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Autore: admin

Mettiamoci in gioco

Dedichiamo questo approfondimento al tema del gioco inteso come modalità comunicativa ed espressiva primaria, prima strada del conoscere e dare forma al mondo, strumento attraverso cui i bambini costruiscono la propria identità.
Per questo il tempo del gioco è tempo vitale, fondante e non accessorio, spazio non riducibile che va protetto e salvaguardato. Per i bambini, tutti i bambini la dimensione ludica si pone come esperienza del provare, cercare, collegare; in poche parole come conferma di ciò che si è e apertura verso il nuovo.
Il gioco è anche il modo per poter dire qualcosa di importante di sé, qualcosa che in alcune circostanze le parole non vogliono o non riescono a dire. In questo senso si parla di risonanza terapeutica o di uso terapeutico del gioco nel momento in cui attraverso di esso ci si mette in contatto con i pensieri più intimi

Peacelink, la voce delle associazioni

Lo scopo di rete Peacelink è quello di mettere in rete tutte le persone e tutte le associazioni che in Italia costituiscono l’arcipelago del pacifismo e della solidarietà, di far dialogare dunque queste realtà spesso molto lontane fra di loroCome portavoce di Peacelink ho la necessità e l’obbligo di insistere sull’importanza che le associazioni entrino in rete e approfittino dei mezzi che hanno a disposizione. Rete Peacelink nasce proprio per questo, abbiamo già detto e ridetto che Peacelink nasce nel ‘92 fa uso delle tecnologie povere, collega fra loro computer sparsi in tutta Italia che da allora non hanno mai smesso di scambiarsi informazione riguardo a pace, diritti umani, cooperazione e solidarietà umana. Lo scopo di rete Peacelink è proprio quello di mettere in rete tutte le persone e tutte le associazioni che in Italia costituiscono l’arcipelago del pacifismo e della solidarietà, di far dialogare dunque queste realtà spesso molto lontane fra di loro. Peacelink quindi come spazio aperto a chiunque la voglia utilizzare in conformità ai principi di pace e di solidarietà che sono alla base del suo statuto, una sorta di condomino dove ogni associazione può avere il suo piccolo appartamento, a patto che non rimanga comunque sganciato da quello degli altri. Oltre ad essere un insieme di computer collegati fra loro, Peacelink è anche un insieme di persone che si organizzano in club. E’ importante che ci siano questi club, perché essi sono l’interfaccia fra la rete e la realtà locale e permettono quella bidirezionalità dell’informazione, quell’interattività che spesso nella rete manca e permettono anche il fatto dell’aspetto della conoscenza personale, perché la conoscenza avviene anche perché i club si incontrano fra di loro, si vedono, organizzano.
Alla base dell’attività di Peacelink c’è una ben precisa visione della realtà, della realtà economica e sociale. Noi quando parliamo di telecomunicazioni, di internet, immaginiamo tutta questa ragnatela mondiale di linee telefoniche, di modem che comunicano fra di loro in ogni angolo del pianeta; c’è questo mito del villaggio globale, però, nell’era delle multinazionali, anche il mondo delle telecomunicazioni e della telematica è diviso fra chi ha e chi non ha. Se noi guardiamo anche la situazione della connetività mondiale, è vero che internet copre praticamente tutto il mondo, ma è anche vero che ci sono notevoli differenze in tutto il pianeta, differenze di densità e di potenzialità tra tutte le reti dei vari paesi.

Le risorse tecnologiche sono concentrate al nord

Vi volevo comunicare alcuni dati, che ritengo importanti, dell’International University of People Instituction for Peace, che ha realizzato una bellissima pubblicazione ” Guerra, Media e Pace”, edita in Italia dall’edizione del Gruppo Abele. Questi sono i dati fondamentali : tutti i paesi in via di sviluppo messi in insieme possiedono soltanto il 4% dei calcolatori del mondo, il 75% dei 700 milioni di telefoni del mondo si trova nei 9 paesi più ricchi, i paesi poveri possiedono meno del 10% dei telefoni del mondo e in molte zone rurali c’è un telefono ogni 1000 persone, vi sono più telefoni nel solo Giappone che in tutti i 50 paesi dell’Africa, nonostante l’Africa abbia una popolazione 4 volte superiore al Giappone. Nel 1988, 30 fra i paesi più poveri non avevano nessun giornale quotidiano, mentre il solo Giappone ne contava 125 e gli Stati Uniti 1687, nei 34 paesi periferici non ci sono assolutamente apparecchi televisivi.
Come si può capire da questi i dati, il panorama dell’informazione e delle telecomunicazioni è totalmente dominato dal dominio di una oligarchia di nazioni del nord del mondo, di una oligarchia di società commerciali, di multinazionali che hanno nelle loro mani praticamente la totalità delle risorse. A questa triade pochi-nord-ricchi, noi abbiamo un dovere di dare una risposta. Secondo me è indicativo che Peacelink nasca a Taranto, in una città del sud, in una città ad alto tasso di delinquenza minorile, con uno dei tassi più elevati di disoccupazione.
Peacelink basa le sue attività su mezzi poveri, sull’auto tassazione, sui contributi volontari, non propone una oligarchia ma un modello di partecipazione allargata da realizzarsi proprio attraverso lo strumento della telematica che rende possibile diffondere le informazione. In sostanza, noi per contrapporci a questa triade, stiamo cercando di essere sempre di più, di coinvolgere un maggior numero di persone, persone soprattutto del sud, che hanno mezzi poveri, che si auto tassano, che non hanno bilanci milionari e che cercano di far fronte alle bollette telefoniche con le loro risorse. Come funziona tutto questo? Rete Peacelink ha un server centrale, che si chiama Alex Langer, dove è permesso tenere degli spazi Web gratis da parte delle associazioni, gruppi di volontariato e piccole case editrici che in questo modo non sono obbligate a rivolgersi ai servizi commerciali per diffondere le loro informazioni. E’ importante tener presente l’importanza di utilizzare questi spazi comuni, che possono migliorare la comunicazione fra le associazioni, perché solo con una reale comunicazione le associazioni possono avere una efficacia di azioni e non essere disgregate.

Le associazioni come fonte di informazione qualificata

Poi vi è un altro aspetto importante, cioè quello di diventare noi associazioni fonti qualificate dell’informazione alternativa, che come è stato già detto, passa difficilmente sui media tradizionali. Vi faccio un esempio, io lavoro per una associazione che si occupa molto di America Latina; tempo fa è stato ucciso un sacerdote in Guatemala, Monsignor Gerardi, ne hanno parlato un po’ i giornali ma poi la cosa finisce lì. La situazione oggi dei diritti umani in Guatemala è disastrosa, noi attraverso internet sappiamo che Monsignor Gerardi è stato ucciso e che il suo rapporto sul recupero della memoria storica del Guatemala ha suscitato grandi traumi nel governo; anche il prete che è con lui, Pietro Nota, è in costante pericolo di vita. Questo per noi, cioè appropriarsi del mezzo, significa poter diventare una fonte qualificata.
Per fare questo bisogna sfatare dei miti, il primo dei quali è che internet sia costosa. Qui in Italia io non trovo assolutamente che internet sia costosa. Per mandare un fax a 100 associazioni minimo devo fare 100 scatti telefonici, per mandare 100 e-mail ne faccio uno solo, tra l’altro oggi noi associazioni abbiamo comunque la possibilità di avere una connettività gratuita attraverso le reti civiche, attraverso altri enti che ci mettono a disposizione possibilità simili, dunque in relazione agli altri mezzi di comunicazione non trovo che internet sia costosa.
Il secondo mito da sfatare è che internet sia difficile da usare; sì è vero che ci vuole alla base un discorso di alfabetizzazione, però gli strumenti a disposizione oggi per i collegamenti intenet non hanno tutta questa difficoltà, hanno comunque delle procedure semplificate che spesso celano all’utente tutti i particolari tecnici che ci sono sotto. Ora non vorrei presentare la rete come il rimedio a tutti i mali, perché non è assolutamente così, però resta comunque uno strumento di cui appropriarsi prima che venga definitivamente colonizzato da tutti gli interessi del mercato globale, così come è avvenuto per gli altri mezzi di comunicazione tradizionali.

