Il magico Alvermann – Raccontare la diversità

Era stato dimesso dall’ospedale che le paulonie erano in fiore. La porta del caffè che dava sulla terrazza del primo piano era spalancata. La divisa del cameriere candida di bucato. Il marmo comunicava un piacevole fresco alla sua mano sinistra abbandonata sul tavolino della terrazza. Il palmo della destra gli sosteneva la guancia, il gomito puntato sul parapetto. Gli occhi guardavano di sotto ai passanti, uno per uno, con un’intensità da risucchiarli. La gente camminava sul marciapiede, accesa dalla scintillante luce delle lampade. Quel primo piano era così basso che si sarebbe detto, allungando il bastone, di poter picchiare sulla testa delle persone che camminavano in strada. "Città e campagna sono all’opposto perfino nel modo di percepire le stagioni. Non pensi? Non è della gente di campagna, per esempio accorgersi dell’inizio dell’estate dal colore della luce delle lampade. In campagna più che l’uomo è la natura, l’erba, gli alberi, a vestire volta per volta la stagione. Ma in città è invece l’uomo che, più della natura, indossa le stagioni. A dar inizio all’estate è la molta gente che cammina per la strada, come adesso. Non pensi che in questa via sia l’inizio dell’estate dell’uomo?". "L’inizio dell’estate dell’uomo? Ah, certo".  Nel rispondere alla moglie gli tornò alla mente il profumo delle paulonie fiorite alla finestra dell’ospedale. In quei giorni, se chiudeva gli occhi, la sua mente puntuale scivolava in un mare fantastico di gambe d’ogni sorta. Le sue cellule cerebrali, tutte sino all’ultima, si trasformavano in insetti a forma di gamba e serpeggiavano per il suo mondo. Gambe che ridacchiano imbarazzate quando una donna scavalca qualcosa. Gambe in punto di morte che s’irrigidiscono dopo un moto convulso. Gambe a cavallo, le cosce scarnite dal ventre della bestia. Gambe che pur cicciose e molli come grasso di balena sbattuto là, si tendono a volte con prodigioso vigore. Gambe che un mendicante storpio a notte di scatto distende per levarsi in piedi. Gambe ben rifinite in bambini nati tra le gambe della madre. Gambe stanche come l’esistenza d’un salariato che rincasa dal lavoro. Gambe che pompano su su dalle caviglie al ventre una sensazione d’acqua limpida, mentre attraversano una secca. Gambe che procedono alla ricerca d’amore risolute come la piega di pantaloni aderenti. Gambe di ragazzetta che non si spiega come mai le punte dei piedi che fino a ieri s’evitavano, oggi si guardino educatamente. Gambe che camminano divaricate dal peso del denaro dentro il portafoglio. Gambe di donna impertinente che col volto sorride, con la caviglia deride. Gambe di piedi sudati che fan ritorno dalla strada, escono dai tabi, si rinfrescano. Belle gambe che sulla scena si pentono, al posto della coscienza della ballerina, d’un peccato della notte prima. Gambe d’uomo che in un caffè fa cantare una canzone con cui dare un calcio alla sua donna. Gambe per cui pesante è il dolore, leggera la gioia. Gambe d’atleta, di poeta, d’usuraio, di gentildonna, di sirena, di scolaretta. Gambe, gambe, gambe… Ma sopra tutte, le gambe di sua moglie. E la sua gamba destra, che gli doleva tra l’inverno e la primavera all’articolazione del ginocchio e alla fine gli era stata amputata… Mentre, a causa di questa gamba, nel suo letto d’ospedale era tormentato dai fantasmi di gambe d’ogni sorta, non smetteva di rimpiangere la terrazza di questo caffè, quasi un occhiale creato apposta per osservare lo sfavillante corso cittadino. Più di ogni altra cosa avrebbe voluto guardare fino a saziarsene le gambe sane della gente che calcavano il suolo una dopo l’altra, e lasciarsi trasportare dal rumore dei passi. "Dacché ho perso la gamba ho finalmente compreso sai, la vera bellezza dell’inizio dell’estate. Vorrei uscire dall’ospedale prima che venga l’estate e andare a quel caffè!", diceva alla moglie guardando i bianchi fiori di magnolia. "A ben pensarci, di tutto l’anno è all’inizio dell’estate che le gambe della gente sono più belle. Mai come all’inizio dell’estate la gente cammina per la città gagliarda e spedita. Devo uscire dall’ospedale prima che fioriscano le magnolie". Così adesso guardava giù dalla terrazza con un’intensità da parer che i passanti in strada fossero tutti suoi amanti. "Non è nuova perfino la brezza?". "Il cambio di stagione è così. La biancheria, persino i capelli pettinati ieri, oggi hai già la sensazione che siano sporchi". "Non è quel genere di cose che m’interessa. Ma le gambe. Le gambe della gente all’inizio dell’estate". "Allora vuoi che anch’io cammini qua sotto?". "Non è questo che mi avevi promesso. All’ospedale, quando m’hanno amputato la gamba, non dicevi che di due saremmo diventati una persona sola con tre gambe?". "L’inizio dell’estate, la stagione più bella; ma risponde alle tue aspettative?". "Vuoi stare un po’ zitta? Non riesco a sentire i passi della gente che cammina per la strada". E tese religiosamente l’orecchio a cogliere, dentro il frastuono della sera cittadina, l’inestimabile calpestio degli uomini. Quasi subito chiuse gli occhi. E così, come pioggia che scende in un lago, scrosciarono nella sua anima i passi della gente in strada. La sua stanca guancia s’illuminò di sottile felicità. Ma a poco a poco quel colore di felicità s’andò spegnendo. E nel volto che impallidiva si aprirono due occhi malati. "Non capisci? Gli uomini sono tutti zoppi. Dai passi che arrivano fin qua, non c’è un solo paio di gambe che abbia un rumore coordinato, da gambe sane!". "Però! Forse è vero: gli uomini anche il cuore ce l’hanno scompagnato". "Non solo. Se i passi non han rumore sincrono, non penso sia colpa solo delle gambe degli uomini. Se l’ascolti con mente sgombra, è un rumore che testimonia d’una malattia dell’anima. E’ il rumore del corpo che tristemente concerta con la terra il giorno del funerale dell’anima". "Dev’essere così. E non solo per il rumore dei passi, ma per qualsiasi cosa, secondo come la si prende. Comunque, è la tua solita ipersensibilità". "Però ascolta, ti prego. Il rumore dei passi cittadini è malato. Non sono tutti zoppi come me? Io che ho perso una gamba e son venuto qui per provare il gusto di due gambe sane, non pensavo di scoprire invece una malattia dell’umanità. Non pensavo che mi si sarebbe insinuata una malinconia nuova. Devo andare da qualche parte a scrollarmela di dosso, questa malinconia… Proverò ad andare in campagna. Là forse l’anima e il corpo degli uomini sono più sani che in città e vi si possono sentire passi sincroni, da gambe sane". "Non funzionerà. Sarebbe forse meglio che andassi allo zoo e ascoltassi il rumore dei passi degli animali"."Allo zoo, dici? Sì, forse. Forse le zampe delle bestie e le ali degli uccelli sono più sane e il loro rumore è sincronizzato a dovere". "Ma dai! Volevo solo fare una battuta". "Dato che la malattia spirituale dell’umanità ha avuto inizio quando gli uomini si son messi a camminare eretti sulle gambe, forse è naturale che il rumore delle gambe non sia sincrono". Poco dopo, la faccia che pareva avesse perso una gamba dell’anima, con il suo arto artificiale salì in auto aiutato dalla moglie. La vibrazione delle ruote dell’auto era zoppa, e anche stavolta gli segnalava la malattia dell’anima di lei. Sul loro cammino le lampade spandevano i fiori della nuova stagione.

