strade della sua città e poco importa se quelle stesse persone concorrono a peggiorare le amate mura natie. La propria vittoria non è la lode altrui, un po’ come House, ma il sapere di essere una spanna sopra a tutti e che a lui, a lui no, non la si dà a bere e per ottenere il proprio scopo non esita a usare i malcapitati che hanno la sfortuna di incrociare il suo bastone. Celandosi dietro la veste di questurino, infligge angherie e scorrettezze insensibile a qualsiasi idea di giusto, fedele alla propria idea di giusto, così diverso da Sarti Antonio e dai suoi amati caffè…

Emozioni di “seconda mano”

Di Luca Baldassare

La “qualità emozionale” nei servizi turistici è un tema di cui si parla da qualche tempo e probabilmente non senza reali motivi d’interesse. Intanto bisogna specificare che il concetto di “qualità emozionale” non è analogo a quello di “qualità percepita”. Infatti, mentre la seconda è più orientata alla misurazione del livello di soddisfazione del cliente, in sostanza liquidabile come mera questione di marketing, la prima investe un piano assolutamente più emotivo, emozionale per l’appunto. Attiene cioè a quella sfera del privato invasa dalla voglia di conoscenza, di libertà e, forse, anche al desiderio di fuggire dalla propria realtà. Praticare questo tipo di turismo significa rivisitare il proprio rapporto con l’ambiente e con gli individui che lo abitano e perciò anche delle relazioni che con loro si intrattengono.
L’argomento è interessante sia per chi offre i servizi turistici sia per chi ne usufruisce. Se valutata dal punto di vista di un operatore del mercato del turismo che vuole stimolare la “domanda”, la questione potrebbe porsi nei seguenti termini: “Come si fa a misurare l’intensità di un’emozione che si prova di fronte a uno spettacolo della natura?”. La probabile risposta è che non sia possibile in nessun modo, non fosse altro perché il “sentire”, almeno questo sentire, è troppo soggettivo per essere oggettivizzato. È altresì vero che non ci sono dubbi circa l’importanza della qualità emozionale, senza la quale verrebbe meno la motivazione e forse l’essenza stessa del fare turismo. Onde evitare di incartarsi, è bene porre la questione diversamente.
Ragionando ad esempio di cultura dell’accoglienza e dell’ospitalità, miscelata opportunamente ai concetti di accessibilità e fruibilità dei servizi, più semplici da misurare, avremmo qualche primo concreto indicatore della qualità emozionale.
A quelli cui quest’idea della qualità emozionale potrà sembrare strampalata, è bene chiarire due elementi. Intanto, che in tutti i territori dell’economia, e quindi anche in quello del turismo, recepire un cambiamento, se non anticiparlo, si traduce in un vantaggio strategico e di competitività che interessa qualsiasi impresa. In quest’ottica sono i numeri del turismo di massa, che negli anni hanno incrementato sensibilmente la domanda e allargato e differenziato l’utenza, che quasi costringono alla ricerca di nuove strategie per intercettare la crescente domanda di servizi. L’altro elemento, non meno importante, è che la letteratura sull’argomento propone da tempo molti livelli di riflessione, alcuni addirittura già tradotti in bandi di enti pubblici per la promozione di servizi turistici.
Non solo: esistono addirittura veri e propri vademecum per operatori turistici che snocciolano principi di buona accoglienza quali rispetto, disponibilità all’ascolto, cortesia, gentilezza; e sottolineano con forza l’importanza di porre le basi per una buona relazione, ovvio, per “vendersi” meglio, ma evidentemente con beneficio dell’utente/fruitore.
È altrettanto ovvio che la cortesia e la disponibilità non si possono imporre per legge, pertanto solo chi ne coglie la potenzialità ci scommetterà sopra.
Come gruppo di lavoro del Centro Documentazione Handicap e della Cooperativa Accaparlante, che si cimenta ormai da oltre dieci anni nella realizzazione di prodotti turistici con un occhio di riguardo per chi ha problemi di mobilità, la promozione di un turismo di qualità emozionale è vista come un’interessante opportunità.
Esiste una correlazione stretta tra una scelta improntata al turismo emozionale, a una logica dell’accoglienza, e la fruibilità e l’accessibilità delle strutture ricettive. In questi anni di lavoro ci è spesso capitato di editare guide all’accessibilità di luoghi e contesti, a priori ritenuti inaccessibili. Lavorare in una logica emozionale vuol dire impegnarsi a fornire emozioni , se non proprio di “prima” almeno di “seconda mano”. Magari apparirà una forzatura, invece è frutto di un impegno preciso e voluto. Costruire degli itinerari di accessibilità tenendo conto di questo, vuol dire ad esempio, segnalare uno scorcio cittadino, una porzione urbana insignificante ai più, ma capace di fermare l’emozione del rilevatore di quel momento. Trasporre quell’emozione in quella segnalazione vuol dire farla rivivere, in quel turista, che verrà dopo di te.

Nonna Santa e i Dogi

Di Luca Baldassarre

La prima (e unica) volta che portai mia nonna a visitare Venezia fu veramente un’esperienza da raccontare. Ricordo chiaramente che non stavo nella pelle: non mi pareva vero di essere riuscito a convincerla a lasciare per ben un giorno e mezzo la sua terra d’Abruzzo, la sua casa e le sue abitudini. Come molte persone della sua generazione anche lei, nata nel 1909, ha sempre avuto un concetto di mobilità molto particolare, sicuramente di un’altra epoca. Concetto, per me, estremamente affascinante. Anche a distanza di molti anni dalla sua dipartita, mia nonna rappresenta per me una fonte inesauribile di saggezza. È l’unica persona che abbia mai conosciuto capace di infilare, in ogni discorso e con incredibile tempismo, una pastiglia di assennatezza.
Ne aveva per tutti lei, e ovviamente ne ha avuto anche per Venezia. Appena scesi dal vaporetto alla fermata del Ponte di Rialto, il suo primo commento fu: “Uuuh…ma come fann(e) chiss a suppurtà tutta ‘sct’umidità? Mi fa mal(e) l’uss(e) a me pe’ iss(e)?”.
Ecco, l’essenza di nonna Santa sta in questa frase! Per chi ha vissuto un’intera esistenza nell’arco di pochi chilometri quadrati non è mai facile uscire dal proprio guscio… Ma lei, da questo come da altri punti di vista, era davvero una persona spettacolare! Io sono rimasto spesso stupefatto e incuriosito dal modo in cui lei si approcciava alle cose nuove, che ancora oggi trovo incredibilmente attuale, un po’ come le sue massime… E penso che anche per chi, come me, è figlio di un’epoca che ci ha abituati a un sacco di cose bellissime e supertecnologiche, come per esempio a spostarci anche a grandi distanze con buona disinvoltura, il suo modo di essere e di fare sia veramente interessante. Ebbene, è proprio da qui che vorrei partire. E il punto di partenza non può che essere un luogo geografico ben definito: Manoppello (Coordinate GPS 45.8247222′, 12.5341667′). Questo ridente paesello della provincia di Pescara, ritirato verso l’Appennino ma a soli 30 chilometri dalla costa adriatica, ha visto scorrere la gran parte dell’esistenza dei miei nonni materni: Santa e Donato. Io non ho mai capito come abbiano fatto a vivere dove hanno vissuto, e per tutti quegli anni. Con la famiglia “a regime” sono arrivati a essere in 14/15 persone… Un bel numero non c’è che dire, soprattutto se suddivisi in quattro stanze in tutto (sala da pranzo e cucina incluse). D’altronde, come si dice in questi casi, all’epoca non c’era il televisore. Ma non è di questo che stavamo parlando; parlavamo di Venezia e della nonna. Come soleva spesso dire di sé, lei non aveva fatto scuole, “né alte né basse”, perciò era “gnorante e ‘nalfabeta!”. In verità, sapeva leggere, scrivere e perfino contare. Qui, anche se mi scoccia alimentare uno dei luoghi comuni più insopportabili e retrivi sull’Abruzzo, devo ammettere che lei ha sempre sostenuto di aver imparato a farlo “pascendo le pecore”. Mi secca dirlo, ma tant’è…
Nonna Santa e i viaggi: è un titolo suggestivo per un libro. Ma non sarebbe un tomo molto voluminoso. Lei non viaggiò molto in vita sua e non solo per una questione di soldi, come si potrebbe pensare. E forse neanche per mancanza di una “cultura del viaggio”. Semplicemente non lo fece, nemmeno quando sarebbe stato logico farlo. Ad esempio, per andare a trovare qualcuno dei suoi figli emigrati all’estero: in Canada, in Belgio (a Marcinelle, località tristemente famosa per l’incidente in cui morirono tanti minatori, diversi dei quali proprio di Manoppello) o in Germania. Insomma non si spostò mai dalla sua terra, tranne una volta. Ricordo un viaggio insieme, in Val di Susa (dove vive un’altra delle sue figlie), per un matrimonio. In quella circostanza ebbi l’opportunità, forse per la prima volta, di vedere interagire mia nonna con qualcosa di nuovo e forse per lei inaspettato: Torino. Infatti, nel viaggio di andata ci scappò la sosta nel capoluogo piemontese. Mia nonna apostrofò subito l’imponente seriosità degli edifici della città con un “E tutt(e) s’ cas(e) vicchi(e)?”. A quelli che non riescono a cogliere l’essenza di questo modo di fare, vorrei spiegare che è frutto del background culturale tipico delle genti d’Abruzzo, che si potrebbe riassumere in un, “nel dubbio, sbeffeggia!”. Però, al di là di queste considerazioni, quello che conta è ciò che scattò dopo. Infatti, fregiandomi della mia scolarizzazione da “scuole alte” (all’epoca frequentavo un istituto superiore ospitato in un palazzo di tre piani), introdussi mia nonna alle vicende storiche di quegli edifici dell’ex Capitale d’Italia. Al loro passato e a quello che avevano rappresentato per tutti noi. Lei, come faceva sempre quando le parlavo, mi ascoltò tutto il tempo senza proferire verbo. Aveva un luccichio negli occhi brillantissimo, attenta a percepire ogni mia parola. Col passare del tempo questa cosa mi impressionò sempre meno ma quella volta lì, la ricordo ben nitida, scolpita nella memoria. Sono sempre stato convinto che quell’occhio celasse un atteggiamento di grande curiosità e voglia di conoscenza non così comune, nemmeno per il più navigato dei viaggiatori. Inoltre, spesso diceva che occorreva fare attenzione a lasciare “l’Addor(e)”. So che intendeva dire “non essere invasivi né scostumati”. Cioè: bisogna avere gratitudine e un grande rispetto per l’interlocutore che sceglie di condividere con te quello che sa lasciando fluire il racconto senza incalzarlo troppo. Io questa cosa l’ho sempre trovata di grande civiltà. Mi ha ricordato le tanto da me vituperate “buona maniere” che così spesso mia madre ha cercato di insegnarmi. Dopo quella volta sono stato più attento a verificare il comportamento di mia nonna verso le fonti di informazione e soprattutto verso i luoghi e i posti nuovi. Sentirle rispondere “Buonasera!” allo speaker televisivo del TG1, interpretare la notizia del giorno o leggere attraverso i suoi occhi l’enorme patrimonio storico artistico di Venezia è stato così divertente e affascinante, da vero turista del 1909! Una lettura di puro, pratico buon senso che mi ha restituito una visione unica e originale che nemmeno il più grande dei ciceroni avrebbe potuto mai darmi. E qui non c’è scuola “alta” che tenga!

