Il magico Alvermann – Raccontare la diversità

Voglio cominciare il mio racconto dal giorno che lasciai l’Istituto Pencey.
L’Istituto Pencey è quella scuola che sta ad Argestown in Pennsylvania. Probabile che ne abbiate sentito parlare. Probabile che abbiate visto gli annunci pubblicitari, se non altro. Si fanno la pubblicità su un migliaio di riviste e c’è sempre un tipo gagliardo a cavallo che salta una siepe. Come se a Pencey non si facesse altro che giocare a polo tutto il tempo. Io di cavalli non ne ho visto neanche uno, né lì, né nei dintorni. E sotto quel tipo a cavallo c’è sempre scritto "Dal 1888 noi forgiamo una splendida gioventù dalle idee chiare". Buono per i merli. A Pencey non forgiamo un accidente, tale e quale come nelle altre scuole. E io laggiù non ho conosciuto nessuno che fosse splendido e dalle idee chiare e via discorrendo. Forse due tipi. Seppure. E probabilmente erano già così prima di andare a Pencey.
Ad ogni modo, era il sabato della partita di rugby col Saxon Hall. La partita col Saxon Hall, a Pencey, era un affare di stato. Era l’ultima partita dell’anno e pensavano che dovevi per lo meno ammazzarti se il vecchio Pencey non vinceva. Mi ricordo che verso le tre di quel pomeriggio me ne stavo là sul cocuzzolo di Thomsen Hill, proprio vicino a quel cannone scassato che aveva fatto la guerra di Secessione e tutto quanto. Di lì si vedeva tutto il campo, e si vedevano le due squadre che se le suonavano in lungo e in largo. Non si vedeva tanto bene la tribuna, ma si sentivano gli urli maledetti, cupi e tremendi dalla parte di Pencey, perché tolto che mancavo io c’era la scuola al completo, e fiacchi e isolati dalla parte del Saxon Hall, perché la squadra ospite non portava quasi mai molta gente… Io me ne stavo là sulla Thomsen Hill, e non giù alla partita, per il semplice motivo che ero appena tornato da New York con la squadra di scherma. Ero lo stramaledetto manager della squadra di scherma. Un affare di stato. La mattina eravamo andati a New York per quell’incontro con la Scuola McBurney. Ma l’incontro non c’era stato. Avevo lasciato fioretti, equipaggiamento e tutto su quella metropolitana della malora. Non era stata tutta colpa mia. Dovevo continuare ad alzarmi per guardare quella carta, se no non sapevano dove scendere. Sicché eravamo tornati a Pencey verso le due e mezzo invece che per l’ora di cena. In treno, mentre tornavamo, tutta la squadra mi aveva messo al bando. Era stato abbastanza da ridere, a pensarci.
L’altro motivo per cui non mi trovavo giù alla partita era che dovevo andare a salutare il vecchio Spencer, il mio professore di storia. Aveva l’influenza e compagnia bella, e io pensavo che probabilmente non l’avrei rivisto prima che cominciassero le vacanze di Natale. Mi aveva scritto quel biglietto per dirmi che voleva vedermi prima che andassi a casa. Sapeva che non sarei tornato a Pencey. Questo mi ero dimenticato di dirvelo. Mi avevano sbattuto fuori. Dopo natale non dovevo più tornare, perché avevo fatto fiasco in quattro materie e non mi applicavo e le solite storie. Mi avevano avvertito tante volte di mettermi a studiare, ma io niente. Sicché mi avevano liquidato. A Pencey succede spessissimo che liquidino qualcuno. E’ una scuola ad alto livello, Pencey. Altroché… Ad ogni modo, io continuavo a starmene vicino a quel cannone scassato, guardando la partita e gelandomi il sedere. Solo che alla partita badavo poco. Se me ne restavo lì era perché cercavo di provare il senso di una specie di addio. Voglio dire che ho lasciato scuole e posti senza nemmeno sapere che li stavo lasciando. E’ una cosa che odio. Che l’addio sia triste o brutto non me ne importa niente, ma quando lascio un posto mi piace saperlo, che lo sto lasciando. Se no ti senti ancora peggio.

J. D. Salinger, Il giovane Holden, Einaudi

Uno, due (o forse più) giovani Holden
commento di Mariangela Giusti

Holden è l’adolescente "diverso" per antonomasia, quello che, per motivi all’apparenza difficili da decifrare che appartengono alla sua storia di vita, si discosta dal gruppo in maniera vistosa. E’ uno dei tanti ragazzi che è facile definire "atipici" per i quali gli adulti (e la scuola in particolare) non sembrano prevedere i tempi diversi di cui avrebbero bisogno. Non a caso, quando conosciamo Holden, all’inizio del romanzo, è già stato "sbattuto fuori" da tre scuole superiori e da quel che dice non c’è dubbio che quella che sta lasciando (la quarta) sarà l’ultima. Non si riscriverà ad un’altra, ma insieme all’idea di uscire dal sistema scuola se ne fa avanti un’altra (all’inizio in modo confuso, poi sempre più invasivo): quella di uscire di scena definitivamente, messa in atto, poi, in modo non del tutto consapevole e maldestro, alla fine del libro.
Holden non riesce a trovare intorno a sé persone o punti di riferimento cui appigliarsi, la vita per lui è un accavallarsi di delusioni e fallimenti. Non accetta il conformismo, tutto gli sembra stupido, non sopporta le regole, ha costantemente "una malinconia del diavolo", non gli riesce di "cavar fuori niente da niente". Ipersensibile, ipercritico con sé e con gli altri, cinico e ironico, distrugge con lucidità i miti della classe sociale alla quale appartiene. E’ talmente convinto di valere poco e di non potercela fare che ogni tentativo di andare avanti si risolve poi nel fuggire da qualcosa o da qualcuno. La scuola, gli amici, le partite di rugby, il tifo sfegatato per la squadra, gli hobbies, le ragazze, le spacconate, i discorsi trasgressivi di sesso accompagnati da bevute di liquori che sembrano "mandare in sollucchero" i suoi compagni di stanza e di corso scorrono su di lui senza lasciar traccia o gli procurano un vero e proprio senso di nausea. Un po’ per volta si consolida dentro di lui la convinzione, espressa nei gesti come nelle parole, che non c’è niente per cui valga veramente la pena di vivere.
Quando si fa il mestiere dell’insegnante ad ogni nuovo anno scolastico si sa già che nelle nuove classi dove ci troveremo a lavorare e a convivere ci saranno uno, due (o forse più) giovani Holden, ragazzi (o ragazze), la cui storia individuale li colloca "sul limite". In questi casi l’intervento isolato di un insegnante solo qualche volta può avere un esito positivo, perduto o stemperato in mezzo a quelli più o meno disinteressati degli altri professori. E d’altra parte, un intervento mirato, individualizzato, di cui tutti si assumono la responsabilità non è consentito perché non ci sono (né ci possono essere, del resto) le "pezze d’appoggio", gli incartamenti ufficiali su cui far forza.
Sono le situazioni più difficili, quelle nelle quali la diversità non si mostra in modo palese ma c’è, profonda e radicata al punto da innescare spesso una serie di meccanismi a catena di cui è difficile prevedere l’esito.
Holden, col suo modo di fare tenero e sperduto, è un personaggio simbolo che è un po’ in tutti noi, così come Ulisse, come Penelope, come Orlando.

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