Skip to main content

Autore: admin

Voglio tornare a casa

Il magico Alvermann – Raccontare la diversità

La donna avvicinò il triste faccione da luna piena al finestrino dell’auto.
"Fate i bravi", raccomandò. "Capito? Voi piccoli state a sentire Dicey. Capito?".
"Sì, mamma", risposero. "Allora va bene". Si mise la tracolla della borsa sulla spalla e si allontanò, ciabattando con i sandali dai cinturini rotti, i gomiti ben visibili attraverso i buchi del maglione troppo grande, i jeans scoloriti e sformati. Quando la sua sagoma scomparve nella folla dei clienti che si accavalcavano al centro commerciale quel sabato mattina, i tre bambini più piccoli si sporsero istintivamente in avanti, verso i sedili anteriori, dove stava seduta Dicey. Lei aveva tredici anni ed era capace di leggere le cartine stradali.
"Perché ci siamo fermati qui?" chiese James. "La spesa l’abbiamo già fatta. Non c’è motivo". James aveva dieci anni e pretendeva che tutto avesse una chiara motivazione.
"Dicey?".
"Non lo so. Hai sentito anche tu quel che ha detto, no?".
"Lei ha detto solo ‘adesso ci fermiamo qui’, ma non ha spiegato perché. Non spiega mai niente. Abbiamo finito la benzina?".
"Non sembra". Dicey aveva bisogno di stare un momento tranquilla a riflettere. C’era qualcosa che non le quadrava, in tutta quella storia. "Senti, perché non racconti qualcosa ai ragazzi?".
"Qualcosa?".
"Cavoli, James, non sei tu il cervellone della famiglia?".
"Già, ma adesso non mi viene in mente niente". "Che ne diresti di Hansel e Gretel?".
"Voglio Hansel e Gretel. La strega e la casa di marzapane e tutto", intervenne Sammy, dal sedile posteriore. James si arrese senza combattere. Era più semplice cedere alle richieste di Sammy piuttosto che tentare la resistenza. Dicey si girò a guardare i ragazzi. Maybeth se ne stava seduta in un angolo, con le spalle curve e lo sguardo fisso. Quando Dicey le sorrise, rispose subito al sorriso. "C’era una volta", attaccò James e Maybeth si girò verso di lui.
Dicey chiuse gli occhi e si sdraiò sul sedile, appoggiando i piedi sul cruscotto. Era stanca. Non aveva potuto distrarsi nemmeno per un attimo, aveva continuato a leggere le carte per trovare la via giusta, evitando le autostrade che costano. Era sveglia alle tre del mattino. Ma non sarebbe riuscita a dormire, adesso. C’era quel tarlo che la rodeva.
Prima di tutto, loro fino a quel momento di viaggi non ne avevano fatti mai. La mamma diceva che la loro macchina più di dieci miglia tutte di seguito non le reggeva proprio. E invece adesso erano nel Connecticut, diretti a Bridgeport.
Però questo poteva comunque avere un senso. Da quando aveva memoria, Dicey aveva sentito la mamma raccontare di zia Cilla e della sua grande casa di Bridgeport che la mamma peraltro non aveva visto mai e del marito ricco e ormai morto. Tutti gli anni zia Cilla mandava gli auguri per Natale e sul biglietto c’era l’immagine di Gesù bambino e dentro c’era scritta un sacco di roba. La carta era sottilissima, sembrava velina. Solo la mamma riusciva a decifrare quella scrittura che pareva un merletto, con le lettere alte e sottili, raggruppate insieme, e le righe allacciate le une alle altre dai riccioli delle "z" e delle "g". Zia Cilla si teneva in contatto. Quindi aveva un senso che la mamma si rivolgesse a lei per chiedere aiuto.
Ma andare in giro in quel modo all’alba non era logico. E questa era la perplessità numero due. La mamma li aveva tirati giù dal letto e aveva detto loro di prepararsi dei sacchi con i vestiti di cambio intanto che lei in cucina faceva dei panini da portar via. Poi li aveva fatti salire tutti sulla vecchia carretta ed erano partiti per Bridgeport.
Terza cosa che non girava, ne erano capitate di tutti i colori. Be’, le cose per loro erano sempre andate abbastanza storte, ma negli ultimi tempi peggio che mai. La mamma aveva perso il suo posto di cassiera. La maestra di Maybeth aveva chiesto di vedere la mamma, ma la mamma non si era presentata all’appuntamento. Maybeth sarebbe stata bocciata un’altra volta e la mamma diceva che non voleva saper niente, di quella storia. Strappava le note che la maestra le mandava a casa senza nemmeno leggerle. Maybeth non aveva mai creato problemi alla famiglia, ma alle maestre sì. Aveva nove anni e faceva ancora la seconda. Parlava poco, questo era il guaio, così la gente la prendeva per stupida. Dicey sapeva che non era affatto così. A volte saltava su a dire qualcosa che dimostrava quanto fosse in grado di ascoltare e capire e ricordare le cose. Dicey era sicura che sua sorella fosse in grado di leggere e fare le addizioni, ma in presenza di estranei Maybeth si limitava a starsene seduta e zitta. Tutti erano estranei, per lei, tranne la mamma, Dicey, James e Sammy.
Quarta cosa storta, la mamma. Ultimamente era andata a comperare il pane ed era tornata a casa con una scatola di tonno, si era seduta al tavolo della cucina e si era nascosta il volto tra le mani. Qualche volta usciva e stava fuori anche un paio d’ore e quando tornava non diceva dove era stata, ma aveva un’espressione così assente che forse non lo sapeva nemmeno, dove era stata. Lei non parlava mai gran che con loro, tranne quando doveva sgridarli, o se c’era da cantare, o fare i soliti giochi. Solo con Sammy parlava un po’ di più, ma certe volte a starli a sentire si aveva l’impressione che fosse un dialogo tra due coetanei di sei anni, invece che tra una madre adulta e un figlio di sei anni.
Con i fratelli e la sorella accanto, i due più piccoli che dormivano dietro, avvolti in un bozzolo d’oscurità, era quasi tentata di sentirsi al sicuro. Ma non era così. Si suppone che le auto siano fatte per sfrecciare sulle autostrade. Quel buio intorno non era abbastanza fitto per nasconderli davvero. Da un momento all’altro qualche faccia estranea avrebbe potuto avvicinarsi al finestrino, qualche voce seccata avrebbe potuto porre domande pericolose.
"Dov’è andata la mamma?" chiese James, fissando il buio.
"Non lo so proprio. Penso che, se per domattina non sarà di ritorno, dovremo arrangiarci a raggiungere Bridgeport".
"Da soli?".
"Sì".
"Ma come si fa? Non sai guidare e poi la mamma si è portata via le chiavi".
"Se ci bastano i soldi, prendiamo il pullman. Se no, andiamo a piedi".
James la fissò un momento prima di parlare. "Dicey, ho paura. Mi sento un nodo allo stomaco. Perché non torna?".
"Se lo sapessi, James, saprei anche cosa fare".
"La strada la conosci?".
"Per Bridgeport" Guardo la carta. Una volta là, chiederemo dov’è la casa di zia Cilla".
James annuì. "E se l’avessero ammazzata? O rapita?". "Rapiscono solo la gente ricca, non è certo il caso di nostra madre. Non voglio continuare a pensare a che cosa può essere successo e neanche tu".
"Non riesco a farne a meno", sussurrò il ragazzino.
"Non parlarne con Sammy o Maybeth".
"Fin lì ci arrivo anch’io. Credevo lo sapessi".
Dicey gli batté sulla spalla.
"Certo, certo".
James le afferrò la mano d’improvviso. "Senti, Dicey, non pensi che la mamma abbia voluto lasciarci qui?".
"Voleva portarci a Bridgeport, ma…". "E se fosse pazza?"
Dicey lo fissò. James proseguì: "A scuola i ragazzi dicono così. I maestri mi guardano in un certo modo anche quando mi prestano i libri o parlano con me. E Maybeth… Potrebbe esserci della pazzia che circola in famiglia".
Dicey ebbe la sensazione che un enorme fardello le gravasse sulle spalle. Tentò invano di scuoterlo via.
"La mamma ci vuole bene. E Maybeth non ha niente che non va. Lo sai anche tu".
"Si chiama pazzia ereditaria".
"Be’, non vedo perché dovresti preoccuparti di questo, proprio tu. Sei il geniaccio di famiglia, col massimo dei voti in tutte le materie. Senti, adesso vado a fare una telefonata. Cerco di capire dov’è la fermata del pulman e quanto costano i biglietti. Tu stai giù".
"Perché?".
Tanto valeva andare fino in fondo. "Non si sa mai. Tre magazzini dentro un auto in un parcheggio, di notte… Dobbiamo cercare di arrivare a Bridgeport e non so che cosa ci potrebbe succedere se un poliziotto ci nota. Centri d’accoglienza o qualcosa del genere. Non voglio correre rischi. Io sono abbastanza grande, non sembrerà così strano".
Furono le prime luci a svegliarla. Una rugiada gelata appanava i finestrini. Il corpo di James, addormentato accanto a lei, era l’unica cosa calda che avesse vicino dentro la macchina. Rimase ferma per non svegliarlo, anche se le faceva male da per tutto per aver dormito in una posizione scomoda. Rimase lì a guardare il sorgere del sole nel cielo grigio, i colori che si facevano sempre più caldi e scintillanti man mano che i raggi viravano dal pesca al giallo al bianco all’oro. Circondata dai fratelli addormentati, si sentiva a suo agio. La macchina era un guscio che lì proteggeva dal freddo, dal mal tempo, dalla gente.
Finalmente James cominciò a stiracchiarsi e aprì gli occhi. Tutti e quattro avevano gli occhi dello stesso color nocciola, anche se Dicey e Sammy avevano i capelli scuri come il padre, non biondo giallastri come la mamma e come Maybeth e Sammy.
James fissò Dicey per un minuto buono prima d’aprir bocca.
"Allora è proprio vero". La sua voce suonò atona e triste. La mamma se n’era andata sul serio.

C. Voigt, Voglio tornare a casa, Bompiani

Crescere da soli
commento di Milena Bernardi

Eroi d’oggi sono i quattro giovanissimi protagonisti del romanzo americano Voglio tornare a casa di C. Voigt, di cui si presentano alcune intense pagine. La storia narrata da C. Voigt porge una particolare attenzione ai delicati problemi della sofferenza e della marginalità, associati alla condizione dell’età infantile ed adolescenziale.
E’ importante non farsi rapire dal racconto sensibile ed intelligente che l’autore imbastisce intorno alla dolorosa e coraggiosa avventura dei fratelli Tillerman.
Ma chi sono i Tillerman? Ragazzini in stato di abbandono che camminano al margine di interminabili ed assolate autostrade; una famiglia di bambini soli che vive ai confini della società americana d’oggi. E quell’America si rivela spesso anonima e diffidente, capace soltanto di siglare i Tillerman come passeggeri clandestini.
Come il principino sapiente di Saint-Exupéry, anche i giovani viaggiatori di Voigt sono portatori di una loro preziosa forma di sapere: il sapere "on the road" del viaggio iniziatico, che si infittisce d’insegnamenti, nel rischio continuo di chi sperimenta l’abbandono, l’inaffidabilità degli adulti e la titanica fatica di crescere da soli all’angolo della strada.

Di nuovo lunedi

Il magico Alvermann – Raccontare la diversità

Caro diario, di nuovo lunedì.
Oggi è la prima vera giornata di autunno…
Chissà come sarà il futuro? Ogni tanto me lo chiedo. Penso alla piccola Dorrie, naturalmente, non a me e a Jeff. A proposito, oggi sono sei anni esatti che sta assieme a noi…
Una specie di secondo compleanno. Il giorno in cui è nata e il giorno in cui l’abbiamo adottata. Ricordo perfettamente l’emozione mia e di Jeff. Non si sapeva quand’era nata, né dove. Era stata una guardia notturna a trovarla in un bottino della spazzatura. Era bianca, forse di origine ispanica. Nera o gialla sarebbe andata comunque bene. Dal momento in cui la nostra impossibilità di avere figli era stata accertata non avevano desiderato altro. Appena usciti dall’istituto, Jeff, stringendola tra le braccia ha esclamato: – Nella spazzatura! Sembra una favola di quelle che pubblichi tu!
Una favola, già! Proprio di questo abbiamo parlato nella riunione redazionale di oggi. Dobbiamo aprire una nuova collana per i bambini tra i sei e i dieci anni. Laurie, la mia socia, sostiene che è il momento di tirare fuori storie terrificanti. E’ questo che vogliono i bambini, mostri, streghe, giganti con la bava, patrigni terribili e carnivori. Io naturalmente sono contraria. Penso che ai bambini bisogna offrire il meglio, farli sognare: sono così teneri, fragili, ricchi di fantasia…
Sono le dieci di sera adesso. Il pomeriggio è andato secondo il programma. A letto a guardare la pioggia cadere, a raccontare fiabe; ci siamo alzate appena verso le cinque. Dorrie doveva fare un compito scritto per domani. Tema "Il mio papà". Lei che ha tanta facilità a scrivere, questa volta mi guardava smarrita, con la penna sospesa in aria sopra il figlio bianco. Così l’ho aiutata. Capisco, ho detto, che non sai cosa scrivere; il papà è talmente meraviglioso che è difficile trovare un argomento da cui cominciare. Le ho suggerito poi di scrivere che faceva l’avvocato, che difendeva sempre i poveri, somigliava a Robin Hood in qualche modo: alto, forte, così forte che avrebbe potuto soffocare un elefante con due dita o sollevarci entrambe sopra la balaustra del balcone senza nessuno sforzo, come se fossimo due fogli di carta. Allora, vinta la perplessità, ha iniziato a scrivere, ha scritto per un’ora intera, concentrata e attenta.
Jeff, questa sera, non è venuto a cena; il lavoro certe volte lo assorbe a tal punto che non ha neppure il tempo di telefonarmi…
Caro diario, oggi sono tornata alla casa editrice. Alle nove abbiamo avuto una riunione per quella famosa collana. Laurie insiste con le sue idee e io non cedo con le mie. Ieri sera, prima di andare a dormire sono passato a controllare il sonno di Dorrie. Dormiva come un cucciolo stanco e felice, aggrappata al suo orsacchiotto. Così, con quell’immagine in mente, ho spiegato a Laurie che lei, non avendo figli, certe cose non le può comprendere.
Non si può turbare la loro serenità con assurde storie di mostri. Sul momento ha incassato con un sorriso neutro e non ha risposto niente; solo più tardi, alla fine della riunione, mi si è avvicinata e, con le labbra strette, mi ha chiesto cosa mi era fatta sull’occhio.
Le ho risposto la verità, che ero caduta per le scale. Allora lei ha alzato le spalle e ha detto stupita: – Ti succede un po’ spesso ultimamente, no? Non avrai mica qualche problema al labirinto?…
Dopo pranzo ho lasciato la casa editrice alle tre. La nuova maestra di Dorrie mi aveva chiamato per un colloquio. Non mi sono preoccupata troppo. Sapevo già quello che voleva dirmi. La bambina è magra, disattenta, sembra deperita. Non è la prima volta che succede. Ho ripetuto a questa maestra ciò che avevo già detto alle altre: non si sa da chi sia venuta al mondo, le prima ore le ha trascorse tra i detriti, nel disagio più totale. E’ abbastanza comprensibile che non sia proprio uguale agli altri bambini. Ci siamo lasciate da buone amiche… Venerdì, caro diario! Un’altra settimana è passata! In pochi giorni l’autunno è diventato inverno. … Alla casa editrice per tagliare la testa al toro ho fatto una massa a sorpresa: ho detto che il primo libro della collana l’avrei scritto io…
Sabato e domenica sono trascorsi in un soffio, come sempre. Sabato c’era il sole e così, con Jeff, abbiamo deciso di fare una gita in campagna. L’aria era fredda, pungente.
Dorrie non ama andare in macchina, non era d’accordo. Piagnucolava. Così, a metà del percorso, Jeff ha fermato la macchina, l’ha fatta scendere e le ha proposto, dato che le piacevano tanto i cani, di viaggiare nel bagagliaio. L’ha chiusa dentro e abbiamo proseguito tranquillamente il viaggio; ogni tanto, chiacchierando, sentivamo dal fondo dell’auto una specie di abbaiare sordo. Abbiamo riso. La piccola è così spiritosa. Faceva finta davvero di essere un cane.
Pranzo in una trattoria rustica. Ho detto a Jeff la mia idea di scrivere un libro per la collana. Si è entusiasmato. Ha detto che invece di arrancare nella fantasia avrei potuto scrivere la vera storia di Dorrie. E’ un’ottima idea: la sua è proprio una storia a lieto fine. Una vera fiaba…

Caro diario, di nuovo lunedì! Gli psicologi dicono che esiste una sindrome specifica di tale giorno. Dopo il relax del week-end tutti i sensi soffrono di una specie di torpore, un rifiuto a iniziare la settimana di lavoro. Temo che abbiano ragione! Questa mattina, infatti, sono andata a sbattere dritta contro la mensola accanto al frigo, contro lo spigolo della mensola, naturalmente. Un taglio sulla tempia piuttosto cruento. Ho cercato di tamponarlo con del ghiaccio prima che si svegliasse Dorrie. Jeff si era già alzato ed era in bagno. Quando Dorrie è venuta in cucina le ho ricordato il permesso della scuola di danza. Ha detto: – Dopo colazione – ma anche dopo colazione non voleva andare dal padre. Ho dovuto accompagnarla io davanti alla porta del bagno, posare le sue piccole nocche contro il legno.
Jeff non l’ha sentita subito: radendosi cantava a squarciagola.
Quando finalmente ha aperto la porta, l’ha fatto con un impeto tale che per poco Dorrie non è ruzzolata ai suoi piedi. Li ho lasciati soli e sono andata a vestirmi. Mentre chiudevo la cerniera della gonna ho sentito Jeff ripetere forte: – Ce l’hai o non ce l’hai la voce?!
Poi Dorrie deve aver trovato il coraggio di domandargli di fermare il permesso. Jeff, infatti, ha iniziato a modulare allegramente le note di un valzer. Passando davanti al bagno ho sbirciato dentro e ho visto che stavano ballando. Lui l’aveva sollevata con le sue braccia forti, la faceva piroettare in aria, quando cadeva la raccoglieva a terra e la lanciava in alto un’altra volta. Appena dopo dieci minuti di gioco si è accorto di essere in ritardo sul suo solito orario. Ha salutato me e la bambina ed è uscito di corsa. Sono entrata nella stanza da bagno. Dorrie stava ancora distesa nella vasca. Emozionata, sfinita. Dall’espressione dei suoi occhi ho capito che non aveva le forze per andare a scuola. Per una volta ho acconsentito. Non sarà la fine del mondo! Neanch’io, del resto, oggi andrò in ufficio. Non vorrei che Laurie, vedendo la ferita sulla tempia, mi consigliasse di nuovo quel dottore del labirinto.
Sarà un ottima occasione per finire il pullover di Dorrie e iniziare quello della bambola. Ho cucito la prima manica e sta per finire la seconda. Dorrie non ce l’ha fatta ad alzarsi, ma ha voluto lo stesso che le mettessi il completo da ballo. Per infilarglielo ho dovuto deporre il lavoro a maglia. Era talmente stanca da non riuscire a muovere le braccia e le gambe. Devo dire a Jeff che non la ecciti più fino a questo punto. E’ una bambina troppo sensibile, basta un nonnulla per metterla in sobbuglio. Appena le ho tirato su la calzamaglia, infatti, si è sporcata; si è fatta tutto addosso come quando era piccola. Poi ha vomitato la colazione sullo jabot di pizzo. Ho preso uno straccetto umido e ho pulito tutto, appena l’ho deposto nel lavandino dalla sua bocca ha cominciato a uscire un filo di sangue, ho pulito anche quello. E’ sempre troppo ingorda quando mangia e questo è il risultato. Volevo sgridarla, ma quando mi sono chinata su di lei, mi sono accorta che dormiva. Pazienza, ogni tanto bisogna saper chiudere un occhio. Approfitterò di questa pausa per andare un po’ avanti con la fiaba. L’inizio è certo: il ritrovamento nella spazzatura. Ma la fine? Forse c’è qualche buona idea nel quadernino di Dorrie. Devo cercarlo.
"Dicono che gli orchi non esistono più invece gli orchi esistono ancora. Il mio papà di giorno è un avvocato e di notte un orco. Quando dormo e ho paura che la porta si apra, mi stringo a Teddy. Teddy è il mio orsacchiotto, siamo amici da sempre. Lui sembra di stoffa e invece se dico la propria parola e lo bacio sul cuore lui diventa vivo e più forte di qualsiasi cosa. Ogni sera Teddy mi promette che se viene l’orco mi difenderà. Ogni mattina io gli prometto che quando saremo grandi scapperemo insieme. Andremo su e giù per i boschi a cercare le more più dolci e il miele dove intingere le zampe. Saremo felici, allora, come in tutte le storie che finiscono bene".

Susanna Tamaro, Per voce sola, Marsilio

Una orco come papà
commento di Maura Forni

Dopo aver letto il racconto di Susanna Tamaro non riuscivo a pensare "mi piace" e neppure "non mi piace", sapevo soltanto che mi causava dolore, disagio, mi feriva… mi dispiaceva.
C’è una spaccatura forte tra ciò che si è portati a pensare all’inizio e ciò che si scopre alla fine, ci sono tracce lungo il percorso, ma siamo tentati di ignorarle, ci siamo identificati con una buona madre fin dalle prime righe e nell’ultima pagina ci troviamo trasformati in una mostro di falsità; ci sentiamo come ingannati, o peggio, scoperti nella parte peggiore di noi stessi.
Al mio orecchio di educatore il racconto parla, soprattutto, della violenza forte e subdola della falsità. Dell’insieme di tante, anche piccole falsità di mancanza di ascolto dell’altro utile a mantenere e rafforzare quella rappresentazione che, singolarmente o in gruppo, abbiamo deciso di mettere in scena.
Il campo educativo il rischio di mistificare, alterare o negare la verità di chi ci è affidato è sempre presente. Dietro ai bambini, ai loro bisogni ci si può nascondere facilmente, su di loro si possono proiettare progetti, fantasie e desideri; vederli e mostrarli come vogliamo che siano o pensiamo che debbano essere per una qualche convenienza sociale, per rispondere ad obiettivi prefissati, per farci fare "bella figura"…
Ci rendiamo complici l’un l’altro nel soffocare la voce dei bambini, la loro diversità, nel manipolarla e sottometterla agli interessi dei "grandi". Quante volte anche la "pedagogia" serve da difesa per non incontrare i bambini (sapere già tutto di loro evita di doverli ascoltare). Ci permette di analizzarli troppo da vicino, con griglie dettagliate, o guardarli tanto da lontano, nelle indagini statistiche, da non vederne mai davvero nessuno.
Quanta "pedagogia" serve a noi adulti per teorizzare, scrivere, per combatterci o confermarci o serve gli interessi di mercato, ben lontani dagli interessi dei bambini.
Mi piacerebbe che potessimo partire dalla fine del racconto, dall’ascoltare Dorrie e tutti i suoi compagni… ne nascerebbe, spero, tutta un’altra storia.