E se non fosse solidarietà

Di Aòessandra Pederzoli

Il martedì di Unomattina si è arricchito negli ultimi tempi di uno spazio settimanale chiamato “Spazio della Solidarietà”, condotto in studio da Giovanna Rossiello e interamente dedicato alla scoperta e al monitoraggio di esperienze e progetti in “difesa del sociale” (come spiegano all’interno del sito Rai) sia a livello locale che su territorio nazionale.
Il tema della disabilità è stato uno dei temi protagonisti dell’edizione invernale; intensa la ricerca, da parte della trasmissione, di associazioni culturali, sociali e sportive che si occupano proprio della qualità della vita delle persone disabili. È stato intrapreso un viaggio, come leggiamo dal sito di Unomattina, “in quella dimensione del sociale normalmente sconosciuta ai più”. Tema importante ma non unico. La realtà sociale di cui la Rossiello racconta settimanalmente è ricca e variegata. Diventano così protagonisti anche il carcere, tutti quei luoghi in cui l’ospitalità diventa protagonista di una riabilitazione così importante per persone con un disagio psichico o con un vissuto di dipendenza alle spalle, il teatro come apertura alla società e lo sport come mezzo di reintegrazione sociale.
Anche l’edizione estiva del programma mantiene questa rubrica settimanale con l’intento, dice la Rossiello a inizio estate, di raccogliere tutte le esigenze del pubblico per esaudirle all’interno della programmazione estiva. L’inizio di un dialogo con il pubblico, questo che passa attraverso l’invito a comunicare con la redazione per far giungere notizie o argomenti di interesse, oltre a una sollecitazione a partecipare al forum di discussione, aperto sul sito del programma.
Una scorsa alle ultime puntate del mese di maggio e ci accorgiamo che ben due sono state dedicate alla disabilità, in due contesti e con due tagli molto diversi, così come diversi erano gli argomenti trattati. La prima, quella di metà maggio parla di sport, la seconda invece ha come protagonista la mamma di una ragazza disabile grave che racconta la sua esperienza di “bisogno” nel crescere la figlia.
Quella della Rossiello che parla di sport è una bella panoramica tra vari eventi sportivi che vedono impegnati alcuni dei nostri bravi atleti. Lo fa raccontando brevemente come, a partire dalle Special Olympics, giunte ormai alla ventiquattresima edizione, oggi lo sport sia ormai pienamente riconosciuto come uno strumento fondamentale per la piena integrazione nella società di persone con disabilità. Un viaggio in barca con l’“Handy Cup”, una regata che vede coinvolti equipaggi misti di persone disabili e non, insieme per “navigare verso l’integrazione”. E dalla barca a cavallo con la storia di Federico Lunghi, un ragazzo con gravi disabilità che grazie alla passione per l’equitazione è riuscito a fare importanti progressi, fino a intraprendere una vera e propria carriera agonistica di successo. Federico infatti, come mostra il servizio, oggi gareggia in competizione con atleti normodotati, fino a vincere un bronzo e un argento ai campionati italiani assoluti. Un approccio fortemente giornalistico questo della conduttrice che ospita in studio anche Silvia Squassabia, organizzatrice della manifestazione “Un cavallo per tutti, una carezza lunga un giorno”, come a mostrare una consuetudine del programma: avere sempre in studio un ospite o un rappresentate delle associazioni protagoniste, oltre che, talvolta, un testimone o un protagonista diretto delle vicende narrate.
Così succede nell’altra puntata che in maggio si è occupata di disabilità. Una domanda ne ha fatto da filo conduttore: “Quanto ‘pesa’ la disabilità sulle famiglie che hanno in casa un figlio gravemente disabile?”. Problema diffuso annuncia la Rossiello a partire dal comunicato stampa emesso pochi giorni prima della puntata. È ospite un’anziana signora in studio, madre di una figlia nata con una gravissima disabilità psico-fisica.
Una carriera spezzata quella di questa donna, racconta la conduttrice, costretta ad abbandonare il suo ruolo di dirigente ai beni culturali per assistere la figlia tutto il giorno. Ancora una volta una sottile denuncia all’assenza dei servizi per mettere in luce la positività del mettersi in rete: sono i parenti, le associazioni i nodi di questo groviglio di relazioni che si intrecciano intorno a questa figlia che necessita cure e attenzioni continue.
Il contributo dell’ospite va proprio a illuminare la situazione raccontata da questa mamma e proposta con forza dalla conduttrice: si tratta della Presidente di Coface-Handicap (Confederazione delle Organizzazioni delle famiglie dell’Unione Europea con persone disabili) con sede a Bruxelles e fondatrice dell’Unione Famiglie Handicappati. E il discorso si sposta su un piano più burocratico amministrativo per rispondere a tutta una serie di domande di ordine pratico, tipo congedi parentali dal lavoro, prepensionamenti, sostegni economici alle famiglie, ecc.
Da un lato la storia di una vita combattuta, dall’altro un’esperienza rigenerante nel cuore dell’Umbria, a San Venanzo sulle pendici del Monte Peglia. Qui due genitori di un figlio disabile grave hanno trasformato il problema del figlio e della loro famiglia in una risorsa per tutti.
In questa culla di verde la famiglia Sereni Rulli ha costruito e messo in piedi quella struttura che oggi ha preso il nome di Città del Sole: un piccolo angolo di pace pensato per tutti quelli che vivono la disabilità e sono in cerca del riposo o di un ambiente accogliente in cui trascorrere le vacanze. Un ambiente in cui tutto il personale è preparato e capace di raccogliere e soddisfare esigenze che forse non tutti gli albergatori sanno recepire immediatamente. Ogni ospite è a proprio agio.
Due puntate ci mostrano già uno stile che passa prima di tutto dai contenuti trattati ma anche dalle modalità e dai termini che poi vengono scelti per affrontare le tematiche oggetto delle trasmissioni. Quello che fa la Rossiello è interessante. Prima di tutto perché si tratta di un contenitore generalista come può essere il programma Unomattina, poi perché va a toccare una molteplicità di temi che invece spesso rimangono ancora ai margini della comunicazione di massa. Noi dell’Emilia Romagna abbiamo incontrato begli esempi di comunicazione della disabilità (e non solo) nella rubrica settimanale del Tg3 regionale, “Abilhandicap” prima, diventata poi “Società Solidale”. Nulla si conosceva a livello nazionale se non in ambito sportivo con la trasmissione “Sportabilia” all’interno del pomeriggio di Rai Sport, su Rai 3. Questo rappresenta certamente un passo importante, che ricorda un po’ quella bella trasmissione radiofonica di Riccardo Bonacina, in onda tutte le domeniche mattina su Radio24, che dava voce al Terzo Settore ad ampio raggio. Un contenitore generalista dunque su di un programma e una rete a diffusione nazionale.
Cosa non va dunque? Tre elementi lasciano da pensare. Il primo: si tratta pur sempre di una trasmissione ad hoc (trasmissione forse è eccessivo, meglio parlare di “una pagina del Tg1”, come è stata descritta nel sito stesso di Unomattina), e non sono invece notizie che passano all’interno del programma o del telegiornale; un sottile e segreto tentativo di relegare in un angolo. Secondo: l’orario un po’ selettivo, le otto e quaranta del mattino; probabilmente non il modo migliore per raggiungere il largo pubblico che forse è più interessato di quanto non credano i produttori televisivi a quelle che loro chiamano “tematiche sociali”. Terzo: il titolo di questa pagina. Solidarietà. Ma… dove sta la solidarietà del ragazzo che coltiva la sua passione per l’equitazione e riesce a vincere un secondo e un terzo posto ai campionati assoluti di equitazione, gareggiando a fianco dei normodotati? O dove sta in quella “Città del sole” costruita nel cuore dell’Umbria per offrire un luogo comodo di ferie e tempo libero? Forse non c’è. E non per cattiveria. Ma perché non necessariamente quando si parla di disabilità o di immigrazione, o di carcere o di Terzo Settore si deve essere solidali, o sociali, o non so bene quale altra definizione. Forse si può essere e fare notizia e basta. E questo può davvero bastare.

