Il magico Alvermann – Raccontare la diversità

La donna avvicinò il triste faccione da luna piena al finestrino dell’auto.
"Fate i bravi", raccomandò. "Capito? Voi piccoli state a sentire Dicey. Capito?".
"Sì, mamma", risposero. "Allora va bene". Si mise la tracolla della borsa sulla spalla e si allontanò, ciabattando con i sandali dai cinturini rotti, i gomiti ben visibili attraverso i buchi del maglione troppo grande, i jeans scoloriti e sformati. Quando la sua sagoma scomparve nella folla dei clienti che si accavalcavano al centro commerciale quel sabato mattina, i tre bambini più piccoli si sporsero istintivamente in avanti, verso i sedili anteriori, dove stava seduta Dicey. Lei aveva tredici anni ed era capace di leggere le cartine stradali.
"Perché ci siamo fermati qui?" chiese James. "La spesa l’abbiamo già fatta. Non c’è motivo". James aveva dieci anni e pretendeva che tutto avesse una chiara motivazione.
"Dicey?".
"Non lo so. Hai sentito anche tu quel che ha detto, no?".
"Lei ha detto solo ‘adesso ci fermiamo qui’, ma non ha spiegato perché. Non spiega mai niente. Abbiamo finito la benzina?".
"Non sembra". Dicey aveva bisogno di stare un momento tranquilla a riflettere. C’era qualcosa che non le quadrava, in tutta quella storia. "Senti, perché non racconti qualcosa ai ragazzi?".
"Qualcosa?".
"Cavoli, James, non sei tu il cervellone della famiglia?".
"Già, ma adesso non mi viene in mente niente". "Che ne diresti di Hansel e Gretel?".
"Voglio Hansel e Gretel. La strega e la casa di marzapane e tutto", intervenne Sammy, dal sedile posteriore. James si arrese senza combattere. Era più semplice cedere alle richieste di Sammy piuttosto che tentare la resistenza. Dicey si girò a guardare i ragazzi. Maybeth se ne stava seduta in un angolo, con le spalle curve e lo sguardo fisso. Quando Dicey le sorrise, rispose subito al sorriso. "C’era una volta", attaccò James e Maybeth si girò verso di lui.
Dicey chiuse gli occhi e si sdraiò sul sedile, appoggiando i piedi sul cruscotto. Era stanca. Non aveva potuto distrarsi nemmeno per un attimo, aveva continuato a leggere le carte per trovare la via giusta, evitando le autostrade che costano. Era sveglia alle tre del mattino. Ma non sarebbe riuscita a dormire, adesso. C’era quel tarlo che la rodeva.
Prima di tutto, loro fino a quel momento di viaggi non ne avevano fatti mai. La mamma diceva che la loro macchina più di dieci miglia tutte di seguito non le reggeva proprio. E invece adesso erano nel Connecticut, diretti a Bridgeport.
Però questo poteva comunque avere un senso. Da quando aveva memoria, Dicey aveva sentito la mamma raccontare di zia Cilla e della sua grande casa di Bridgeport che la mamma peraltro non aveva visto mai e del marito ricco e ormai morto. Tutti gli anni zia Cilla mandava gli auguri per Natale e sul biglietto c’era l’immagine di Gesù bambino e dentro c’era scritta un sacco di roba. La carta era sottilissima, sembrava velina. Solo la mamma riusciva a decifrare quella scrittura che pareva un merletto, con le lettere alte e sottili, raggruppate insieme, e le righe allacciate le une alle altre dai riccioli delle "z" e delle "g". Zia Cilla si teneva in contatto. Quindi aveva un senso che la mamma si rivolgesse a lei per chiedere aiuto.
Ma andare in giro in quel modo all’alba non era logico. E questa era la perplessità numero due. La mamma li aveva tirati giù dal letto e aveva detto loro di prepararsi dei sacchi con i vestiti di cambio intanto che lei in cucina faceva dei panini da portar via. Poi li aveva fatti salire tutti sulla vecchia carretta ed erano partiti per Bridgeport.
Terza cosa che non girava, ne erano capitate di tutti i colori. Be’, le cose per loro erano sempre andate abbastanza storte, ma negli ultimi tempi peggio che mai. La mamma aveva perso il suo posto di cassiera. La maestra di Maybeth aveva chiesto di vedere la mamma, ma la mamma non si era presentata all’appuntamento. Maybeth sarebbe stata bocciata un’altra volta e la mamma diceva che non voleva saper niente, di quella storia. Strappava le note che la maestra le mandava a casa senza nemmeno leggerle. Maybeth non aveva mai creato problemi alla famiglia, ma alle maestre sì. Aveva nove anni e faceva ancora la seconda. Parlava poco, questo era il guaio, così la gente la prendeva per stupida. Dicey sapeva che non era affatto così. A volte saltava su a dire qualcosa che dimostrava quanto fosse in grado di ascoltare e capire e ricordare le cose. Dicey era sicura che sua sorella fosse in grado di leggere e fare le addizioni, ma in presenza di estranei Maybeth si limitava a starsene seduta e zitta. Tutti erano estranei, per lei, tranne la mamma, Dicey, James e Sammy.
Quarta cosa storta, la mamma. Ultimamente era andata a comperare il pane ed era tornata a casa con una scatola di tonno, si era seduta al tavolo della cucina e si era nascosta il volto tra le mani. Qualche volta usciva e stava fuori anche un paio d’ore e quando tornava non diceva dove era stata, ma aveva un’espressione così assente che forse non lo sapeva nemmeno, dove era stata. Lei non parlava mai gran che con loro, tranne quando doveva sgridarli, o se c’era da cantare, o fare i soliti giochi. Solo con Sammy parlava un po’ di più, ma certe volte a starli a sentire si aveva l’impressione che fosse un dialogo tra due coetanei di sei anni, invece che tra una madre adulta e un figlio di sei anni.
Con i fratelli e la sorella accanto, i due più piccoli che dormivano dietro, avvolti in un bozzolo d’oscurità, era quasi tentata di sentirsi al sicuro. Ma non era così. Si suppone che le auto siano fatte per sfrecciare sulle autostrade. Quel buio intorno non era abbastanza fitto per nasconderli davvero. Da un momento all’altro qualche faccia estranea avrebbe potuto avvicinarsi al finestrino, qualche voce seccata avrebbe potuto porre domande pericolose.
"Dov’è andata la mamma?" chiese James, fissando il buio.
"Non lo so proprio. Penso che, se per domattina non sarà di ritorno, dovremo arrangiarci a raggiungere Bridgeport".
"Da soli?".
"Sì".
"Ma come si fa? Non sai guidare e poi la mamma si è portata via le chiavi".
"Se ci bastano i soldi, prendiamo il pullman. Se no, andiamo a piedi".
James la fissò un momento prima di parlare. "Dicey, ho paura. Mi sento un nodo allo stomaco. Perché non torna?".
"Se lo sapessi, James, saprei anche cosa fare".
"La strada la conosci?".
"Per Bridgeport" Guardo la carta. Una volta là, chiederemo dov’è la casa di zia Cilla".
James annuì. "E se l’avessero ammazzata? O rapita?". "Rapiscono solo la gente ricca, non è certo il caso di nostra madre. Non voglio continuare a pensare a che cosa può essere successo e neanche tu".
"Non riesco a farne a meno", sussurrò il ragazzino.
"Non parlarne con Sammy o Maybeth".
"Fin lì ci arrivo anch’io. Credevo lo sapessi".
Dicey gli batté sulla spalla.
"Certo, certo".
James le afferrò la mano d’improvviso. "Senti, Dicey, non pensi che la mamma abbia voluto lasciarci qui?".
"Voleva portarci a Bridgeport, ma…". "E se fosse pazza?"
Dicey lo fissò. James proseguì: "A scuola i ragazzi dicono così. I maestri mi guardano in un certo modo anche quando mi prestano i libri o parlano con me. E Maybeth… Potrebbe esserci della pazzia che circola in famiglia".
Dicey ebbe la sensazione che un enorme fardello le gravasse sulle spalle. Tentò invano di scuoterlo via.
"La mamma ci vuole bene. E Maybeth non ha niente che non va. Lo sai anche tu".
"Si chiama pazzia ereditaria".
"Be’, non vedo perché dovresti preoccuparti di questo, proprio tu. Sei il geniaccio di famiglia, col massimo dei voti in tutte le materie. Senti, adesso vado a fare una telefonata. Cerco di capire dov’è la fermata del pulman e quanto costano i biglietti. Tu stai giù".
"Perché?".
Tanto valeva andare fino in fondo. "Non si sa mai. Tre magazzini dentro un auto in un parcheggio, di notte… Dobbiamo cercare di arrivare a Bridgeport e non so che cosa ci potrebbe succedere se un poliziotto ci nota. Centri d’accoglienza o qualcosa del genere. Non voglio correre rischi. Io sono abbastanza grande, non sembrerà così strano".
Furono le prime luci a svegliarla. Una rugiada gelata appanava i finestrini. Il corpo di James, addormentato accanto a lei, era l’unica cosa calda che avesse vicino dentro la macchina. Rimase ferma per non svegliarlo, anche se le faceva male da per tutto per aver dormito in una posizione scomoda. Rimase lì a guardare il sorgere del sole nel cielo grigio, i colori che si facevano sempre più caldi e scintillanti man mano che i raggi viravano dal pesca al giallo al bianco all’oro. Circondata dai fratelli addormentati, si sentiva a suo agio. La macchina era un guscio che lì proteggeva dal freddo, dal mal tempo, dalla gente.
Finalmente James cominciò a stiracchiarsi e aprì gli occhi. Tutti e quattro avevano gli occhi dello stesso color nocciola, anche se Dicey e Sammy avevano i capelli scuri come il padre, non biondo giallastri come la mamma e come Maybeth e Sammy.
James fissò Dicey per un minuto buono prima d’aprir bocca.
"Allora è proprio vero". La sua voce suonò atona e triste. La mamma se n’era andata sul serio.