Cristalli Sognanti

Il magico Alvermann – Raccontare la diversità

E le stagioni continuavano a trascorrere, e nella carovana ci furono altri cambiamenti.
Ormai, era raro che Zena leggesse ad alta voce.
Lei ascoltava della musica o suonava la chitarra, o lavorava alacremente di cucito, occupandosi dei costumi per lo spettacolo e dei vestiti, in silenzio, mentre Horty se ne stava disteso sulla sua cuccetta, con il mento appoggiato a una mano, mentre, l’altra mano sfogliava rapidamente dei volumi…
Era sempre Zena a scegliere i libri, ma ormai si trattava di libri che andavano oltre le capacità di comprensione della nana. Horty leggeva tutti quei libri scientifici, pareva assorbirli, respirarli, immagazzinarli nella propria mente, racchiuderli là, come in una specie di immenso archivio senza fondo.
A volte Zena gli lanciava un’occhiata rapida, come affascinata, chiedendosi con sorpresa se egli fosse realmente Horty.. perché lui era Horty, ma era anche Kiddo, era un bambino, ed era una ragazza, la ragazza che, tra pochi minuti, sarebbe salita sul palco, davanti a un pubblico affascinato, e avrebbe cantato con lei, con la sua voce melodiosa. Horty era Kiddo, Kiddo che rideva gioiosamente degli scherzi di Cajun Jack, nel carrozzone della cucina, e aiutava Lorelei a indossare il suo, ridottissimo costume d’amazzone. Eppure, anche quando, rideva, o quando parlava in tono leggero di cose femminili, di reggiseni e di tutù e di altre piccole cose, Kiddo era Horty che prendeva in mano un romanzo d’amore, dalla copertina colorata e chiassosa, e si immergeva profondamente nelle astruse materie ch’erano celate da quel semplice accorgimento… libri scientifici, ponderosi trattati, ai quali venivano applicate delle false sovraccoperte, perché chiunque li vedesse pensasse che le letture di Kiddo erano adatte al suo aspetto… mentre in realtà si trattava di studi di microbiologia, di genetica, di opere sul cancro e sulla dietetica, sulla morfologia e sull’endocrinologia…Quando Zena portava i libri nel loro carrozzone, Horty l’aiutava a sistemare intorno a essi le false copertine, e l’aiutava a liberarsi nascostamente dei libri dopo averli letti… perché non aveva bisogno di conservare i volumi per consultarli, grazie alla sua memoria prodigiosa. Non le chiedeva mai per quale motivo la faccenda dovesse svolgersi con tanta segretezza. Le azioni umane non sono mai semplici… proprio come le mete umane non sono mai chiare…
La carovana era un mondo, un buon mondo, ma il prezzo che esso esigeva in cambio del bene più prezioso… quello di sentirsi a casa sua, quello di appartenere a qualcosa… era pesante e amaro. Il fatto stesso che lei considerasse quel mondo la sua casa, che vi appartenesse con il corpo e con l’anima e con la mente, sottintendeva, all’esterno, l’esistenza di un altro mondo, di un mondo grande e diverso, fatto di migliaia d’occhi sgranati e impietosi, di dita puntate, e di bocche socchiuse che dicevano:
"Tu sei diversa… Tu sei diversa …"
E c’era un’altra cosa, in quelle dita e in quegli occhi e in quelle voci. Tu sei un mostro.
Mostro!
Zena si girò, inquieta, nel letto.
Film e canzoni d’amore, romanzi e commedie… tutti, tutti parlavano di donne… di donne belle… capaci di attraversare una stanza in cinque passi, invece di quindici, capaci di chiudere il pomo della maniglia di una porta nella loro piccola mano.
Quelle donne… che venivano definite piccole e minute, loro! Potevano salire agilmente su un treno, invece che arrampicarsi come animaletti sui predellini troppo alti.
Quelle donne potevano servirsi di comuni forchette, al ristorante, senza che questo le obbligasse a strane contorsioni con la bocca. E quelle donne erano amate, e potevano scegliere. I loro problemi di scelta erano sottili, facili… piccole differenze tra gli uomini, che erano così insignificanti, così insignificanti da non contare nulla! Quelle donne non erano costrette a guardare un uomo, e a pensare, prima di qualsiasi altra cosa, istintivamente, Che impressione gli farò, io che sono un mostro?
Lei era cosi piccola, cosi piccola, e sotto tanti punti di vista. Era piccola e stupida. Era stata capace di amare una sola persona, e quell’unico essere al mondo per il quale aveva provato un vero sincero affetto, per colpa sua era stato messo in un mortale, pauroso pericolo… un pericolo che gravava come un’ombra ogni giorno, ogni minuto.
Lei aveva fatto tutto il possibile, tutto ciò che era stato in suo potere, ma non poteva avere la certezza di avere agito bene. Le sue intenzioni erano state buone, i suoi sforzi sinceri, ma come poteva essere sicura di avere fatto bene? Come? Cominciò a piangere, silenziosamente.
Era impossibile che Horty l’avesse udita, tanto erano stati silenziosi i suoi singhiozzi, tanto erano state mute le lacrime che avevano cominciato a scenderle sulle guance. Era impossibile, eppure dopo un istante egli le si accostò, e scivolò nel suo letto, accanto a lei. Lei trasalì, per un istante il fiato le si mozzò in gola, mentre il cuore le batteva forte, tanto forte da farle male. Poi lo prese per le spalle, lo strinse forte, lo fece voltare di fianco. Premette i suoi seni contro la schiena tiepida, incrociò le braccia sul petto di lui. Lo strinse forte, vicino, vicinissimo, fino a quando non sentì il respiro uscirgli leggero dalle narici. Poi giacquero immobili, rannicchiati, l’una contro l’altro, quasi l’una nell’altro, come due cucchiai in un cassetto.
"Non muoverti, Horty.. non dire niente!"
Rimasero così, in silenzio, per molto tempo. Lei avrebbe voluto parlare. Avrebbe voluto parlargli della sua solitudine, del suo disperato desiderio d’amore. Per quattro volte si umettò le labbra, per parlare, e non vi riuscì, e al posto delle parole, scesero delle nuove lacrime che bagnarono la spalla di Horty. Lui giaceva immobile, caldo e silenzioso, vicino a lei, con lei… era solo un bambino, ma era così vicino, tanto vicino a lei… era con lei, come nessuno era mai stato. Zena asciugò con il lenzuolo la spalla di Horty, poi tornò a circondarlo con le braccia. E, gradualmente, la violenza dei suoi sentimenti diminuì, e la pressione disperata, quasi crudele delle sue braccia si allentò. E alla fine, qualcosa le sfuggì, della tremenda pressione di sentimenti che infuriava dentro di lei. Prima gli disse, con i seni gonfi, le reni che le dolevano:
"Ti amo, Horty. Ti amo."
E più tardi, con tutta l’intensità di quel desiderio che la divorava, bisbigliò, disperatamente:
"Vorrei essere grande, Horty. Voglio essere grande"
E poi, fu libera di lasciarlo andare, di girarsi nel letto, di addormentarsi. Quando si svegliò, nella luce umida e livida del mattino di pioggia, scoprì di essere di nuova sola, nel suo letto. Horty non aveva parlato, non si era mosso. Ma quel mattino le aveva dato molto più di quanto ella avesse ricevuto, in tutta la sua vita, da qualsiasi creatura umana.

(Theodore Sturgeon, Cristalli Sognanti, Libra Editrice)

Il piacere di mangiar formiche
commento di Ghighi

Ho letto Cristalli sognanti quando forse avevo 18 anni e la sua semplicità trasparente, quasi naïf alla rilettura, lo rende ancora attualissimo. Scritto e pubblicato nel 1950 è la storia triste e meravigliosa di Zena la dolcissima nana, di Horty-Kiddo un bambino infelice che non sapeva resistere allo strano impulso di mangiare le formiche, del terribile Cannibale e di altri personaggi affascinanti e indimenticabili. Theodore Sturgeon, scrittore di fantascienza e narratore umano e profondo, in questo libro risponde con un’intuizione geniale alla domanda: chi o cosa 6 veramente un alieno? Non il mostro, non il diverso, non l’essere a 6 gambe ma gli esseri veramente alieni, presenti o meno nel nostro pianeta e in questo caso sono i cristalli sognanti, sono di una specie a noi invisibile perché opera su un piano non competitivo, non obbedisce agli impulsi della natura umana nella lotta per la sopravvivenza e quindi sono impossibili da capire per il genere umano. Da questa situazione si dipana una storia di odio e amore, di buoni e cattivi, di genetica e di forme fisiche bizzarre, di fantascienza e di cultura, di diversità. Ecco allora che dal carrozzone colorato, i saltimbanchi, i clown, i nani, i mostri ne escono con un grande spirito di solidarietà, di umanità, di amore e sentimento. Nella rappresentazione c’è uno scontro ideale con la parte sana dell’umanità, quelli che giudicano gli altri e fanno sempre parte di una maggioranza, ed è proprio la "normalità" a uscirne malconcia con tutte le sue ipocrisie, le meschinità e l’odio. Zena la nana, donna diversa, con la sua voglia di amore e di amare, mette in evidenza e rileva come è tra le persone che soffrono e tra gli infelici che forse la parte migliore dell’umanità deve essere cercata. Lei attraverso la musica e i suoni, i sogni e le speranze frustrate di donna, la profonda sensibilità di chi subisce umiliazioni, la riflessione ma ancora e soprattutto l’amore ci svela che spesso chi porta avanti la sua esistenza dando grande importanza a questi valori è a sua volta considerato non umano, commiserato o disprezzato dalla gente normale. Da un intreccio di pensieri e sentimenti, di alieni sognanti, di normali e diversi, in questo romanzo è la norma(lità) che, in maniera splendida, viene attaccata ad ogni occasione.

The X-Men: Il rubinetto al termine dell’universo

disegni di John Bolton, storia: Ann Nocenti, edito da Marvel Italia, 1998

The X-Men: Il rubinetto al termine dell’universo
disegni di John Bolton, storia: Ann Nocenti, edito da Marvel Italia, 1998

Bibliografia

I testi autobiografici

  • Jean-Dominique Bauby, Lo scafandro e la farfalla, 1997, Ponte delle Grazie Milano
  • Rosanna Benzi, Il vizio di vivere. Vent’anni nel polmone di acciaio, a cura di Saverio Paffumi 1989, Rusconi, Mi
  • Monique Brossard-Le Grand, Vita maledetta, ti amo, 1984, Cittadella Editrice, Padova
  • Hugues De Montalbert, Buio, 1986, A. Mondadori Editore, Mi
  • Joni Eareckson & Steve Estes, Un passo avanti, 1987, Editrice Uomini Nuovi, Varese
  • Jean-Pierre Goetghebuer, A nome di tutti miei, 1987, Edizioni Paoline, Milano
  • Cley Regazzoni, E’questione di cuore, 1987, Rizzoli, Milano
  • Patric Segal, La vita può ricominciare, SEI, 1979, Torino
  • Oliver Sacks, Su una gamba sola, Adelphi 1991 Milano
  • Perché la letteratura?

    Editoriale

    La strada letteraria è una buona scelta per affrontare un percorso intorno al tema della diversità. Aiuta a visitare molti luoghi, attraversandoli come sappiamo e vogliamo fare.
    La letteratura offre l’occasione di straordinari incontri con le narrazioni, è il luogo della rivisitazione delle storie della vita quotidiana e di una possibile riappropriazione.
    Come ricorda lo scrittore Ferdinando Camon "che differenza c’è tra la vita e la storia? La prima si esprime come un racconto, la seconda si esprime come una scienza. La storia classifica, sistema e allontana; il racconto resuscita, rianima, attualizza".
    È la vita a scrivere le storie e la letteratura rappresenta la lente che mette a fuoco queste storie.
    È una lente particolare capace di produrre una forma di comprensione nell’esperienza degli altri, in particolare quando quest’ultima ha segni e tratti tali da costruirle intorno un recinto di diversità. La letteratura permette di trovare richiami e collegamenti, di ascoltare le voci del mondo.
    È una strada forte perché indica una ricerca di senso dentro al fluire degli accadimenti e delle emozioni. Una sorta di riparo, rifugio seppur provvisorio che allevia la tensione del vivere e allontana la tentazione dell’oblio.
    Il senso di una narrazione è anche quello di immetterci in una prospettiva di compiutezza possibile, di inizio e fine e poi di nuovo e ancora, in una dimensione ciclica che può essere pensata e detta e che ritroviamo così forte in quel legame saldo ed inconsueto che si forma tra un autore amato ed il suo lettore.
    La letteratura è anche il campo di una prevedibilità rassicurante che si dipana con il ritmo del racconto, così avvincente nel suo contrasto ambivalente con le innumerevole e poco inquadrabili vicende umane. Le storie sono finite, la vita è in permanente costruzione. Ed è in questa ambiguità non risolvibile, "ambiguità preziosa al vivere", in questo incrocio di destini che risiede il richiamo perenne delle storie, perché , in fondo, interrogarsi sul senso delle storie significa interrogarsi sul nostro essere qui, sulla nostra solitudine e sull’incontro con gli altri. Su come si mettono insieme dei pezzi di noi e su come gli altri entrano in noi.

    Quale idea di diversità

    Lo spicchio di realtà riproposto attraverso i brani scelti ed i commenti che li accompagnano ci parla di molte questioni. Senza avere pretese di sistematicità, anzi in forza di una rilettura soggettiva, essi ci mettono in contatto con la pluralità connessa al termine diversità, che viene qui declinato in molte delle sue possibili varianti. C’è la diversità evidente, fisicamente tangibile così emblematicamente rappresentata dal Minotauro; c’è la diversità immaginata, fondata sulla paura di ciò che non si conosce e per questo respinta ed osteggiata fino a negare qualsiasi vicinanza e similitudine ( la sentinella ); c’è la diversità dichiarata, orgogliosamente esibita anche pagandone il prezzo più alto ( il giovane Holden).
    C’è la diversità propria, il nostro sentirsi e viversi diversi non solo rispetto all’unicità che ogni essere umano porta con se ma anche alla difficoltà di convivere con le parti meno rassicuranti e gratificanti di noi.
    Soprattutto ci sono i bambini, protagonisti quasi costanti di queste pagine. Che sono diversi perché prima di tutto sono soli, spesso nella maniera più brutale e dura ma anche nelle dimensioni più vicine e quotidiane. Gli adulti, tranne rarissime eccezioni, non sono capaci di averne cura e di sostenerli nell’impegno di diventare grandi. Gli adulti sono in crisi, a volte distanti e disattenti, in altre feroci e violenti. Ci sono anche i bambini che hanno subito violenza, vissuto l’esilio o la deportazione. Simboli di una diversità difficile anche solo da pensare, la diversità che rende diverso chi è più simile a noi, che ci ricorda ciò che noi siamo stati, che ci proietta nei sogni di vita futuri. Molti brani gettano un ponte verso queste situazioni estreme.

    Il percorso attraverso il ponte

    Il ponte. È un altra parole che torna. Ed è una parola importante nella sua semplicità e concretezza. Prospetta una via di collegamento ( tra chi educa e chi è educato, tra me e l’altro, tra i quartieri di una città o le fazioni di un popolo….) che deve essere però attraversata. L’immagine del ponte implica una scelta da fare ed un percorso da compiere. Sì, si può raggiungere l’altra sponda possibilmente a passi saldi e tranquilli perché il ponte ci possa riconoscere come viaggiatori desiderosi di capire e noi guardarci intorno godendo di quell’essere ancora per un poco lungo il cammino, "tra" il punto di partenza e la meta a cui tendiamo.
    C’è molta fatica nelle pagine di letteratura che vi proponiamo ed anche acuto dolore. Intrecciate però a segnali di speranza. Ritrovata per caso, ricercata intenzionalmente ed accanitamente, conservata gelosamente. Ed emerge un legame tra questi spiragli e il senso della scrittura, occasione quest’ultima per "rintracciare trame sommerse oltre il tessuto troppo evidente" e per avvicinarsi e far avvicinare all’incandescente materia di cui sono fatti i desideri, le paure, i sogni delle donne e degli uomini.

    Il magico Alvermann. Racconti sulla diversità

    Il "magico Alvermann" è il nome di una rubrica letteraria pubblicata dalla nostra rivista.
    L’idea di partenza era molto semplice: si voleva parlare di diversità e di emarginazione usando la letteratura, non vincolandosi a dei periodi storici, a correnti o ad un particolare autore, ma scegliendo con la massima libertà dei brani che riguardavano la diversità in senso ampio, intendendo con questo termine la condizione del disabile, della donna, dell’immigrato, del minore… La diversità, infatti, e la condizione di emarginazione e di svantaggio che ne consegue, accomuna soggetti anche molto differenti che si ritrovano a subire gli stessi torti e le stesse ingiustizie; il problema della mancanza di lavoro, tanto per fare alcuni esempi, accomuna l’immigrato al disabile, la violenza subita accumuna la condizione della donna a quella del bambino…
    L’ulteriore passo in avanti è stato quello di costruire questa breve antologia con le idee e il contributo non di un’unica persona, ma di parecchie che in un modo o nell’altro vivevano o lavoravano a contatto con l’emarginazione. Ogni puntata della rubrica pubblicata dalla rivista veniva così proposta da una persona diversa, un operatore sociale, un insegnante, un disabile, un pedagogista, un giornalista…, che proponeva un brano da pubblicare e lo commentava di seguito in una rapida presentazione.
    In un breve arco di tempo si sono accumulate tutta una serie di proposte molto diverse tra di loro, appunto perché scelte da persone differenti, che attraverso lo strumento letterario parlano di diversità, di emarginazione in termini semplici e suggestivi, prendendo spunto direttamente dalla loro vita, dal loro lavoro; quindi accanto al momento letterario ne viene proposto un altro più immediato e personale che ha a che fare con la vita e l’esperienza di tutti coloro che hanno collaborato alla rivista.
    Questi vecchi contributi sono stati completati con un’altra serie di interventi inediti e vengono ora proposti in questo numero speciale della rivista. (N.R.)

    Piccoli Lettori

    La diversità nei libri della prima infanzia

    anell Cannon – Stellaluna – Edizioni Il punto di incontro – 1996

    Stellaluna, una pipistrellina separata dalla madre prima di aver imparato a volare, precipita in un nido di uccelli insieme ad altri piccoli e impara che non tutte le creature alate si nutrono di frutta o volano di notte.
    E’ una storia di conoscenza reciproca e di disponibilità: così seguendo l’esempio di Stellaluna il resto della nidiata prova ad appendersi ai rami a testa in giù e a volare di notte, come la piccola pipistrella cercherà di appollaiarsi su un ramo e di apprezzare lo strano cibo dei suoi nuovi amici.
    E’ una storia di amicizia nella diversità
    Rimasero tutti appollaiati in silenzio per un bel po’. Come possiamo essere così diversi e sentirci così simili? Riflettè Flitter.
    E come possiamo sentirci così diversi ed essere così simili? Si meravigliò Pip.
    Penso che sia un bel mistero, trillò Flap.
    Sono d’accordo, disse Stellaluna, ma noi siamo amici. E questo è certo.

    Lucia Scudieri – Volare – Fatatrac – 1997

    Poche parole, splendide illustrazioni a tutta pagina per questa storia-metafora del crescere e della diversità molto adatta anche a lettori piccolissimi.
    E’ tutto giocato sul contrasto del colore e sulla forza delle immagini il messaggio del libro: un piccolo corvo nato bianco insegna ai fratelli corvi, neri, a volare sotto lo sguardo prima scettico e poi conquistato di mamma corvo ancora forse scombussolata da quel figlio così diverso dagli altri due.

    Antonella Abbaticello – La cosa più importante – Fatatrac – 1998

    "Qual’è la cosa più importante?" E’ attorno a questa domanda che gli animali del bosco di Pratorosso discutono accanitamente proponendo a turno come risposta la loro caratteristica predominante, così per il coniglio sono i denti la cosa più importante, per il riccio gli aculei, per la giraffa il collo lungo.
    La sorpresa risiede nella pagina ripiegata che, una volta aperta, ci fa incontrare tutti gli animali del bosco "accessoriati" di volta in volta di un elemento predominante. Abbiamo così coccodrilli alati, leoni dalle lunghe orecchie, elefanti spinosi. E’ divertente e significativo ad un tempo vedere le facce sbigottite degli animali così trasformati e irriconoscibili per primi a loro stessi fino alla soluzione finale dove, grazie, all’intervento del gufo saggio, ognuno degli animali riprende possesso delle caratteristiche proprie. La pagina finale, infatti, ce li presenta tutti vicini, amici, diversi l’uno dagli altri.

    Josef Wilkon – C’è cavallo e cavallo – Edizioni Arka – 1997

    Per i più piccoli c’è il delizioso libretto " C’è cavallo e cavallo" dove si racconta dell’incontro di un giovane curioso puledro con un grosso ippopotamo. Dalla considerazione che appartengono entrambi alla famiglia dei cavalli si arriva alle caratterizzazioni: il puledro sa saltare e l’ippopotamo sa nuotare. Il testo è accompagnato da disegni divertenti ( dello stesso autore) che ci mostrano il tentativo dei due animali per acquisire le competenze reciproche. E così vediamo un puledro grossissimo che però lo stesso non galleggia ma rischia di affogare e un magro ippopotamo che non riesce lo stesso a saltare. E’ stato sciocco cercare di diventare a ogni costo uguali. Risero entrambi. Decisero quindi di essere lo stesso amici. Così come erano.

