Il magico Alvermann – Raccontare la diversità

Vide suo padre sulla sedia a dondolo e Jun rientrare in casa. Senza suono e senza storia. In una mente qualunque se ne sarebbe strisciata via, quell’immagine, in un istante sparita per sempre. Nella sua rimase impressa come un orma, inchiodata, bloccata li. Era una mente strana, quella di Mormy. Aveva uno strano istinto, forse, per riconoscere la vita anche da lontano. La vita quando vive più forte del normale. La riconosceva. E ne rimaneva come ipnotizzato.
Gli altri vedevano come vedono tutti. Una cosa dopo l’altra. Come un film. Mormy no. Magari gli passavano negli occhi, le cose, in fila, una dopo l’altra, ordinatamente, ma poi ce n’era una che lo rapiva: e lì, lui, si fermava. Nella mente rimaneva quell’immagine. Ferma lì. Le altre correvano via nel nulla. Per lui non esistevano più. Andava, il mondo, e lui, rubato da uno stupore lancinante, rimaneva indietro. Per dire: ogni anno correvano con i cavalli, nella strada di Quinnipak, dalla prima casa di Quinnpak fino all’ultima, saranno stati millecinquecento metri, forse qualcosa di meno, correvano sui cavalli, un po’ tutti gli uomini di Quinnipak, ognuno sul suo cavallo, da un estremo all’altro della città, su per la strada principale, che in definitiva era poi l’unica strada vera e propria, correvano per vedere, quell’anno, chi sarebbe arrivato per primo all’ultima casa della città, ogni anno, e ogni anno, ovviamente, c’era uno che alla fine vinceva, e diventava quello che, quell’anno aveva vinto. Così. E ovviamente ci andavano un po’ tutti a vederlo, quel caotico e fragoroso e febbricitante gran rotolare via di cavalli, polvere e grida. E ci andava anche Mormy. Però lui … Lui li guardava partire: vedeva l’istante in cui la massa informe di cavalli e cavalieri si attorcigliava come una rovente molla schiacciata all’inverosimile per poter poi saltare via con tutta la forza possibile, in una calca senza direzioni e senza gerarchie, un grumo di spasimi e corpi e volti e zampe, tutto nel ventre di un polverone che si alzava, carico di grida, nel silenzio totale tutt’intorno, un istante di esasperante nulla prima che il rintocco della campana, su, dal campanile, non liberasse tutto e tutti da quell’ormai opprimente esitazione e rompesse la diga dell’attesa per scatenare la frenetica marea che era la corsa vera e propria. Allora partivano: ma lo sguardo di Mormy rimaneva li: in quell’istante che era prima di tutto il resto. Si giravano, i mille volti della gente, a seguire la folle volata di uomini e cavalli, ruotavano tutti insieme, quegli sguardi, tutti meno uno: perché il volto di Mormy rimaneva fisso sul punto della partenza, minuscolo strabismo seminato nel collettivo sguardo che se ne andava compatto dietro alla corsa. Il fatto è che negli occhi, e nella mente, e su per i nervi, lui aveva ancora quell’istante là. Continuava a vedere la polvere, le grida, le facce, gli animali, l’odore, l’attesa snervante di quel momento. Che diventava, solo per lui, momento interminabile, quadro posato nel fondo dell’anima, fotografia della mente, e incantesimo, e magia. Così correvano, quelli, fino alla fine, e vinceva il vincitore nel gran clamore di tutti: ma Mormy, tutto questo non lo vedeva mai. Lui la gara se la perdeva sempre. Inchiodato alla partenza, rapito. Poi magari il gran casino generale lo risvegliava, improvvisamente, e quell’istante di partenza gli si sfarinava negli occhi, lui tornava al mondo e lentamente girava lo sguardo verso il traguardo dove tutti correvano urlando questo e quello, pur di urlare, per il gusto, poi, di aver urlato. Girava lo sguardo lentamente e risaliva sul carro del mondo, con tutti gli altri. Pronto per la prossima fermata.
In realtà era lo stupore a fregarlo. Lui non aveva difese contro la meraviglia. C’erano cose che uno qualunque avrebbe tranquillamente guardato, magari ne sarebbe stato anche un po’ colpito, magari si fermava anche un attimo, ma poi era in fondo una cosa come le altre, ordinatamente in fila con le altre. Ma per Mormy, quelle stesse cose erano prodigi, esplodevano come incantesimi, diventavano visioni. Poteva essere la partenza di una corsa di cavalli, ma poteva anche essere semplicemente un improvviso colpo di vento, la risata sul volto di qualcuno, il bordo d’oro di un piatto, o un niente. O suo padre sulla sedia a dondolo e Jun che lentamente si volta e rientra in casa.
La vita faceva una mossa: e la meraviglia si impadroniva di lui.
Il risultato era che, del mondo, Mormy aveva una percezione, per cosi dire, intermittente. Una sequela di immagini fisse – meravigliose – e mozziconi di cose perdute, cancellate, mai arrivate fino ai suoi occhi. Una percezione sincopata. Gli altri percepivano il divenire. Lui collezionava immagini che erano e basta.
– E’ matto Mormy? – chiedevano gli altri ragazzini.
– Solo lui lo sa – rispondeva il signor Rail.
La verità è che si vedono e si sentono e si toccano così tante cose … è come se ci portassimo dentro un vecchio narratore che per tutto il tempo continua a raccontarci una storia mai finita e ricca di mille particolari. Lui racconta, non smette mai, e quella è la vita. Al narratore che stava nelle viscere di Mormy forse si era rotto dentro qualcosa, forse qualche dolore tutto suo gli aveva messo addosso quella specie di stanchezza per cui riusciva a raccontare solo più mozziconi di storie. E tra uno e l’altro, il silenzio. Un narratore sconfitto da chissà quale ferita. Forse l’aveva fregato la porcheria di qualcuno, l’aveva bruciato lo stupore di un tradimento fottuto. O magari era la bellezza di quello che raccontava che l’aveva a poco a poco sopraffatto. La meraviglia gli strozzava le parole in gola. E nei suoi silenzi, che erano ammutolita emozione, riposavano i buchi neri della mente di Mormy.
Chissà. Ci sono certi che lo chiamano angelo, il narratore che si portano dentro e che gli racconta la vita. Chissà come erano le ali dell’angelo di Mormy.