Il racconto è tratto da: "Racconti in un palmo di mano" di Yasunari Kawabata, Marsilio Editore.

Le gambe degli altri
commento di Nicola Rabbi

 E’ proprio vero che la mancanza di una determinata cosa ti fa capire la sua importanza, il posto che occupa in una scala di valori, così come molte volte è la perdita di qualcosa o di qualcuno che dà l’occasione di una riflessione inedita. E’ quanto capita al protagonista di un racconto giovanile dello scrittore giapponese Yasunari Kawabata (1899-1972), a cui viene amputata una gamba; ed è proprio l’oggetto di questa perdita che diventa il punto focale della sua divagazione. Nei suoi pensieri le gambe, pur appartenendo ad un corpo, sembrano vivere di una vita propria e si animano dando luogo ad una moltitudine di scene dove sono protagoniste; il mondo circostante si riduce, prende la forma di una gamba. Il passo successivo (è proprio il caso di dirlo?) del nostro personaggio è la presa di coscienza che la sua mancanza è generalizzata ed appartiene a tutti gli uomini, dato che l’umanità intera è zoppa, non certo per una colpa fisica ma per una "malattia dell’anima". Chi lo scopre o chi pensa di scoprirlo, è arrivato a questa conclusione proprio grazie alla sua mancanza più visibile delle altre. L’arto di legno denuncia un’infermità, una disarmonia comune a tutti, anche agli uomini con le gambe di carne e di ossa. Nella stessa opera dell’uomo si ritrova questa disarmonia e perfino l’automobile è zoppa come trasmettono le vibrazioni delle sue ruote. Forse solo la natura non lo è, solo la natura è immune dalla malattia come testimoniano le paulonie, con "i fiori della nuova stagione". Rimane strano il fatto che a raccontare questo sia Kawabata, un giapponese, un uomo cioè che proviene da una terra sovrappopolata, dove le metropoli si succedono alle megalopoli e dove la natura, anche lei zoppa, si riduce solo ai giardini, pur sempre belli, del Paese del Sol Levante.

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