Tele Glad…30 minuti, tutti i giorni

Di Alessandra Pederzoli

Domenica 29 ottobre 2006 tra i servizi della trasmissione Report, di Rai Tre, la conduttrice e autrice Milena Gabanelli annuncia una Good news: si tratta di Tv Glad “tele contenta”, una tv danese fatta da persone disabili mentali (a esclusione dei tecnici). Il servizio di Stefania Rimini, giornalista del programma, l’intervista pubblicata sul sito e alcuni brevi articoli usciti sulla stampa specializzata (soprattutto on line), la definiscono “la prima televisione al mondo costruita e pensata in questo modo”. In questi termini, attira certo l’attenzione, perlomeno per andare a scoprire più da vicino le logiche che ne hanno determinato la costituzione e le spinte che ne organizzano quotidianamente il lavoro.
Tv Glad ha un sito (www.tv-glad.dk), strutturato in diverse sezioni nelle quali sono ben descritti il palinsesto, le puntate dei singoli programmi, i testi delle interviste giornalistiche condotte, coronate da alcune pagine contenenti le informazioni generali che la descrivono nel dettaglio. È questa l’unica sezione a essere tradotta in inglese, mentre il resto è solo in lingua danese. E da qui si ottengono preziose informazioni.
Tv Glad dunque è la prima televisione al mondo realizzata da persone disabili mentali: sono circa centotrenta le persone che vi lavorano, distribuite in sei filiali; la maggiore è quella di Copenhagen che raccoglie più della metà degli addetti ai lavori (circa settanta). I programmi prodotti vengono trasmessi in una striscia quotidiana di trenta minuti (notturna o diurna, dipende dall’emittente) in diverse televisioni locali danesi, fino a raggiungere un terzo della popolazione della Danimarca. Obiettivo imminente è quello di espandere il bacino di utenza in patria ma anche all’estero. Sono già in essere alcuni tentativi riusciti con successo; Tv Glad infatti riesce a trasmettere in diversi paesi dell’America Latina, grazie alla filiale di Madrid, e ha in corso numerose trattative per aprire studi in Lituania, Svezia, Norvegia, Spagna, Turchia, Cuba, Equador e Cina.

Libertà di espressione e di opinione
“Tv Glad vuole assicurare, incrementare e mantenere il diritto democratico della libertà di opinione e di espressione delle persone disabili mentali” – si legge nel sito – perché essere capaci di esprimere in modo autonomo la propria vita quotidiana e il saper raccontare storie, sono elementi essenziali per l’autonomia personale e per la creazione di un’identità. Il mezzo televisivo è stato scelto come strumento privilegiato, per fornire a queste persone la possibilità di comunicare il loro mondo e il mondo che tutti abitiamo, pur non sapendo né leggere né scrivere, nella maggioranza dei casi.
Il servizio mandato in onda da Report mostra bene questa caratteristica, più volte sottolineata all’interno della presentazione che si legge sul sito. Vediamo una giornalista all’opera, mentre conduce un’inchiesta sugli alcolisti. Lo fa andando a parlare con persone alcoliste in un parco di Copenhagen: non sono certo argomenti difficili a spaventare le troupe di Tv Glad! Gli operatori disabili che lavorano all’interno della testata raccontano il loro handicap alla giornalista di Report e spiegano come non sapendo leggere e scrivere, riescano a esprimersi proprio attraverso le interviste grazie alle quali possono “dire qualcosa”.
Tv Glad dunque, oltre a compiere un importante compito di natura strettamente culturale, svolge anche un’azione fortemente formativa per le persone stesse che la realizzano. Innanzitutto un’esplicita volontà di immettere questo personale nel mercato del lavoro (perché in fondo di questo stiamo parlando), proponendo loro un impiego in un settore che vi rientra a pieno titolo. Ogni mese, infatti, esiste uno stipendio che, in molti casi, va a integrare la pensione di invalidità. Non solo. Oltre a lavorare a pieno titolo nel settore delle comunicazioni televisive, tutte le persone disabili mentali che vi sono impiegate, assumono ruoli significativi e di rilievo: sono giornalisti che decidono come strutturare le interviste, le inchieste o i reportage; così come sono loro stessi a condurre, per esempio, i dibattiti o le tavole rotonde mandati in onda. Ma sono anche loro a decidere gli argomenti, le scalette e l’agenda della striscia quotidiana. Certamente è importante l’azione di supporto del personale tecnico e qualificato che si arricchisce della presenza di qualche volontario. Sono stati buoni, dunque, i risultati ottenuti finora: sia dal punto di vista “commerciale” (la striscia quotidiana infatti è vista da un grande bacino di utenza, e sta vivendo una fase di notevole espansione), ma anche e soprattutto dal punto di vista educativo per le persone disabili che vi lavorano (imparano a pieno titolo un lavoro).
È interessante concentrarsi su questo secondo aspetto che più volte gli autori del sito sottolineano: chi lavora a Tv Glad impara a fare un mestiere. Quando si pensa alla persona disabile, e disabile mentale, che sta imparando a fare un lavoro si è soliti pensare a un tipo di occupazione che abbia a che fare molto più con il concreto. Con il fare qualcosa in modo meccanico e ripetitivo, forse. Difficile pensare che la persona disabile mentale venga educata e avviata alla carriera televisiva, perché quello della comunicazione e dell’informazione è sempre un terreno delicato che si riserva ai pochi che ne abbiano le competenze.
In realtà la sfida duplice messa in atto da questa televisione danese dimostra proprio come, operando un attento lavoro sulla persona, formandola ed educandola ad aprire il proprio mondo interiore alla manifestazione dei propri interessi e alle manifestazioni del mondo, lo si operi, più o meno direttamente, sulla collettività nel suo insieme.

E gli argomenti?
Il pensare a programmi come Glad Food o Glad magazine condotti da disabili mentali è abbastanza rivoluzionario. Il primo un programma sui gusti alimentari. Sì, perché negli istituti o nei centri diurni, i disabili non hanno alcuna facoltà di scegliere il cibo e così non ne hanno mai avuto una coscienza. Non sanno in autonomia cosa preferiscono o cosa è meglio preparare; ora che i tempi sono cambiati, che molti cominciano a vivere nei gruppi appartamento, o addirittura in casa soli, diventa necessario che qualcuno sproni a questa fantasia sui gusti alimentari. Ecco il programma. Di una originalità e ironia incredibile, a pensarci bene.
Il secondo invece, un programma di dibattito sui tanti argomenti di attualità; non solo e non necessariamente legati alle tematiche o al mondo della disabilità, anzi. Essendo un programma di dibattito, sono anche ospiti esterni, esperti convocati appositamente, a parlare di temi quali l’educazione, la scuola, il mondo dell’informazione, la vita della famiglia, la cittadinanza attiva, temi legati all’andamento politico e amministrativo del paese. E, perché no, talvolta si parla anche di diritti delle persone disabili. Oppure Novotny Corner, un programma culturale in cui è soprattutto l’arte a essere protagonista, di qualunque tipo: la cinematografia, la pittura, la musica…
Quando sul sito si legge che il presupposto dal quale parte il lavoro è il riconoscimento della “normalità” di queste persone e l’affermazione del principio della liberà di espressione e di opinione, probabilmente ci si convince della positività che Tv Glad porta quotidianamente sul piccolo schermo. Tele contenta, sarebbe in italviano. Forse è contenta proprio perché cosciente, in qualità di mezzo “massa” per eccellenza, di diventarlo a pieno titolo. Nessuno escluso, dunque. Né dagli argomenti né, soprattutto, dagli studi dove, con microfono e telecamera, si arriva nelle case della gente.

La diversabilità che piace. O può piacere

Di Alessandra Pederzoli

Giunto ormai al terzo appuntamento lo Spazio Calamaio dedicato ai laboratori che hanno impegnato la mattina del 24 novembre, secondo dei due giorni di convegno “Storie di Calamai e di altre creature straordinarie: disabili come educatori nell’esperienza di integrazione a scuola”, in occasione del ventennale del Progetto Calamaio a Bologna. Tra gli altri uno di questi laboratori è stato dedicato al mondo dell’informazione e comunicazione con il titolo “Camerini, trucchi di scena: la diversabilità che piace”, condotto da Claudio Imprudente, Flavia Corradetti e Alessandra Pederzoli con la partecipazione di Nelson Bova, giornalista del Tg3 regionale, ideatore e curatore della rubrica “Abilhandicap” diventata poi “Società solidale”.
Sul filo dei contenuti che hanno accompagnato i momenti di animazione e riflessione su vent’anni di attività nella scuola e nelle realtà associative, anche il laboratorio sulla comunicazione, uno dei momenti di approfondimento tematico, ha guardato il rapporto tra mass media e disabilità sempre nell’ottica di favorire l’affermarsi di un atteggiamento culturale capace di vedere la persona disabile non come oggetto passivo di assistenza ma come soggetto attivo nella società e nella storia, promotore di cultura e cambiamenti.
Questo ha significato prendere in esame una situazione esistente e smembrarla non per coglierne le negatività e le carenze, ma piuttosto per mettere in atto una selezione e un approfondimento che invece andasse a vedere quegli esempi positivi, scoprirne i punti di forza e le strategie. Da qui la scelta di coinvolgere anche Nelson Bova che da anni lavora nel settore delle comunicazioni di massa, e che ha ideato la rubrica che fino a poco tempo fa aveva cadenza settimanale (prima il sabato poi il martedì), “Abilhandicap”, di cui oltre a essere ideatore è stato anche curatore. Una figura che ha aiutato nell’analisi di alcune dinamiche che hanno caratterizzato, e tuttora caratterizzano, questo difficile e ancora problematico rapporto tra media e disabilità.

Ma io sono bello o sono brutto?
Un inizio di laboratorio, se vogliamo, non tradizionale: la proiezione di uno spezzone video in cui i due comici di Zelig, Ale e Franz, seduti sul loro palcoscenico e non sulla solita panchina, discutono sul significato della parola diversabile, tentando ironiche definizioni per concludere rilanciando la palla a chi per primo l’ha lanciata, chiedendo a Claudio: “Ma… Claudio… per te noi siamo belli o siamo brutti?”.
Una battuta che provoca un rovesciamento di medaglia. Dopo aver condotto una gag in cui i contenuti ruotavano intorno al significato di un termine riservato a una categoria di persone, i due comici con una semplice domanda si includono nella categoria e probabilmente generano una confusione tra chi deve stare dentro e chi deve stare fuori: quel ribaltamento che provoca il sorriso.
Claudio Imprudente coglie la provocazione e, rispondendo, accoglie i partecipanti al laboratorio e introduce, in poche parole, i contenuti della mattinata. Un titolo enigmatico, da un lato, che non lascia bene intendere a quale obiettivo voglia tendere. E allora una domanda può aiutare per essere meglio introdotti nel vivo del laboratorio: come può piacere la diversabilità?
Già, perché se qualcosa diventa oggetto di una comunicazione di massa, deve essere interessante quindi, in modo più riduttivo, deve “piacere”; oppure deve fare notizia per rientrare in quei contenitori che fanno più specificatamente informazione. Ale e Franz hanno portato un esempio che rientra probabilmente più nel primo caso, Nelson Bova porta esempi della seconda specie, evidentemente.
Quindi questa disabilità per piacere, ed essere interessante, deve allargarsi per generare un ribaltamento di prospettiva. In modo un po’ diverso e con modalità certamente più giornalistiche, ma non troppo, anche il contributo portato da Bova va in questa direzione.