Alessandro Baricco, Castelli di rabbia, Rizzoli

Incantato dalla vita
commento di Marina Maselli

A Quinnipak si ha negli occhi l’infinito, o così almeno credevano i suoi abitanti. La signora Raoil con la sua meravigliosa bocca, il signor Raoil sempre pronto a partire, l’uomo che rincorreva le parole perdute, il ragazzino impegnato a catalogare le cose della vita, quello a cui un giorno scoppiò la musica in testa dopo averla domata per anni, il racconto di una guerra nelle parole dell’unico superstite, il fascino segreto di una locomotiva e il sogno di una città trasparente, perché il vetro è una magia, dicevano, protegge senza imprigionare e tiene lontana la paura. E tra loro, insieme a loro, Mormy, figlio segreto improvvidamente svelato alla vita, Mormy che immobile si guarda intorno e tace, ingenuo osservatore intento a scrutare il mondo. Mormy dai lenti movimenti, dalle rare parole regolate all’improvviso, immerso in un tempo dal ritmo incerto "aveva qualcosa di complicato nella testa Mormy, forse di malato, nessuno lo sapeva, nessuno poteva saperlo". Troppo veloce scorre la vita per lui, le cose si succedono l’una all’altra e non lasciano agli uomini il tempo per vederle sul serio. Mormy bambino, adolescente, uomo stordito e incantato dalla vita con la sua inquieta bellezza, ignaro dello sconcerto altrui.
A Quinnipak c’è Mormy tra gli altri. A Quinnipak le storie si intrecciano, si aggrovigliano in un tempo anomalo e non si riesce più a dipanarle, piccoli miraggi di ironia e tragicità. Perché a Quinnipak la diversità e l’impotenza non spaventano nessuno.

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