    Barbara Resch – L’elefante con le orecchie rosa – Emme edizioni – 1988

    Perché si nasconde l’elefante? Perché ha le orecchie rosa e nessuno vuole giocare con lui. Con estrema semplicità e disegni accattivanti l’autrice racconta l’eterna storia del diverso che solo i piccoli sanno accettare. Il linguaggio è immediato e geniale la soluzione per fare accettare agli altri animali le orecchie rosa: la provenienza da una misteriosa Terra Diversa che può essere dappertutto in cui vivono scimmie che non sanno arrampicarsi e giraffe dal collo corto.
    Una fiaba quindi sull’accettazione della diversità e sulla valorizzazione degli aspetti positivi (attraverso le orecchie rosa, fonte di derisione, si può vedere un mondo bellissimo, tutto rosa). E’ proprio questo il meccanismo che porta a riscoprire gli altri e a guardarli con curiosità alla ricerca della diversità di ciascuno e della conseguente ricchezza che a ciascuno può venire proprio da questa diversità.

    Eric Carle – Il camaleonte variopinto – Mondadori

    Per piccolissimi un libro dalle belle illustrazioni molto colorate. E’ la storia di un camaleonte che non vuole più essere camaleonte e desidera essere altri animali. Ogni volta viene accontentato ma solo per una parte ( proboscide, zampe ecc.) finché torna camaleonte ed è contento.

    Gerda Wagener, Jozef Wilkon – Lupacchiotto – Edizioni Arka – 1997

    Per i più piccoli un altro racconto sulla diversità. Il lupacchiotto protagonista non ama cacciare né pescare e non fa paura a nessuno. I genitori sono contrariati e preoccupati, i fratelli lo prendono in giro, così lupacchiotto avvilito scappa e incontra un topolino che gli offre il suo aiuto. Gli porterà la pelle di una tigre poi gli aculei di un istrice e infine denti di leone. Le illustrazioni che accompagnano questi "doni" e i travestimenti del lupo fanno intuire il risultato finale, quando si presenterà al branco. Una grande risata risolverà i problemi di lupacchiotto che conclude: E’ meglio rimanere come sono. Se nessuno a me fa paura, perché mai dovrei fare paura agli altri?

    Paul van Loon – Il lupetto mannaro – I criceti Salani – 1996

    Quando Dolfi, abbandonato dai genitori quando era piccolo, compie sette anni scopre di essere un lupo, anzi un lupetto mannaro. Si apre così questo tenerissimo libro dove tra le righe ma in modo molto esplicito si legge l’invito ad accettare le diversità e a trovarne gli aspetti positivi. Per consolarlo e indurlo ad accettare il suo nuovo provvisorio stato un uomo misterioso gli sussurra: Lupi mannari. Credi di essere l’unico? Nessuno è mai l’unico caso al mondo. Nessuno è l’unico cieco o l’unico povero. Nessuno è l’unico ciccione…Se imparerai a padroneggiare il tuo dono scoprirai quanto è speciale… L’uomo si rivelerà essere il nonno, anche lui lupo mannaro ma non solo nelle notti di plenilunio (Sono stato io a sceglierlo…mille volte meglio boschi che una casa di riposo per anziani).
    Il lieto fine è assicurato per un libro rivolto a bambini non tanto grandi ma godibilissimo da tutti.

    John Wilson, Jozef Wilkon – L’elefante più piccolo del mondo – Arka – 1997

    L’elefante di questo incantevole libro non era più grande nemmeno di un gatto domestico! E, per un elefante, essere tanto piccolo era la cosa più triste che potesse capitare. Così decide di lasciare la giungla e di andare a vivere in una vera casa. Le sue ricerche sono lunghe e difficili finchè non incontra un bambino che lo porta con sé e per farlo accettare dalla mamma lo fa passare per un gatto ( per prima cosa Paoli insegnò all’elefante a camminare a ritroso come un gambero, tenendo ben piegate le orecchie, e a muovere la proboscide come una coda. Poi dipinse sul suo sedere la faccia di un gatto…. ma bisogna vedere le illustrazioni!"). Scoperto il trucco la mamma lo porta al circo ( per un elefante non c’è posto che al circo) dove finalmente potrà vivere felice. Pur nella conclusione un po’ scontata e stereotipata ( dove meglio del circo regno della diversità può trovare rifugio appunto un diverso?), il numero che gli trova il direttore del circo è ironico e divertente: l’uomo più piccolo del mondo solleverà con la sua forza straordinaria, un elefante. Così annuncia al pubblico ed è il successo e la felicità per l’animaletto che conclude è andata proprio bene che non sia cresciuto più di un gatto, altrimenti ora non mi troverei qui.
    Se un rilievo va fatto è che sarebbe stato sufficiente concludere così. I bambini sono in grado perfettamente di leggere fra le righe e così le ultime quattro righe (Proprio così. Al mondo c’è posto per tutti, giganti, piccoli o di media grandezza che siano. E per ognuno arriva sempre il momento, vicino o lontano, in cui trovare la felicità e veri amici) suonano proprio come una lezioncina irritante, soprattutto se pensiamo che non sono certo i bambini che ne hanno bisogno

    Gerda Wagener, Vlasta Barankova – Costantino – Arka – 1989

    Costantino è un caimano che ama l’armonia della natura selvaggia e per questo viene isolato dai compagni tutti presi dalla ricerca del cibo. La scelta di allontanarsi dal gruppo, dettata da un senso di inutilità e dall’amore per la musica, lo porta ad "incontrarsi" con un corno da caccia che impara a suonare meravigliosamente: ormai non si vergogna più di essere stato giudicato diverso da tutti e inutile. Quando suonava il corno gli sembrava di possedere il mondo intero. Ed è proprio la musica che conquista tutti gli animali e gli permette di sentirsi felice e sicuro di sé. Ed è naturalmente il riconoscimento di questa sua abilità, che rende tutti felici, che porta i caimani ( e tutti gli animali) ad accogliere Costantino come uno di loro. La storia, accompagnata da bellissimi disegni i cui colori riecheggiano i suoni della musica di Costantino, è forse un po’ lunga per essere letta autonomamente ma ha un fascino che conquista sicuramente anche i più piccoli

    Guj Couhaje, Marie-Josè Sacrè – L’ippopotamo volante – Arka – 1993

    Un’altra storia di diversità, deliziosamente illustrata, che affronta, anche se con estrema delicatezza, il tema dell’amore. Poldo, ippopotamo con le ali (non più grandi di quelle di una farfalla) decide di esplorare il mondo perché nessuna signorina ippopotamo lo vuole sposare. Così troviamo Poldo a cavallo di un aereo (dentro non ci sta!) poi davanti a un supermercato dove viene scambiato per un cartellone pubblicitario. Il suo incontro con un altro fuggitivo (un canarino scappato dalla gabbia) dà il via ad altre avventure nel tentativo di trovare un rifugio. Ma l’idea del rifugio come nido porta inevitabili guai data la mole di Poldo. Quando ormai sembra che non resti altra soluzione che tornare in Africa, Poldo scopre in un circo (inevitabile proprio questo collegamento?!) una ippopotama come lui, con ali. E meno male che non decide di vivere lì anche lui ma invece con un finale meno scontato e più trasgressivo, la rapisce e vola con lei verso l’Africa facendo tappa alle Canarie, ovvio, dove lasciare Tuorlo d’uovo.
    Una fiaba deliziosa sulla diversità, la diffidenza della gente, il calore dell’amicizia e dell’amore. Certo i grandi potrebbero dire che la conclusione che si può trarre è che i diversi si sposano con i diversi ma il messaggio che i bambini colgono immediatamente è che Poldo si "sposa" ed è felice. E questo è l’essenziale.

    Klaus Kordon, Maire-Josè Sacrè – Il piccolo, il grande e il gigante – Arka – 1999

    Un piccolo libro, delle splendide illustrazioni e un’originale invenzione che ci riporta a prima che gli uomini fossero appena un po’ più grandi o appena un po’ più piccoli degli altri. Merita davvero fermarsi a lungo sulla penultima doppia pagina dove l’illustrazione occupa tutto lo spazio e rende quasi superfluo il breve testo che racconta come un giorno un giovane piccolo s’innamorò di una fanciulla gigante e un giovane gigante si innamorò di un fanciulla piccola. "Che coppie", dicevano tutti. I volti sorridenti la dicono lunga e anche per i bambini più piccoli sarà chiaro che ben più della diversità conta la felicità.

    Iva Prochzkova – Cinque minuti prima di cena – I criceti Salani – 1999

    E’ più centrato sul rapporto papà-figlia e sulla ricerca delle proprie origini questo bel libretto che comunque si sofferma anche sulla diversità e più in particolare sulla cecità della piccola protagonista. Soprattutto sa trasmettere con chiarezza il messaggio che ognuno è diverso e che la diversità non è per forza un ostacolo. Infatti mentre tutti erano tristi perché Babeta non vedeva lei…vedeva a modo suo. In maniera del tutto diversa dall’altra gente (…) vedeva la mamma che ogni sera si drizzava sul suo letto per darle un bacio. Era bella. Odorava di crema da barba…

    Gregoire Solotareff – Lulù – I girini Bompiani – 1996

    C’era una volta un coniglio che non aveva mai visto un lupo…e viceversa naturalmente. Il testo coloratissimo è rivolto ai più piccoli e racconta dell’amicizia fra due animali diversi. Un libro sui pregiudizi (i lupi mangiano i conigli), le paure e il superamento di tali paure visto che l’amicizia è più forte.

    Maria Sole Macchia – Il Signor Tazzina – Fabbri Editori – 1999

    Cosa succede ad un personaggio illustrato se il suo disegnatore assai distratto dimentica di disegnargli un orecchio, particolare questo che lo fa assomigliare ad una tazzina per il caffè? Succedono molte cose scritte e soprattutto disegnate con uno stile ironico in questo libro che ci propone i pensieri e le azioni di un un uomo diverso deriso e triste ma non sconfitto. Anzi, a partire dalla sua diversità il signor Tazzina scopre le differenze di molte altre persone e in virtù di questo riconoscimento rifiuta di farsi aggiungere l’orecchio mancante e affronterà il mondo così come è e alla fine sarà ricompensato.

    Roberto Piumini – Il paese di Chicistà – LEDHA, Lega per i diritti degli handicappati – 1996

    E’ una storia di bambini. Bambini diversi e bambini uguali, bambini tutti interi e bambini così e cosà. E’ la storia dell’incontro fra questi bambini, della loro conoscenza reciproca che ci aiuta a capire meglio qualcosa intorno all’handicap. Il racconto, infatti, ci presenta dapprima l’handicap come qualcosa di separato, "il muro che circonda ed isola" e, nell’evoluzione della storia, come un filo che permette un riconoscimento, un incontro tra le diversità che noi tutti abbiamo.
    Nonostante le fattezze di fiaba non è una storia semplice, non è una storia immediata. E’ una storia da ascoltare con un adulto al fianco che abbia voglia di fermarsi ad ascoltare i perché, i dubbi e le domande, anche le proprie, che sempre suscita l’incontro della diversità.
    L’handicap non ha bisogno di separazione, esige sincerità e condivisione. In questo senso anche le parole di una favola possono aiutare.

    Guido Quarzo – Talpa, Lumaca, Pesciolino – Fatatrac – 1997

    Di correre proprio non era capace. Per la verità era lenta in tutto: lenta a mangiare, lenta a scrivere, lenta a vestisi. Però non si poteva dire che non sapesse fare tutte queste cose: anche se ci metteva più tempo degli altri, faceva tutto .(…) Naturalmente la chiamavano Lumaca. Ci aveva fatto l’abitudine a quel nome, e non si arrabbiava più. D’altra parte era così lenta anche ad arrabbiarsi…. Lumaca, insieme a Pesciolino e a Talpa, nasce dalla penna di Guido Quarzo, insegnante elementare e scrittore molto amato dai bambini che, nel bel libro edito dalla Fatatrac, tocca il tema della diversità. I tre bambini protagonisti dei racconti, accompagnati da splendidi disegni, parlano un linguaggio proprio, non giudicano ma ascoltano, non pongono domande imbarazzanti e non fanno della competizione un valore ma piuttosto una ridicola fissazione.

    Hanna Johansen – L’oca che restava sempre ultima – I Delfini Bompiani – 1997

    Sono sei le uova di mamma oca, ma l’ultimo è più grosso. Sono sei i piccoli che nascono ma l’uovo più grosso si schiude più tardi…e così attraverso tutte le tappe della crescita le piccole ochette dovranno fare i conti con il fratellino che resta sempre ultimo. Eppure sarà proprio questa sua caratteristica a salvare tutti dai cacciatori. Questa storia semplice, con bellissime illustrazioni in bianco e nero, rivolta ai bambini di sette-otto anni può essere letta ai più piccoli che non faranno fatica ad identificarsi con l’ochetta "diversa" (o con i fratelli impazienti…) e sapranno apprezzare la sua tenacia e la sua forza di volontà che le permetteranno di imparare tutto quello che sanno fare gli altri, anche se…per ultima.

    Ursel Scheffler – Tutti lo chiamavano Pomodoro – Nord-Sud edizioni – 1997

    A volte basta proprio poco per essere guardato in modo diverso. E’ il caso del signor Pomodoro, così soprannominato per quel suo naso rosso come un pomodoro maturo. E’ per coprire il suo naso che Pomodoro scambiato per un rapinatore e, inseguito dalla polizia, scappa dalla sua casa e si rifugia per tutto l’inverno in un luogo diroccato. Ovviamente non è lui il delinquente ma comunque quel suo naso rosso è lì a marcare una differenza con gli altri e la sua solitudine.
    E’ un bambino, verso la fine della storia, attraverso la condivisione di un cibo, a vedere finalmente Pomodoro vicino ai suoi simili e a riconoscerlo come tale.

    Kalle, Mattia, Ivan… e i loro Nonni

    Un percorso bibliografico sul rapporto fra nonni e nipoti

    Roberto Piumini
    Mattia e il nonno
    Edizioni EL – 1993

    Torna in questo bellissimo libro il tema della morte, affrontato con altissima poesia e il linguaggio più adatto a far sì che questo passaggio possa essere affrontato dai bambini nel modo migliore. La passeggiata di Mattia insieme al nonno è un percorso attraverso la vita e i sentimenti, è da un lato per Mattia un percorso di crescita, di cambiamento e dall’altro per il nonno un cammino di progressivo abbandono, di lenta rinuncia a tutto ciò che è apparenza. Ecco infatti che il nonno rinuncia al denaro, alla maglia di lana, al tabacco…diventando progressivamente sempre più piccolo fino alla bellissima soluzione finale, quando finisce dentro Mattia …un bambino è un bel posto per viverci.
    Merita riportare questo brano che non ha bisogno di commenti.

    Mattia sedette contro la sponda del ponte. Guardava il sole rosso nel cielo di fronte: era il tramonto.
    – Alzami un po’, per favore – disse il nonno – Da qui non vedo bene.
    – Vuoi stare sulla mia testa, nonno? – disse Mattia.
    – Bella idea! Starò come in un prato! – disse il nonno.
    Mattia lo mise delicatamente fra i capelli. Il nonno era alto una spanna, e forse meno.
    Rimasero a guardare il tramonto.
    – E’ bello, vero? – disse Mattia.
    (…)
    Mattia restò zitto, perché si chiedeva come fosse diventato il nonno. Non sentiva più il piccolo peso sulla testa.
    – Ora dobbiamo andare – disse il nonno.
    Mattia alzò una mano per prenderlo, ma non lo trovò.
    – Dove sei? – disse.
    – Sono qui: cercami piano.
    Mattia, pianissimo, tastò fra i capelli: il nonno era grande come una mentina. Lo prese delicatamente e lo guardò, nella poca luce della sera. Lo vedeva appena, e lo sentiva come un prurito nel palmo della mano: come quel moscerino nella pineta.
    – Come facciamo nonno? – disse Mattia – Ho paura di perderti, così piccolino. Ti metto in tasca?
    – Meglio di no, Mattia.
    – E allora?
    – Aspettiamo ancora un po’ – disse il nonno – Per ora tienimi nel pugno chiuso, e andiamo a casa. Vedrai che troveremo la soluzione.
    (…)
    Mattia camminava, e non sentiva più niente nel pugno.
    – Nonno? – disse.
    – Sì, Mattia?
    – Niente, volevo solo sentirti.
    – Eccomi qui – disse il nonno – Tutto profumato di peperone!
    Mattia si fermò di botto. Erano proprio sotto un lampione.
    – Come hai detto? Profumato di peperone?
    – Già – disse il nonno, dal pugno.
    Mattia avvicinò la mano alla faccia e la aprì piano piano: non vide niente.
    – Nonno – disse con voce leggera.
    – Eccomi – disse il nonno, invisibile.
    – Non ti vedo, nonno.
    – E’ perché sono diventato ancora più piccolo. Sono qui.
    – Ma cosa dicevi del peperone?
    – Non senti l’odore?
    – No.
    – Davvero? Annusa bene, Mattia!
    Mattia avvicinò il palmo della mano al naso.
    – Non sento, nonno.
    – Più forte – disse il nonno – Devi annusare più forte, come facevo io con il tabacco, ricordi?
    Allora Mattia annusò fortissimo, e l’aria gli fischiò su per le narici.
    – Non sento nessun odore di peperone, nonno – disse.
    – Infatti non c’è – disse il nonno: ma la sua voce non veniva più dalla mano: era come intorno, o dentro Mattia.
    – Che è successo, nonno? – chiese Mattia.
    – Ho fatto un piccolo trucco, Mattia. Ti ho fatto annusare forte la mano per poter entrare dentro di te. Se ti avessi detto di mettermi in bocca, credo che non l’avresti fatto, o ti sarebbe molto dispiaciuto.
    – Allora sei dentro di me, adesso?
    – Sì.
    – E questa è la tua voce?
    – Sì, ma la senti solo tu, adesso.
    – E come stai, nonno?
    – Benissimo, Mattia. Un bambino è un bel posto per viverci.

    Un libro che i bambini ameranno senz’altro, un libro da far leggere ai grandi che fanno tanta fatica ad affrontare certi temi e ad accettare la realtà della vita e della morte.

    Ulf Stark
    Sai fischiare Johanna?
    Piemme, serie azzurra – 1997

    La casa di riposo, la malattia, la morte…sono tutti temi difficili che si è restii ad affrontare con i bambini, soprattutto i più piccoli. E invece è proprio a loro che si rivolge questo bel libro che racconta di come Berra, che vorrebbe avere un nonno, lo trova in un anziano di una casa di riposo e stringe con lui un’affettuosa e intensa amicizia.
    Il linguaggio è semplice, il racconto breve si snoda fra piccoli episodi apparentemente semplici: la prima visita e la felicità di essere nonno ma anche di essere nipote, la prima uscita in giardino
    – Avevo quasi dimenticato che fosse così – dice (il nonno)
    – Cosa? – chiede Berra.
    – Li sentite gli uccelli? chiede il nonno.
    – Sì – rispondiamo.
    – Li sentite i profumi? – chiede ancora.
    – Certamente – risponde Berra.
    – Non dimenticate mai queste cose – dice il nonno.
    la costruzione di un aquilone con lo scialle più bello della moglie e, al posto della coda, la sua migliore cravatta (che però non vola per mancanza di vento!); poi il nonno prova ad insegnare a Berra a fischiare (ma non è facile imparare!!) e infine la festa per il compleanno del nonno..
    Il racconto denota grande attenzione e con molta delicatezza e poesia avvicina i bambini al momento in cui avverrà il distacco da una persona cara. Meritano di esser lette le ultime pagine in cui, con grande serenità, viene descritto il funerale del nonno
    Quando cessa la musica, arriva un prete, che si mette a parlare. E’ un discorso abbastanza breve.
    – Nils era un uomo allegro. Soprattutto alla fine – dice – Gli volevamo bene tutti. E così non ha mai dovuto sentirsi solo, anche se non aveva parenti.
    A quel punto Berra alza la mano, e la muove finchè non lo guardano tutti.
    – Veramente era il mio nonno – dice.
    Poi tutti si avvicinano alla bara e ci mettiamo sopra dei fiori. Io e Berra ci andiamo per ultimi. Facciamo un inchino, e Berra appoggia la rosa di Gustavsson sopra tutti gli altri fiori.
    Poi rimane lì, anche se io lo tiro per un braccio.
    – Adesso devo fischiare! – dice – Sentirai come fischio bene.
    Berra si mette a fischiare, tanto forte che si sente l’eco in tutta la cappella.
    Fischietta "Sai fischiare, Johanna?"
    – Come ti è sembrato? – chiede quando sono fuori.
    – Perfetto – rispondo – Adesso puoi essere soddisfatto.
    – Infatti lo sono – risponde Berra.
    Restiamo in piedi nel vento a guardare la bara che viene portata nel carro funebre da un paio di uomini con i guanti neri.
    – In fondo è stato bello – commenta Berra.
    Poi il carro funebre se ne va.
    Noi salutiamo con la mano finchè non sparisce dietro la curva.
    – Adesso cosa facciamo? – chiedo io a quel punto.
    – Proviamo l’aquilone – risponde Berra – perchè oggi si è alzato il vento.