C. Voigt, Voglio tornare a casa, Bompiani

Crescere da soli
commento di Milena Bernardi

Eroi d’oggi sono i quattro giovanissimi protagonisti del romanzo americano Voglio tornare a casa di C. Voigt, di cui si presentano alcune intense pagine. La storia narrata da C. Voigt porge una particolare attenzione ai delicati problemi della sofferenza e della marginalità, associati alla condizione dell’età infantile ed adolescenziale.
E’ importante non farsi rapire dal racconto sensibile ed intelligente che l’autore imbastisce intorno alla dolorosa e coraggiosa avventura dei fratelli Tillerman.
Ma chi sono i Tillerman? Ragazzini in stato di abbandono che camminano al margine di interminabili ed assolate autostrade; una famiglia di bambini soli che vive ai confini della società americana d’oggi. E quell’America si rivela spesso anonima e diffidente, capace soltanto di siglare i Tillerman come passeggeri clandestini.
Come il principino sapiente di Saint-Exupéry, anche i giovani viaggiatori di Voigt sono portatori di una loro preziosa forma di sapere: il sapere "on the road" del viaggio iniziatico, che si infittisce d’insegnamenti, nel rischio continuo di chi sperimenta l’abbandono, l’inaffidabilità degli adulti e la titanica fatica di crescere da soli all’angolo della strada.

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