I missionari di Misna

Un’agenzia stampa che esiste solo su internet, realizzata in tre lingue, italiano, inglese, francese: la sua finalità? Dare voce alle popolazioni del sud del mondo impegnate a costruire un futuro di libertà e di sviluppo ma troppo spesso vittime dell’emarginazioneSono un missionario, l’iniziativa che vi presento nasce dalla federazione di 15 istituti missionari. Un grande missionario del secolo scorso diceva: “Vorrei avere a disposizione 100 lingue e 100 cuori per presentare la situazione della povera Africa”. Questo stesso missionario diceva che in 5 mesi aveva scritto 1347 lettere, in mezzo a situazioni difficili, in mezzo al deserto, sotto un sole tremendo e nel 1873 in un’altra comunicazione diceva che aveva sul tavolo 900 lettere a cui rispondere. Proprio in questa scia di bisogno di comunicazione, nel 1882 nascono in Italia due grandi riviste missionarie che sono ancora in vita, “Nigrizia” che ha 116 anni di vita e “Mondo e missione” che ne ha altrettanti.
Nel 1973, facciamo un salto, nasce una casa editrice frutto di una confederazione di 15 istituti missionari che si chiama EMI, editrice missionaria italiana, che sta compiendo 25 anni di vita. Alcuni anni dopo. nel’84, gli istituti si uniscono e danno vita ad una attività video, la EMI video. Nel 96 si uniscono e fanno una rivista di antropologia e teologia della missione e nel 1997 un’altra felice realizzazione che è “Misna”, di cui parleremo.
Il nostro lavoro deve essere inserito in un cammino, in una scia di uomini che non solo si sono impegnati a livello intellettuale, ma a livello vitale, a livello pratico in favore degli ultimi, degli esclusi. La seconda premessa è che noi ci siamo accorti, come ve ne siete accorti voi, che del sud del mondo se ne parla poco e quelle poche volte che se ne parla, se ne parla male, che l’informazione è una merce strategica in mano ai governi e alle industrie, che quattro grandi agenzie emettono l’80% delle notizie che circolano, che il sud del mondo praticamente non ha voce, che la famosa globalizzazione non è tanto uno scambio in tempo reale di notizie prodotte in tutto il mondo, ma piuttosto la distribuzione mondiale delle informazioni delle agenzie occidentali. E allora di fronte a questo grande gigante, noi piccolo sassolino abbiamo detto: “Cominciamo ad agire”, e abbiamo fondato questa agenzia che si chiama Misna.

Un’agenzia stampa telematica e missionaria

Quali sono le caratteristiche di questa agenzia ? E’ una agenzia solamente in internet che fornisce notizie di attualità, in tre lingue, italiano, inglese e francese, con una ventina di lanci al giorno e che nei primi 5 mesi di attività è già riuscita a farsi uno spazio. C’è un direttore, che è un giornalista missionario, Padre Giulio Albanese e una struttura è minima; abbiamo una impiegata a tempo pieno per la lingua italiana, una persona part-time, 6 ore, per l’inglese , una persona part-time, 4 ore, per il francese; siamo quindi ridotti a una situazione minima di personale perché minime sono le risorse; non abbiamo nessun tipo di finanziamento pubblico.
Vi elenco i punti principali dell’iniziativa: a) la finalità, dare voce alle popolazioni del sud del mondo impegnate a costruire un futuro di libertà e di sviluppo ma troppo spesso vittime dell’emarginazione, dello sfruttamento e del conseguente impoverimento, perché nel sud del mondo non ci sono i poveri ma gli impoveriti b) dare voce alle giovani chiese del sud del mondo, a questa grande ricchezza che è sempre di più in fermento e che spesso paga, in prima persona, con quelli che noi chiamiamo i martiri, le conseguenze dell’oppressione e dell’emarginazione c) dare spazio alle voci e alle iniziative che nascono nel nord del mondo a favore del sud del mondo. Perché queste iniziative della Misna possano avere un futuro, noi abbiamo bisogno di ricevere notizie, di trovare dei nuovi soci, di trovare sostenitori.

Le associazioni in rete

Dobbiamo uscire un po’ dall’ottica che l’informazione è o non è professionale, per imparare che anche noi con un computer e un po’ di buona volontà e una carica ideale, possiamo fare informazione qualificata quanto e come quella delle grandi agenzie di stampa internazionali, che nonostante le grandi risorse, a volte si fermano alla veste patinata per mancare di contenuti profondiUn limite che sembra caratterizzare le informazioni che ci arrivano, è quello di un sovraccarico, di un overdose da informazioni che sembra essere il maggior problema. Il problema appunto non è la mancanza di informazioni, per noi che viviamo nel nord del mondo, e abbiamo a disposizione tante risorse; il problema non è la mancanza di informazioni quanto la loro sovrabbondanza e il fatto che il tempo che abbiamo a disposizione è comunque finito. La tipica reazione delle persone che si affacciano per la prima volta su internet è proprio la sindrome da “overdose” da informazione; avere la sensazione di poter trasferire tutto lo scibile umano nel proprio computer, ci spinge a diventare delle spugne di immagini, di testi, di suoni che poi magari rimarranno lì dimenticati per mesi. C’è anche un altro fatto, che gli sprechi fisici di risorse di energia, di luce elettrica, di acqua, di gas sono una cosa tangibile, che abbiamo sotto mano e che possiamo condannare, mentre lo spreco di informazioni viene visto come una cosa tollerabile e anzi positiva, perché c’è ancora chi pensa che l’informazione non sia mai troppa, caso mai troppo poca. In questo contesto è pensabile un cambio di prospettiva, anche una visione “ecologica” dell’informazione in cui cerchiamo di eliminare i rumori di fondo che caratterizzano le informazioni che noi riceviamo per arrivare a riappropriarci del nostro tempo e di una informazione essenziale, che non deve essere finalizzata a farci sapere più cose o a farci avere più fogli sul tavolo o più messaggi di posta elettronica, ma deve essere finalizzata a vivere più consapevolmente e a migliorare la qualità della nostra vita e di chi ci circonda.
In questa ottica le associazioni e il mondo del volontariato in generale giocano un ruolo chiave. Io ad esempio, mi faccio da tramite tra le informazione che ricevo e quelle che poi diffondo in rete, perché la rete mi dà la possibilità di essere recettore e distributore, lettore ed editore di me stesso. Le associazioni hanno un ruolo chiave proprio perché possono, così come le associazioni nel mondo concreto, risolvere molti problemi pratici della vita di tutti i giorni. Così come le associazioni aiutano persone che hanno bisogno di centri di prima accoglienza, mandano dei volontari sulle ambulanze senza i quali il pronto soccorso crollerebbe, così come si risolvono problemi concreti, in rete, il ruolo delle associazioni è quello di svolgere un opera di sintesi e di controllo del traffico ormai infinito e incontrollabile di informazioni che ormai ci subissa. Il mio ragionamento procederà, per essere chiaro e sintetico, per parole chiave.

L’informazione sull’informazione

La prima parola è METAINFORMAZIONE, che è un’informazione sull’informazione; per dirla in altri termini, dove posso trovare delle risorse bibliografiche su un certo argomento? Per esempio, una metainformazione sulla scuola sarebbe: “Dove posso trovare delle risorse didattiche per svolgere delle lezioni di educazione alla pace nella scuola? “. Questa metainformazione è un collegamento all’informazione vera e propria che è il libro sull’educazione alla pace, o il gioco o la scheda didattica. Per cui la prima parola chiave è metainformazione, e le associazioni volontarie in genere dovrebbero puntare più alla metainformazione che non all’informazione vera e propria, più agli strumenti per semplificare l’acquisizione di dati e di concetti che non a infarcire la rete di testi o dossier che, anche se interessanti, non vengono letti e rimangono lì, non fruiti e non hanno modo di raggiungere la maggior parte delle persone. Un esempio che ho avuto modo di toccare con mano, è stato un lavoro che ho fatto per la realizzazione di un dossier su Chiapas in occasione del massacro che è avvenuto in quei territori. Io non ho scritto una riga di testo, anzi ho imparato molte cose interessanti proprio nel mettere insieme delle cose che hanno acquisito un senso compiuto proprio perché collegate insieme. Pur non avendo aggiunto io una riga al testo, l’insieme delle informazioni ha comunque acquisito un valore aggiunto, perché non era un testo che rimaneva lì fermo, ma conteneva i collegamenti a tutte le fonti dei testi, a tutti i siti internet che avevano realizzato questi testi e, cosa, che è più importante, alle associazioni che nel mondo reale operano a sostegno e in appoggio ai diritti civili delle popolazioni del Chiapas. E’ importante, in questo caso, non la produzione diretta di informazione quanto la loro digeribilità, la loro reperibilità e, soprattutto, la loro interconnessione, come un testo mi rimanda ad un altro testo. In questo senso il mondo della rete rispecchia tantissimo il mondo reale. Io purtroppo non sono abbonato a nessuna rivista per spirito di equità, perché se mi dovessi abbonare a Mosaico di pace mi dovrei abbonare a Nigrizia, mi dovrei abbonare alle altre migliaia di riviste ugualmente valide che però purtroppo mancano di una redazione comune virtuale che potrebbe ritrovarsi in rete per una linea comune, per combattere con una linea integrata un altro sistema di informazione che è altrettanto integrato. Purtroppo, così come nel mondo dell’editoria delle associazioni si assiste a questa disgregazione, lo stesso sta avvenendo in rete; purtroppo questo è uno dei casi in cui il mezzo tecnologico offre delle possibilità e noi non riusciamo a stargli dietro perché siamo ancora legati a logiche un po’ da orticello.