    Angela Nanetti
    Mio nonno era un ciliegio
    Einaudi ragazzi – 1998

    Ancora un libro che parla dei nonni, o meglio del rapporto fra nonni e nipoti. Non solo, parla anche della morte dei nonni.
    Divertente, trasgressivo e decisamente comprensivo nei confronti del nipote Tonino, il nonno Ottaviano ha una grande capacità di ascoltare le esigenze del nipote, anche se non espresse (…"se ascolti con attenzione e ti concentri puoi vedere un mucchio di cose"…) e gli trasmette un grande amore per la natura, partendo dal ciliegio Felice (…"ascolta il ciliegio che respira…) piantato dal nonno il giorno della nascita della sua unica figlia (la mamma di Tonino), cresciuto e curato con amore. Un amore trasmesso al nipote che proprio nel ciliegio riesce a "ritrovare" il nonno dopo la sua morte.
    Le riflessioni sulla malattia e la morte percorrono un po’ tutto il libro e sono poste ai bambini con grande delicatezza ma senza nulla nascondere della realtà. Dopo la morte della nonna Linda, Tonino con l’aiuto del nonno, rimasto solo e un po’ triste, riesce a rielaborare il lutto e a dire:
    "..se non si muore finchè uno ti vuole bene, come ha detto il nonno, visto che la persona morta non si vede, vuol dire che si trasforma. Perciò la nonna di sicuro era diventata un’oca.
    (…).
    – Anch’io ho pensato a qualcosa del genere sai? – disse il nonno – e io che cosa potrei diventare?
    Non avevo nessun dubbio
    – Un ciliegio – risposi.
    – E tu?
    – Non ci ho ancora pensato, ma forse mi piacerebbe diventare un uccello. Così verrei a farti compagnia e a mangiarti tutte le ciliegie.
    Peccato che l’autrice non sia riuscita a mantenere l’equilibrio fra la parte dedicata al rapporto fra Tonino e il nonno e il resto. Infatti la famiglia di Tonino e i nonni paterni sono eccessivamente litigiosi, poco capaci di ascoltare, troppo concentrati su se stessi, insomma pieni di difetti.
    Vengono rappresentati un po’ tutti i clichè, primo fra tutti quello che vuole il marito morbosamente legato ai suoi (noiosissimi) genitori e la moglie che non li può vedere. Ovviamente questo vale al contrario per i genitori di lei, causa di continui litigi che porteranno alla separazione fra i due.
    Ma perchè appesantire di altri problemi (seri e ormai conosciuti e sperimentati da troppi bambini sulla propria pelle) un libro altrimenti così poetico e che comunque già affronta un argomento delicato e doloroso? E perchè poi, se quella è stata la linea scelta, l’autrice si "pente" e in un eccesso di buonismo e amore per il lieto fine fa tornare insieme i genitori che decidono di vivere in campagna, nella casa del nonno Ottaviano, lontano dai noiosi nonni paterni e addirittura decidono di avere un’altra bambina.
    Questo piuttosto è un messaggio che manca di realismo, come a dire che tutte le storie sono a lieto fine. Ma molti bambini sanno purtroppo che non è affatto così.

    Guus Kuijer
    Graffi sul tavolo
    Gli Istrici Salani – 1996

    E’ proprio vero che la grande abilità di questo bravissimo scrittore è quella di "capire quei pensieri che i bambini non sanno esprimere a parole" come ci viene detto all’apertura del libro. Un libro semplice con una scrittura piana e lenta, dove non succede apparentemente niente di importante. Dove però i piccoli (o meno piccoli) lettori vengono delicatamente posti davanti ad alcuni temi difficili: la morte, la vecchiaia, l’incomprensione.
    Attraverso la voce di Madelief, piccola protagonista che, come il piccolo principe, non rinuncia mai alle domande, e vuole sapere tutto quello che accade e quello che è accaduto, l’autore suggerisce che bisogna vincere la paura che può nascere dalle diversità, dalla differenza di età e di sentire; si può trovare la strada che porta al cuore delle persone anche di quelle più insopportabili e inavvicinabili. Dietro il muro alzato per difendersi c’è sempre una persona sola e affamata d’amore.

    Peter Hartling
    La mia nonna
    P iemme, serie arancio oro – 1996

    Kalle, rimasto senza genitori a cinque anni, va a vivere con la nonna e cresce con lei.
    Il racconto si snoda fra piccoli episodi della vita di tutti i giorni visti dagli occhi del bambino ma anche da quelli della nonna che alla fine di ogni capitolo annota le sue riflessioni personali.
    E’ un abile stratagemma che ci permette di vedere la stessa situazione anche dal punto di vista della nonna e quindi aiuta a capire che ci possono essere opinioni e reazioni diverse ma non per questo ci si deve allontanare.
    Il linguaggio semplice ma realistico non nasconde nulla e con delicatezza mostra anche "cose brutte" della vecchiaia, quelle che, soprattutto ai più giovani, possono fare paura. Dopo una visita ad un’amica che vive in una casa di riposo, la nonna riassume tutte le paure del bambino (e anche le sue) in alcune frasi che, ci pare, non hanno bisogno di alcun commento:
    Sono esattamente vecchia come quelli lì. Solo che io non vivo lì in mezzo, ma con te, con un bambino. Allora la vecchiaia ha un altro aspetto. La vecchiaia diventa terribile quando, a furia di vedere vecchi, si perde di vista la vita, sai. Ecco tutto. Ma il mondo ha paura dei vecchi. E tu pure, Kalle.
    Il tema dell’istituzionalizzazione dei vecchi, della perdita dell’autonomia, così come il tema della morte, devono essere affrontati e non nascosti. E’ di nuovo la nonna che, al termine del racconto, prepara Kalle alla possibilità della sua stessa scomparsa e, dichiarando Ho in programma di vivere il più a lungo possibile, Kalle. Ma impegnarsi non basta, può solo contribuire, lo pone davanti alla realtà senza drammi, aiutandolo a crescere.

    Anne Fine
    Complotto di famiglia
    Piemme, serie rossa – 1998

    Davvero notevole e diverso dal solito questo libro di una delle più importanti scrittrici per ragazzi di lingua inglese. Le vicende della famiglia Harris (papà, mamma, quattro figli e una nonna non più del tutto autosufficiente e con un inizio di demenza senile) sono raccontate con un linguaggio insieme ironico, tenero e molto reale. Gli sforzi dei quattro ragazzini per evitare il ricovero della nonna in una casa di riposo portano ad un risultato surreale ma dai risvolti avvincenti ed estremamente incisivi e toccanti.
    Durante la cena, Natasha annunciò ufficialmente che la nonna non sarebbe andata a vivere alla casa di riposo; Tanya e Nicholas fecero smorfie di trionfo e si congratularono con Ivan …
    (…)
    Ivan ha chiarito la sua posizione: la nonna deve essere accudita qui, in questa casa. Giusto? (…) Allora siamo d’accordo: vostra nonna continuerà a vivere qui e Ivan si occuperà di lei (…) Pulire, fare la spesa, darle da mangiare, prenderle la tazza e cambiare i canali della televisione, cambiare e lavare le lenzuola, pulire il bagno dopo che l’ha usato, darle le medicine, accompagnarla in bagno, rammendarle i vestiti, andarle a ritirare la pensione, comperarle le mentine, riempirle la borsa dell’acqua calda, ascoltare le sue preoccupazioni, organizzare le visite dal dottore, stare qui con lei dopo la scuola, di sera, nei fine settimana e durante le vacanze, tenere bene al caldo la sua stanza, accenderle la luce quando si fa buio, sistemarle la radio, sprimacciarle i cuscini, controllare che abbia sempre l’acqua nel bicchiere – le mani di Natasha danzavano allegre sui piatti – Cercarle gli occhiali, trovarle il libro, raccoglierle da terra lo scialle, aprirle e chiuderle la finestra, tirarle le tende, spedirle ogni Natale le sue ultime cartoline d’auguri, consolarla quando muore qualche sua amica, ricordarle di mangiare…
    Stava elencando tutte quelle incombenze come se fossero cose da nulla e per niente impegnative, e come se negli ultimi anni non l’avessero tenuta impegnata per almeno metà del suo tempo.
    – Decidete tra voi come fare, o lasciate pure che Ivan si occupi di tutto: a me non importa, io ho già fatto la mia parte, adesso tocca a lui.
    Il ragazzino la fissò con gli occhi sbarrati.
    Sophie esclamò:
    – Cosa? Tutto?
    – Tutto quello che vostro padre e io abbiamo fatto fino ad oggi.
    – E voi? Che cosa farete voi due?
    Svolgeremo i vostri lavori, naturalmente.
    Quali lavori? – domandò Nicholas, sbalordito.
    – Infilare ogni tanto la testa nella sua stanza, di solito quando l’altro televisore non funziona. Preoccuparsi all’idea che si trasferisca in un ospizio. Henry avrà qualche incubo riguardante sua madre. Io ho bisogno di dormire, e quindi potrei spolverare la sua chincaglieria sul cassettone il sabato mattina. Credo che sia tutto quello che avete fatto finora per lei. Ho forse dimenticato qualcosa?
    L’autrice non nasconde dietro immagini edulcorate le "bruttezze" del diventar vecchi ma sa aiutare i ragazzi (parlando il loro linguaggio) a guardare negli occhi la vita che passa, affrontando le responsabilità che comporta il diventare grandi. Le vicissitudini dei quattro fratelli Harris alle prese con la nonna ci portano fino alla sua morte. Anche in questo caso l’autrice ha il coraggio di chiamare le cose con il loro nome e nel dialogo che si svolge al cimitero fra i due fratelli più grandi si può riassumere la sua grande capacità di mettersi nei panni dei più giovani, aprendogli gli occhi sulla realtà, sulle tristezze ma anche sulla speranza nel futuro.
    (Sophie) Alzò gli occhi, e scrutò uno dopo l’altro i rami giganteschi, fino in cima.
    – Ivan! – strillò, sconvolta – Ma non capisci cosa succederà? L’hanno seppellita qui sotto, a due metri di profondità. E’ la legge, devono aver fatto per forza così. Questo significa che adesso è tra le radici del tasso. Capisci cosa sta per accaderle? Verrà assorbita dalla pianta!
    Ivan si sentì quasi male. Abbassò lo sguardo, per guadagnare tempo e controllare quanto gli aveva appena detto sua sorella, e poi lo rialzò. L’albero troneggiava su di loro, immenso, antico e magnifico, facendoli sembrare due creature minuscole. L’idea che il fragile corpo dell’anziana signora potesse in qualche modo opporsi a quella forza della natura era a dir poco ridicola.
    Respirò a fondo per sconfiggere la nausea.
    – Le farebbe piacere – disse, cercando di mostrarsi più calmo possibile.
    – Piacere?
    Ivan confortò sua sorella a proposito dell’albero così come lei lo aveva consolato per la storia della polmonite.
    – Sono sicuro che ne sarebbe felice. Perché non dovrebbe? Una volta mi aveva detto che le piaceva pensare di far parte delle cose: sarebbe stata contenta di far parte di un albero.
    – Lo credi davvero?
    – Sì, certo.

    Anke De Vries
    Segatura in testa
    I Criceti Salani – 1991

    (I due bambini Trottano insieme attraverso il parco.
    A un tratto vedono qualcosa per terra, fra l’erba. E’ una borsa marrone da ufficio.
    Si avvicinano di corsa e la raccolgono.
    – Di chi può essere? – domanda Frans.
    Guardano dentro la borsa.
    E’ piena di fotografie.
    Vecchie fotografie.
    (…)
    – Ma questo è il signor Baas! – esclama Fransi, indicando un uomo nella fotografia.
    – Il signor Baas? Lo conosci? – chiede Frans.
    – Sì, abita a Villa delle Dune. E si dimentica tutto.
    – Questo lo so – dice Frans – Stamattina girava nel parco. Si era dimenticato la strada. L’ho accompagnato io a Villa delle Dune.
    – Lo faccio sempre anch’io – dice Fransi.
    – Il signor Baas ha la segatura in testa. Un bel fastidio.
    Molte persone anziane hanno "la segatura in testa", cioè dimenticano facilmente e confondono presente e passato. Appunto come il signor Baas, che vive in una casa di riposo e non riconosce nel signore stempiato che gli fa visita il figlio, una volta biondo e riccioluto.
    L’incontro fra l’anziano signore e due bambini intraprendenti cambia tutto: con una trovata geniale i ragazzini riescono ad ottenere che la segatura abbandoni per un po’ la testa del signor Baas.
    L’autrice ha scritto questo libro in memoria dei suoi genitori che in vecchiaia ricordavano solo episodi della loro gioventù. Il libro si rivolge ai bambini con un linguaggio semplice e, con grande delicatezza, li accosta al tema della demenza senile e del ricovero in casa di cura/riposo, presentandolo con realismo ma senza paure e senza spaventarli, aiutandoli a conoscere una "diversità" e a saperne cogliere gli aspetti positivi e di relazione.

    Mino Milani
    L’ultimo lupo
    Piemme, serie rossa – 1993

    Vale veramente la pena proporre questo libro ai ragazzi ma anche leggerlo ai loro fratelli più piccoli. Ci potranno trovare il rapporto fra le generazioni, la riscoperta dei valori veri, la capacità di ascoltare, l’incontro con la natura guidato da un vecchio: tutto questo attraverso gli occhi di Enzo, il piccolo protagonista, cittadino fino al midollo.
    Prevenuto nei confronti del vecchio zio, scappato dalla casa di riposo (.."una bella casa per anziani, televisione, gioco delle bocce….hai un gran bravo nipote…) per tornare alla sua casa nei boschi, Enzo scopre che se uno scappa in quel modo …o in qualsiasi altro modo, qualche ragione ce la deve avere..".
    Le sue riflessioni ci accompagnano lungo il percorso di conoscenza che lo porterà alla rivelazione sofferta dell’importanza del rispetto e della libertà. Arriverà quindi ad accettare le scelte dello zio, a comprenderle fino in fondo e a schierarsi dalla sua parte. Con un linguaggio poetico ma asciutto e senza falsi pietismi, l’autore ci propone la trasformazione di Enzo (salito in montagna, dallo zio, per aiutare i cacciatori a trovare e uccidere l’ultimo lupo della zona, il ragazzo li "tradirà" diventandone quindi il salvatore) come emblematica di una capacità di guardare le cose con occhi nuovi.

    Brigitte Peskine
    Risvegliarsi al tramonto
    Edizioni EL, Ex libris – 1995

    Scritto in prima persona da Nathalie, adolescente confusa e spaventata dalla propria crescita, in difficoltà con il resto del mondo (genitori, amiche, ragazzi…), questo libro tratteggia un bel rapporto fra nonna e nipote. Proprio per bocca di Nathalie dà vita alla paura della vecchiaia, della morte, della diversità e senza proporre soluzioni definitive né lieti finali zuccherosi indica alcune strade che possono aiutare a guardare la vita con maggiore serenità.

    Carmen Martìn Gaite
    Cappuccetto Rosso a Manhattan
    Mondadori – 1999

    Come nella famosa fiaba, Sara parte per portare una torta di fragole alla nonna che vive sola a Manhattan. Una riflessione sulla libertà che parla al cuore di tutti ma anche uno sguardo profondo ai rapporti fra nonni e nipoti. La particolarissima affinità fra Sara e la sua nonna Rebecca, un tempo cantante di music hall, è descritta in modo incisivo e mostra con grande semplicità, attraverso la penna magistrale di questa grande autrice, come i bambini siano in grado di andare oltre i pregiudizi, diritti al cuore dove sanno leggere i veri sentimenti delle persone, l’ansia di amore e la disperata solitudine di cui tante volte i vecchi di oggi sono circondati.

    Anna Lavatelli
    Tutti per una
    Piemme, serie arancio – 1997

    E’ una realtà molto romanzata, dove il lieto fine è obbligatorio, quella che viene descritta in questo libro che racconta le vicende di un gruppo di anziani di una casa di riposo. Eppure il suo pregio è proprio quello di descrivere, con gli occhi di chi ci deve poi passare il resto della vita, una realtà spesso sconosciuta e comunque temuta dai bambini. Le riflessioni che i protagonisti fanno fra di loro sul senso della vita, sulle aspettative verso il futuro, sulla capacità di essere ancora protagonisti attivi sono tutti inviti alla riflessione e ad una maggiore attenzione nei confronti degli altri.

    Guus Kuijer
    Ti perdi e trovi una nonna
    I Criceti Salani – 1993
    Guus Kuijer
    L’isola Duegambe
    I Criceti Salani – 1991

    Segnaliamo questi libri che raccontano le avventure di Tin, intraprendente bambina di nove anni, del coetaneo Job e del piccolo Bas, per la presenza di Tilli, una vecchia signora cieca che Tin "adotta" come nonna. Difficoltà, strategie e soluzioni positive sono tratteggiate dalla penna di questo grande scrittore olandese che sa guardare il mondo dall’altezza dei bambini, sa portarli ad affrontare le realtà e le fatiche della vita vera con fantasia, ironia e tanta voglia di divertire.

    Stepan Zavrel
    Nonno Tommaso
    Arka – 1992

    Il libro ha tutti gli ingredienti per piacere ai bambini ma anche ai loro nonni!! L’ordinanza del sindaco che "per il loro bene" fa rinchiudere tutti i nonni in una casa di riposo con l’aiuto di squadre di acchiappanonni armati di ogni tipo di rete sarà vanificata proprio dai bambini che, soli, si accorgono che i nonni là hanno davvero di tutto ma nessuno di loro sorride.
    Saranno i bambini, all’insaputa dei grandi (che tanto non si accorgono di niente) a liberare i nonni e a tenerli nascosti fino a quando anche i genitori non capiranno che il loro posto è lì, in famiglia, e che la loro presenza è preziosa per i bambini.

    Anthony Horowitz
    Nonnina
    Junior +10 Mondadori -1996

    Appartiene al filone dei "nonni cattivi" e della fantasia più sfrenata questo divertente romanzo che vede il piccolo protagonista alle prese con la vecchia, cattivissima nonna e le sue amiche che vogliono servirsi di lui per tornare giovani. Nonnina concentra in sé tutti i tratti negativi che vengono solitamente attribuiti ai vecchi (dalla dentiera alle rughe…) e non è possibile trovarle qualche aspetto positivo. I vecchi da eliminare? Verrebbe fatto di pensare di sì se non fosse per un personaggio, la tata del protagonista, che sa riportare le cose sulla terra e dichiara decisa agli interrogativi del ragazzino: La vecchiaia è come una lente di ingrandimento: prende il meglio e il peggio di ognuno e l’ingrandisce. Nonnina è stata egoista e crudele per tutta la vita. Ma non puoi prendertela con lei per essere vecchia.

    Ulf Stark
    Il paradiso dei matti
    Feltrinelli kids – 1999

    Pur essendo un libro che parla dell’adolescenza e di tutto quello che comporta, raccontando la storia di Simone (una ragazzina dallo splendido nome francese che però in svedese non esiste se non al maschile…). La storia, divertente, trasgressiva, delicata è per noi significativa anche per la figura del nonno (si potrebbe dire il miglior attore non protagonista…) con cui Simone ha un bellissimo rapporto fatto di confidenza, affetto e reciproca fiducia. Lo strampalato vecchietto, di cui inizialmente sappiamo solo che è ricoverato in un ospedale per lungo degenti, piomba a casa della figlia dichiarando
    Sono venuto qui per morire (…) Lo so, lo so! Forse è sconveniente. Ma in quell’ospedale del cavolo non si può morire in pace. Non si fa in tempo, con tutti gli esami del sangue e i termometri che ti infilano dappertutto e le lenzuola che devono essere cambiate e le pillole che bisogna mandar giù e tutte le altre scemenze che si inventano!
    Il nonno accompagna e sostiene Simone in tutte le sue peripezie alla ricerca di se stessa e quando viene il momento organizza una festa d’addio cui partecipa dal suo grande lettone dove morirà sereno accanto alla figlia e alla nipote mentre la festa e la vita continuano nella notte.
    Un altro libro in cui la morte viene affrontata con realismo e tranquillità, senza nascondere niente e senza spaventare.

    Karel Verleyen
    Mio nonno domatore di leoni
    Gli Istrici Salani – 1997

    Divertente e surreale questo nonno, scomparso in Africa tanti tanti anni prima, ricompare all’improvviso e vorrebbe venire a vivere con il figlio che non l’ha mai conosciuto. E così la storia si snoda fra l’esigenza di riconoscimento da parte del nonno, il rifiuto del figlio che non sa affrontare il cambiamento e la piena, immediata accettazione invece da parte del nipotino per il quale il nonno ritrovato inventa avventure mirabolanti. Inevitabile il lieto fine (Ai nipoti può benissimo nascere un nonno! Ad alcuni almeno…E a me è successo!) per un libro che, tra le risate, ci ricorda comunque l’importanza degli affetti e delle figure familiari.

    Anke de Vries
    "Segatura in testa"
    I Criceti Salani – 1991

    Abbiamo scelto alcuni testi che aiutano in modo significativo ad entrare in contatto con temi difficili quale la malattia e la vicinanza con la morte scegliendo per fare questo la figura dei nonni come figura mediatrice.
    Molti dei testi recuperano in modo positivo l’immagine di persona vecchia che si avvicina, più o meno consapevolmente, alla fine della propria vita. Mettere a fuoco questo tema fa inevitabilmente sfuocare il resto rendendo centrale il rapporto che si crea fra il nonno o la nonna e i bambini.
    In alcuni racconti però questa centralità del rapporto disegna un’immagine di nonni sopra le righe, con caratteri di eccezionalità, distanti dai tratti reali.
    I nonni spiccano anche perché dietro loro c’è il vuoto famigliare. Riempiono l’assenza delle altre figure, in particolare dei genitori che non sono rappresentati come adulti di riferimento, sono lontani ( e come tale vengono allontanati dagli autori con stratagemmi vari).
    Questa resa del quadro familiare in termini di assenza dei genitori è contraddittoria e problematica; tende da un lato ad idealizzare le figure dei nonni presentandoli, appunto, come super nonni, dall’altro induce a domandarsi come i bambini leggano questo vuoto, che alcuni libri disegnano in termini così forti, appare altrettanto irreale al pari dei quadretti idilliaci di tanti spot pubblicitari.
    "Un altro degli elementi considerato da molti proibito nei libri per ragazzi è la morte. Intendiamoci, la morte come elemento risolutivo dell’intreccio, è stata sempre usata con abbondanza. Mamme morte che producono utilissimi orfanelli, eroici tamburini sardi o scervellati monelli che giocano col fuoco, piccoli ebrei nei lager, malatini di AIDS o vittime di faide tribali in Bosnia o in Ruanda. La morte straziante è uno degli ingranaggi fondamentali per mettere in moto la macchina del patetico, così presente specie nella letteratura ottocentesca, e comunque in quella che vuole ammonire ed edificare. La morte come evento, come spettacolo, come dato di fatto che in genere ci fa sentire colpevoli di essere sopravvissuti. Mai o quasi mai la morte come problema filosofico.
    Eppure tutti i bambini si interrogano al riguardo, nonostante le risposte evasive e depistanti degli adulti (…). Uno dei miei libri per preadolescenti più amato dalle lettrici è Principessa Laurentina dove ho cercato di raccontare in modo realistico la reazione della protagonista alla morte della madre, avvenuta per un imprevisto incidente proprio mentre era in corso un profondo dissidio con la figlia. Ho notato che a leggere libri di questo genere i bambini e i ragazzini provano un senso di sollievo, non perchè se ne ritrovino consolati, ma perchè si sono almeno liberati dal peso angoscioso del silenzio, del non detto, del rimosso". (Bianca Pitzorno, Storia delle mie storie, Pratiche Editrice, Parma, 1995, pp. 137-138)

    Nonni – rapporti fra le generazioni – figure di riferimento nella crescita

    Un filone ricco di titoli è quello che vede i nonni come figure adulte di riferimento, solide rassicuranti (o anche "negative" in quanto custodi delle tradizioni) ma spesso sole nella totale (o quasi) assenza dei genitori.
    Citiamo fra i tanti:
    Patricia MacLachlan – Album di famiglia – Junior Mondadori +10 – 1993
    Margaret Shaw – Ieri e domani -Gaia Junior Mondadori – 1993
    Rhea Beth Ross – Solo donne in famiglia – Gaia Junior Mondadori – 1993
    Gail Giles – Il respiro del drago – Junior -10 Mondadori – 1999
    Roberta Grazzani – Nonno Tano – Piemme serie azzurra – 1992
    Silvana Gandolfi – Occhio al gatto! – Salani Gli Istrici – 1995
    Matilde Lucchini – Per fortuna ci sono i dinosauri – Junior- 10 Mondadori – 1994

    Raccontare semplicemente una storia

    Intervista a Guido Quarzo, scrittore per ragazzi

    Con quale atteggiamento ci si pone davanti al fatto di voler raccontare una
    storia di diversità?