Mettersi nei panni di
Un altro video. Questa volta è Vito il protagonista della puntata di “Abilhandicap”: uno spazio non dedicato a raccontare grandi imprese di persone disabili o appuntamenti particolari che coinvolgono associazioni, istituzioni o quant’altro ci si aspetta sia oggetto di una rubrica di tipo giornalistico. È Vito che si siede su una carrozzina per entrare in un appartamento che finge essere casa della figlia studentessa universitaria. La ragazza saluta il padre e va a lezione, lasciando a lui in carrozzina il compito di preparare il pranzo. All’uscita della ragazza, Vito incontra tutte le difficoltà che questo ambiente domestico impone e vi si scontra. Altezza dei pensili della cucina, difficoltà a inserirsi al di sotto del piano di cottura, impossibilità di spostare la pentola dal fuoco al lavello… Insomma questo padre non riesce a cuocere nemmeno un piatto di pasta. E la puntata finisce su un primo piano dell’attore.
Non occorre aggiungere molte parole di commento e la “scenetta” di questo padre in carrozzina può bastare da sé a comunicare contenuti al largo pubblico che, in questo caso, è quello della televisione.
Un esempio di televisione certamente positiva perché mette in atto una delle strategie vincenti per parlare di disabilità: il “mettersi nei panni di”. Il vivere la condizione della disabilità e mostrarla con gli occhi di chi non la vive nella propria quotidianità: Vito solo sedendosi sulla carrozzina può riconoscere quegli ostacoli che invece fanno parte in pieno della vita di tutti i giorni della persona disabile e, così facendo li rimanda al pubblico. I telespettatori, per la maggioranza, si identificano con Vito che disabile non è e con lui vivono quel processo di immedesimazione. Probabilmente se a dover cucinare quel piatto di pasta fosse un disabile “vero”, il messaggio non passerebbe nello stesso modo e con la stessa efficacia.

Racconti di vita?
Bova va a avanti e sceglie espressamente di mostrare come anche questa strategia sia il frutto di anni di lavoro e di un percorso compiuto anche dai media per riscoprire un modo per comunicare la disabilità. Lo fa mostrando una delle prime puntate della sua rubrica e va indietro negli anni. È il racconto di una giornata trascorsa a casa di una persona disabile: una disabilità acquisita raccontata attraverso le immagini e il racconto del protagonista accompagnato dalla moglie. Il taglio assolutamente diverso, quello dell’intervista e del racconto di vita: certamente capace di mostrare una situazione al pubblico ma con tutti i limiti che il “racconto di vita” porta con sé. Quello che vediamo nella puntata, ben fatta e priva di toni pietistici o buonisti, è la condizione di questa persona. Quasi un “problema suo”. Non diventa interessante proprio perché manca la possibilità del pubblico di identificarsi con questo racconto. Rimane solo un racconto.
Un modo per facilitare questa identificazione del pubblico può essere anche il mostrare un problema non come un problema di pochi ma come una questione che riguarda tutti. Le barriere architettoniche, per esempio, se mostrate come un ostacolo per la persona disabile rimane un problema di una cerchia ristretta di persone, se mostrate invece come un potenziale appesantimento della vita di tutti, certamente diventano interessanti per tutti. Sempre nell’ottica che la vita facilitata alla persona disabile è una vita più facile e qualitativamente migliore per tutti.

Ostacoli fisici e ostacoli nella relazione
Un viaggio alla ricerca di barriere non di carattere materiale è quello mostrato con gli spezzoni tratti da una puntata di Screensaver, trasmissione di Rai 3 ideata e condotta da Federico Taddia, andata in onda il 5 dicembre 2003 a chiusura dell’anno Europeo delle Persone con Disabilità. Anche qui non si racconta la vita di nessuno e non si denunciano diritti negati o barriere alla vita quotidiana. Ma si mostra una giornata vissuta a Bologna con le telecamere nascoste, in cui si è andati cercando l’incontro delle persone con la disabilità. L’incontro diretto: provare un paio di scarpe, prenotare un pranzo di nozze, comperare le fedi, intervistare adolescenti con domande provocatorie per stimolare la loro creatività. Le barriere eventualmente mostrate sono di tipo culturale e mostrano talvolta una difficoltà che, in tutti questi casi, non è della persona disabile ma di chi invece è chiamato a mettersi in relazione con lei.
Ancora una volta si mostra una prospettiva rovesciata: è l’imbarazzo della commessa che deve inginocchiarsi a mettere un paio di scarpe a Claudio in carrozzina, è la difficoltà del ragazzo che deve decidere se quella di Claudio sia una sfida o una “sfiga”, a essere oggetto di questa comunicazione che arriva sullo schermo.
Una chiusura di laboratorio che, guardando al lavoro compiuto e a quanto mostrato e commentato, riassume sinteticamente alcuni punti forti di una comunicazione sulla disabilità che sia vincente e soprattutto efficace. Nessun diritto da rivendicare, nessuna arrabbiatura o tristezza di una vita riservata a pochi. Una disabilità che non è da pensarsi sempre e necessariamente come un oggetto di comunicazione, non “un parlare di”, ma come un punto di vista da cui guardare il mondo, un “parlare attraverso”. E questo vale per le immagini, le parole, le musiche e i colori. Di qualunque comunicazione si parli, sia essa di massa ma anche no.

Incontrare le storie, incontrare le persone:l’incontro con la persona disabile in classe

Di Giovanna Di Pasquale

L’uomo è un nodo di storie
(P. Bischel)

Le riflessioni che troverete in queste pagine fanno riferimento al lavoro sperimentato nel gruppo di approfondimento tematico su incontrare le storie, incontrare le persone, realizzato all’interno delle due giornate di studio&gioco “Storie di Calamai e altre Creature Straordinarie. Disabili come educatori nell’esperienza di integrazione a scuola”, svoltesi il 24 e 25 novembre 2006 presso l’Ex Convento di Santa Cristina a Bologna.
Le rappresentazioni interne e sociali della disabilità: le “storie” che abbiamo dentro
Quest’occasione di incontro e riflessione, nata intorno all’esperienza del Progetto Calamaio vuole affrontare e, per quanto possibile nel tempo che ci è dato, approfondire un aspetto centrale nell’esperienza di educazione, animazione, formazione “alla diversità” che in questi vent’anni il Centro Documentazione Handicap ha realizzato: il protagonismo della persona disabile e l’assunzione di un ruolo diretto attraverso l’uso della propria persona come vero e proprio strumento educativo.
Il fuoco dei contributi che sono stati portati durante il percorso di preparazione del laboratorio e dei pensieri che andiamo oggi a condividere sta nella convinzione che nel nostro lavoro e nella nostra vita siamo tutti impegnati a costruire una nuova e diversa immagine interna e sociale della persona con disabilità.
È questa una grande rivoluzione. Come già ricordava Carlo Lepri nel suo intervento sul tema della costruzione dell’identità adulta nella persona disabile: “Stiamo costruendo un’immagine nuova della persona disabile, un’immagine che in qualche modo la rappresenta come una persona, che ha innanzi tutto dei bisogni di normalità, prima che dei bisogni speciali, di riabilitazione”.
Il processo di cambiamento delle immagini mentali e sociali contiene in sé le potenzialità per un cambiamento significativo e stabile anche del ruolo delle persone disabili e pone le premesse per l’acquisizione del ruolo sociale riconosciuto.
Sono infatti queste immagini che presiedono e anticipano, almeno dentro di noi, l’incontro diretto con la persona reale. Abbiamo già incontrato le persone ancora prima di averle davanti.
Le rappresentazioni interne e sociali della disabilità, le “storie” che già possediamo delle persone disabili influiscono e per molti aspetti condizionano l’esperienza di conoscenza diretta.
Sempre, comunque, l’incontro passa attraverso il filtro dello sguardo interno, frutto di un percorso che non è solo rielaborato dai singoli ma agganciato fortemente alle strutture sociali e storiche dentro cui i singoli vivono.
L’immagine interiore e culturale della persona disabile è ciò che “pesa” dentro di noi nel giudizio-aspettativa dell’altro e sull’altro. Diventare maggiormente consapevoli di ciò permette di padroneggiare meglio questa dimensione interiore che per le sue implicazioni emotive agisce spesso sotto pelle in modo coinvolgente e, spesso, improvviso.
L’incontro diretto con la persona disabile
Abbiamo visto anche nella plenaria del convegno che l’incontro con la persona disabile viene utilizzato come un vero e proprio strumento educativo nel progetto Calamaio.
Vogliamo riprendere questa idea e rileggerla insieme per considerarne il valore e il rischio che come per tutti gli strumenti in educazione coesistono. È allora importante chiedersi: che tipo di “protagonismo”vogliamo realizzare?
Un protagonismo che è segno di testimonianza. Non modello pedagogico di come si fa a convivere con il deficit, ma presenza che è disponibile a uno svelamento alcune volte anche di ciò che non è facile da dire. Racconta Stefania Baiesi, animatrice disabile del progetto Calamaio: “Come ti sei sentita la prima volta che sei entrata in classe? Non sapevo come comportarmi mi sentivo a disagio, molto a disagio, doppio disagio. Da una parte mi sentivo a disagio proprio come fanno i bambini, né più né meno, non avevo idea di come sarebbe andata; ero nervosa e preoccupata perché sono dovuta andare a scatola chiusa, non avevo la benché minima idea di cosa sarei andata a dire. Di quello che sarei andate a fare. Durante tutto l’incontro vi era un’altra domanda che mi continuava a girare per la testa: che tipo di domande mi avrebbero fatto i bambini?
Come ho fatto poi a far fronte a questo tipo di domanda? Prima osservando, poi cercando di ascoltare, tentando di immaginare e di capire quello che avevo da dire ai ragazzi, quindi in base a questo ho capito e ho trovato le risposte che cercavo”.
Nell’incontro con una persona c’è l’incontro con la sua storia, con le sue storie.
Un protagonismo che diventa racconto di unicità e coralità a un tempo.
Lo strumento biografico è potente proprio quando riesce a coniugare l’esposizione del proprio mondo interiore con la volontà di mettersi in comunicazione con il mondo esterno, rendendo visibile l’identità della persona. È questa un tipo di visibilità ben diversa da quella mediatica: tanto quest’ultima recide i legami con il contesto per vivere di vita propria e si impone come protagonismo assoluto, quanto l’altra si alimenta di connessioni silenziose, di percorsi più sotterranei che arrivano in superficie dopo aver subito un profondo lavorio.
Si entra in classe
Il laboratorio è stata anche l’occasione per far conoscere e condividere il percorso di lavoro realizzato da Malvena Bengasini con i bambini della sua classe, 5 A della scuola “Lambruschini” di Perugia. Il progetto ha coinvolto, oltre agli alunni, anche i docenti della classe, i docenti del Circolo e la cittadinanza attraverso la realizzazione di un convegno finale dal titolo “Viaggio nel mondo della diversità tra favole e realtà”.