Non solo i giornalisti fanno informazione

Facevo l’esempio del dossier sul Chiapas per fare un’altra affermazione che, pur nella sua banalità, non è tanto scontata; l’informazione non è più un mondo per addetti ai lavori, non è più una casta sacerdotale in cui ha diritto di parola e di scrittura solo chi ha gli strumenti professionali e tecnici per farlo. Dobbiamo uscire un po’ dall’ottica che l’informazione è o non è professionale, per imparare che anche noi con un computer e un po’ di buona volontà e una carica ideale, possiamo fare informazione qualificata quanto e come quella delle grandi agenzie di stampa internazionali che, se dalla loro parte hanno i mezzi, le risorse e la professionalità, a volte si fermano alla veste patinata per mancare di contenuti profondi, (ovviamente, come tutte le generalizzazioni questo discorso si presta a delle eccezioni). Per i media mi piace usare la metafora dei lego. Finora ci hanno dato le macchinine già fatte con i lego, ce le hanno rivestite, verniciate, per non farci capire che sotto quell’oggetto c’erano tanti mattoncini che costituivano il quotidiano, la rivista, l’informazione, la notizia. Adesso abbiamo capito che possiamo modificarli noi i pezzi dell’oggetto, possiamo agire noi sul giocattolo informazione e nella nostra stessa casa, nello stesso ambito in cui operiamo, possiamo miscelare sapientemente fax, giornali, posta elettronica, telefono, e soprattutto le informazioni che ci arrivano dalle associazioni che sono il riferimento privilegiato di qualsiasi discorso. Facendo sempre riferimento al dossier sul Chiapas, la prima notizia riguardo al massacro di Chienalò mi è arrivata dal Chiapas che è un’associazione di Roma che ha rapporti privilegiati con la realtà del Messico. Per cui dobbiamo innanzitutto rimuovere i freni inibitori che ci procurano un senso di inferiorità rispetto a chi firma gli articoli sui giornali, o a chi scrive per le grandi agenzie di stampa. Anche noi abbiamo qualcosa da dire, anche chi ha strumenti più limitati può e deve dire la sua, soprattutto se teniamo in conto che l’informazione commerciale va sempre più acquistando forma accattivante e perdendo di contenuti. Non vorrei insistere troppo sul discorso delle associazioni, però spesso si grida “te lo avevo detto” quando succedono delle cose che erano state profetizzate dalle associazioni. Lega ambiente è stata interpellata con articoli a quattro colonne solo dopo che è successa l’alluvione in Campania, e stranamente non prima perché non fa notizia la denuncia di una associazione sui rischi ambientali di un territorio finché la tragedia non si compie.

Volontariato dell’informazione

Un altra parola chiave che volevo sottolineare è quella del VOLONTARIATO DELL’INFORMAZIONE. Mi sono posto delle domande sulla mia professionalità, sul fatto che pur non essendo giornalista professionista produco molta informazione; del resto io ho fatto anche per vari anni l’educatore volontario, senza avere nessun tipo di formazione professionale, nessuno mi è mai venuto a dire: ” tu giochi con dei bambini, fai delle attività ma non sei un professionista, ma allora che cosa sei ?” Appunto cerco di fare un volontariato dell’informazione, metto a disposizione tempo e scatti telefonici, perché mi diverte informarmi, rielaborare queste cose e offrirli in una forma più fruibile a chiunque trovi interessante queste informazioni. Questa idea, del fatto cioè che l’informazione sia un territorio del volontariato, è quasi rivoluzionaria, appunto perché siamo ancorati all’idea che informazione= giornalismo professionale, mentre ci sono tanti altri spazi che devono essere occupati e che finora non sono stati ancora sfruttati a sufficienza. Se da una parte sul piatto della bilancia c’è un’informazione professionale fatta con grande competenza, con grandi strumenti però a volte vuota di contenuti, dall’altra parte non c’è sufficientemente coraggio per dare peso ad una informazione, magari fatta di fotocopie e articoli di giornale attaccati male, ma con una forte spinta ideale e con dei forti contenuti alla base. Per cui insisto sul fatto che non bisogna avere paura di proporsi anche con una semplice fotocopia fatta circolare fra amici; bisogna sciogliere questi bavagli della timidezza che spesso ci fanno tenere per noi delle informazioni che sono molto importanti. In questo senso la rete offre molte possibilità, perché osservo come il volontariato dell’informazione attiri delle persone che si sentono tagliate fuori dal mondo dell’associazionismo, del volontariato, della solidarietà per problemi, ad esempio di tempo; penso a padri di famiglia che hanno un computer a casa e dicono ” O che bello, posso lavorare, dedicare tempo alla mia famiglia e trovare anche un po’ di spazio per mandare dei messaggi di posta elettronica, prendere un paio di testi rielaborarli e diffonderli in rete ecc, ecc,”. E’ questa la grande potenza dello strumento telematico. Si parla tanto di telelavoro e poco di televolontariato e di teleassociazionismo.
Un altro spunto di riflessione che mi sentivo di offrire, è quello di riflettere su tre critiche che si possono fare sull’informazione in rete fatta dalle associazioni. La prima è quella di dare delle informazioni troppo atomizzate, di avere ognuna la propria paginetta Web, staccata dalle altre. Io penso alle 700 associazioni del comune di Bologna che piano piano, con sforzo, fanno la propria paginetta. Immagino un sito Web del comune di Bologna dove tutte le associazioni collaborano fra di loro e offrono le loro informazioni in maniera integrata, fruibile ed efficace. Per cui occorre passare dall’arcipelago delle associazioni all’associazionismo, dall’arcipelago delle riviste all’informazione solidale, dall’arcipelago delle pagine Web alla rete, all’intelligenza collettiva della solidarietà virtuale, telematica. Un altro aspetto che volevo sottolineare è quello delle informazioni unidirezionali, nel senso che spesso l’associazione si sente arrivata se ha la pagina Web, se ha la sua vetrinetta con la quale poter dire venitemi a vedere. Invece io, come associazione mi sento arrivato se con un semplice indirizzo di posta elettronica nel momento in cui ho contatto con le persone, riesco a coinvolgere persone che vanno nella direzione in cui mi sto muovendo io, riesco a sollevare un po’ di polverone e fare in modo che la società civile si mobiliti intorno alle mie idee, perché ha più senso fare una buona informazione con la posta elettronica piuttosto che lasciare una paginetta Web lì a fare le ragnatele.

I poveri nella rete

Il concetto di interettività è proprio importante nel momento in cui ci si accorge che in rete non si può fare niente da soli; io non a caso lavoro all’interno di Peacelink, ci lavoro perché il concetto di comunità virtuale è proprio un idea in cui tu sviluppi dei contatti, una rete di amicizie e di persone tale per cui l’autorevolezza della tua fonte non è il nome, non dici più “Me lo ha detto l’Ansa, l’ho letto sul giornale, me lo ha detto il telegiornale”, ma penso “Me lo ha detto questa persona con la quale ho avuto dei contatti in rete e di cui mi fido”. Se Nicola o Marco o chi per loro mi mandano delle informazioni io traggo vantaggio da due fatti: primo dalla conoscenza diretta di loro, dal mio fare comunità diretta con loro all’interno di Peacelink e dal fatto che loro mi mandano informazioni che non ho bisogno di verificare o di testare, semplicemente perché esistono rapporti di fiducia, quindi, l’autorevolezza della fonte non si basa più sul nome che ha la tua fonte, ma sull’insieme delle relazioni che tu riesci a tessere all’interno della rete.
Per finire vorrei dire che quando faccio informazione in rete, punto l’occhio su chi è fuori dalla rete. Noi che bene o male viviamo in maniera agiata e abbiamo la fortuna di avere del tempo libero per fare del volontariato, dobbiamo avere come primo obiettivo chi questo tempo libero e questi agi non ha. Se noi non svolgiamo un opera di traghetto dalle strade, dalle comunità, dalle baraccopoli, se noi non traghettiamo la gente senza computer nel mondo delle informazioni, non lo faranno né i media tradizionali, né tantomeno il mercato, i siti commerciali, tutti i grandi gruppi economici. Noi abbiamo la responsabilità pratica e morale di prendere il mondo fuori dalla rete, con tutti i suoi problemi, di prendere quelle milioni di persone che non hanno il computer, non hanno il telefono, non hanno la luce elettrica e traghettarli nel mondo dell’informazione perché ” facciano notizia”. Quest’opera di travaso di fatti, di storia, di persone dal dimenticatoio dei dannati della globalizzazione al mondo dell’informazione spetta a noi, abbiamo questo ruolo e questa responsabilità anche storica. Concludo con una frase di uno scrittore che io ammiro molto, Howard Rheingold, che ha scritto un libro che si chiama ” Comunità virtuali”: ” Per ironia della sorte abbiamo bisogno delle reti di computer, figlie della rivoluzione tecnologica, per riacquistare il senso dello spirito cooperativo che è andato perduto proprio a causa di questa stessa rivoluzione tecnologica”.