    Non credo che sia necessario, per raccontare una storia intorno a una situazione di diversità, avere un atteggiamento particolare, diverso da quello che si ha quando si raccontano altre storie. Ogni storia in fondo nasce dalla definizione di un problema: può essere un problema soggettivo, di relazione con gli altri, o un problema più oggettivo come una situazione difficile in cui i personaggi vengono a trovarsi. Nello svolgimento delle storie poi i problemi si intrecciano e si complicano. Nel caso di "Clara Va Al Mare", alle difficoltà ”soggettive” della protagonista, si aggiungono quelle "oggettive" dovute al fatto che viaggia da sola. Ma raccontando questa storia non ho mai pensato che la ‘diversità’ di Clara richiedesse da parte mia un atteggiamento narrativo specifico. Credo anzi che la forza del racconto, se ne ha, stia proprio in questo, che ho cercato di trattare la materia senza nessun accorgimento particolare, con l’idea appunto di raccontare semplicemente una storia.

    Quali sono i rischi maggiori che si corrono?

    Credo che i rischi più grandi che un narratore corre con storie di questo tipo siano di enfatizzare eccessivamente i problemi della diversità o, all’opposto, di minimizzarli, quasi per negare l’assunto iniziale che una diversità comunque esiste. Ho visto per esempio il film "L’Ottavo Giorno", che parlava dello stesso problema e aveva per protagonista un ragazzo down, e non mi è piaciuto per niente: ho trovato esagerata l’insistenza sul rifiuto da parte della gente "normale" e poi altrettanto esagerata l’esaltazione della diversità come modello di confronto capace di mettere in crisi l’ipocrisia e l’egoismo.

    Come e’ nata l’idea di scrivere il libro "Clara va al mare"?

    Io sono prima di tutto uno scrittore di narrativa, questo è il mio mestiere e sono quindi sempre alla ricerca di storie interessanti. Molto del materiale narrativo che utilizzo lo vado a pescare naturalmente nel mio personale ‘magazzino mentale’. Ebbene, lì dentro c’erano anche alcune esperienze che, avendo insegnato per molti anni nella scuola elementare, ho avuto occasione di fare con bambini e bambine in qualche modo problematici. Tra questi, anche almeno tre casi di alunni down. L’idea di scrivere "Clara va al mare" è cresciuta un poco alla volta, da un primo abbozzo iniziale che conteneva solo l’episodio dei grandi magazzini e che pensavo di accorpare agli altri racconti del volume "Talpa Lumaca Pesciolino". Mano a mano che scrivevo però mi tornavano alla mente episodi, espressioni e atteggiamenti, arrabbiature e tutta la grande carica affettiva che quei bambini sapevano comunicare. Direi che da un certo punto in avanti il racconto di Clara è diventato una sorta di sfida con me stesso: vediamo se sei capace, mi dicevo, di raccontare quel groviglio di emozioni e di portare questa ragazzina fino al mare.

    Nella storia di Clara si ritrovano quotidianità e fantasia. Come si
    miscelano? C’è prevalenza dell’una o dell’altra?

    Entro certi limiti si potrebbe dire che il personaggio di Clara incarna il mondo dell’immaginazione, delle pulsioni e dei desideri. Gli altri personaggi rappresentano, se vogliamo, il cosiddetto principio di realtà.
    Ma non c’è una netta separazione tra i due mondi: il principio di realtà fallisce quasi ogni volta che tenta di ‘interpretare’ il pensiero di Clara e l’immaginario si trova a dover fare i conti con la realtà, nel dialogo fra il cane e Clara che, nonostante le apparenze, è uno dei momenti più realistici del racconto.

    La risposta dei lettori: rispetto alle intenzioni, a ciò che si voleva
    esprimere, che tipo di reazione ha suscitato la lettura di testi come
    "Talpa, lumaca, pesciolino" e "Clara va al mare"?

    Con Talpa Lumaca e Pesciolino ho avuto molte soddisfazioni nel corso di incontri con i lettori, sia adulti sia bambini. Ho l’impressione che sia stata ben colta l’idea che ognuno di questi racconti ha per soggetto la possibilità. La possibilità è qualcosa di diverso dalla speranza: la possibilità sta dentro di noi, è come una falda sotterranea e in qualche modo troverà uno sbocco.
    Clara va al mare è un libro ancora troppo nuovo, ma finora i commenti sono stati lusinghieri. Mi piacerebbe che venisse letto come un breve romanzo, per il piacere della lettura soprattutto, senza etichette di genere o intenzioni didascaliche, questo sì.

    "Clara va al mare" è un fuori collana; come è stata voluta questa
    collocazione?

    E’ stata una decisione di ordine puramente pratico: non si riusciva ad attribuire al racconto una precisa ‘fascia di età’ indicata per la lettura. Da una parte spiaceva all’editore proporlo come libro per ragazzi tout court, d’altro lato considerarlo un libro per soli adulti sarebbe stato un limite ingiustificato. Così se ne è fatto un fuori collana, e devo dire che Luigi Spagnol, il mio editor della Salani, ha avuto ragione: infatti Clara va al mare viene letto con interesse dalla quinta elementare alla scuola media, e anche dagli adulti.
    Il mio prossimo libro, che uscirà in ottobre per Feltrinelli e sarà intitolato "Il Fantasma del Generale", avrà gli stessi problemi di "target".
    Fra i temi del racconto ritroveremo ancora quello della diversità, ma essendo una storia che si svolge alla fine del XIX secolo, l’atmosfera sarà molto diversa. Uno dei personaggi è addirittura ricalcato sulla figura di Cesare Lombroso, potete quindi ben immaginare…

    Le facce della diversità nella letteratura infantile

    Editoriale

    Esplicitiamo il punto di vista da cui vorremmo cominciare per proporre questo numero monografico dedicato al rapporto tra le forme della diversità e la letteratura per bambini e ragazzi; tra le molti possibili chiavi di lettura con cui accostarsi a questo tema vorremmo privilegiare l’idea di una letteratura intesa come luogo di rivisitazione della vita quotidiana. Con quest’ultima la letteratura conserva legami diretti in quanto serbatoio di storie reali e potenziali che la creatività e l’immaginazione a volte riprendono, rivedono o stravolgono sempre comunque individuando nella dimensione quotidiana un punto di riferimento.

    Ma che cosa è la quotidianità?

    E’ qualcosa che ha a che fare con l’ordinarietà, la ripetizione, la routine. Tutta la nostra vita è intessuta di routines senza le quali diventerebbe impossibile vivere, pena reinventare, come novelli Robinson Crosue, le pratiche che contraddistinguono il passare dei giorni.
    Quotidianità è la dimensione in cui siamo immersi, che attraversiamo, dentro cui agiamo e reagiamo. Per questa sua "naturalità ed ovvietà" è la dimensione con cui facciamo più fatica a confrontarci; la comprensione dei meccanismi che la sostengono è sotterranea, spesso non ricercata così come non è scontato il farli venire a galla.
    Da molti punti di vista la quotidianità fatica ad affermarsi con valore, con senso e anche con piacere.
    Spesso è la rottura che in un qualche modo ci fa riprendere contatto con il quotidiano, promuovendo una forma di consapevolezza maggiore.
    Nella quotidianità noi conosciamo infatti anche la rottura dell’ordinario e del consueto: l’ignoto e la paura, la malattia e la morte, la nascita difficile e la convivenza con essa. Le forme di questa rottura si presentano a volte come evento inatteso e scioccante, a volte sotto il segno della cronicità e del non cambiamento e sono spiazzanti e difficili da interpretare.

    Quale rapporto tra la quotidianità e la letteratura?

    Partendo da queste riflessioni tra le molte valenze possibili, segnaliamo alcuni rimandi per noi particolarmente pertinenti rispetto al collegamento fra quotidianità e letteratura:

    La letteratura come catalogo

    Inventario del mondo che passa attraverso il rinominare le cose, il procedere alla conoscenza attraverso il linguaggio, il dare nome alle cose. E’ un rifarsi continuo a quel primo atto creativo che ricorre così forte in molti miti e testimonianze arcaiche e che rivediamo ogni volta che un bambino impara ad impadronirsi del linguaggio come processo sociale e socializzante, che ha bisogno dell’altro per compiersi.

    La letteratura come mediazione verso la vicinanza con la propria e l’altrui esperienza

    Molti di coloro che amano leggere ed ascoltare storie sentono ciò che così efficacemente uno scrittore importante come Proust affermava: "solo attraverso l’arte possiamo uscire da noi, sapere che cosa vede un altro di un universo che non è lo stesso nostro e i cui paesaggi rimarrebbero per noi non meno sconosciuti di quelli che possono esserci sulla luna. Grazie all’arte, anziché vedere un solo mondo, il nostro, lo vediamo moltiplicarsi…"
    Quando il punto di vista, il mondo a cui l’altro ci introduce è di segno difficile, portatore di quella faccia della realtà con cui è più faticoso e pauroso tenere aperti i legami (la malattia, la morte, l’incapacità, la dipendenza) la letteratura amplifica la sua capacità di mediazione, di introdurre elementi di collegamento, di apertura, di forme di apprendimento attraverso le vie:
    della vicinanza (sì, si può parlare anche di cose difficili, passaggi aspri);
    della distanziazione ( attraverso il prendere le distanze per poter elaborare);
    della triangolazione (oltre me stesso e la paura c’è il terzo elemento dato dalla storia)

    La letteratura come dialogo

    La quotidianità è il nostro vivere ma può rischiare di essere la nostra gabbia rimandandoci un’idea di forte separatezza ed incomunicabilità:. "Io dentro al mio quotidiano, tu dentro al tuo".
    Su questo punto la letteratura spiazza, ci fa confrontare direttamente con l’incrocio di destini, il continuo rifarsi di una storia con l’altra.
    La letteratura si propone come terreno di meticciato, intreccio di confluenze e stimoli. Nasce da un’ "impollinazione incrociata" , come si esprime Salan Rusdhie, e si pone come un forte messaggio di non autosufficienza e non autoreferenzialità, uno sprone al dialogo possibile.

    La letteratura per bambini e ragazzi

    "La letteratura è una prigione di cristallo" (1) scrive Carmen Martin Gaite nel libro La regina delle nevi. E’ qualcosa di separato dalla vita vera, è anche, può anche essere, un territorio riparato e protetto dove provarsi con gli snodi della vita.
    E’ questa una delle funzioni più significative che la letteratura assolve nei confronti dei lettori più giovani: aiutare il confronto con le molteplici facce della realtà seguendo la strada della fantasia e dell’immaginazione.
    "Un racconto, un romanzo, una narrazione qualsiasi- dal momento in cui conosciamo gli elementi di base, ossia da quando l’adulto ci introduce nel mondo della fiaba- ci permette di identificarci con la (o il) protagonista e con i fatti dei quali è partecipe. Rispetto al cinema o alla televisione la pagina scritta permette una più vasta possibilità di esercitare il fattore identificazione perché la mente non è sopraffatta dal forte plagio rappresentato dalle immagini"(2)
    Questa identificazione funziona proprio perché supportata dalla separazione dettata dalla pagina scritta e dal ruolo attivo che l’oggetto libro impone al suo lettore. Interrompendo la lettura decidiamo di costruire spazi di riflessione che, partendo da uno stimolo definito, prendono poi strade proprie.
    Perché un libro è senz’altro molto di più che un libro:
    "Un libro è scritto da qualcuno, ha un titolo, è un oggetto che circola in più copie; non tutti i libri sono uguali e quindi non vanno usati tutti allo stesso modo; la lettura è una scelta, un modo per stare insieme, un pretesto per stabilire interazioni con gli adulti o con i pari, un’attività individuale ma regolata anche da vincoli sociali; leggere è essere membri di una comunità, è ascoltare parole che provengono da un testo scritto, è usare ciò che un libro dice per fare dell’altro; leggere è una componente saliente della vita quotidiana" (3)
    Leggere è incontrare altre storie e altri destini in cui riconoscere somiglianze e differenze
    Incontrare una storia che ha tra i protagonisti un bambino o una bambina con un deficit o in una situazione di difficoltà costituisce un opportunità di confronto con chi si presenta con tratti differenti; un confronto mediato che può indurre ad approfondire quanto il racconto propone attraverso il paragone con la propria esperienza di conoscenza diretta di chi quella condizione di deficit o difficoltà vive in prima persona
    "I libri possono aiutare a crescere, incoraggiando e parlando di sé. Per questo sono utili libri che parlano di handicappati. I bambini handicappati nei libri possono essere chiamati "ammalati", e questo è un falso grave perché un bambino handicappato non ha una malattia da cui può guarire: ha un deficit permanente. Ma bisogna dirlo? E come? Quali libri dicono che un bambino è handicappato?(4)
    Ci sono libri che aiutano un riconoscimento, che sostengono la fatica del percorso di identità, che trovano le parole ed i modi adeguati. Sono questi libri che pur rivolgendosi a lettori giovani, anche molto giovani, affrontano cose che possono far paura, temi importanti affinando le armi della curiosità, della metafora, della libera fantasia. Sono libri che propongono l’intera tavolozza dei colori vitali pur di fronte alla difficoltà e tristezza che tante situazioni raccontate propongono.

    Di questo vorremmo parlare, proponendo due percorsi bibliografici che fanno riferimento al panorama editoriale italiano degli anni ’90.
    Il primo affronta il tema della diversità con particolare attenzione a due fasce di lettori i piccoli e i ragazzi verso l’adolescenza. Il secondo presenta una serie di testi in cui lo stesso argomento -diversità- viene affrontato da un angolatura particolare: il rapporto tra generazioni e più precisamente fra nonni e nipoti. Da questo punto di vista i libri diventano occasione per inoltrarsi nel terreno della malattia, della mancanza di autonomia, del prendersi cura.
    Accanto alla segnalazione dei testi trovano posto altri contributi:
    – "C’è cavallo e cavallo" a cura di Lara Dattoli: pezzo sull’utilizzo del libro per bambini in classe come supporto fondamentale per affrontare anche con i più piccoli il tema della diversità;
    – l’articolo "Educare alla differenza" della pedagogista Franca Mazzoli: attraverso la narrazione di storie si può avvicinarsi agli altri;
    – il punto di vista di una case editrice, attraverso le parole della direttrice Arianna Papini, impegnata a curare la diffusione di molti testi che introducono alla riflessione sull’essere e sentirsi diversi;
    – l’intervista ad un autore, Guido Quarzo, molto attento a questi temi;
    – il contributo di Andrea Canevaro, docente di pedagogia speciale, dal titolo "Riduzione dell’handicap".

    Note:

    (1) Carmen Martin Gaite La Regina delle nevi Giunti Fi 1999

    (2) Travolti da insolita passione di Roberto Denti in: LIBER Libri per bambini e ragazzi n.30 aprile-giugno 1996

    (3)I bambini e la lettura. La cultura del libro dall’infanzia all’adolescenza a cura di Vanna Gherardi e Milena Manini 1999 Roma Carrocci Editore

    (4)Handicap e lettura di Andrea Canevaro in : LIBER Libri per bambini e ragazzi n. 2, gennaio-marzo 1989 Comune di Campi Bisenzio Regione Toscana pp.26-30

    Riduzione dell’handicap

    La qualità del tempo: policromia e monocromia

    Immaginiamo la rappresentazione del tempo e della sua qualità con i colori e immaginiamo come possa essere scombinata la vita di una persona, di una famiglia, dalla presenza di un evento inatteso e nei confronti del quale si ritiene di non avere nessuna risorsa, nessuna preparazione, quale può essere la nascita di un bambino o di una bambina con delle esigenze particolari dovute a un deficit.
    Questa situazione può rendere la vita, anziché una combinazione di colori, una policromia, perché è fatta di tanti elementi diversi tra loro che si combinano più o meno armoniosamente, una vita che ha solo un colore. Esempio: una vita tutta fatta di dedizione, di oblatività. Questa situazione monocromatica è tanto più evidente quando la situazione di handicap è grave, e gli elementi di quotidianità sono così costantemente bisognosi di una presenza accanto a chi è handicappato, bambino o bambina, da costituire un vincolo e rendere impossibile lo svolgimento di altri compiti talmente marginali da non essere neanche avvertiti come presenze nella vita. Sembra quindi che vi siano delle riduzioni continue delle altre possibilità che vengono allontanate, rese più difficili, sporadiche, acrobatiche, per concentrare tutta la propria vita, la propria esistenza attorno alla vita e all’esistenza di un soggetto. Non è, è evidente, solo l’aspetto materiale di vita quotidiana ma anche l’occupazione della mente. Vi possono essere anche persone, familiari, che svolgono molti compiti professionali ma tutta la loro vita mentale è occupata dalla presenza costante di quel figlio, di quella figlia, se sono genitori, o di quell’individuo, se hanno altri rapporti sia di famiglia, sia di amicizia.

    Qualificare il tempo

    Questo rende importante capire quanto il tempo vada restituito a una policromia, e rende importante capire quale sia il successo di quelle proposte che occupano, anche materialmente, il tempo delle persone che vivono accanto a una persona handicappata, a un individuo handicappato, uomo o donna, bambino o bambina, ed anche il tempo dell’individuo che ha delle esigenze particolari.
    Al di là della comprensione di efficacia, vi sono delle suggestioni potenti che fanno aderire a una proposta, quasi unicamente perché può qualificare il tempo. Ora è quasi evidente che il giudizio relativo a certe proposte può essere anche negativo, ma non raggiunge il nucleo essenziale di quelle stesse proposte. Sembra che vi sia la necessità di qualificare il tempo attraverso una proposta che lo riempia di attività. Se poi vi è anche la speranza che queste attività abbiano un valore abilitativo e terapeutico questo è un valore aggiunto ma non indispensabile.
    Abbiamo l’impressione che a volte vi sia una necessità quasi fisiologica di avere qualcosa che impegni il tempo. E allora se questo è un punto di partenza di una riflessione bisogna andare oltre per capire come in presenza di una situazione di handicap sia importante ragionare per restituire al tempo una qualità di policromia: restituire diversi colori.
    Certo, non abbiamo con questo la possibilità di essere sicuri che i diversi colori armonizzino tra loro, che siano organizzati in termini unitari e non dividano la vita in termini tali da frantumarla, per cui dobbiamo aggiungere che la policromia va costruita insieme, non può essere dettata dall’esterno ma fatta nascere da un progetto in cui l’individuo che è protagonista sia aiutato certamente, ma faccia delle scelte.
    Questo individuo lo vogliamo concretizzare in una figura femminile, e ancora di più in una madre ? ma è un esempio e potremmo sostituirlo benissimo anche con una figura maschile, e forse con un padre. Scegliamo una madre anche per un doveroso riconoscimento che buona parte delle riflessioni sul tempo viene da donne. Personalmente credo di dovere molti meriti a molte donne, ma mi conviene riassumere e attribuire un merito specifico a Matilde Callari Galli che su questa questione del tempo delle donne ha molto riflettuto e aiutato altri a riflettere. Un tempo monocromatico vuol dire, per quella figura che ho scelto come esempio, un tempo tutto dedito alle operazioni quotidiane di assistenza a un figlio, a una figlia, nell’esempio che facciamo è questo.
    Già dicevamo della possibilità che questo tempo di dedizione sia qualificato da una proposta, rimane un tempo tutto oblativo, quindi monocromatico, ma almeno organizzato in un percorso, o tale si presenta. Nello stesso modo di proporre, però, vi sono a volte aspetti che vengono sottovalutati, e che riguardano una possibilità che la proposta di un programma intenso, di attività da svolgere quotidianamente, minuto per minuto, sia accompagnata da una spiegazione di quelle che sono le condizioni che quel bambino, quella bambina, vive.
    A volte chi è del mestiere, e ha una preparazione tecnica e scientifica, considera quelle spiegazioni molto superficiali se non erronee, e non prende in considerazione l’aspetto che invece noi qui vogliamo esaminare: che in quella proposta vi è anche una valorizzazione del potenziale cognitivo, detto in un gergo che può essere anche fastidioso, della mamma presa nel nostro esempio. Anziché ritenerla una persona senza una preparazione accademica e scientifica, e quindi incapace di comprendere la situazione, quella proposta ha fatto in modo, forse superficialmente, forse erroneamente, ma noi qui vogliamo trascurare questo aspetto, che quella persona fosse apprezzata per la sua possibilità di comprensione anche intellettuale. Entra, in questo aspetto, una considerazione che già può essere sviluppata per la nostra ipotesi di tempo a più colori. Possiamo fare, se siamo capaci, meglio di quella proposta ipotizzata e allusa che fa riferimento a delle spiegazioni o erronee o comunque semplificanti.