Struttura e articolazione dell’esperienza
Lettura in classe dei libri per bambini dell’autore disabile Claudio Imprudente: Re 33 e i suoi 33 bottoni d’oro e Il principe del lago.
Confronto e riflessioni in gruppo.
Corrispondenza con l’autore.
Rielaborazione di ciascun bambino nel proprio “Quaderno del Cuore” (strumento aperto di registrazione, lettura, relativamente a emozioni e stati d’animo).
Anche noi autori: invenzione, in piccoli gruppi, di storie sui pregiudizi (collaborazione volontari Croce Rossa).
L’autore in classe: un incontro… “Imprudente”.
Convegno pomeridiano “Viaggio nel mondo della diversità tra favole e realtà” con la partecipazione dei bambini e dell’associazione “Chefs in smoking” per festeggiare i 20 anni del “Progetto Calamaio”.

Gli obiettivi
Favorire una maggiore conoscenza di se stessi e degli altri.
Assumere la consapevolezza che ogni individuo è diverso dall’altro in quanto unico, speciale e irripetibile.
Favorire una riflessione critica su uguaglianza, diversità e giustizia.
Cogliere ricchezza e potenzialità nella differenza.
Riflettere criticamente sul concetto di pregiudizio.
Assumere consapevolezza dell’importanza dell’aiuto reciproco e della solidarietà.
Sensibilizzare il contesto verso il mondo del volontariato e verso la tematica della diversità.

La metodologia in classe
Modello nell’ottica sistemico-istituzionale:
• attenzione alla risposta e alla proposta dei bambini
• flessibilità e riorganizzazione
• apertura agli “imprevisti attesi”
• modulazioni e aggiustamenti in itinere
• lavoro di gruppo, cooperazione
• bambino soggetto attivo
• coinvolgimento delle famiglie

Collaborazione con il“Progetto Calamaio”. Perché?
La scelta è nata dalla convinzione che la specificità del “Progetto Calamaio”, il suo essere ideato, progettato e in parte gestito da persone disabili, sia elemento particolarmente efficace per veicolare la Cultura dell’Integrazione.
È la diversità stessa che testimonia in maniera concreta, immediata, forte il valore e le potenzialità che custodisce in sé, che può intaccare stereotipi e pregiudizi, spesso consolidati dallo sguardo troppo distratto, superficiale, veloce della “normalità”.
I bambini e genitori non erano al corrente della situazione fisica di Claudio Imprudente, l’autore del libro letto in classe. Attraverso conversazioni, confronto, riflessioni sul concetto di “pre-giudizio”, l’incontro diretto con Imprudente ha smascherato la differenza sostanziale tra parole e fatti, tra teoria e pratica. Ha messo bambini e adulti di fronte ai propri pregiudizi.
Ogni bambino ha intrapreso lo stesso viaggio di Giangi, il protagonista de Il Principe del lago, un viaggio di conoscenza verso se stessi e verso l’altro, che ha aiutato ciascuno a superare le proprie difficoltà, timori, paure che la diversità di Claudio ha inizialmente suscitato.

Cosa ha contribuito alla riuscita del progetto?
A livello organizzativo:
la disponibilità e i contatti frequenti con la referente del “Progetto Calamaio” di Bologna; l’assoluta sinergia e collaborazione tra docenti, associazione di volontariato e referente Cesvol del progetto “Volontariato e scuola”.
A livello educativo-formativo:
il clima relazionale che si è creato nel gruppo; il forte entusiasmo che ha animato docenti, bambini e volontari; la scelta delle insegnanti di non mettere al corrente bambini e genitori della condizione fisica dell’autore.
(Il laboratorio “Incontrare le storie, incontrare le persone: l’incontro con la persona disabile in classe” è stato coordinato da Giovanna Di Pasquale, Stefania Baiesi, Malvena Bengalini).

Bellezze in Carrozzina: il primo concorso internazionale per modelle con disabilità a Honnever

Di Massimiliano Rubbi

Ultimamente il rapporto tra disabilità e bellezza, in vario modo coniugato, sembra avere scavalcato le barriere psicologiche che fino a non molti anni fa facevano ritenere improprio l’accostamento tra estetica e handicap. L’esempio più clamoroso di questa inversione di tendenza è il successo di “MissAbility”, reality show che consiste nella competizione tra donne con “handicap visibili” e che in Olanda è risultato uno dei programmi più seguiti del proprio genere nel 2006 (con vincitrice incoronata dal Primo Ministro!), tanto che già si parla di una prossima edizione italiana, a ruota rispetto a quelle già programmate in altri paesi europei e negli USA.
Le polemiche sul reality show hanno comunque evidenziato la difficoltà, quando si associa la disabilità alla “gara di bellezza”, di sfuggire da un lato ai moralismi e ai pietismi e dall’altro allo sfruttamento commerciale di una menomazione. Un equilibrio più consolidato in questo senso risulta quello costruito da “Beauties in Motion”, concorso di bellezza organizzato dall’omonima agenzia di modelle e riservato a ragazze mannequin in sedia a rotelle, giunto nel 2007 alla quarta edizione. Quest’anno, in risposta a un interesse mostrato da alcuni dei principali media anche italiani (Corriere della Sera, RAI) a inizio aprile, si sono iscritte alla competizione ben 218 donne da 11 paesi (inclusi Italia e Canada), e le finali si terranno il 1° ottobre 2007 a Hannover.
Abbiamo parlato del concorso e di alcune sue implicazioni con Renate Weidner, una dei due ideatori.

Come descriverebbe il concorso “Beauties in Motion”?
“Beauties in Motion 2007” è un concorso di modelle per donne in carrozzina. Quest’anno, per la prima volta, è pubblicizzato a livello internazionale in tutto il mondo e pertanto è l’unico nel proprio genere.

Come è nata l’idea di un concorso per modelle in sedia a rotelle?
L’idea è nata in un caldo giorno d’estate in una gelateria. In cerca di un nuovo progetto, gli iniziatori, io e Ralph Büsing, ci siamo imbattuti nella questione dell’auto-immagine delle persone con deficit. Noi stessi siamo ambedue affetti da disabilità, per cui conosciamo l’importanza dell’argomento.

Avete apportato modifiche al concorso durante le sue diverse edizioni?
Sì, perché questa competizione non era solo qualcosa di completamente nuovo per le partecipanti. Ecco perché abbiamo sviluppato il concorso ogni anno. Nel primo anno il concorso era pubblicizzato solo per donne, nel secondo anno anche per uomini. Al terzo abbiamo lavorato per la prima volta con una coreografia professionale, e quest’anno diventiamo internazionali per la prima volta. Solo con le donne, però.

Quale sostegno avete ricevuto da istituzioni pubbliche e sponsor privati? Avete sperimentato tensioni tra la vostra concezione del concorso e opinioni diverse degli enti a supporto?
Il sostegno da istituzioni pubbliche della città o della provincia [Hannover e la Bassa Sassonia, ndr] è, per dirla nel modo più amichevole, piuttosto limitato. Partecipano principalmente per “salvare la faccia”. Gli sponsor privati sono nel nostro caso ditte che ci sostengono numerose, soprattutto finanziandoci con prodotti della loro area professionale, il che significa che un fornitore di catering dona cibo, un hotel le sistemazioni, un negozio di moda abiti… Non vogliamo nascondere a questo punto che sta diventando sempre più difficile ottenere sostegno finanziario, benché senza di esso le cose non possano funzionare bene.

Potete raccontarci qualche storia e aneddoto significativo, eventualmente anche negativo, della vostra esperienza del concorso?
Beh, all’inizio abbiamo incontrato molta incomprensione, in modo abbastanza comico soprattutto da parte di persone con deficit. Un gruppo autonomo femminista di disabili ci ha perfino minacciato con un attacco di fialette puzzolenti durante una presentazione al luna park. Ma, come si vede, non sono riusciti a spostarci dalla nostra strada.

 Nella vostra esperienza, come reagiscono le concorrenti  al fatto di  il sentirsi desiderate e osservate sessualmente, come avviene in ogni concorso di bellezza?
Il primo anno abbiamo fatto un’esposizione fotografica con le finaliste. Le immagini erano scattate da Olaf Heine, un famoso fotografo che vive e lavora negli USA. Al vernissage una delle finaliste piangeva davanti alla propria foto – era la prima volta dopo il suo incidente che vedeva se stessa come una donna.
La cosa più importante è che le donne possano fidarsi di noi. Sfortunatamente in questo campo ci sono anche “pecore nere”, che abusano del fatto che queste donne desiderino tanto vedersi come tali, e più tardi vendono le loro foto ad amelotasi [feticismo legato alle amputazioni, ndr].

Che tipo di contributo pensate che “Beauties in motion” possa apportare alla percezione sociale della disabilità?
“Beauties in Motion” sta ricevendo grande risonanza dai media. Solo attraverso questo il tema della disabilità viene portato al pubblico continuamente. Soprattutto, però, “Beauties in Motion” sta mostrando in modo impressionante che bellezza e disabilità fisica non si escludono l’un l’altra.