Disabili e università

Il processo di integrazione delle persone con disabilità è sostenuto in Italia da alcune chiare disposizioni normative. Con la legge-quadro 104/92, in particolare, l’impegno verso un percorso integrativo ha subìto una svolta e l’attività di tutte le istituzioni, dal livello locale a quello centrale ha trovato una precisa direzione.
Nello specifico del diritto allo studio, di cui ci occuperemo in questo articolo, l’art.12 sancisce al comma 2 che “è garantito il diritto all’educazione e all’istruzione della persona handicappata nelle sezioni di scuola materna, nelle classi comuni delle istituzioni scolastiche di ogni ordine e grado e nelle istituzioni universitarie”.
Non ci addentremo in questa sede a discutere la molteplicità di significati del termine “integrazione”, tuttavia va individuato che per la legge “l’integrazione scolastica ha come obiettivo lo sviluppo delle potenzialità della persona handicappata nell’apprendimento, nella comunicazione, nelle relazioni e nella socializzazione”.
Il possibile conflitto tra il criterio di valutazione del profitto (implicitamente richiesto dalle scuole) e la potenzialità di sviluppo e miglioramento di competenze sociali e relazionali portano le istituzioni deputate alla formazione a chiedersi, forse anche troppo spesso, la ragione di un inserimento in un contesto che da un punto di vista del solo profitto creerebbe frustrazione e disagio.
Fortunatamente, la molteplicità di esperienze portate avanti in Italia e nel mondo danno una risposta chiara a questo tipo di perplessità.
Il solo inserimento è in grado di far maturare la scuola verso percorsi di accettazione delle diversità e di creazione di competenze relazionali proprie di contesti fatti da diversità più o meno complesse.
Secondo quanto riportato nella relazione annuale del Ministero della Pubblica Istruzione al Parlamento nel 1997 su un totale di alunni di 7.709.183 compresi tra la scuola materna e la scuola secondaria è stato effettuato un inserimento di 113.133 studenti con disabilità.
La percentuale di inserimento (si badi bene non d’integrazione) nella scuola materna è dell’1,06%; diventa dell’1,87% nelle scuole elementari, si passa al 2,45% per le scuole medie, per cadere infine allo 0,49% nelle scuole secondarie.

La mancanza di dati

Non esistono invece dati ufficiali circa l’inserimento di persone con disabilità all’interno delle università italiane. Perché?
Innanzitutto il processo formativo passa di competenza dal Ministero della Pubblica Istruzione al Ministero dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica (M.U.R.S.T.).
Non essendoci per l’Università l’obbligatorietà, risulta evidente che l’entità del problema si riduce.
Mancando dati ufficiali (salvando alcune sporadiche situazioni) è lecito chiedersi se esista una rappresentazione sociale del problema da parte dell’Istituzione Universitaria che ne motivi la ricerca stessa di una soluzione e l’esigenza di dati certi sui quali basare i propri interventi.
Volendo fare una stima dei potenziali utenti universitari, sulla base dei dati di coloro che hanno frequentato le scuole secondarie nel 1997 vediamo che:
561 sono con minorazione della vista;
1433 con minorazione dell’udito;
9876 con minorazione psicofisica prevalentemente fisica.
Di questi ultimi assumiamo che il 30% (circa 2962) possa accedere a studi universitari, avremmo che:
– nell’A.A. 1997/1998 avremmo dovuto avere circa 4956 studenti inseriti nelle varie università italiane.
In percentuale la potenziale popolazione sarebbe costituita dal:
12% di studenti con minorazione visiva,
29% con minorazione uditiva,
59% con minorazione prevalentemente fisica.
Un’analisi reale della situazione ci viene data dalla singola Università di Padova dove ha sede la prima commissione “Disabilità ed Handicap” universitaria.
Su 66.000 iscritti, 289 sono studenti con disabilità. Di questi:
19% con minorazione visiva,
8% con minorazione uditiva,
50% con minorazione motoria,
22% altro.
Se operiamo un confronto con la distribuzione percentuale da noi ipotizzata sulla base degli studenti delle scuole superiori, possiamo convenire che esiste una buona approssimazione tra le due distribuzioni percentuali, pertanto quei dati ipotetici possono essere considerati approssimativamente corretti.
Lo scarto più evidente è rappresentato dalla categoria “minorazione uditiva” che nella realtà padovana è rappresentata dal solo 8%. Questo dato può essere interpretato (nei limiti della validità di queste nostre inferenze) come “mortalità scolastica” a carico delle persone con disabilità uditiva.
Nella nostra esperienza, è un dato che trova un riscontro a causa della complessità di inserimento di studenti con problemi di sordità soprattutto profonda.

Una nuova legge

Certamente negli ultimi anni il numero di persone con disabilità che si iscrivono all’università è aumentato. E’ difficile stabilire se sia il risultato di una pressante attività culturale portata avanti dalle associazioni o se sia il risultato di un miglioramento dei servizi universitari.
Ciò che è certo è che dopo 7 anni dall’emanazione della legge quadro è stata promossa da alcuni deputati di centro sinistra e di centro destra una modifica della legge stessa nel senso di introdurre maggiori specifiche per gli studenti universitari con disabilità.
La legge 17/99 (modifica alla 104/92), che almeno su un piano normativo introduce delle interessanti agevolazioni per gli studenti disabili, proponendo un sistema organizzativo maggiormente mirato alla persona (con l’istituzione del tutoraggio e la facilitazione delle prove d’esame anche con l’uso di adeguate attrezzature), ci mette in “stand-by” sui potenziali cambiamenti che seguiranno.
L’impressione generale, comunque, ad oggi è che esista una tutela del diritto allo studio solo fino alle scuole superiori (e neanche tanto) e che il riconoscimento dell’individualità delle persone con disabilità, con le loro specifiche esigenze di studio, non sia praticabile nel dispersivo e complesso mondo universitario.
Le modifiche proposte vanno, infatti, nel senso di un riconoscimento di una specificità di studio e di una specificità di esigenze formative indipendentemente dall’appartenenza ad una categoria.
L’esperienza dell’ Associazione S.I.D.-Servizio Informazione Disabili, della quale io faccio parte, ci rivela un’effettiva difficoltà da parte dell’Università di recepire e prendersi carico delle molteplici e diverse richieste che uno studente con disabilità rivolge.
Forse anche l’assenza di una specifica competenza nel lavorare con persone con disabilità comporta il riproporre interventi di supporto che sono, per lo più, il risultato di ciò che si pensa sulla disabilità, seguendo uno stereotipo, e non sulle esigenze reali dello studente Bianchi, studente con disabilità.
In questo senso anche le statistiche periodicamente riproposte sulle dimensioni dell’inserimento non ci possono aiutare sulla programmazione di strategie di intervento efficaci.
I presupposti della realizzazione di un’effettiva integrazione degli studenti disabili universitari (e non del solo inserimento) restano sempre nella possibilità che l’università dà e darà di attaccare la propria struttura culturale-organizzativa.
Ciò significa:
1) investire soldi per attrezzature e servizi (ed è probabilmente l’aspetto meno impegnativo);
2) farlo “pensando” verso chi vengono investiti, “riflettendo” su quali siano le condizioni migliori che ne consentano l’uso, “programmando” strategie d’intervento adeguate (ed è già più complesso perchè richiede competenza);
3) far entrare la cultura delle disabilità nell’Istituzione, consentire, cioè, che l’università (docenti, amministrativi, ecc.) pensino prima e programmino conseguentemente tenendo conto di esigenze di gestione di bisogni diversi.
Ho paura, però, che i pensieri, di questi tempi, abbiano un costo superiore a qualsiasi attrezzatura o servizio.

* Psicologo, responsabile settore ausili informatici per lo studio
e-mail:marcocundari@tiscalinet.it
Sid-Servizio Informazione Disabili
Via dei Marsi 78, c/o Facoltà di Psicologia 00185 Roma
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Professione educatore

Educatori si nasce o si diventa? Difficile rispondere, quasi quanto è stata ed è difficile la strada per la definizione della figura professionale dell’educatore. Cerchiamo di fare il punto sul decreto 520/98, che per adesso è l’ultima parola del Ministero della Sanità su questo argomento, intervistando Francesco Crisafulli, presidente dell’Anep (Associazione Nazionale Educatori Professionali).

Cosa ne pensa ANEP del Decreto 520/98?