    I libri per i genitori: libri demagogici

    Abbiamo una letteratura che ha alcune scritture, alcuni libri rivolti in particolare ai familiari, ai genitori, alle mamme. Questa letteratura può essere, a grandi linee e schematicamente, divisa in due settori: uno è un settore che chiameremo "demagogico" e l’altro è un settore che chiameremo "dialogico".
    Il settore demagogico ha delle semplificazioni eccessive, ha la caratteristica di essere astorico, descrive una situazione di bisogni particolari come se fosse un dato, e non come elemento di una ricerca che ha avuto una sua storia e quindi delle evoluzioni, delle capacità di essere espresso in termini diversi da quelli in cui vengono espressi oggi. E’ a?storico, è a?problematico, è un genere letterario che si configura come semplificatorio, riduttivo, e considera quindi i suoi lettori e le sue lettrici come delle persone incapaci di sostenere il confronto con un’opera in cui vi siano delle parti da approfondire, perché alla prima lettura sono oscure. Deve quindi svolgersi secondo una chiarezza artificiale.

    I libri per i genitori: libri dialogici

    Una seconda categoria di libri è dialogica. Considera quindi chi legge come persona che può affrontare anche delle difficoltà, può non capire subito, ha bisogno di approfondire, ha bisogno di collocare le conoscenze che riceve in una problematica non sempre precisa, ha bisogno anche di incontrare i dubbi e di non avere delle posizioni trionfalistiche, sicure di sé. Nella categoria demagogica dubbi non ve ne sono, si fa così, quindi la traduzione è: "tuo figlio, tua figlia, è, ed ha bisogno di..", tutto è molto semplice, sicuro, chiaro. Vi è una proposta, ed è quella che funzionerà se tu la saprai far funzionare.
    Nell’altra letteratura, anche rivolta a chi è genitore, a chi è mamma, vi è una linea di continuità con la letteratura scientifica che non si indirizza a questi lettori. Vi è quindi una possibilità che quel libro permetta l’inizio di una riflessione più ampia non necessariamente solo in termini scientifici ma anche in termini letterari, poetici, storici, analogici; si può scoprire che la situazione di chi vive attorno a chi ha esigenze particolari può essere analoga ad altre situazioni molto diverse, di altre popolazioni, di usi e costumi, ecc. Vi è la possibilità che il tempo cominci a colorarsi e che accanto a una vita monocromatica, tutta dedita all’assistenza vi sia anche una vita intellettuale, che a sua volta si apra in molte possibilità. Forse si riscopre, o si scopre, qualcosa che permette di avere delle risorse non solo di compensazione.
    La compensazione è necessaria: chi ha una sofferenza cerca, ed è umanamente molto giusto, di compensarla con qualche gratificazione, con qualche compensazione, può essere nella religiosità, può essere nell’attività sociale e politica. Non solo, però, compensazioni, non solo, quindi, riequilibrio ma anche sviluppo, possibilità di procedere, di regalarsi delle soddisfazioni non per restaurare l’ordine o per pareggiare i conti, ma per andare avanti.

    Sottrarre il dolore

    La policromia, la colorazione del tempo è molto importante, e diventa anche un elemento di comprensione di cosa può accadere qualora qualcuno in una posizione di generosità, certamente, sottragga all’altro il dolore, la pena, l’afflizione; anziché entrare per collaborare alla costruzione della policromia vi può essere una assunzione dell’afflizione dell’altro in termini che generosamente sono: "ti tolgo l’afflizione", ma che possono essere letti come: "mi togli l’unica cosa che ho": il vuoto di colore; anziché la monocromia, vi è una monocromia spenta; si spegne anche l’unico colore che c’era, quella dedizione me la prendo io.
    Nel rapporto con chi vive la situazione di handicap vi può essere questa generosa proposta di assunzione totale dell’afflizione: può essere rivolta a chi è direttamente protagonista, a chi ha dei bisogni particolari; può essere rivolta a chi è vicino. La policromia è una proposta che serve a tutti, in particolare a chi vive la situazione di handicap, sia perché è handicappato, è handicappata, sia perchè vive accanto. Sottrarre il dolore, sottrarre l’afflizione è una logica molto presente nelle persone generose, ma è una generosità poco costruttiva che rischia di degenerare in assistenzialismo, e nell’assistenzialismo una presenza costante è quella di accentuare i bisogni o moltiplicarli, per costringere l’altro ad occuparsi sempre della situazione. Quindi l’assunzione dell’afflizione non è efficace, perché ve ne è sempre dell’altra.

    Policronia

    Questa è con tutta evidenza una descrizione schematica; ciascuno la può articolare a seconda delle diverse realtà che vive. In positivo noi dobbiamo riflettere sulla utilità di svolgere una azione che permetta la costruzione di un policromia; la parola "policromia" può essere però anche sostituita dalla parola "policronia", i colori possono essere sostituti dal tempo. Più tempi e non solo un tempo: il tempo dell’assistenza ma anche il tempo dell’intelletto, il tempo della riflessione quindi anche la possibilità che nei più tempi, nei diversi tempi, vi sia un’occupazione di ruoli diversi; in un tempo un soggetto è protagonista, in un altro tempo è spettatore. E questo è un elemento importante perché a volte la vita di chi ha dei bisogni particolari è ancorata a un solo ruolo, sempre spettatore, sempre comparsa, oppure sempre protagonista. Il protagonismo di alcune persone handicappate è evidente, così come è anche evidente, anche se meno imponente, si impone meno, il ruolo di comparsa di tante altre persone handicappate.
    Occupare un solo ruolo vuol dire vivere una vita vincolata a una sola posizione e quindi, a rappresentarla in un’immagine, fortemente anchilosata, in cui è più facile che si sviluppino delle piaghe da decubito, in senso figurato e a volte anche in senso reale, ma più spesso in senso figurato. Più spesso di quanto si creda. Diventa una vita che appoggia sempre in un solo punto, mentre la policromia, che diventa in questa descrizione policronia, permettendo lo svilupparsi di diversi colori e in diversi tempi, permette anche di cambiare ruolo, e quindi di avere una rappresentazione di sé variata, e di migliorare l’apprendimento. Il cambiamento di ruolo permette di imparare, cioè di trasportare qualche cosa da una posizione all’altra e alimentare le nostre riserve di apprendimenti.

    Appartenenza: la lacerazione dell’appartenenza e la ricostruzione della stessa

    La riflessione fatta sulla qualità del tempo può essere rifatta, quasi ripercorsa con lo stesso pensiero, però con un’altra chiave di lettura che è quella dell’appartenenza. "Appartenenza" è un termine che ha una particolare attualità dal momento che, nell’epoca in cui la parola "globalizzazione" è diventata sempre più una realtà, vi sono anche delle forti tendenze a creare delle appartenenze localistiche e quindi a rompere l’appartenenza a una società ampia per individuare nella piccola patria il motivo di appartenenza. In alcuni casi questo ha sviluppato dei frazionamenti tragici, che hanno comportato dei conflitti; la ex Jugoslavia non finisce di vivere questa situazione. Anche dove la condizione non è tragica vi sono rivendicazioni localistiche per attribuire all’appartenenza locale un primato e quindi per essere più portati a riconoscerci in chi abita da tempo in un certo contesto e vedere in chi arriva da lontano un usurpatore, un invasore. Il termine "appartenenza" sta prendendo un posto importante nella nostra riflessione. Vorremmo capire quanto è importante sentirsi parte, e anche quanto è importante sentirsi parte del mondo, non solo di una piccola zona.
    L’appartenenza ridotta alla piccola zona facilmente sconfina nella xenofobia e nella conquista o nella difesa di privilegi. Appartenenza al mondo, all’umanità. Vi sono momenti in cui si può vivere una lacerazione dell’appartenenza, oppure si può nascere sentendosi come lacerati rispetto all’appartenenza, ed è questo il caso di persone che noi definiamo handicappate, o delle persone che vivono con lacerazione: si rompe un concetto e una realtà sedimentata, nasco handicappato quindi faccio fatica ad appartenere, ad essere parte di un tutto, non vengo riconosciuto parte e ho bisogno di ricostruire o costruire un’appartenenza, con il rischio di costruirla in una categoria.
    La ricostruzione dell’appartenenza o la costruzione dell’appartenenza significa procedere a un riconoscimento di elementi che sono comuni. A volte un eccesso di naturalismo banalizza gli elementi comuni. Trovare il valore simbolico nella respirazione e nel battito del cuore può essere un riscoprire qualcosa che è in tutti ed è tutt’altro che banale, e il valore simbolico è l’elemento aggiunto dell’umanità rispetto alle bestie. Si potrebbe pensare che abbiamo molti elementi in comune con le bestie. Ma il respiro fatto di pieni e di vuoti diventa un ritmo che può avere una sua musicalità, essere sviluppato in una musicalità creativa, e questo il mio cane non lo saprà fare; forse lo saprà riconoscere perché lo educherò a riconoscere il mio fischio che è la modulazione di un ritmo. Da respiro a ritmo vi è un’aggiunta di creatività, di costruzione simbolica a cui il mio cane si adegua e a cui contribuisce passivamente perché forse mi ispira, ma non sa aggiungere altri elementi intellettivi.

    L’assenza di parola

    Non posso pensare che un soggetto gravemente handicappato sia comparabile al cane perché, come il cane, non parla. L’assenza di parola non lo fa appartenere agli animali che non parlano ma gli consente ancora di essere parte degli animali parlanti, perché ha una potenzialità di accesso al linguaggio che rimane inalterata. I parlanti possono essere anche "insegnanti", ovvero coloro che tra i sordi seguono il linguaggio dei segni. Si può parlare attraverso gli ausilii. La parola non è unicamente quella che si emette vocalmente ma anche quella che si rappresenta.
    Non abbiamo nessuna possibilità che il mio cane acceda alla parola se non per addestramento riconoscendo alcune parole; il mio cane sapiente si può esibire in un circo riconoscendo un certo numero di parole, ma è frutto di un addestramento e non è generatore di linguaggio, e non aggiungerà una parola.
    Il concetto di appartenenza ha dei risvolti molto pratici e la ricostruzione dell’appartenenza vuol dire ricostruire degli elementi primordiali che permettono di riconoscerci appartenenti al genere umano. Questo può essere un contributo fondamentale che le persone handicappate, che hanno esigenze particolari, possono dare al nostro tempo così bisognoso di "ricapire", o capire, originalmente, che cosa significa appartenenza. Ma così bisognoso anche di vivere l’appartenenza, nella quotidianità, e non solo di capirla nei momenti alti della nostra riflessione.

    Un’ esclusione particolare: esclusione in categorie, esclusione mascherata

    Già dicevamo come vi può essere un tentativo di superare la lacerazione dell’appartenenza costruendo una appartenenza in una categoria ed escludendo la possibilità di appartenere a qualcosa fuori da quella categoria. Bisogna intendersi: se io fossi un pensionato e mi sentissi appartenente alla categoria dei pensionati questo avrebbe un significato più che tranquillo e componibile nel fatto che io mi sento anche appartenente a un genere umano più ampio.
    E’ diverso se io caricassi l’appartenenza alla categoria dei pensionati di un significato di esclusione dall’appartenenza al resto del genere umano, riconoscendomi unicamente in coloro che hanno una certa età, che hanno avuto un’esperienza lavorativa in un certo settore e vivendo ostilmente ogni altro contatto: è un’esclusione. Alcune appartenenze sono costrette a nascere nel segno dell’esclusione. Vi è la possibilità che questa diventi un’appartenenza mascherata e che in realtà tutta una categoria continui ad essere esclusa.

    Categorie perseguitate categorie protette

    In questo punto della riflessione è necessario fare anche un riferimento a quella discriminazione positiva che consiste nel considerare una certa categoria, ad esempio, gli invalidi, come protetta rispetto agli altri. E’ quasi banale dirlo: nel mondo molte situazioni di protezione hanno consentito una esclusione altrettanto efficace di altre esclusioni violente. In genere le categorie protette, come le riserve indiane, sono state protette dopo essere state perseguitate e quindi sono i resti protetti.
    Questo appunto potrebbe permetterci un approfondimento storico che è anche necessario individuare come pista di riflessione e di lavoro. Qui ci preme però ricordare come la categorizzazione sia una maschera, e quindi come tale sempre ricostruita, non tanto identificabile nelle forme che ha assunto in passato quanto riscopribile nelle forme nuove, non sempre individuabili.
    Diventa quindi un segnale, o una chiave di lettura, di situazioni che possono anche presentarsi ed essere ispirate a dei criteri di integrazione e quindi alla possibilità e alla speranza che vi sia un’ampia appartenenza.
    Abbiamo una serie di dizioni che possono essere elencate, e ciascuno potrebbe trovare che hanno un’esclusione mascherata oppure una possibilità di attuare l’appartenenza. Si pensi alla dizione "laboratorio protetto" che per molti ha significato un avanzamento nella possibilità di integrazione poi, a un certo punto, è stato avvertito invece come un limite ma che in un progetto potrebbe risultare ancora come un percorso, una parte di percorso verso l’appartenenza. Si pensi alla dizione "terzo settore" ispirata a una necessità e a un desiderio di creare delle possibilità di appartenenza ampia, con il rischio, però, che era presente anche nel laboratorio protetto.
    Non vi sono proposte garantite a priori rispetto all’esclusione mascherata, quindi a questo tipo di esclusione dall’appartenenza del tutto particolare che esprimiamo nell’espressione semplificata "esclusione in categoria".

    La definizione di situazione dì handicap

    E’ venuto il momento di capire cosa si dice usando l’espressione "situazione di handicap". Probabilmente in una certa logica sarebbe stato necessario iniziare questa riflessione da questo punto. Quello che ha trattenuto dal seguire un andamento di questo tipo è il non ricadere in una modalità banalizzante. Posta a questo punto della riflessione la definizione "situazione di handicap" dovrebbe essere già più chiara: non si parla unicamente di individuo che ha un deficit ma del contesto in cui abitualmente vive il singolo individuo che ha dei bisogni particolari.
    Parlare della situazione di handicap significa prendere in considerazione i diversi soggetti che sono abitualmente collocati in questa situazione, e quindi anche dei familiari. Ancora si può dire che il soggetto deficitario vive la situazione di handicap allo stesso modo di come vivono le situazioni di handicap i suoi familiari e le persone che abitualmente risiedono o vivono con lui o lei. E’ quindi necessario, riducendo l’handicap, affrontare tutta la situazione e non unicamente gli aspetti legati al singolo che ha un deficit. Un processo riabilitativo, ad esempio, può consentire l’applicazione di un trattamento tecnico relativo al soggetto, e deve però anche prendere in considerazione la vita delle altre persone che vivono nel contesto.
    Ridurre l’handicap
    Questa definizione di "situazione di handicap" permette di rileggere i punti precedenti nella logica di questo intervento, cercando quali sono i modi per ridurre l’handicap. Allora si può riprendere la questione relativa alla qualità del tempo, alla policromia, che sostituisca la monocromia, per capire come questo sia un modo importante per ridurre l’handicap. Si può riprendere il tema dell’appartenenza per capire come questo sia un elemento fondamentale della riduzione dell’handicap ed ancora riprendere l’attenzione alle nuove forme di esclusione nelle appartenenze categoriali per capire come anche questo sia un punto importante nella riduzione dell’handicap. "Riduzione dell’handicap" è accompagnata da una ricerca di comprensione di ciò che è l’elemento dato, cioè il deficit: l’elemento dato non può essere ridotto mentre tutti gli elementi variabili, e sono da scoprire, possono essere ridotti.
    Abbiamo già visto come una riduzione dell’handicap che sia operata in termini tali da non consentire la partecipazione a questo sforzo possa rischiare di produrre nuovi handicap.
    Migliorare le informazioni
    La diminuzione dell’afflizione operata da un agente totalmente esterno può ridurre sì l’afflizione ma provocare risentimento, cioè un nuovo handicap. Ed è questo uno dei punti principali della necessità di collegare ogni intervento tecnico ad una capacità di sviluppare l’attenzione partecipativa, la tensione partecipativa. E’ questa una delle buone ragioni per pensare che una diffusione delle informazioni non possa sostituirsi alla struttura dialogica diffusa sul territorio. Vi possono essere molte buone occasioni perché le tante persone che sono in qualche modo connesse alle situazioni di handicap abbiano un miglioramento delle informazioni. Questo è un compito importante da assumere socialmente.
    Questo non toglie la necessità di avere delle buone possibilità di incontro. L’elemento partecipativo non può rimanere legato a dei mezzi freddi, va anche espresso e vissuto attraverso degli incontri umanamente caldi. Su questo bisogna avere una riflessione operativa che comporti un chiarimento sulle professioni che chiamiamo "di aiuto". Ma prima di abbordare quest’ultimo punto della nostra riflessione conviene ancora esaminare l’aspetto della riduzione dell’ handicap legato proprio alla possibilità che vi siano maggiori informazioni diffuse e quindi la possibilità che vi siano delle strutture che chiamiamo Centri di Documentazione, ben organizzati e diffusi in una forma che riteniamo debba essere riferita alla dimensione provinciale.

    Studiare il tema del deficit e dell’handicap

    Oltre a questo elemento di diffusione dell’informazione è importante sottolineare quanto sia utile, nello specifico della scuola, permettere e favorire la qualità dell’integrazione nel curricolo, vale a dire la possibilità che chi studia studi anche integrando alle aree disciplinari il tema del deficit e dell’handicap e non lo consideri un elemento di benevolenza, un elemento di solidarietà e una sfida cognitiva. Bisogna che chi è a scuola con un compagno, una compagna handicappata abbia la possibilità di conoscere, cioè di studiare, quello che è l’aspetto scientifico, letterario, artistico, relativo alla tematica del deficit ? handicap a partire anche dallo specifico del compagno, della compagna, cercando, è quasi scontato dirlo in questo contesto, di rispettare l’altro e di sviluppare un livello di dignità nei confronti del tema e delle persone che lo vivono con maggiore intensità.

    Il quadro delle professioni di aiuto

    Abbiamo già fatto riferimento a una necessità di chiarire quelle che sono le professioni definite "di aiuto". Non sono necessariamente le sole professioni che hanno a che fare con il deficit ma riguardano l’arco di vita di ogni individuo. Nelle professioni di aiuto non vi sono unicamente quei ruoli che entrano in contatto con un individuo quando vengono meno delle reti sociali abituali, o quando insorgono dei problemi specifici. Sono professioni di aiuto quelle, e soprattutto quelle, che entrano in rapporto con un bambino, una bambina, al momento che frequenta un nido, una scuola dell’infanzia, un percorso scolastico, una polisportiva, ecc. Quindi le professioni di aiuto sono quelle che permettono di sviluppare la propria crescita e la propria vita per tutto l’arco della stessa. Vi sono poi delle specificità che riguardano i momenti o le situazioni che esigono delle attenzioni particolari.
    Questa definizione delle professioni di aiuto, come si può capire, è sufficientemente ampia da comprendere una quantità di professioni sfumata verso quelle che hanno dei ruoli sociali senza avere un mandato specifico di aiuto. E’ quasi evidente che nella vita sociale la possibilità di vivere in una situazione in cui i negozi sono presenti e hanno degli esercenti di una certa qualità umana permette di vivere meglio. La possibilità di avere dei mezzi di trasporto pubblici decenti permette di vivere meglio. Queste, quindi, sono figure sfumate. Tante altre professioni sono anche queste relative a un certo aiuto a una qualità della vita.

    Ridefinire il quadro delle professioni di aiuto

    Ma il fuoco, cioè il nucleo centrale delle professioni di aiuto, sono quelle che hanno a che fare con il binomio educazione?salute, per tutto l’arco della vita. E queste professioni hanno in questo momento storico un quadro molto poco chiaro: poco chiaro il ruolo degli educatori professionali in rapporto agli insegnanti, poco chiaro il rapporto tra riabilitatori e volontariato.
    E’ quindi necessario ridefinire un quadro delle professioni di aiuto in cui sia possibile individuare i percorsi formativi e i collegamenti, le connessioni, fra una professione e l’altra. Questo oltre ad essere un elemento importante per il tema della riduzione dell’ handicap costituisce anche un elemento importante per il controllo e la qualificazione della spesa. Non saremmo molto soddisfatti se ci fosse unicamente il controllo della spesa non accompagnato da una qualificazione della spesa relativamente alle professioni di aiuto. Mancando un quadro è complicato, se non impossibile, avere una definizione della finalità della spesa, e quindi una qualificazione sua progressiva. Investire in un quadro sicuro significa poter poi avere delle progressive riduzioni della spesa o comunque avere vantaggi tali da permettere delle forti economie. E anche questa è una riduzione dell’ handicap perché, lo abbiamo potuto constatare vivendo questo problema, l’assenza del controllo della spesa può portare a delle ondate favorevoli seguite poi da riflusso, e rendere il tutto molto precario.
    E’ questo il punto importante della riduzione dell’ handicap legato allo specifico del quadro delle professioni di aiuto: uscire da una sensazione, che non è solo un sentimento ma è anche un dato, di precarietà, di provvisorietà: quello che mi è offerto oggi è incerto che io me lo ritrovi domani.