Reinventare il mondo a cavallo: Don Chisciotte tra l’identità spagnola e gli squarci di modernità

Di Massimiliano Rubbi

È uno dei personaggi immortali della letteratura mondiale, e l’opera che lo ritrae è stata definita dai critici il primo romanzo moderno. Don Chisciotte è una figura la cui comprensione piena ancor oggi sfida i lettori, e una delle ragioni è che il “nobile fantasioso” si trova a cavallo di due dimensioni apparentemente inconciliabili. Da un lato, il personaggio di Miguel de Cervantes raffigura l’essenza della Spagna, o a voler essere precisi della Castiglia, in un’identità tra letteratura e natura (di un popolo) che forse nessuna altra nazione può vantare – chi di voi si sente rappresentato da Renzo Tramaglino? D’altro canto, però, la follia di Don Chisciotte esprime qualcosa di universale, che però sfugge continuamente alla descrizione, in un libro che, come ha scritto Harold Bloom, “è uno specchio che riflette i propri lettori”.

Un eroe spagnolo
Una polemica ricorrente nel dibattito culturale spagnolo è riassumibile nell’opposizione “Spagna eterna” – “Spagna composita”. Uno Stato composto di 17 regioni autonome e fiere della propria diversità, ma anche l’unico Paese europeo in cui, almeno fino a qualche anno fa, si insegnava a scuola ai bambini come le popolazioni preromane della penisola fossero già “spagnoli”. La soluzione più spesso prospettata a questo dilemma è che l’identità spagnola si costruisca nella Reconquista, la fase storica che si estende dall’VIII al XV secolo in cui la penisola iberica è segnata dalla coesistenza, tutt’altro che pacifica, di regni cristiani e musulmani, fino alla cacciata dei mori da Granada nel 1492.
La Spagna, in questa prospettiva, si identifica con una sorte che per otto secoli la vede difendere in armi l’Europa dall’avanzata islamica. Il simbolo dell’essere spagnoli diventa così il cavaliere cristiano, senza paura e animato da una fede sconfinata – un’identità in cui l’ascesi religiosa, che pure troverà le sue vette sempre in Spagna nei secoli a venire, è più che temperata da una grande fiducia nelle capacità dell’uomo. Un’icona della cultura spagnola è del resto il Cid Campeador, un mercenario realmente vissuto nel XI secolo che nella leggenda, mosso dalla fede nel re e in Dio (e molto meno dai denari, rispetto alla ricostruzione storica) diviene l’eroe capace di sopportare ogni umiliazione e di riconquistare alla cristianità Valencia.
Partendo da questo contesto culturale, Cervantes costruisce un cavaliere che può rinverdire i fasti della sua tradizione solo in un mondo da lui stesso immaginato, ma che in esso fa sfoggio degli stessi valori di quella tradizione, dall’abnegazione al senso della giustizia – valori che Don Chisciotte tenta ripetutamente di instillare nel suo scudiero Sancio Panza, attraverso ragionamenti il cui buon senso delinea un netto contrasto, a volte espressamente marcato, rispetto all’illusione in cui vive. Al tempo stesso, la follia di Don Chisciotte è filtrata dai secoli di letteratura cavalleresca che lui stesso ha divorato, e anche per questo il suo movimento non è guidato da uno scopo finale preciso come poteva essere, nella storia, la difesa e la cacciata dei Saraceni, quanto piuttosto dalla necessità di trovare nuove avventure in cui misurare se stesso. Ariosto non è passato invano, anche se in Cervantes il cavaliere non cerca qualcosa che ha perso e desidera ritrovare (come Orlando Angelica, o Ferraù il suo elmo), ma trova nel vasto orizzonte di Castiglia e nei suoi astuti e curiosi abitanti gli elementi cui, sia pure nella trasfigurazione immaginaria, è indissolubilmente legato.
Per questi motivi Don Chisciotte riesce a rappresentare quant’altri (reali o fittizi) mai la storia e l’identità del proprio popolo, filtrandone la tradizione in una rielaborazione a molti livelli che tuttavia si compone fluida nell’ironia bonaria del suo narratore.

La rivincita della grotta
Fosse tutto qui, il Don Chisciotte sarebbe la riuscitissima espressione di uno spirito nazionale: un risultato certo eccezionale, ma senza l’attitudine a essere un classico e ancor meno a segnare uno spartiacque nella storia del romanzo mondiale. Per capirne l’universalità dobbiamo quindi guardare alla follia di Don Chisciotte, alla sua diversità che solo la fine può eliminare (solo sul letto di morte, e a prezzo di un rinnegamento di identità, riconoscerà: “Poc’anzi fui pazzo, ed ora sono savio, fui don Chisciotte della Mancia, ed ora non sono altro che Alfonso Chisciano il Buono”).
Nelle due parti del libro, separate da dieci anni di distanza, la relazione dei personaggi con Don Chisciotte varia sensibilmente. Nella prima parte si alternano lo stupore di chi ne incrocia casualmente la via e il tentativo di ricondurlo al senno dei suoi amici, il curato e il barbiere (il medico e l’infermiere?), che arrivano a bruciarne i libri di cavalleria per tentare, invano, di eliminare la causa della sua mania.
Nella seconda parte del libro, invece, la follia di Chisciotte è un dato accettato, anche perché nota a tutti coloro che hanno letto il primo volume delle sue vicende (anche in questo surreale sfoggio di meta-letteratura sta la modernità del testo). Di qui le burle che molti ordiscono ai danni del cavaliere, mettendolo volutamente in situazioni in cui il contrasto tra realtà e fissazione illusoria genera la comicità, che trovano il culmine nelle complesse messe in scena allestite dal Duca e dalla Duchessa, che ospitano Don Chisciotte a questo solo scopo. Anche il curato e il barbiere scendono sul piano della follia, e per riportare a casa l’amico fanno sì che il baccelliere Sansone Carrasco lo sfidi a duello, fingendosi “Cavaliere degli Specchi” e facendogli promettere che se perderà rinuncerà alla cavalleria errante (ma solo il secondo duello riuscirà nell’intento). La pazzia di Chisciotte, oggetto di derisione, di fatto domina il mondo, e come tutte le signorie finisce per generare incongruenze con il reale – tutta questa parte del libro è infatti segnata dalla percezione di Don Chisciotte di essere “incantato”, dopo che Sancio gli ha spacciato per Dulcinea una contadina trovata per caso fuori dal Toboso.
Insomma, proprio quando il mondo pare divenuto il palcoscenico per le imprese del cavaliere, lui inizia a notare le sfrangiature dei fondali. Anche per questo l’episodio chiave risulta quello della grotta di Montesinos, quando Don Chisciotte decide di calarsi in un antro in cui nessuno ha mai osato scendere. Al suo ritorno, il suo mirabolante racconto del palazzo incantato e del compito, che gli compete, di liberarlo dalla magia, non può essere contestato da Sancio, e nemmeno da Cervantes, il quale, pur marcando le distanze dall’esposizione del cavaliere (“stupefacenti cose che per la loro assurdità e enormità fanno sì che quest’avventura sia ritenuta apocrifa”), si guarda bene dal rivelare cosa sia realmente avvenuto nella grotta. Ritorna perciò il contrasto apparentemente insanabile che Sancio così esprime: “Come mai può egli darsi che un uomo che sa dire tante e sì buone cose come quelle che ha ora dette il mio padrone, vada poi raccontando di aver veduti quegl’impossibili spropositi della grotta di Montesinos?”
La monomania di Don Chisciotte emerge qui come quello che è sempre stata: il tentativo di dare un ordine al mondo – appunto, un ordine e uno solo, che quando si allinea alla sapienza del mondo appare buon senso, mentre quando se ne distacca risulta pazzia. Quando, nell’incontro con la falsa Dulcinea, si aprono crepe nell’ordine della “cavalleria errante”, la grotta offre l’occasione per instaurare il nuovo ordine dell’“incantamento”, perfettamente coerente nella letteratura cavalleresca con il primo, e che segnerà tutte le avventure seguenti (e le successive canzonature). Ma l’ambientazione dell’episodio non può che richiamare alla mente, seppure con una ambigua inversione, uno dei testi fondativi della civiltà occidentale: il mito della caverna di Platone, e in particolare l’esito secondo cui l’uomo che guarda fuori dalla caverna sarà deriso e minacciato dai compagni quando tenterà di convincerli a uscirne per vedere “lo splendore del vero”, e tuttavia non potrà più limitarsi alla comprensione delle ombre. Il rischio che il cavaliere della Mancia corre più volte di essere pestato a morte da coloro con cui viene a contatto sembrerebbe la versione picaresca di questo eterno contrasto tra chi guarda lontano e chi riesce a guardarsi solo le punte di piedi troppo piantati sulla terra.

Romance e romanticismo
La lettura romantica del Don Chisciotte lo interpretò come un eroe in grado di riscattare la mediocrità del mondo in cui vive, fatto di locandieri avidi e contadine volgari, tramite la propria immaginazione che rimanda ad alti ideali (mentre Sancio, in contrapposizione, rappresentava il simbolo della bassezza). La pazzia, nella mentalità romantica, è del resto il grimaldello con cui superare l’esistente e dunque il sale del vero artista, che attraverso la propria irrazionalità marca la distanza dal mondo borghese in cui è condannato a vivere.
La critica più recente, a partire da Miguel de Unamuno, ha ampiamente rivisto questa lettura schematica del capolavoro di Cervantes, ma qualche elemento ne va forse conservato. In senso più moderno, il fascino di Don Chisciotte sta nella sua capacità, di fronte al senso di insoddisfazione per una vita inerte da piccolo nobile di campagna, di costruire una terza via tra il cambiare il mondo e l’accettarlo così com’è: ricostruire il mondo con la propria fantasia, accettando di giocare fino in fondo il proprio ruolo in quel mondo. In un senso ancor più moderno, d’altronde, il testo di Cervantes segna la rottura del rapporto della letteratura con la realtà e la frantumazione dei punti di vista (così Michel Foucault): se è così, ha ancora senso parlare di “mondo”, e di “saper stare al mondo” come discrimine tra la normalità e la follia? A 400 anni dalla sua stesura, il discorso sulla diversità, la follia e la realtà di Don Chisciotte della Mancia è non solo attualissimo, ma ancora in larga parte da scrivere.