Per esprimere un parere sul Decreto, occorre brevemente ricordare alcuni passaggi determinanti che hanno segnato la storia degli educatori professionali nel nostro Paese. Nel settembre del 1990 una sentenza del Consiglio di Stato annullava il cosiddetto Decreto Degan (D.M. 10 feb. 1984) che, pur nei suoi limiti, dava agli Educatori Professionali un profilo valido nella nazione. Come è noto il Decreto legislativo 502/92 prevedeva una riforma delle professioni sanitarie ognuna delle quali doveva essere riconosciuta attraverso un Regolamento ministeriale che, oltre a definirne un profilo professionale, ne stabiliva anche il percorso formativo. Dopo una complicata trattativa, nella quale anche la nostra associazione aveva partecipato con spirito di collaborazione ma con forti perplessità rispetto alle richieste del Ministero, veniva fuori una figura professionale “ibrida” che metteva insieme (non per nostro volere) i Tecnici della Riabilitazione psichiatrica e psicosociale e gli Educatori Professionali: il famoso “Tecnico dell’educazione e della riabilitazione psichiatrica e psico-sociale” (Regolamento Ministero della Sanità 7 gennaio 1997). Il Ministero dell’Università, mostrando una sorprendente attività decretativa, come suo dovere, pubblicava il Decreto 10 settembre 1997 che istituiva il Diploma Universitario per il Tecnico dell’educazione e della riabilitazione psichiatrica e psico-sociale. Mentre l’associazione si preparava ad esprimere il suo dissenso su tale figura, il ministro Bindi, intervenendo al Convegno internazionale dell’Associazione internazionale degli educatori, l’AIEJI, (svoltosi a Brescia nel giugno ’97) si impegnava a riprendere in esame il nostro profilo professionale ed a collocare su un “binario morto” il profilo di tecnico dell’educazione e della riabilitazione psichiatrica e psico-sociale. Si faccia attenzione alle date perché devono passare due anni prima della pubblicazione del nostro Decreto.
Passiamo ora al parere sul Decreto. Il 520 è un buon Decreto, almeno per la sua parte nella quale definisce il profilo professionale e l’abilitazione all’esercizio della professione; lo è un po’ meno dove prevede la formazione presso la facoltà di medicina e chirurgia in collegamento con le facoltà di psicologia, sociologia e scienze dell’educazione; d’altra parte la scelta, per il Ministero, è stata obbligata in quanto si parla comunque di una professione che opera nel campo sanitario. In ogni caso quello che anche a nostro parere rappresenta il limite del Decreto sarà, speriamo presto, superato dalla riforma dell’Università che prevede l’autonomia didattica degli Atenei ed introduce il sistema degli obiettivi formativi e dei contenuti minimi qualificanti. Non ci saranno più le facoltà di riferimento ma una serie di crediti da acquisire in un percorso formativo definito.

A che punto siamo con l’istituzione dell’Albo degli Educatori Professionali?

Gli educatori professionali hanno due proposte di Legge depositate in Parlamento (Progetto di legge – n. 1504 – e n. 771) ma nell’ultimo periodo c’è stato un interessante intervento dell’autorità antitrust che, insieme al parere del Governo, hanno fermato l’iter dell’istituzione di nuovi Albi. L’antitrust dice, in sostanza, che coloro i quali hanno conseguito un titolo abilitante dopo aver superato un esame di Stato, dovrebbero essere liberi di fregiarsi di tale titolo indipendentemente dall’iscrizione all’Albo; idealmente si potrebbe pensare di poter fare a meno dell’Albo ma praticamente è molto difficile, come categoria, tutelarsi se non esiste una legge nazionale che riconosca la professione e che definisca dei rappresentanti per le trattative con lo Stato, le organizzazioni sindacali, il privato sociale. E’ di questi giorni la notizia, ma purtroppo non posso confermarla, che dal Governo sia arrivato il via libera per riaprire la questione Albi: lavoreremo affinché venga riaperto anche il nostro capitolo.

Chi gestirà la formazione degli educatori professionali?

Mi sembra che il dubbio degli anni scorsi su chi deve e dovrà fare la formazione degli EP, l’Università o le Regioni e gli Enti Locali, sia superato dagli eventi. Il Decreto 520/98 prevede la formazione presso l’Università; il Ministero della Solidarietà sociale è disponibile a emanare un Decreto sul profilo professionale simile a quello della Sanità e quindi con lo stesso iter formativo; la Legge 42/99 (Disposizioni in materia di professioni sanitarie) ha già stabilito le equipollenze dei titoli conseguiti presso scuole non universitarie (1) – (2) con il DU; il Decreto Legislativo di razionalizzazione del Servizio Sanitario Nazionale nell’istituire l’Area delle prestazioni Socio-Sanitarie prevede personale formato all’Università con Diploma Universitario.
Rispetto alla questione riqualificazione in servizio il Ministero della Sanità sta definendo, per il suo personale, i criteri attraverso i quali titoli anomali o lunghe esperienze lavorative verranno rese equivalenti al DU (2) anche attraverso corsi di riqualificazione. Il Ministero ha assicurato che ci mostrerà detta tabella ed in quella sede faremo presente che tali corsi, pur con l’attenzione alle diverse situazioni lavorative e territoriali, dovranno essere sia qualitativamente che quantitativamente svolti con il riferimento e nel rispetto della formazione di base e dei suoi piani didattici.

Non pensi che ci sia una contraddizione tra quello che realmente è e fa un educatore professionale e il fatto che a definire la sua figura sia il Ministero della Sanità?

Potremmo parlare di contraddizioni se le tappe della definizione della figura professionale le avessimo stabilite noi; viceversa l’associazione si è vista costretta a salire sul treno della definizione in ambito sanitario per due ragioni importanti: la prima è che una parte degli educatori professionali nel nostro paese lavora presso le Aziende di Unità Sanitaria Locale; la seconda è, per le precisazioni riportate all’inizio, che se avessimo indugiato oltre, lo spazio della nostra azione professionale sarebbe stato occupato da altre figure professionali.

All’uscita del decreto c’è stato dissenso da parte di altre categorie quali gli Assistenti Sociali. Cosa ne pensi?

Rispetto alla polemica con gli Assistenti Sociali il loro Ordine, nella persona di Erma Zucco, mi ha comunicato personalmente che intendevano presentare un ricorso (e credo che non l’abbiano presentato) non contro gli educatori professionali ma contro il Ministero della Sanità che, a loro giudizio, con il Decreto 520/98 ha sconfinato dal suo campo di competenza. La nostra disponibilità nei confronti dell’Ordine, del Sindacato e della Associazione degli Assistenti Sociali è in ogni occasione rinnovata e quando ci saranno argomenti per lavorare insieme non ci tireremo indietro.

Regolamentare e aumentare la formazione sono sicuramente garanzie, non solo per gli educatori ma anche per gli utenti, perché i possibili rischi di una professione come questa sono molti. Tempo fa, ad esempio, l’opinione pubblica è stata scossa dal caso Artico, l’educatore accusato di pedofilia, cui Santoro ha dedicato addirittura una puntata di Moby Dick.

Il lavoro di educatore è poco seguito dai mezzi di comunicazione di massa. Si è parlato di educatori professionali in qualche programma pomeridiano, in qualche gioco a quiz dove la concorrente dichiara di essere una EP, nella cronaca rosa perché tizia che fa’ l’educatrice è stata insieme a quel famoso presentatore e per finire nel putiferio suscitato dal caso “Artico”. Rispetto a quest’ultimo ho avuto le informazioni dalla stampa e sono stato alla trasmissione “Moby Dick” dove si affrontava la questione; l’idea che mi sono fatto è questa: non so se Lorenzo Artico abbia commesso i reati attribuitigli da coloro che l’hanno denunciato, ma quello di cui sono sicuro è che in quel periodo la stampa andava a caccia di pedofili e di notizie shock. Non voglio cadere nel luogo comune e dire che i mass media siano il “lupo cattivo” ma ho sofferto molto per la morbosità con la quale alcuni giornalisti inveivano contro una persona colpevole di aver portato avanti un lavoro educativo da solo (a tal proposito, mi sono chiesto come mai nell’inchiesta non si riusciva a capire quale ruolo abbia avuto il responsabile di Lorenzo Artico e la struttura per la quale lavorava). Lorenzo Artico non è un educatore professionale così come credo non lo sia quel capo scout delle cronache di quest’estate colpevole di non aver vigilato a sufficienza i ragazzi a lui affidati, ma pensando al lavoro che tutti i giorni svolgiamo nelle nostre strutture, alle responsabilità che abbiamo e ai rischi che corriamo, voglio mandare loro un piccolo segno della mia solidarietà.

(1) Il Decreto 502/92 definiva la sospensione dei corsi non universitari e permetteva agli studenti in corso la fine degli studi; la 42/99 rende equipollenti ai DU tutti i titoli conseguiti praticamente entro il ’95

(2) l’equipollenza o l’equivalenza sarà solo per l’esercizio della professione e la partecipazione ai concorsi pubblici e non per il proseguimento negli studi universitari

Per maggiori informazioni:
ANEP Associazione Nazionale Educatori Professionali
Via S. Isaia, 90 – 40100 Bologna – Fax 051/52.12.68
Sito internet: www.mclink.it/assoc/anep

Un’invenzione creativa

“Il gioco costruisce in profondità, né sappiamo in quali rivoli si riverserà la ricchezza che, grazie ad esso, si accumula in ogni bambino lasciato libero di inventare a sua misura”. L’importanza del gioco libero e creativo, non pensato solo per soddisfare esigenze di mercatoSpesso si parla del bambino come se fosse un’entità astratta, mentre solo osservando nella realtà quello che i bambini fanno ? Dario o Giulia, Giampaolo o Elisa ? e mille, mille altri… possiamo intuirne il significato. Ognuno di loro gioca in modo personale, con fantasie tutte diverse, alimentate giorno per giorno da ciò che osservano attorno a loro. Guardano, ascoltano, fiutano, toccano, assaporano: attraverso quelle porte straordinarie aperte sull’esterno che sono i cinque sensi afferrano il mondo, lo “assorbono”, diceva Maria Montessori, geniale studiosa dell’infanzia. Questa mente assorbente è attiva fin dalla nascita: sembra così fragile e inetto il neonato, eppure è già pronto a entrare in relazione con la madre, a cogliere le risposte che da lei verranno ai suoi bisogni e ai suoi desideri che per ora sa comunicare solo senza parole.
E’ su tali risposte che cominciano a modellarsi il suo pensiero, la sua prima esperienza dell’ambiente, a sentire se ? povero o ricco che sia ? è amato e protetto, se può fidarsi degli altri e crescere nella stima di sé. E il primo gioco è proprio con il seno e con gli occhi della madre, come pochi mesi dopo sarà con la propria mano e con il piedino da portare alla bocca, come con altri oggetti che troverà a portata di mano.