    Un esempio: il Poli Handicap Adulti

    Un esempio: nella realtà in cui opero sono presenti delle strutture specifiche che riguardano gli handicappati adulti. Sono state indicate come Poli Handicap Adulti con una sintesi di vocaboli e di dizione che non è perfettamente adeguata alla comprensione di ciò che fanno. Dovrebbe essere Poli per la riduzione dell’handicap in persone adulte, ma diventa molto lungo e allora la sintesi è Polo Handicap Adulti. E questa è una realtà importante perché permette di avere una struttura leggera composta da non molti operatori capaci di connettere i diversi interventi e di seguire per un arco di tempo molto ampio i soggetti che hanno delle esigenze particolari. Ma la sensazione che molte persone che si rivolgono a questi servizi hanno è di avere a che fare con una struttura ai limiti del provvisorio e sicura fino a un certo punto, con operatori che non sono sempre garantiti del prosieguo del loro lavoro. Vi sono a volte cambiamenti dovuti al fatto che il contratto di un operatore scade, o si è passati a regime con dei cambiamenti di personale, cambiamenti che non sono stati bene illustrati e che quindi vengono capiti come conferma di grande provvisorietà.
    Il riferimento al tema del quadro delle professioni di aiuto vuol dire rimboccarsi le maniche, per ridurre questo handicap così grande che è la provvisorietà, la precarietà, per dare invece una possibilità progressiva di certezze. Avere delle certezze è uno degli elementi fondamentali della riduzione dell’handicap. Ed è per questo che il punto conclusivo fa riferimento alla parola "quadro", come a qualcosa che ha un insieme, che deve costituire un insieme in cui gli elementi dinamici possono e devono sussistere: elementi di crescita, di maggiore precisazione, di cambiamenti continui, ma all’interno di un quadro che dà sicurezza di certezze.
    Concludiamo con un nota inevitabile. Il tema "riduzione dell’handicap" è enorme e quindi abbiamo dovuto per forza scegliere alcuni dei punti su cui svolgere una certa riflessione. Lo abbiamo fatto con la convinzione che siano punti nodali, che non siano esaustivi ma permettano di irrigare un ampio territorio e di arrivare ad elementi più nascosti e forse importanti che a prima vista non si scorgono. Questa è stata la scelta per affrontare un tema così vasto, così importante ed anche, sia detto senza retorica, così appassionante.

    Narrare e informare sull’handicap acquisito

    EditorialeLo si indica un po’ tecnicamente con il termine di handicap acquisito e, come tutte le definizioni che si basano su poche parole, rischia di diventare un’etichetta che si appiccica a quelle persone che, nel corso della vita per via di un incidente o di una malattia, sono diventate disabili.
    Persone quindi che non sono nate con un deficit, persone che hanno un prima e un dopo da confrontare. Un dopo che si presenta sempre tragico e insopportabile ma che, con il passare del tempo, può portare delle novità – può sembrare assurdo – positive.
    Non per tutti. Non tutti passano per la strada dell’accettazione della diversa condizione, una strada che conduce alle parti più intime del sé e nei rapporti con gli altri.
    Quando la redazione di HP in collaborazione con Alfa Wassermann, ha deciso di dedicare un numero monografico a questa tematica sapevamo già che l’avremmo fatto passando attraverso percorsi nuovi.
    Come Centro di Documentazione avevamo sotto mano le pubblicazioni e le riviste di settore e avevamo un’idea chiara di quanto era stato fatto. Innanzitutto le guide e i manuali – utilissimi – fatti da medici e/o pazienti che danno indicazioni tecniche e psicologiche su come affrontare i vari aspetti del problema; come risolvere i problemi di incontinenza? E quelli relazionali? Cosa fare per la mobilità? E così via. Anche le riviste specializzate trattano soprattutto certi argomenti come la vita indipendente, la domotica, la riabilitazione, le esperienze dirette…
    Partendo da queste conoscenze abbiamo progettato un numero molto particolare, che è costato molti sforzi interni ed esterni al gruppo redazionale.
    Siamo partiti dalla constatazione che migliorare la qualità della vita di un disabile, non significa solo aiutarlo da un punto di vista tecnico ma anche CULTURALE; l’ausilio medico deve essere supportato anche da altro, da solo non basta, occorre aiutare la persone svantaggiata a ricostruirsi un proprio progetto di vita e questo può essere fatto passando attraverso la cultura, la relazione, la messa in discussione degli stereotipi. Questa vale anche per il sostegno psicologico che da solo non basta ma va messo in relazione a molte altre cose. Questa scelta è anche coerente con il nostro metodo di lavoro e con la nostra esperienza che ci ha portato a privilegiare l’approccio culturale piuttosto che quello medico e tecnico.
    Abbiamo così deciso di parlare di handicap acquisito (ritorniamo così per comodità alla nostra etichetta) attraverso la NARRAZIONE e l’INFORMAZIONE, altri due percorsi a noi abituali.
    Il narrare, si sa, può essere il mezzo attraverso cui si possono dire cose di cui si ha paura parlarne o di cui non se ne viene a capo perché sono oscure e misteriose. E le narrazioni che vi proponiamo utilizzano generi molto diversi tra loro: la letteratura, il fumetto e il cinema.
    Attraverso l’analisi di una serie di scritti autobiografici (di cui vi proponiamo anche due stralci) abbiamo cercato di capire il ruolo che il corpo, il tempo, la memoria e la quotidianità giocano nella vita di queste persone. Attraverso la rassegna di una serie di film abbiamo analizzato il modo in cui il cinema ha affrontato il tema, così spesso legato alle storie dei reduci di guerra.
    Se un’analisi di questo tipo attraverso il genere letterario e quello cinematografico ha già dei precedenti, quella che facciamo attraverso il fumetto è proprio originale; il fumetto così relegato nell’immaginario comune al mondo dei bambini o a quello di avventura, mostra di essere in molti casi vicino alla tematica, magari proprio quando si parla di supereroi. Le capacità del fumetto di esprimere anche solo nello schizzo di un volto tutto un "lungo racconto" sulla vita di un disabile (racconto libero oppure impermeato di pregiudizi), ci ha portato a proporre alcune strisce degli autori che si menzionano nell’articolo.
    Infine l’informazione; nell’atto di informare già plasmiamo la persone che ci leggono; suggeriamo delle idee che a loro volta andranno a rafforzare o a indebolire certe convinzioni e pregiudizi. Anche se non c’è unanimità in questa affermazione, pensiamo comunque che in una società dell’informazione quale è quella in cui viviamo, dove la merce più preziosa è diventata l’informazione ed è povero chi ne è escluso, sapere che tipo di informazione viene data dai mass media sul tema dell’handicap acquisito, è un punto centrale.
    Lo abbiamo fatto realizzando un monitoraggio degli articoli apparsi su cinque quotidiani nazionali per un periodo di un mese e mezzo. Abbiamo, infine, ripetuto la stessa operazione, naturalmente con modalità molo diverse, analizzando l’informazione che passa attraverso i siti web dedicati all’argomento (con un occhio anche alla padronanza dimostrata nell’uso delle nuove tecnologie).

    L’integrazione scolastica su internet

    In questo intervento cercheremo di fare una mappa delle risorse informative italiane presenti su internet. Daremo un’informazione essenziale di ciò che esiste, facendo delle recensioni dei vari siti dedicati al tema dell’integrazione scolastica.
    Non useremo un linguaggio per iniziati e là dove invece saremo costretti ad usare delle parole tecniche e straniere, ne forniremo una breve spiegazione.
    Questo spazio non si propone di fare una sorta di alfabetizzazione telematica (anche se poi indirettamente è anche questo), ma di dire, al di là dei luoghi comuni, cosa si può effettivamente trovare sul web (le pagine di internet) e quali sono gli strumenti e i modi per cercare le informazioni.Tanta o poca informazione?

    Se dovessimo dare una risposta secca a questa domanda dovremmo allora dire che sul web le risorse informative dedicate al nostro tema non sono poi tante e che le nostre poco virtuali biblioteche cittadine ne contengono molte di più. Ma sarebbe anche ingiusto liquidare così l’importanza dell’informazione telematica che a differenza di quella cartacea è in continua evoluzione e può conoscere impennate stupefacenti.
    Chi vuole ricercare informazioni su internet a proposito di integrazione scolastica (soprattutto quella che si riferisce ai disabili) deve rendersi conto subito di due cose; che è fortunato, perchè tutto ciò che si riferisce alla scuola ha maggiore probabilità di essere rappresentato adeguatamente in rete ma che si ritroverà anche a fare i conti con i soliti limiti di risorse informative. Non si trovano, se non in piccola misura, dei libri fruibili on line, ma solo (e neanche tanti) delle relazioni, degli articoli di esperienze o commenti; non si possono scaricare dei software che aiutano (ad esempio) nell’apprendimento scolastico, ma solo delle descrizioni o dei "demo". Si troveranno invece molti indirizzi, elenchi di software, descrizioni di servizi e….gli orari di apertura (dei Centri, delle scuole, delle associazioni promotrici).
    Questi limiti, pensiamo, sono solo temporanei, occorrerà solo ancora un po’ di tempo prima che la rete possa essere "riempita" delle risorse necessarie che permettano ad un insegnante, ad un disabile e ai suoi genitori di trovare quello che si desidera.

    Inizieremo la nostra indagine con dei siti espressamente dedicati all’argomento e proseguiremo più avanti conoscendo quei siti che si occupano di scuola semplicemente e al cui interno hanno delle sezioni speciali. L’università e le scuole hanno una presenza sul web, in Italia, veramente imponente rispetto alla realtà media nostrana e, nascoste tra le pieghe, troveremo molto materiale interessante. All’inizio di ogni recensione vi sarà il nome del sito, il suo indirizzo (url) su web e infine, il suo indirizzo di posta elettronica (email).

    Settore Integrazione del Provveditorato agli Studi di Bologna
    http://provvbo.scuole.bo.it/glip/glip.htm
    email: GLIP@bellquel.bo.cnr.it

    Questo è l’indirizzo del sito curato dal GLIP di Bologna; un sito essenziale, con pochi fronzoli grafici, ma che fornisce del materiale piuttosto consistente.
    La home page (HP) del sito riporta al centro un collegamento (link) ad un’altra pagina che tratta degli accordi di programma applicazione dall’articolo 13 della legge 104/92. Sono scaricabili sul proprio computer sia la legge quadro che l’accordo di programma .
    Nella colonna destra della home page vi sono i collegamenti a "Insieme", "Guida-agenda per i genitori degli alunni disabili ed i loro operatori scolastici e socio-assistenziali, un vademecum – come si legge – curato dal Gruppo di lavoro Interistituzionale Provinciale, che si offre come aggiornata e agevole guida per meglio conoscere punti di riferimento normativi, interventi, percorsi formativi per l’attuazione dell’integrazione scolastica degli alunni disabili. Questo sussidio viene proposto a breve distanza di tempo dalla sottoscrizione degli Accordi di Programma da parte dei rappresentanti delle istituzioni pubbliche, alle quali è affidato il delicato impegno di assicurare il miglior inserimento scolastico e sociale in relazione alle potenzialità e difficoltà di ciascun giovane".
    La descrizione dell’accordo provinciale di programma è diviso in un indice molto dettagliato che comprende un chiarimento terminologico, i riferimenti legislativi, la situazione per i vari ordini e gradi scolastici, tratta del Profilo Dinamico Funzionale, del Piano Educativo Personalizzato e del personale per l’integrazione. Per finire il testo si occupa dell’assistenza alla persona, della valutazione differenziata, delle agevolazioni sul lavoro e del ruolo delle associazioni di volontariato.
    Tutti i testi sono scaricabili più velocemente cliccando direttamente sulla parole "Scarica il testo in un file".
    Il sito si ramifica in molte sottopagine dove è possibile entrare molto nel dettaglio; la mancanza però di alcuni accorgimenti per rendere più facile l’orientamento al visitatore, lo rendono un sito in cui ci si può perdere.

    CDI – Rete Regionale dei Centri di Documentazione per l’Integrazione
    http://www.accaparlante.it/cdri/index.htm
    email: asshp1@iperbole.bologna.it

    Documentare, informare e formare nel sociale, in special modo nel campo
    dell’integrazione scolastica, è questa l’argomento principale di questo
    sito che è l’espressione di ben 18 Centri di Documentazione sparpagliati
    per tutta l’Emilia Romagna.
    Per adesso sono solo 7 i centri che hanno cominciato a riversare il loro
    materiale in rete il CIDEF di Rimini, i Centri Documentazione Handicap di
    Modena, Cesena, Savignano sul Rubicone, Ravenna, Rimini e Bologna,
    quest’ultimo è anche quello promotore dell’iniziativa.
    Il materiale per adesso disponibile riguarda alcune indicazioni generali
    sui 18 centri e una presentazione approfondita di quelli sopracitati.
    Per quanto riguarda la scuola nel pagine del Centro Documentazione Handicap di Bologna si può trovare del materiale interessante sul Progetto Calamaio (educazione alladiversità all’interno delle scuole) e nell’archivio dellarivista HP. Altri centri come quello comunale di Bologna, hanno messo in rete parecchio materiale sull’esperienze e sui testi che la loro biblioteca possiede .
    Il sito è rivolto ad un utenza piuttosto variegata, dal disabile
    all’operatore sociale, all’insegnante, a tutti coloro che sono interessati
    alla tematica dell’handicap e dell’integrazione. L’informazione viene data
    con un linguaggio sobrio e sintetico, pur nella complessità di alcuni
    argomenti, e con un occhio attento all’organizzazione grafica della pagina
    molto curata.
    L’utente può comunicare direttamente con tutti i centri dotati di E-mail
    per richieste, chiarimenti…e in futuro verranno allestite pagine dove
    sarà possibile una forma di interattività maggiore.

    Progetto Scuola Handicap
    Provveditorato agli studi di Venezia
    http://www.provincia.venezia.it/psh
    email::renax@tin.it (Renato Ceccon)

    Sito molto ricco di informazioni, uno dei migliori; al suo interno si può trovare Leo-Link Bbs, una banca dati "organizzata per librerie dedicate alla documentazione e al software nelle quali si trovano materiali e programmi dimostrativi, shareware e di pubblico dominio". I servizi che offre possono essere pienamente ottenuti tramite un’iscrizione a Leo-Link che funziona (pur essendo su internet) come una vecchia Bbs, le banche dati collegate in rete antecedenti alla diffusione di internet. Da questa "tradizione telematica" mantiene il rapporto di collaborazione stretto che richiede agli iscritti, magari solo attraverso le segnalazioni dei difetti nei software distribuiti o di nuove risorse da poter acquisire. Sempre in questo solco garantisce un’alta interattività con gli utenti attraverso "Poster, la bacheca degli utenti", un’area dedicata alle iniziative, ai progetti e ai problemi, alle richieste di aiuto degli iscritti a Leo-Link. Un’altra interessante iniziativa è rappresentata da "H-NEWS, rassegna stampa in rete. H-News propone settimanalmente una selezione degli articoli inerenti alle problematiche dell’handicap apparsi sulla stampa quotidiana della provincia di Venezia e i pezzi maggiormente significativi di ambito regionale e nazionale. Gli articoli, in formato immagine .gif, sono archiviati nella libreria H-NEWS a disposizione degli utenti per il download" (poter memorizzare sul proprio computer i testi).
    Si deve tenere presente che il materiale di Leo-Link è solo parzialmente dedicato al tema dell’integrazione scolastica. Altre risorse presenti nel sito invece dedicate interamente al tema puntano alle pagine del "Laboratorio Tiflotecnico Tiflopedagogico" (minorati della vista) e alla rivista "Il Bollettino Scuola Handicap".
    Segnaliamo infine i "Laboratori Assistiti Produzione IperteSti (ipertesti fatti in classi dove sono presenti alunni disabili) ", dove sono organizzati anche dei corsi di formazione rivolti "ai docenti di sostegno e curriculari delle scuole elementari, medie e superiori della provincia che collaborano all’interno della loro classe per l’integrazione di alunni in situazione di handicap e che intendono avvalersi delle opportunità offerte dalla didattica multimediale per la realizzazione di materiali ipertestuali nell’attività didattica della classe". Gli ipertesti vengono però solamente presentati e non è possibile scaricarli dalla rete.

    CDH Commissione Disabilità e Handicap-Università di Padova
    http://www.unipd.it/cdh/
    email: wwwcdh@ux1.unipd.it

    Disabilità e università, è questo il binomio attorno cui ruota tutta l’informazione che è possibile reperire all’interno di questo sito che risulta così fortemente specializzato sull’argomento con un riguardo particolare alla situazione dell’università di Padova.
    Il sito è espressione della Commissione Disabilità e Handicap della sopracitata università, creata nel 1994 con l’intento di programmare alcuni interventi a favore degli studenti disabili iscritti.
    I temi trattati dal sito riguardano il diritto allo studio, la diffusione di una nuova cultura dell’handicap, l’accessibilità all’informazione su internet da parte dei disabili (fornendo numerose indicazioni, soprattutto all’estero, su dove trovare dei programmi di questo tipo o semplicemente riportando il resoconto dei dibattiti). Una particolarità di questo sito è l’impronta fortemente locale. Molte informazioni riguardano la situazione dell’università di Padova in termini di servizi e opportunità offerte, indirizzi utili, statistiche riguardo il numero degli studenti disabili frequentanti…Dalla fine del 1996 è stato formalizzato ed è attivo un coordinamento ufficiale tra le università venete (Padova, Verona, Ca’ Foscari e I.U.A.V.), per la programmazione di attività comuni per realizzare il diritto allo studio degli studenti disabili.
    H2000 Associazione Universitaria Ragazzi più o meno Abili (URL: http://www.citinv.it/associazioni/H2000/index.html, e-mail: roberto.mancin@citinv.it, Roberto Mancin) è sito degli studenti universitari disabili di Padova, ma, purtroppo, non è più aggiornato da un bel po’ di tempo.

    Gli insegnanti di sostegno vanno in rete

    Asse portante del processo di integrazione, anche gli insegnanti di sostegno hanno imparato a servirsi della rete ma, nella maggior parte dei casi, il loro esserci si limita alla presentazione della propria associazione di appartenenza.
    F.A.D.I.S. (Federazione Associazioni Docenti per l’Integrazione Scolastica)
    http://www.freeweb.org/varie/fadis/
    e-mail: bomarzo@tin.it (Nicola Quirico)
    Un piccolo sito che si occupa di un aspetto importante del tema, quello degli insegnanti di sostegno, quelle persone che vivono quotidianamente la fatica dell’integrazione. Le Federazione nasce come reazione agli interventi legislativi previsti nelle ultime finanziarie, che hanno visto un restringimento delle risorse destinate all’integrazione scolastica (diminuzione del personale addetto al sostegno, ridimensionamento del rapporto tra insegnante specializzato e alunni…). Le risorse informative non sono vaste (e a volte rese meno fruibili dal fatto di essere importate sulla pagine web come immagine) ma sono un importante punto di vista.
    L’A.P.I.S. (Associazione Provinciale Insegnanti di Sostegno)
    http://www.comune.fe.it/apis
    email: bomarzo@tin.it
    Sito dell’associazione insegnanti di sostegno della provincia di Ferrara e aderente alla F.A.D.I.S. presenta una home page (pagine iniziale) con una serie di link (collegamenti) che portano ad una raccolta di documenti di natura diversa: una serie di articoli pubblicati da giornali riguardanti per lo più la situazione locale (Sulla stampa), materiale di aggiornamento sui propri corsi e sulle normative (Aggiornamenti e Adempimenti normativi), e un serie interessanti di collegamenti ad altre risorse presenti in rete; uno di questi porta all’A.P.E.I.S.H.A. (http://freeweb.aspide.it/freeweb/apeisha/), un’altra associazione di insegnanti di sostegno, ma questa volta della provincia di Trento; altri siti simili da segnalare sono l’I.S.P.F. (Insegnanti di sostegno della provincia di Frosinone) – http://members.xoom.it/handicap/ e L’A.I.D.I. (Associazione Italiana Docenti di Sostegno) – http://freeweb.aspide.it/freeweb/apeisha/page8.htm.

    Alla ricerca dei testi di legge

    Cercare un testo di legge su internet può dare parecchie soddisfazioni, perché a differenza di altre risorse, le fonti legislative sono ben riportate in rete e si può trovare pressoché tutto; il sito del Parlamento (www.parlamento.it) è molto completo, ma esistono luoghi, o meglio sezioni di siti che si sono specializzati nella raccolta di leggi riguardanti l’integrazione scolastica. Uno dei più completi è quello offerto da Handylex (curato dall’associazione nazionale Uildm); il sito è una raccolta completa di leggi sull’handicap in generale, ma una sua parte, rintracciabile all’indirizzo web http://www.handylex.org/indici/educ.shtml, è dedicato alla scuola.
    Le fonti normative sono di vario tipo (leggi, decreti, sentenze, circolari, ordinanze) e sono suddivise per i seguenti argomenti: ordinamento scolastico, iscrizioni, valutazione e prove d’esame,
    piano educativo individualizzato, diagnosi funzionale, profilo dinamico funzionale, insegnanti di sostegno e azione di sostegno, accordi di programma per il diritto allo studio, gruppi di lavoro interistituzionali provinciali (glip), formazione e tirocinio professionale.
    Facciamo un esempio concreto di ricerca; ad esempio cliccando sul link che porta alle norme riguardanti "insegnanti di sostegno e azione di sostegno" troviamo ben 12 riferimenti di legge (anche di carattere locale) anche se l’ultimo riferimento legislativo risale al 1997. Andando in una categoria più generale possiamo però verificare che gli aggiornamenti sono più recenti e l’ultimo risale al gennaio 1999. Visto il mezzo (internet) ci si aspetterebbe un aggiornamento più frequente.
    Andando a visitare il CDG (Centro Documentazione Giuridica) della UIC(Unione Ciechi Italiani) si può trovare al seguente indirizzo (http://www.uiciechi.it/cdg/ist/legisl/istidx.htm) una lunga raccolta di leggi tematiche che risale fino al 1923; ma anche qui l’ultimo aggiornamento risale (come dice il fondo pagina al 1998).

    Le mailing list: una grande risorsa per l’integrazione

    La rete telematica non si esaurisce nelle pagine web dei siti che abbiamo commentato nelle scorse puntate; oltre a questi, anzi più di questi, esiste un’altro strumento per comunicare in rete, la posta elettronica. Facile da usare, veloce quasi in tempo reale, l’email è uno strumento essenziale per chi voglia documentarsi e informare sul tema dell’integrazione scolastica. Le pagine web si sfogliano con il browser (Internet Explorer o Netscape per lo più), si leggono in modo affrettato perché quando lo fai stai pagando una connessione telefonica, raramente puoi replicare o dire la tua.
    Con la posta elettronica le cose cambiano radicalmente. Quando scrivi un messaggio o lo leggi, lo fai rigorosamente off line (non connesso) e per inviarlo o per scaricare la posta che gli altri ti hanno spedito, la spesa si riduce a pochi scatti telefonici. E ancora, quando scrivi, scrivi per qualcuno da cui aspetti, probabilmente, una risposta, l’azione quindi è molto più coinvolgente che quella della navigazione su internet. La telematica non è solo quella pubblicizzata dai mass media e dalla pubblicità, ma offre altre opportunità per chi voglia documentarsi, informarsi o semplicemente chiacchierare sui temi dell’integrazione scolastica. E, accanto ai newsgroup (gruppi di discussione su web di cui parleremo in un’altra puntata), uno degli strumenti più pratici per farlo sono le mailing list. In Italia su internet esistono diverse liste dedicate all’handicap, di cui solo due specificamente dedicata al nostro tema (Dwhandicap e Lista Vista).