Lettere al direttore

Risponde Cluadio Imprudente

Caro Claudio,
seduzione, allora? Ma certo! Martina ti aveva inoltrato il mio post al forum della Sotis, vero?
Non male l’immagine della frutta. Partecipo anch’io al gioco: per me, scelgo la zucca. È un frutto dal colore caldo, ma non vistoso; apparentemente anonima e un po’ dimessa, ha la proprietà alimentare e culinaria di essere un ingrediente ottimo se abbinato ad altri, dei quali esalta e trasforma il gusto; è multiforme e flessibile, ma la riconosci sempre; rimane inconfondibile, e dà un’impronta speciale ai piatti con cui è preparata. Si sposa ai sapori salati e a quelli dolci, alla cannella come all’alloro, alla noce moscata e all’amaretto. Per palati raffinati… come io mi pregio di essere, modestamente. 🙂 Ciao, noce!
Un saluto dalla zucca Paola

Cara Paola, pochi giorni fa, nel recarmi a Padova per un convegno sui trent’anni dalla Legge 517/77 sulla integrazione scolastica, sono passato da Ferrara. Ferrara, quanti ricordi! Mia mamma, infatti era di questa piccola chicca di città. L’unica città in Italia dove ci sono più biciclette che macchine, la città con più “erre” e meno frenesia. La piazza Estense è dominata da un castello che farebbe invidia anche a quello della Walt Disney. Ma la cosa più affascinante del castello è il fossato d’acqua che pullula di pesci rossi, grazie alle briciole che i bambini si divertono a gettare loro. Quando scende la sera il castello è pervaso da un’atmosfera romantica, e diventa un ottimo scenario per una cenetta a due. Non si può fare a meno di ordinare un piatto tipico ferrarese, i tortelloni di zucca, con il loro gusto dolce misto al sapore speziato di noce moscata. Parafrasando Pupo: “Tortello profumato dolce un po’ speziato, il tortello profumato”. Ma che buoni! È proprio vero che in quel contesto la zucca diventa molto seduttiva. E questo rafforza una riflessione che ho fatto anche nel mio libro C’è ancora inchiostro nel Calamaio! (Edizioni Erickson, 2006): e cioè che la seduzione è una questione di contesto. Mi autocito: “È questo il segreto [della seduzione]: anche nel mondo della disabilità è necessario uno sforzo per modificare i contesti e far emergere quel potenziale seduttivo che in altre circostanze risulta oscurato o inesistente. Uno sforzo che coinvolge non solo i disabili ma anche tutti coloro che convivono con la disabilità e ne sono interessati a livello familiare, lavorativo e di gruppo sociale”. Insomma, a seconda del contesto la zucca può essere sinonimo di poca intelligenza, ma anche di grande seduzione. E che dire, fatti una cenetta al lume di… zucca.

Ciao Claudio,
sono una “giovane” lettrice del Messaggero di Sant’Antonio.
Da quando ho cominciato a leggere i tuoi articoli ho assaporato il gusto della riflessione che purtroppo – da tanto tempo – nessuna lettura giornalistica mi dava. Quindi voglio ringraziarti di vero cuore per la tua umiltà e sapienza, qualità che insieme formano la SAGGEZZA. Spero che nel Messaggero del prossimo anno io possa continuare a leggere i tuoi articoli, magari trovandoli prima delle rubriche per la casa!
Buon lavoro, Rosa

Oh Rosa,
come puoi immaginare, nella gestione delle mie rubriche ho bisogno dell’aiuto di un fedele collaboratore che scriva ciò che io detto attraverso la mia lavagnetta. Non appena ho scelto la tua e-mail per la rubrica “Lettere al direttore”, il volto della mia collaboratrice, carino e serio, si è trasformato in un ghigno fantozziano. Il fatto è che dopo quasi un anno di lavoro insieme ha imparato a conoscermi, e sa che prima di giungere alla stesura finale di un articolo, che ai lettori sembrerà piuttosto acuto e intelligente, c’è un retroscena fatto di battute a volte stupide, frasi senza senso, elenchi di sinonimi e contrari, ricerche su internet, barzellette, citazioni da film, comici e canzoni, luoghi comuni… Insomma, dietro a ogni pezzo c’è un cocktail di risate, per lo meno fino a che non sopraggiunge un’illuminazione, e allora l’articolo prende corpo e consistenza. Così le mie “perle di saggezza”, come dici tu, nascono in realtà dal nulla, dalla creatività che si sviluppa dalla interazione con chi sta lavorando con me in quel momento, da notizie che hanno stuzzicato la mia fantasia e, ovviamente, dalle riflessioni che voi lettori scegliete di condividere con me. Dice il saggio: chi è l’ultimo… chiuda la porta.

Caro Claudio
il nuovo anno non è iniziato nel migliore dei modi riguardo alla cultura e alla disabilità, la quale ha subito nel giro di pochi giorni un paio di scosse regressive impressionanti… la prima riguarda la notizia linguistica di una nuova parola, coniata da poco e per fortuna ancora non tanto diffusa… ma il dato è preoccupante perché la lingua, o meglio, il nostro linguaggio rappresenta la nostra visione del mondo, esprime le nostre emozioni i nostri sentimenti le nostre paure… e la parola coniata ha molto a che fare con la paura… il termine è “handifobia” e indica la paura di rapportarsi con la disabilità o anche la paura di essere soggetto a una disabilità (anche solo a livello di pensiero)… dunque il dato certo è che la disabilità fa ancora paura… e questo a dispetto della tanto blaterata e – dico io – immaginifica apertura della cultura alle istanze integrative e di accoglienza… una volta mi è capitato di leggere i risultati di una ricerca sociologica fatta pare nel 2002… i risultati evidenziavano una netta discrepanza tra le posizioni dichiarate, le affermazioni di principio, e le resistenze inconsce che determinano i comportamenti… ecco. questo scarto sta alla base della formazione della parola “handifobia”: a livello formale tutti si conformano al buonismo politicamente corretto, a livello informale però operano quelle resistenze inconsce che sovvertono le posizioni dichiarate… Dunque l’handicap fa ancora paura… questo assunto è alla base della seconda scossa che ha subito la cultura della disabilità che noi tanto faticosamente abbiamo contribuito a diffondere… l’handicap fa così tanto paura da indurre i genitori (?) di una ragazza disabile americana a intraprendere una complicata terapia genetica che inibisce lo sviluppo evolutivo naturale… così grazie a questo trattamento di eugenetica avremmo una “eterna bambina”… ma questo è progresso? ma quando era il nazismo a fare trattamenti scientifici di questo genere sempre sui disabili, la cosa era deprecabile e abominevole… Adesso che è la grande civiltà democratica americana a fare queste cose, si tratta di un progresso scientifico… no, Claudio… questo è il trionfo del nichilismo che porta al regresso affettivo… per me è inconcepibile questo impoverimento affettivo della nostra civiltà… non siamo in grado di provare affetto neanche per un figlio, si ha paura delle conseguenze che la disabilità può comportare e prendiamo la decisione di comodo di eliminare la disabilità, e non affrontare di petto la situazione, chiamare i problemi per nome, diffondere una cultura solidale… questo per me è bieca rinuncia alla vita…
Ciao Claudio e, mai come in questa occasione è valido il tuo saluto: “Buona Vita”

Questa tua lettera mi offre l’occasione di parlare di un argomento che da un lato mi è molto caro mentre dall’altro è davvero “scottante”.
L’handifobia, la paura del diverso, le paure in generale hanno bisogno di essere chiamate per nome: se il nemico è sconosciuto non lo si può combattere, è solo riconoscendolo che ci si può armare per sconfiggerlo. Questa tua lettera mi fa venire in mente un pezzo di un capitolo del mio ultimo libro: C’è ancora inchiostro nel Calamaio!, che fa proprio al caso nostro riguardo a questo argomento. Nel capitolo “Pirati e Corsari” mi sono soffermato sulla differenza fra le due categorie: i pirati sono i predoni del mare, ovvero quelli che operano senza una legge precisa, con il solo scopo di arricchirsi; i corsari invece erano autorizzati a depredare il nemico da uno stato o da un sovrano, potevano quindi considerarsi dei combattenti regolari. Nel nostro viaggio per raggiungere il tesoro nascosto che è l’integrazione dobbiamo affrontare tutte le insidie nascoste del mare: i corsari altro non sono che le nostre sovrastrutture, i preconcetti e i pregiudizi sedimentatisi nella nostra cultura, mentre i pirati rappresentano le nostre chiusure individuali, le nostre paure e il nostro imbarazzo di fronte a realtà che ci spaventano e ci turbano. I corsari e i pirati ci ostacolano nel raggiungimento del tesoro, ci attaccano e ci minacciano, rallentano il nostro cammino in modo spesso subdolo, nascondendo la bandiera nera che li identifica. Sono come le nostre paure che possono paralizzarci improvvisamente o restare latenti dentro di noi. Restare in balia delle paure vuol dire rinnegare la vita, annichilirsi, produrre morte: ecco a cosa fa riferimento il teschio sulla bandiera nera! Ma allora come fare per arrivare indenni al tesoro? Esiste un solo modo: chiamare i pirati con il loro nome, che significa prenderne coscienza e fronteggiarli. Se scopriamo che un pirata si chiama Francis Drake, immediatamente la paura che nutriamo nei suoi confronti inizia a scemare. Se qualcuno mi guarda e prova imbarazzo senza riuscire a dare un nome a questa sensazione il suo disagio diventa invincibile. Se un insegnante non trova il modo di valorizzare le capacità di un alunno la situazione diventa insostenibile per entrambi. L’educatore è colui che chiama e insegna agli altri a chiamare le cose con il loro nome. Navigando nel mare dell’educazione si possono sconfiggere pirati e corsari. Certo, il mare dell’educazione non è sempre calmo, anzi! A volte è agitato da burrasche e venti furiosi, ma non dobbiamo temerlo: un vero educatore si fa cullare dalle onde e non si lascia sopraffare dall’ansia. Solo compiendo questo percorso di riconoscimento delle nostre paure, se impediamo a pirati e corsari di depredarci, possiamo finalmente raggiungere il nostro prezioso scrigno.
Che altro dire… Adesso sta a ognuno di noi aprire questo prezioso scrigno e condividere il tesoro dell’integrazione anche con quelli che non comprendono il senso profondo di questa traversata. Vento in poppa a tutti!