Giocare per esplorare

Gioco? Nei primi due anni si può dire che sia soprattutto esplorazione: degli oggetti, di come entrano in rapporto tra loro (il gioco del “dentro e del fuori” è inesauribile), eppure subito creativo, originale, diverso da un bambino all’altro. Questa mente che ha tanto assorbito e che ormai produce un linguaggio più o meno sicuro è capace di creare simboli, di fare associazioni, di immaginare e quindi di agire secondo nuove invenzioni. Lucia, 2 anni, ha appena finito di mangiare e cerca il papà che è lontano. Prende la forchetta e l’accosta all’orecchio come una cornetta di telefono e dice: «Ponto, papi … ».
Roberto, 2 anni e 8 mesi, già da tempo interessatissimo alle automobili, ha visto sulla strada tre auto rovesciate e ha tempestato tutti di domande per sapere che cosa e come è successo… A casa, due giorni dopo, mette in fila le sue macchinine e le fa scontrare. Poi chiede alla nonna che gli compri un semaforo «perché così non si rovesciano più».
Lauretta, 3 anni, alquanto sconvolta dopo alcune iniezioni che ha dovuto subire, appare irritabile e dorme male la notte. Alcune mattine più tardi prende le sue tre bambole, le strapazza dicendo: «Cattiva, cattiva», poi le mette a pancia in giù e le colpisce rabbiosamente con una matita.
Susi e Mimma, due amichette entrambe di 4 anni, giocano moltissimo a strapazzare le loro bambole come bambine capricciose, che fanno solo disastri, da mettere in castigo. Le mamme si chiedono: «Come mai, se noi non le trattiamo così?»… Chiamiamo gioco il loro modo di rivivere la realtà a volte drammatica, dolorosa oppure i propri fantasmi, ingranditi dalla difficoltà di capire le intenzioni e le esigenze degli adulti: quando giocano insieme, le ansie segrete dell’uno sono subito colte dall’altro come un’eco profonda.
In una scuola materna i bambini sono in giardino: c’è chi corre, chi va sullo scivolo, chi si arrampica. Giulia, Rina e Francesco hanno organizzato un ristorante in piena regola: le foglie larghe sono i piatti; sassolini, bacche, foglie piccole e pezzetti di rami sono i cibi, le due bambine (5 anni) le cuoche, Francesco (4 anni) è il cameriere; alcuni pupazzi sono i clienti e una parte importante del gioco consiste nel fatto che Francesco con aria drammatica ogni tanto va a dire che non hanno avuto da mangiare, che era tutto cattivo…

Un’invenzione gratuita e felice

Il gioco di questa età è all’insegna dell’invenzione creativa, gratuita e felice come quella che può compiere l’artista. Provate a interrompere un gioco in cui siano totalmente immersi e avrete proteste, pianti (che dal nostro punto di vista definiamo capricci). Ma oseremmo altrettanto disturbare il lavoro dello scienziato, del pittore, del musicista ? Il paragone non sembri eccessivo: la differenza consiste soprattutto nel fatto che gli adulti di solito giungono a un prodotto finito, evidente, monetizzabile, mentre l’azione dei bambini appartiene al mondo dell’effimero, si dice, perché non lascia traccia. Eppure è tutta apparenza, perché è giocando nei loro modi personali e unici che i bambini si costruiscono.
Dunque il loro è il prodotto più alto, senza prezzo: un individuo creativo e pensante, capace di decidere e di entrare in relazione con altri. Rivivono la realtà in cui sono immersi ed è così che la conoscono, si fanno una ragione del presente, del passato e del futuro come anticipazione dei propri desideri. Per l’impegno che vi mettono è un vero lavoro, dice ancora la Montessori, intenso, significativo, mai passatempo o relax come definiscono gli adulti i loro momenti di gioco. Tanto meno è perdita di tempo con l’idea soprattutto, dopo i 5, 6 anni, che: «Ora basta giocare: è tempo di fare qualcosa di più serio».
Ancora oggi, in un’epoca di tanto permissivismo spesso concesso a sproposito e fuori misura, troppi genitori e familiari giudicano negativamente il gioco dei bambini, le loro ripetizioni, che per i piccoli sono vitali conferme a ciò che hanno scoperto, così come il voler ricostruire sempre le cose secondo un certo ordine, con quegli oggetti, per ritrovare ogni volta il piacere e le emozioni della prima volta: quelle sottili e inespresse che noi dal di fuori ben poco riusciamo a cogliere.
Se non dobbiamo impedire, ironizzare, interrompere, tanto meno dobbiamo invadere la loro delicata sfera di gioco. Non hanno alcun bisogno che si “insegni” loro a giocare. Ben diversa è la situazione quando siano essi stessi a coinvolgerci.
Per esempio a Dario (3 anni e mezzo) piace moltissimo ? e lo fa ripetutamente ? un gioco con il nonno che fa la parte di un piccolo bambino malato, mentre lui è il bravo papà che lo cura. Lo fa sedere in poltrona, lo copre con un asciugamano, gli porta un bicchiere d’acqua, dicendo che è una «medicina difficilissima» e che deve berla tutta. Ma l’iniziativa è di Dario, il nonno paziente trae un suo piacere dal condividere con il piccolo questo gioco che va avanti per più giorni e che poi si esaurisce da sé, come altre situazioni simili.
Spesso per tradurre in concreto le loro immaginazioni i bambini hanno bisogno di oggetti e questo lo si è compreso da tempi immemorabili. Non è un caso che si siano trovati carrettini e trottole, fischietti d’osso o d’argilla, gabbiette, barchini e bambolotti fin dall’antichità e sotto i cieli più diversi: incaici, aztechi, greci, etruschi, romani, celtici, egizi, cinesi… per non parlare della pígotta, la bambola fatta di cenci, chiamata così in Lombardia (ma esistente con altro nome in altre regioni).
A questi oggetti abbiamo dato il nome di giocattoli, trastulli, balocchi che lo Zingarelli definisce «oggetti idonei a divertire i bambini». Sempre lo stesso pregiudizio: che i bambini si divertano e anche vero, ma che facciano qualcosa di serio al tempo stesso, questa è un’idea che gli adulti non vogliono riconoscere. In compenso si sono impossessati del gioco, l’hanno implasticato, trasformato in ambienti e in personaggi in miniatura sul modello dei grandi. La bambola di stracci o quella raffinata in panno lenci, dai lineamenti appena accennati, sono sostituite dalle Barbie e dai vari Ciccio Bello e successori, con smorfie fisse, meccanismi che emettono parole o che sanno fare la pipì.
I giochi di invenzione sui cibi, sulle cucine improvvisate su uno scalino o su un sasso sono sostituite con un vasto corredo di oggetti tutti in plastica di chiassosi colori: piattini, pentolini, pane, uovo fritto, pollo arrosto, cipolle, frutta. Anche le scuole ne sono invase e i bambini non se ne fanno nulla, il solo vedere tali falsi uccide l’immaginazione. Se i grandi si fermassero a osservare i bambini nelle loro situazioni spontanee, non ne comprerebbero, in primo luogo per rispettarli. Ma il mondo degli affari non tiene conto di simili quisquilie: è apparsa la notizia che gli industriali della plastica negli Usa tanto hanno premuto sugli organi competenti da ottenere il consenso alla diffusione di questi giochi?standard in ogni scuola materna, anche in quelle, come la Montessori o le steineriane, che per principio li respingono.