    Che cosa sono le liste di discussione

    Le mailing list sono dei gruppi di discussione che avvengono tramite la posta elettronica. Per poter partecipare occorre iscriversi mandando un messaggio ad un particolare indirizzo e scrivendo nel corpo del messaggio, nella maggior parte dei casi, la parola subscribe. Dal momento in cui uno si è iscritto riceve tutti i messaggi che gli altri iscritti mandano in lista e ogni suo messaggio (mandato ad un unico indirizzo, quello della lista) viene ricevuto da tutte le persone che in quel momento sono iscritte. Di solito a gestire automaticamente tutte queste operazioni è un particolare computer che può adottare programmi differenti (listserv, majordomo, listproc, smartlist…). Sempre grazie a questi computer è possibile eseguire altre operazioni, come la disinscrizione (unsubscribe) o la richiesta dell’elenco dei partecipanti (who is). Le operazioni che sono possibili dipendono da quali applicazioni usa il computer addetto e da altre scelte volute dall’operatore di sistema. L’informazione, nel caso delle liste, arriva direttamente alla persona, nella sua casella di posta elettronica e questo è un elemento da non sottovalutare, dato che l’utente non ricerca, ma riceve direttamente le notizie senza nessun sforzo (se non quello successivo di rispondere o partecipare al dibattito). Come per i giornali e gli altri mass media tradizionali, le mailing list sono lette da un numero di persone maggiore rispetto a quelle che intervengono direttamente nella discussione, anche se l’interattività, la possibilità cioè di partecipazione offerta dal mezzo telematico è proporzionalmente superiore. Le dimensioni di una mailing list sono molto variabili; si può passare dai 100 iscritti ai 10.000, con un traffico variabile di messaggi settimanali da 5 a più di cento. Una mailing list può essere moderata da una persona che provvede sia per gli aspetti tecnici (owner) che per quelli redazionali e si preoccupa del rispetto del tema e delle regole.

    Tutte le informazioni utili

    Di seguito riporto l’elenco delle principali maling list presenti su internet; per ciascuna vengono descritte le modalità di iscrizione, l’indirizzo e il nome del moderatore e il tema caratterizzante la discussione (anche se molto spesso succede che i messaggi riguardino la tematica dell’handicap in generale).

    Mailing list Didaweb (dw-handicap)
    L’iscrizione avviene scrivendo al seguente indirizzo: dw-handicap-subscribe@egroups.com
    Moderatori: Riccardo Celletti, email: r.celletti@mclink.it
    Nicola Quirico, email: bomarzo@tin.it
    Specializzata sulla tematica didattica, disabilità, integrazione e insegnanti di sostegno.

    Lista Vista
    Moderatore Flavio Fogarolo, email:owner-listavista@ilary.keycomm.it
    http://www.pqs.org/provvvi/erica/lista/lista.htm
    Lista di discussione sull’uso degli strumenti informatici nella didattica dei minorati della vista.

    Mailing list Handicap e Disagio
    Iscrizione: digitare le parole subscribe nel subject e indirizzarlo a
    pck-disagio-request@peacelink.it.
    Moderatore: Nicola Rabbi, email: smiling.turtle@gmx.net

    Un educatore professionale per minori in situazione di disagio

    “L’educatore professionale rappresenta, pertanto, un “nodo” rilevante, in quanto punto di incontro di diversi “fili”, della rete di relazioni in cui è coinvolto il minore che gli è stato affidato. La capacità di gestione di questa situazione è la sfida cui è chiamato a rispondere”.

    L’intervento a favore di minori in situazione di disagio implica necessariamente un articolato confronto fra realtà anche molto diverse tra loro quali famiglia, scuola, agenzie extrascolastiche, servizi territoriali, tutti contesti in cui è indispensabile coordinare e monitorare la rete di relazioni creatasi, onde evitare disfunzioni o incomprensioni fra i soggetti sociali coinvolti. È necessario dunque individuare persone che conoscano i vissuti dei minori e che, allo stesso tempo, sappiano dialogare con le realtà, istituzionali e non, presenti sul territorio.
    Questo è l’ambito di intervento dell’educatore professionale che, operando in favore della persona, considerata nella sua globalità e non solo rispetto ad uno specifico "disturbo" o "patologia", deve saper cogliere le possibilità di promozione del soggetto nei luoghi in cui si attua la vita di questi.
    La professionalità del lavoro dell’operatore è garantita non solo dal ruolo che egli svolge all’interno di una particolare associazione, ente o servizio, ma soprattutto, come evidenzia Canevaro, dalle diverse committenze cui deve rendere conto: gli utenti e le loro famiglie; i diversi amministratori che supervisionano il suo operato; gli altri professionisti (psicologi, medici, assistenti sociali, insegnanti…) che intervengono sul caso .
    L’educatore professionale rappresenta, pertanto, un "nodo" rilevante, in quanto punto di incontro di diversi "fili", della rete di relazioni in cui è coinvolto il soggetto che gli è stato affidato. La capacità di gestione di questa situazione è la sfida cui è chiamato a rispondere.

    La relazione educativa

    Il minore che vive una situazione di sofferenza non sempre trova in se stesso le risorse attraverso cui superare la crisi che sta vivendo. Spesso, non riuscendo a spiegarsi razionalmente i sentimenti che prova, agisce le proprie emozioni esteriorizzandole nella condotta: tali atteggiamenti, in un qualche modo, gli consentono di affrontare i problemi da cui è afflitto, costituendo una risposta adattiva alla difficoltà incontrata.
    La situazione si complica nel momento in cui l’adulto considera tali manifestazioni una componente intrinseca della personalità del minore, che viene così visto come "cattivo" o pigro "di natura" o come uno che "non ci arriva".
    Il circolo vizioso si completa nel momento in cui il soggetto, una volta interiorizzata l’identità negativa che gli viene attribuita dall’esterno, struttura uno stile relazionale congruente con quell’immagine.
    Si comprende, pertanto, come la preoccupazione principale dell’educatore debba essere quella di promuovere un’azione capace di restituire al minore una visione positiva della propria persona, delle proprie attitudini e potenzialità. In particolare, la possibilità di questo cambiamento si definisce in rapporto alla qualità della relazione interpersonale instauratasi fra educatore ed educando.
    Come afferma De Giacinto, "la relazione è ciò che costituisce il nucleo dell’educazione" : se infatti consideriamo l’educazione come "una trasmissione di apprendimenti selezionati, che aiuta il soggetto a svolgersi ed a svilupparsi" , allora tale trasmissione sarà tanto più efficace quanto più la relazione tra educatore ed educando sarà intensa e, per se stessa, ricca di significati. Questo perché l’educazione è essenzialmente "una relazione d’amore (…). È un’esplosione vitale compiuta dall’incontro tra due soggetti e, seppur in modo differente, generativa da ambo le parti" .
    Di conseguenza, l’operatore dovrà disporre di strumenti teorici e metodologici che gli consentano di monitorare l’andamento della relazione, mutando, all’occorrenza, i propri stili comunicativi o le strategie di intervento.
    Un dato che emerge con forza dalle riflessioni di molti studiosi, è la necessità di uscire da modelli incentrati sui problemi e sulle carenze del soggetto per promuovere, piuttosto, modelli di intervento centrati sulle risorse e sulla salute del soggetto . In particolare, Bertolini ritiene che la relazione educativa debba rappresentare lo strumento attraverso cui l’educatore può intervenire, non tanto sulle specifiche condizioni che influiscono sullo stato di malessere provato dal soggetto, quanto, piuttosto, sul sistema di significati che il minore ha attribuito a quelle difficoltà materiali e che lo hanno indotto a strutturare determinati comportamenti. Il fulcro del problema risiede nel tipo di lettura che la persona effettua della propria situazione, nei processi di attribuzione di senso con cui investe i propri vissuti. A questo livello deve incidere il rapporto privilegiato che il minore intrattiene con l’educatore: la relazione educativa deve costituire il contenitore sicuro entro cui si rende possibile, da parte del ragazzo, una rivisitazione della propria storia ed una ristrutturazione della propria personalità .
    In questo contesto, il minore potrà prendere coscienza dei limiti e dei vincoli con cui deve confrontarsi giorno per giorno: tale consapevolezza, se sarà sorretta dall’attenta presenza dell’adulto, non condurrà ad un ripiegamento, ma rappresenterà quello sguardo critico che consentirà al ragazzo di conferire nuovi significati alla propria esistenza. Come afferma Canevaro, scopo ultimo della relazione è la strutturazione, nell’educando, di una "personalità integrata", che riesca "a memorizzare, a far tesoro di tutte le informazioni, anche degli errori, per capire come evitarli, per organizzarli in un progetto e per costruirsi un codice condiviso, per avere (…) poche linee di coerenza, pochi punti importanti ben memorizzati, e non un labirinto di piccole regole che non si ricordano" . L’obiettivo è quello della responsabilità: si tratta di compiere il fatidico passaggio dall’educazione all’autoeducazione.
    Bisogna tuttavia tenere presente che la credibilità della proposta educativa si gioca soprattutto sulla capacità dell’educatore di testimoniare che l’orizzonte di vita prospettato è concretamente attuabile e che il difficile cammino che conduce al miglioramento di se stessi è da tutti percorribile. Inoltre, la naturale diffidenza che manifesta chi, per vari motivi, ha sofferto, può essere superata solo se l’adulto dimostra sincero interesse per il bene del ragazzo, se è disposto ad accettarlo, a comprenderlo, a valorizzare le sue potenzialità.
    Perché ciò avvenga, l’educatore deve necessariamente porsi di fronte al minore come adulto significativo che: " interpreta la propria esistenza in modo interessante, e che – proprio perché ricco di valori e di interessi – è in grado di partecipare a quanti gli sono vicini questa sua personalità armonica. Incontrando adulti significativi il giovane può essere sollecitato verso orizzonti nuovi di riferimento, può individuare un modello concreto che gli indica la possibilità di comporre le proprie esigenze con un quadro ampio di riferimento" .
    La relazione educativa, pertanto, si evidenzia come frutto di una delicata armonia di rapporti che si sostiene sulla volontà degli interlocutori di mettersi in gioco, di conoscersi e di aiutarsi vicendevolmente, ognuno secondo le proprie capacità ed il proprio ruolo. In questa dinamica, se, da una parte, l’educatore deve stare attento a non cadere in deliri di onnipotenza tendenti a guidare la volontà dell’educando entro parametri precostituiti, dall’altra dovrà porre pari attenzione a mantenere una certa salute mentale che gli consenta di avere uno sguardo critico sulla relazione e sulle proprie condotte. A questo proposito, E. Ducci fa notare come un’educazione che si trasformi in una dipendenza tale per cui l’altro non può fare a meno di noi non è altro che un’espressione di egoismo. Come afferma l’autrice: "la si potrebbe indicare come mancanza di fantasia, se non fosse la carenza più spaventevole nel rapporto umano: l’incapacità di accorgersi dell’originalità dell’altro e acconsentirvi (…). L’effetto che viene prodotto sull’altro è nell’ordine della libertà o, meglio, del soffocamento della libertà" .
    Il discorso educativo autentico, al contrario, si attua soltanto attraverso una "dinamica edificante" in cui l’educatore lavora per aiutare l’educando a camminare con le proprie gambe, a farcela da solo: paradossalmente, il fine ultimo dell’educatore deve essere quello di fare in modo che la sua presenza non sia più necessaria. L’educatore deve saper modificare se stesso nella relazione, deve sapersi nascondere progressivamente, affinché il minore possa divenire protagonista della propria crescita. Solo così l’opera dell’educatore si connota come educazione all’autonomia, alla responsabilità, alla libertà.

    Un ambito privilegiato di intervento: la famiglia

    L’educatore professionale che opera nell’ambito del disagio minorile è forse la figura che più di altre può svolgere una funzione significativa anche rispetto alla famiglia del soggetto con cui è in relazione: sia perché il benessere del minore, la sua voglia di essere educato e di educarsi, dipendono anche dalla possibilità di rappacificarsi con il proprio passato, accettando le possibili cadute e sconfitte in cui i suoi familiari possono essere incorsi, sia perché, salvo situazioni particolari, il ragazzo è ancora sotto la tutela dei genitori, che rimangono, di conseguenza, i primi educatori cui deve fare riferimento.
    Spetta perciò all’educatore l’attuazione di una delicata azione di mediazione che si svolga secondo una duplice direzione: da un lato dovrà favorire il dialogo fra il minore e la propria famiglia; dall’altro egli rappresenterà, a motivo delle sue stesse funzioni, il tramite fra la famiglia, i servizi e le istituzioni.
    Di fronte ai problemi che un minore in situazione di disagio può manifestare, accade infatti che molti genitori provino un profondo senso di inadeguatezza. Un sentimento che è dovuto non solo alle carenze o alle disfunzioni proprie del nucleo familiare, ma anche al prevalere di una cultura che vede l’educazione come una questione per esperti e che quindi qualifica come genitore efficace quello il cui figlio cresce bene. Il problema è che spesso, davanti alle prime difficoltà del ragazzo la famiglia fa ricorso a specialisti, delegando a questi le proprie specifiche funzioni educative, senza ricercare in se stessa le risorse per affrontare le difficoltà.
    È la difficile questione del "percorso fra sapienti e genitori" di cui parla Canevaro , in cui l’educatore è chiamato a svolgere un ruolo di intermediazione fra i due poli, in modo che il rapporto non sia a senso unico (il "sapiente"/specialista fornisce una prestazione e la famiglia la riceve), ma divenga una relazione biunivoca in cui entrambe le parti si arricchiscano vicendevolmente.
    In particolare, secondo Fruggeri, la principale difficoltà che si incontra nell’interazione con le famiglie (anche quando l’intervento è rivolto ad un singolo componente) è quella di comprendere quali conseguenze produca questa nuova relazione in ambito domestico. Infatti, "la fruizione da parte di una famiglia delle risorse fornite dalla rete istituzionale delle agenzie sociali si configura come un evento che diviene parte della sua storia e che in quanto tale è influente nella determinazione del percorso che essa segue" .
    Al contrario, molti operatori tendono a considerare la validità dell’intervento unicamente alla luce delle proprie interazioni con l’utente, senza pensare che, in realtà, l’incisività della loro azione dipende anche dal significato che essa assume per la famiglia e dal contesto relazionale entro cui si attua.
    Nel tentativo di superare tali incongruenze, Fruggeri propone di adottare un’ottica di co-evoluzione: nella quale l’operatore valuta quali siano le ripercussioni del proprio intervento negli ambiti significativi per l’utente e come questi, a loro volta, producano sollecitazioni che influenzano la relazione che il soggetto intrattiene con il servizio. L’operatore, pertanto, deve avere la capacità di organizzare il proprio lavoro "non semplicemente sulla base di che cosa ritiene utile ed evolutivo per l’utente, ma sulla base di ciò che ritiene utile ed evolutivo per l’utente come componente di un sistema familiare" .
    Questa prospettiva risulta significativa perché invita i servizi a valorizzare le risorse presenti nella rete di relazioni in cui l’utente è implicato, scongiurando il rischio di considerare il benessere del soggetto come esclusivo risultato dell’interazione con il professionista.
    Infine, l’interesse di tale ottica deriva anche dal fatto che, "il modello co-evolutivo non riguarda tanto il livello tecnico dell’intervento, quanto quello relazionale. Esso rivolge cioè l’attenzione al livello della costruzione dei significati e dunque al valore che l’intervento espletato viene ad assumere nella vita delle persone. Il modello co-evolutivo si configura perciò come una cornice all’interno della quale può essere collocato ogni tipo di intervento tecnico" .

    L’educatore professionale fra scuola ed extrascuola

    La presa in carico di un minore in situazione di disagio richiede all’educatore professionale la capacità di relazionarsi con il soggetto e la sua famiglia entro un contesto complesso. Nella stragrande maggioranza dei casi, infatti, il lavoro dell’educatore si svolge in servizi, centri o agenzie educative, all’interno dei quali egli è chiamato a rapportarsi con più ragazzi, con altri educatori e a mantenere contatti con altre istituzioni.
    Abbiamo visto quali potenzialità educative siano insite nel rapporto educatore-ragazzo e quale debba essere l’atteggiamento dell’adulto nella relazione ciò, tuttavia, non deve portarci a pensare che le "competenze relazionali specifiche" dell’educatore si esauriscano all’interno di un legame diadico esclusivo. Al contrario, spesso il lavoro dell’educatore si attua in riferimento ad un gruppo di minori o, addirittura, all’insieme degli utenti del servizio: per questi motivi, la sua professionalità si esprime soprattutto nella capacità di guidare e monitorare l’evoluzione comunitaria degli utenti intessendo, allo stesso tempo, un rapporto personale con ogni singolo soggetto.
    L’educatore, pertanto, dovrà essere in grado di valutare l’andamento delle dinamiche di gruppo, di cogliere la strutturazione dei ruoli informali, di anticipare l’insorgere di meccanismi di esclusione, e dovrà padroneggiare tecniche relazionali e comunicative che gli consentano di rapportarsi con i ragazzi nel modo più efficace.
    Dovrà inoltre possedere specifiche competenze di animazione, in quanto gli obiettivi educativi non possono essere semplicemente comunicati, ma devono essere trasmessi attraverso esperienze significative, capaci di mostrare al ragazzo una concreta attuazione dei principi cui l’educatore richiede di conformarsi. Bertolini sottolinea come sia significativo offrire ai minori l’opportunità di dilatare il proprio campo di esperienza attraverso proposte che li conducano a cogliere il bello che sostanzia la loro esistenza, perciò l’educatore è chiamato a guidare i ragazzi in una seria ricerca in questo senso, avendo il coraggio di uscire da attività edulcorate e preconfezionate, coinvolgendoli su grandi progetti, valorizzando le competenze e mobilitando le risorse di cui dispongono, lasciando che l’iniziativa si sviluppi secondo la creatività dei ragazzi, riservandosi, piuttosto, un ruolo di "regia" .
    Continuando a considerare i contesti con i quali l’educatore dovrà entrare in relazione, è facile individuare nella scuola uno dei "nodi" più significativi della trama di relazioni che coinvolge il ragazzo, perciò dovrà conoscerlo quel mondo rispetto al quale la sua azione, per definizione, si differenzia ma con la quale, allo stesso tempo, si integra.
    Per questi motivi, oltre a ricevere una specifica formazione sui problemi inerenti le dinamiche di insegnamento e di apprendimento e sull’organizzazione dell’istituzione, l’educatore deve avere la capacità di relazionarsi con gli insegnanti, attivando percorsi comuni e, quando necessario, progetti individualizzati. A tal proposito, egli deve essere consapevole del significato che gli insegnanti attribuiscono al proprio lavoro, tenendo presente l’esistenza di specifici bisogni psicosociali, che dipendono, ad esempio, dall’esigenza di riconoscimento del proprio impegno, dal clima relazionale instauratosi all’interno del gruppo dei docenti, dalle aspettative sociali che investono l’attività didattica, che possono indurli ad interpretare il proprio ruolo in un modo piuttosto che in un altro .
    Dovrà anche considerare le eventuali resistenze che gli insegnanti possono avanzare di fronte ad una figura che, dall’esterno, pretenda di intervenire nelle questioni che riguardano la conduzione della classe o il rapporto con gli alunni. Tale diffidenza, come mostra efficacemente E. Damiano, sorge spesso da un malinteso rapporto fra specialisti ed insegnanti, secondo il quale i primi forniscono le conoscenze (attraverso pubblicazioni o corsi di aggiornamento), mentre spetta ai secondi "applicarle" e tradurle nella quotidiana prassi educativa. Accade così che gli uni e gli altri restino delusi in quanto le reciproche aspettative risultano spesso vanificate .
    Al contrario, è necessario operare una riscoperta della professionalità dell’insegnante, la cui specialità risiede nella capacità di coniugare teoria e pratica in un sapere che si connota come "riflessione-in-azione" che: "si può definire come la capacità di ‘pensare ciò che si fa mentre lo si fa’, oppure, meglio, di ‘conversare’ con la situazione incerta attraverso le azioni che si compiono per cambiarla e per reagire in tempo reale ai risultati indotti dagli interventi stessi (…). La ‘riflessione-in-azione’ si può considerare, di fatto, una forma di ricerca e di sperimentazione sui generis, finalizzata a migliorare la pratica professionale mediante la elaborazione di teorie contestualizzate e personalizzate" .
    Rispetto a tutto ciò l’educatore professionale extrascolastico riveste, nel dialogo con gli insegnanti, una posizione privilegiata rispetto ad altri specialisti, in quanto anche il suo stile professionale si caratterizza come "riflessione-in-azione": l’educatore, come l’insegnante, è, infatti, un "pratico-riflessivo", è depositario di "un sapere dell’azione, basata sulle strategie della complessità, della connessione multipla e della contestualizzazione ecologica" . Su questo piano, egli può pertanto entrare in relazione con i docenti in un quadro di reciproco arricchimento che tenda alla costruzione di progetti condivisi.
    La familiarità con le strategie di rete, inoltre, consentiranno all’educatore di padroneggiare le tecniche del lavoro in équipe, nel quale la sua azione si collocherà in un più vasto contesto entro cui trovi significato e legittimazione.
    Perché tutto ciò sia possibile l’educatore deve essere anche "ricercatore": la complessità delle dimensioni implicate nel suo lavoro richiedono, infatti, non solo un continuo aggiornamento professionale, ma anche specifiche competenze che gli consentano di predisporre, attuare e verificare interventi educativi mirati.