Lettere al direttore

Risponde Claudio Imprudente

Ciao Claudio,
mi chiamo Marlon, sono un bambino a cui piace molto leggere.
Ho letto il tuo libro “RE 33”, che mi è stato regalato dalla mia carissima amica Ilaria che tu conosci bene.
Il libro mi è piaciuto molto sia per la storia sia come è scritto e anche per le illustrazioni.
Mi è piaciuto come Re 33 ha capito che tutti (uomini e animali) devono essere liberi e che è importante rispettare i diritti di tutti specialmente dei bambini.
Vorrei chiederti se da piccolo tu volevi fare lo scrittore perché anche io vorrei scrivere racconti e poesie.
Ti scrivo due poesie che ho scritto per il S. Natale.
Ciao a presto
Marlon

BABBO NATALE
La luna va su
il sole va giù
e
Babbo Natale
sale
scende
dalle scale.

GESU’ BAMBINO
La luna va giù
il sole va su
e
Gesù Bambino
scende
nel mio cuoricino.

Caro Marlon,
la tua lettera e le tue poesie mi sono piaciute così tanto che io, Re 33, ho deciso di risponderti personalmente. Ti sei mai chiesto che cosa si direbbero Babbo Natale e Gesù Bambino se si incontrassero per le scale? Chi dei due salirebbe e chi scenderebbe? Ma poi Babbo Natale e Gesù Bambino si conoscono? Ma se si conoscessero sarebbero in concorrenza? Oppure si porterebbero i regali a vicenda? Ora la smetto di fare domande e cerco di risponderti: non so se Claudio da bambino avesse già chiaro ciò che avrebbe voluto fare da grande, so solo che quando è venuto il momento di scrivere la mia favola tutto gli è stato chiaro. Claudio mi dice sempre che per lui scrivere storie è una cosa molto importante poiché raccontandole si può cambiare la cultura. Vedi caro Marlon, un bambino come te ha bisogno di sognare, e un bravo scrittore-educatore è colui che trasforma i sogni in bisogni da realizzare. Perciò non dimenticarti mai di sognare! In un sogno una scala può trasformarsi in una fisarmonica che, a seconda del ritmo della musica, allunga e accorcia le distanze fra Babbo Natale e Gesù Bambino che salgono e scendono. (Claudio però preferisce gli scivoli alle scale… questione di gusti!). Il lavoro dello scrittore, quindi, è proprio quello di far sognare la gente così da trasformare tutte le scale in fisarmoniche in modo che tutte le persone che salgono e scendono si possano incontrare e parlare prendendo esempio da Babbo Natale e Gesù bambino. E che dire…

Non si corre sulle scale
suggerisce Babbo Natale
scendi invece pian pianino
come fa Gesù Bambino.

Scrivimi ancora, tuo Re 33

Buonasera,
mi presento: sono Concettina e scrivo da Salerno. Ho letto il suo articolo per caso a Lucera a casa dei miei genitori assidui lettori del Messaggero di S. Antonio. Di solito non finisco mai di leggere un articolo ma il suo mi ha colpita particolarmente in positivo. È bellissimo. Sono stupende le cose che lei ha scritto. Non ho potuto fare a meno di pensare in auto, nel viaggio che mi portava a casa dopo le vacanze di Natale, che frutto fossi. Alla fine sì l’ho trovato e saperlo mi ha aiutato a capirmi. Mi definirei un kiwi. Sì, un kiwi, perché? Ho meditato su me stessa, sembro apparentemente scostante, difficile da trattare. In effetti un po’ lo sono ma dentro sono dolce e acida allo stesso modo. Sì io sono proprio così, a volte dolcissima, a volte acidissima. È bello ciò che ha detto sulla noce e sulle noccioline dell’aperitivo… L’apparenza inganna a volte. Ciò che conta è il frutto dentro. Grazie per avermi fatto capire tante cose su me stessa e sugli altri. Spero di risentirla. Parlare con lei sarebbe stupendo. Distinti saluti,
Concettina

Che bello ricevere delle lettere così “fruttuose”! Da quando ho una rubrica anche sul Messaggero di S. Antonio mi arrivano una valanga di lettere da tutti i frutti del mondo! L’articolo colpevole di questo tormentone è “La seduzione” legata al mondo della disabilità. Vedi cara Concettina, per me la seduzione della diversabilità si può paragonare alla noce perché essa è apparentemente poco attraente: il guscio è duro e rugoso, e per aprirlo ci vuole sempre uno schiaccianoci. Parafrasando, lo schiaccianoci rappresenta l’educatore che con i giusti mezzi può rompere il guscio e far emergere le diverse personalità. Chissà quanti educatori si sentono schiaccianoci? Credo che il trucco sia proprio quello di percepirsi come uno strumento utile a far emergere l’identità, perché solo riconoscendosi in essa si diventa seducenti. Mi ricordo che quando ero piccolo durante i pranzi di Natale o di Pasqua c’era sempre un momento di panico generale: quando mia mamma metteva in tavola le noci… Ma dov’è lo schiaccianoci? Senza di esso il pranzo era come dimezzato. Tralasciando il fatto che se mangio una noce come minimo mi strozzo, questo è un esempio lampante della grande importanza del ruolo dell’educatore.
E se mettiamo in tavola le noci assieme ai kiwi? Tutto è ancora più interessante perché i gusti di uno esaltano quelli dell’altro… Secondo voi perché hanno inventato la macedonia?

Salve,
mi chiamo Veronica ho 26 anni e in aprile finirò il mio percorso di studi in “logopedia”; sono abbonata da poco alla sua rivista “HP-Accaparlante”, è stato per me un immenso piacere conoscerla sabato 2 dicembre ad Handimatica… mi ha colpito moltissimo il suo “Elogio alla lentezza” che rileggo kontinuamente sul mio block notes e che “vorrei” inserire, se me lo consente, nella mia tesi; alla fine della giornata di sabato sono stata molto male, amareggiata e delusa da “società” che si definiscono all’avanguardia per quanto riguarda la comunicazione, e poi si smentiscono immediatamente nel corso di un seminario, pronunciando: “Bhe se xx usasse sempre e solo l’etran per parlare ci metterebbe 1 secolo…”, e immediatamente mi sono ritornate in mente le sue parole del suo intervento di qualche ora prima… e mi chiedevo: “la logica della lentezza???”. Inoltre amareggiata in quanto su tutta la bibliografia relativa alla C.A.A. ci sono tantissimi riferimenti ai segni, ai gesti, e invece poi smentiscono anche questo, dicendo che un bambino non deve “segnare”, non può, neanche se a lui rimane più semplice, utilizzare il linguaggio dei segni perché non è condiviso…, ma tabelle e ausili vocas.
Ho fatto immediatamente un paragone logica lentezza-linguaggio dei segni!! Ho sbagliato alla grande?
Sto facendo una tesi sull’utilizzo della lingua dei segni in un ragazzo con paralisi cerebrale, lui viene da anni e anni di logopedia classica, e da una serie di tutte quelle nuove bellissime “artiterapie”, (fallimentari, senza senso)… avendo delle difficoltà di motricità fine i suoi segni sono logicamente non identici e fluidi come quelli di una persona sorda, ma finalmente ora COMUNICA con la mamma e con la propria famiglia avendo riacquistato fiducia in sé, si comincerà un lavoro sulla scrittura con simboli e tabelle. Giorni fa la mamma lo accompagna e con le lacrime agli occhi ci dice: “ieri siamo andati al mercato e per la prima volta Federico ha potuto esprimere un suo parere segnando “bambola compro nonna”. Ha espresso un concetto che tramite tabelle e ausili vari avrebbe impiegato 4-6 mesi per esprimere!!!
Tutto questo per dire che invece di essere aperti a nuovi orizzonti, a nuove modalità, a scambi, mi sembra che alcune società abbiano il monopolio assoluto su sistemi di comunicazione, e non riesco a capire perché non appena nomini “linguaggio dei segni” e/o “gestualità” sei fatta immediatamente fuori!!!!!!!
Mi scusi tanto per il disturbo, ma dato che nessuna delle persone “normodotate gravi” presenti negli stand mi ha saputo e /o voluto rispondere, vorrei se possibile girare la domanda a lei.
La ringrazio
Cordiali Saluti

La prima volta che ho sentito parlare della logica della lentezza è stato quando nel mio mangiadischi (ormai oggetto d’antiquariato) ho messo il disco di Bruno Lauzi e ho ascoltato “La tartaruga”.
Riascoltandola poi negli anni mi sono sempre più convinto che questa canzone è davvero un inno alla lentezza. La tartaruga che un tempo era un animale che correva a testa in giù e filava via come un siluro, più veloce di un treno in corsa, dopo un incidente rallentò e… si accorse andando pian pianino di moltissime cose che non aveva mai notato: “un bosco di carote, un mare di gelato e un biondo tartarugo che ha sposato un mese fa”.
A parte il fatto che il biondo tartarugo fa impazzire pure me (de gustibus non disputandum est) è proprio vero, dovremmo recuperare la lentezza come un valore, è proprio importante in un mondo che va ai mille e mille all’ora. Il ruolo della diversità ha questa funzione: di mostrare che ci sono diversi tipi di velocità e andature. La lentezza può in questo senso diventare una risorsa. Il saper rallentare, il saper guardare ti dà la possibilità di cogliere delle occasioni che correndo troppo non vedresti neppure. Diciamoci la verità: le riprese alla moviola sono molto più affascinanti di quelle normali perché si possono vedere tutti i particolari, le espressioni, le gocce di sudore, gli sguardi…
Quindi basta scoprire un bosco di insalata e un mare di frittata che subito un biondo tartarugo sposa la logica della lentezza.

8. Sitografia

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