Cilindri e grembiuli

Non uccidiamo la capacità creativa alle origini: non c’è solo la televisione, ma gli interessi privati di talune industrie che non sanno più che inventare per soffocare la spontaneità dei bambini che devono giocare tutti con gli stessi oggetti. Un condizionamento precocissimo all’uniformità, al subire la moda. Se invece fin dal primo anno di vita del bambino si ha il coraggio di non seguirla, ci si può sottrarre quando cominciano a frequentare la scuola alla richiesta pressante del “lo voglio anch’io» perché li avremo aiutati a custodire il loro tesoro di immaginazione e tanto appiattimento della realtà avrà scarso significato per loro.
Cerchiamo bambole di stoffa o facciamole per loro (un bel libro che può aiutare adulti di buona volontà è Bambini e Bambole / Compagni di gioco fatti in casa di Karin Neuschutz, Filadelfia editore, Milano), cerchiamo costruzioni di legno con cubi, cilindri, prismi per cominciare, ma anche villaggetti con animali in miniatura, circuiti di treno, sempre in legno e componibili, evitando i soliti Lego o Fisher Price che, malgrado la grande disponibilità dei materiali, rispondono a procedimenti più razionali e poco adatti al periodo 3?6 anni.
Libri che possono orientare genitori dì buona volontà sono anche Giocattoli creativi e Bambini Barattoli Giocattoli, entrambi di Roberto Papetti e di Gianfranco Zavalloni (Macroedizioni, San Martino di Sarsina, 1995). E bello per i bambini non solo usare oggetti fatti «dal mio papà» o «dalla mia nonna», ma anche averli visti nascere sotto i loro occhi, un’esperienza del fare e del giocare con poco, anch’essa oggi perduta.
Altro aspetto interessante dell’attività dei bambini ? specialmente fra i 2 e i 5 anni ? è il loro piacere a cooperare alle attività degli adulti: se il padre prende in mano chiodi e martello o la madre prepara attrezzi e ingredienti per fare una torta o per lavare i piatti della merenda (questo secondo la classica divisione dei ruoli, ma oggi ogni tanto accade il contrario), subito il bambino è dappresso per curiosare, guardare e infine allungare le mani: «Voglio fare anch’io!». Al solito gli adulti mostrano poca pazienza: «Fa disastri, tocca tutto». La frase tipica dell’educazione tradizionale è ancora «guardare e non toccare, è una cosa da imparare». Ma se vogliamo bambini attivi, svegli, capaci più tardi di rendersi utili, dobbiamo renderli partecipi. Insegneremo loro l’uso appropriato degli attrezzi: faremo indossare un grembiulino impermeabile, come quelli da cucina ma in misura ridotta, quando si tratterà di lavare; profitteremo delle torte casalinghe per mostrare loro come si misura a tazze e cucchiai, come fanno gli americani, che per i piccoli è certo più semplice della bilancia. E poi tutto quello che è battere, mescolare, strofinare, lucidare, spazzare, rastrellare, innaffiare è davvero pane per i loro denti: gioco anche questo?
Giulia aveva 3 anni appena, quando, issata su uno sgabello, lavava con grande attenzione tazze e piattini, senza mai romperne alcuna e commentava: «Meno male, lavando io», come a dire: «Ti sto aiutando». Dunque un gioco di identificazione importante e la fiducia da parte dell’adulto che le ha affidato stoviglie pur sempre frangibili.
Penso a Silvano di 5 anni che i genitori avevano iscritto in una scuola Montessori con la speranza che imparasse in anticipo a leggere e a scrivere e che regolarmente sceglieva, tutte le mattine, dì lavare le bambole, strofinandole e spazzolandole con energia, quasi a voler recuperare un gioco basilare ? quello con l’acqua ? in casa decisamente proibito e da femmine. Taciturno e spesso aggrottato, sembrava ritrovare un po’ la sua serenità di bambino solo dopo questa cura quotidiana, da lui scelta e che la scuola gli consentiva. Un’ultima parola sulla mania di far bruciare le tappe ai propri figli. Li sollecitiamo in tanti modi, vogliamo che lascino presto il loro spazio di sogno e di fantasia. Eppure non si diventa più intelligenti e capaci, rubando occasioni al gioco spontaneo, spingendoli nell’apprendimento razionale e consapevole prima del tempo, è vero il contrario: il gioco costruisce in profondità, né sappiamo in quali rivoli si riverserà la ricchezza che, grazie ad esso, si accumula in ogni bambino lasciato libero di inventare a sua misura.

articolo tratto dalla rivista “Famiglia Oggi”, n.8-9/1996

(*) presidente associazione Centro nascita Montessori, Roma

Giocare allo scout

“Silvio era un terremoto incontenibile, non un istante fermo… Al gioco dei silenzio, però, diventava un serpente che silenzioso strisciava tra gli arbusti fino alla meta, imprendibile. Gli chiesi come faceva lui a farlo così bene, lui, che era così confusionario, mi disse: Se si gioca, si gioca !”“Un verde prato, una radura in mezzo ad un bosco, una calda spiaggia estiva, un campetto alla periferia della città, una piazza libera dalle auto, angoli e vicoli…ci sono tanti luoghi per giocare insieme con gli amici. Dobbiamo però delimitare il campo da gioco! Servono delle porte. Chi sa una “conta” per dividerci in due squadre? Qualcuno conosce qualche gioco nuovo?”. E inizia la grande avventura di un gioco tra bambini!!!
Quella proposta è l’introduzione ad un minimanuale rivolto a tutti i bambini e le bambine tra gli 8 e i 12 anni, che la rivista “Giochiamo” propone, in particolare, ai lupetti e alle coccinelle scout. Perché fare “quasi tutto attraverso il gioco” significa anche prepararsi a giocare il “grande gioco della vita”.
Attraverso lil gioco ci si sperimenta, si mettono a frutto le cose per le quali si è portati e si affinano quelle in cui non si è mai stati molto “forti”; si scopre il territorio, ampliando i riferimenti conosciuti, ci si predispone circoscrivendo la zona di gioco e il contesto in cui lo stesso avverrà.
Un secondo elemento da sperimentare è la possibiltà di giocare con fantasia. Non servono, infatti, grandi strutture di gioco, parchi immensi dove l’attrazione siano sofisticate evoluzioni tecnologiche.
Per giocare è sufficiente il nostro corpo, qualche materiale, la voglia di stare insieme e di giocare insieme con “gioia e lealtà”. Il fondatore dello scoutismo , sir Robert Baden Powell (in meglio conosciuto come B.P.) utilizzava il gioco come preciso strumento metodologico e come metafora della vita.
Alcune frasi possono fornire ulteriori riferimenti (con un’attenzione: vanno contestualizzate, per poterne comprendere appieno il significato innovativo, nel periodo tra la fine del 1800 e il 1941 – anno di morte di B.P., e tra Inghilterra e Sudafrica).
“La vita dello scout è come una partita di calcio. Sei selezionato come attaccante? Gioca il gioco! Gioca per il successo della tua squadra! Non pensare alla tua gloria personale o ai rischi che puoi correre: la tua squadra è dietro te. Gioca a fondo e sfrutta al massimo ogni possibilità che hai. Il calcio è un bel gioco ma ancor più bello di esso e di ogni altro gioco, è il gioco della vita”.
Oltre a questo invito a giocare in fondo, mettendo a frutto le capacità personali, che ha che fare con un aspetto, quello delle specificità, che riprenderemo in un altro capitolo, è presente una chiara sottolineatura dell’originalità e la possibilità di essere quel che si è mettendo a frutto quel “5% di buono che c’è” anche nella peggiore situazione di partenza (quello di tanti ragazzi in difficoltà, ad esempio), di esprimersi liberamente, di esprimere al meglio le proprie potenzialità.
“Siamo proprio come i mattoni di un muro. Ognuno di noi ha il suo posto, anche se può sembrare un piccolo posto, in confronto alla grandezza del muro. Ma se un mattone si rompe, o scivola fuori posto, gli altri cominciano a dover sopportare uno sforzo anormale. Appaiono fessure e il muro si sgretola” (B.P.). Per questo ha inventato o riproposto grandi giochi di una intera giornata, giochi di Kim (che tengono allenati i sensi e vengono molto utilizzati in ambito scolastico per il riconoscimento di oggetti, suoni, sapori, odori), giochi di osservazione di situazioni e deduzione che ne consegue, giochi all’aperto e di conoscenza del territorio ma anche al chiuso, giochi atletici, giochi d squadra per permettere a ciascun bambino e bambina di prendere possesso del proprio corpo, di conoscere i propri limiti, di esplorare gli spazi di libertà di cui dispone, di provare “a vuoto “ certe funzioni fisiche e mentali di cui si avrà bisogno da adulto, di “giocare” a fare quando non può ancora fare, di simulare situazioni che si presenteranno più tardi senza incorrere nei conseguenti rischi, per sfogare il suo istinto “combattivo” e il suo bisogno di far rumore e schiamazzo.

Il mondo come un campo da gioco

“L’istinto naturale del bambino è sviluppare la propria personalità tramite un esercizio che chiamiamo gioco; ha un desiderio innato di realizzarsi, vuol fare cose e superare difficoltà per essere soddisfatto” (B.P. in “Taccuino”).
Vi sono alcune caratteristiche che riguardano il gioco scout:
– ha uno scopo;
– non premia solo il risultato materiale, ma lo stile e la qualità del gioco;
– tutti possono, per quanto possibile, essere attori e nessuno spettatore permanente;
– non emargina i meno dotati, ma , al contrario, permette loro di esercitarsi;
– può essere competitivo tra squadre, non tra persone; di frequente ha un tema, un’ambientazione (un esempio? il libro della Giungla nella branca lupetti forma il tema dell’intero gioco del lupettismo, oltreché dì singoli giochi ed attività);
– non disdegna giochi fisicamente “duri”, non brutali, perché una certa misura di rischio è necessaria alla vita, ed una certa misura di allenamento nell’affrontare i rischi è pure necessaria per prolungare questa vita;
– non ci sono modelli ben precisi, ma alcuni suggerimenti generali da adattare alle circostanze locali, al terreno e all’intervento dei bambini;
– deve anche essere entusiasmante e divertente, se non offre più allegria, gioia di vivere, apprezzamento dei lati belli della vita non è più gioco.
Infine è un modo in cui guardare all’esistenza: “non prendere le cose troppo sul serio, ma trai il miglior partito da ciò che hai, considera la vita come un gioco ed il mondo come un campo da gioco”. Prendere la vita come un gioco non è un invito alla “‘leggerezza”, ma, da un lato richiamo ai propri stessi limiti (non prendere le cose troppo sul serio comincia da se stessi), dall’altro un invito all’ottimismo, alla gioia, alla capacità di godere la vita.(2)

Se si gioca si gioca

Ci sono parole, in quanto è stato scritto sino ad ora, che sembrano fornire elementi che non necessitano di ulteriori riflessioni per essere connessi al tema dei giochi e l’handicap, il deficit la difficoltà. Ma vorrei proporre un racconto per introdurre.
Silvio era un terremoto incontenibile, non un istante fermo, come il coperchio di una pentola a pressione. Al gioco dei silenzio, però, diventava un serpente che silenzioso strisciava tra gli arbusti fino alla meta, imprendibile. Gli chiesi come faceva lui a farlo così bene, lui, che era così confusionario, mi disse: “Se si gioca, si gioca” !
“Non serve a nulla avere uno o due ragazzi brillanti…” dice B.P. e suggerisce di considerare vincitore colui che è riuscito a migliorare di più i propri risultati da una gara all’altra: ognuno si impegna, in questo modo, con se stesso”.
Il gioco è il primo educatore perché è la cosa più importante della vita di un bambino ed una bambina. Li attira e nello stesso tempo chiede loro di migliorarsi, di acquistare coordinamento. di allenarsi, di mantenersi in forma; nel gioco sono coinvolti intelligenza. affettività, corporeità; per questo a nessuno, qualsiasi sia suo handicap, è preclusa la strada di accesso al gioco che a sua volta diventa esso stesso occasione dì superamento dei propri limiti. Il gioco serve a formare il carattere creando uno spirito ottimista, pronto a lanciarsi nelle imprese senza badare al profitto. Il giocare ha in sé la sua ricompensa, è un’attività gratuita come gratuito è lo spirito adatto per avere la vita come una bella avventura.
E soprattutto il gioco di squadra è scuola dì collaborazione e solidarietà. Nel gioco dì squadra ognuno può trovare un suo ruolo utile, sentirsi importante e, se demotivato, sentirsi stimolato a fare di più. Il gioco stesso porta a questo: è un linguaggio universale che parla oltre ogni barriera, oltre ogni handicap e immediatamente lega gli animi facendo dimenticare ogni differenza . L’esca è il riconoscimento che ne deriva, la fiducia che fa credere nelle potenzialità della persona al di là di ogni prova contraria, l’essere pronto a scommetterci, l’autonomia e la responsabilizzazione: porta a far scattare nella mente di ciascuno (anche in difficoltà, anche chi si sta occupando di restare a galla in una situazione difficile) che il progetto è suo e dipende da lui il risultato del gioco, oltre che decidere di starci.
Aspettarsi molto da tutti i bambini e chiedere a ciascuno lo sforzo di “fare del proprio meglio”. (3)
E qui tornano in mente le specialità, che derivano da speciale: è quello che ciascuno sa, sa già fare e può mettere a disposizione di altri, continuando ad approfondire, oppure è qualcosa che non si sa, che per questo incuriosisce e si ha l’opportunità di approfondire.
In un progetto educativo, così come proposto, si intende avere presenti “contemporaneamente” sia la differenziazione delle identità (incarichi, specialità, interessi, gusti e caratteristiche, progressione personale) che le strutture di connessione (i contesti educativi: la squadra nel gioco, la squadriglia, gli obiettivi generali comuni). La situazione rende significativi i modi di agire, i comportamenti e gli stili comunicativi.

Gioca…non stare a guardare!

Un’ultima riflessione rivolta agli adulti educatori potrebbe essere l’invito a recuperare uno spirito per cui anche “il nostro lavoro diviene leggero se lo consideriamo come un gioco, in cui noi siamo i giocatori di una squadra, che giocano ciascuno al suo posto, e tutti insieme giocano per il bene dela squadra; e quando ne comprendiamo lo spirito, facciamo presto a scoprire che non è un gioco ma in grande gioco”.

1 Giochi all’aperto. Idee per giocare insieme con la fantasia, Nuova Editrice Fiordaliso, Roma

2 Mario Sica, note introduttive alla terza edizione e prefazione alla settima edizione inglese, di Giochi scout, R. Baden Powell, Nuova Editrice Fiordaliso, Roma, 1999

3 Handicap e scoutismo, A. Contardi, P. Curatolo, R. Lorenzini, edizioni Borla, 1986

(*) Maria Grazia Berlini è caporedattrice della rivista nazionale scout dei lupetti e delle coccinelle Giochiamo, pedagogista, è consulente del comune di Cesena

Un professionista rivoluzionario

“L’insegnante di sostegno dovrebbe essere la “crema” del corpo insegnante in generale, con stipendio doppio, magari… i genitori gli chiedono una professionalità e una competenza maggiore di quella degli altri insegnanti…”Intervista a Marco Espa presidente ABC associazione bambini cerebrolesi Sardegna, vicepresidente ABC federazione italianaCome associazione di genitori come vedete il ruolo dell’insegnante disostegno?

come quella di un professionista normalmente rivoluzionario, di chi combatte con tutte le sue forze per non vedere una persona rinchiusa in un istituto lager…mi spiego: la scuola può essere direttamente la protagonista del sostegno alla famiglia: quando si progetta insieme, quando si collabora, quando si discute anche animatamente ma senza che nessuno delle parti per principio si rinchiuda dietro il paravento dell’esperto e della professionalità, posso garantire l’entusiasmo e la gioia delle famiglie per poter far emergere il progetto di vita del proprio figlio. Per questo grazie ad un “bravo” insegnante ci sarà un bambino o una bambina di meno chiusa in un istituto lager.
L’insegnante di sostegno dovrebbe essere la “crema” del corpo insegnante in generale, con stipendio doppio, magari…
Noi abbiamo fatto un corso di aggiornamento per 600 insegnanti dal titolo “risorsa handicap”, per questo siamo convinti che aumentando la qualità di vita per le persone cosiddette più deboli aumenta la qualità di vita per tutti.
I docenti possono diventare coessenziali allo sviluppo della vita dei nostri figli, e non solo dell’aspetto educativo, e si potrebbe dire che molti di essi partecipano al generare tipico della famiglia. La famiglia si apre e sa ascoltare chi ascolta.
In particolare le famiglie dei gravissimi, (e parlo solo di coloro che per motivi di salute non possono andare a scuola, perché prenderebbero malattie che per il loro stato sono molto pericolose), non vedono l’ora che la scuola si apra e che entri nelle case.
In questo senso positivo vediamo l’insegnante di sostegno come il più competente, preparato, accogliente, bravo mediatore tra tutti i suoi colleghi “generici” (passatemi il termine, senza offesa…).
Pertanto all’insegnante di sostegno i genitori chiedono una professionalità e una competenza maggiore di quella degli altri insegnanti, non solo nel settore specifico, ma, elemento ancora più importante, nella capacità di accogliere e valorizzare la persona, nel collegare l’apprendimento personalizzato e gli obiettivi comuni, nel far fruttare le molteplici risorse, nell’essere uno dei loro principali collaboratori al meraviglioso compito di crescita e maturazione del proprio figlio.

Parte del vostro lavoro si svolge proprio all’interno delle scuole; cheesperienze avete avuto nei rapporti con gli insegnanti di sostegno, qualeclima avete incontrato, quali difficoltà’ incontra?

È necessaria prima una considerazione di carattere generale sull’impatto tra Istituzione ( Scuola piuttosto che ASL o Comune ecc.) e famiglie. Abbiamo in tanti settori le migliori legislazioni europee ma ci scontriamo spesso con le realtà locali: solo un funzionario od un amministratore miope oramai può pensare che aumentare la qualità di vita delle persone più deboli vuol dire fare un favore, un’elemosina che alla generalità dei cittadini non ha assolutamente ragione di interessare; è vero invece che aumentando la qualità di vita delle persone cosiddette più deboli si aumenta la qualità di vita per la collettività.
L’atteggiamento prevalente, è invece, da parte dei pubblici funzionari e amministratori sul territorio: tolgo la barriera architettonica? ti faccio un favore, metto una passerella al mare? ti faccio un favore, ti garantisco l’insegnamento di sostegno? Ti faccio un favore e si potrebbe andare avanti a lungo con questi esempi di “solidarietà” che incontriamo nelle nostre battaglie. Questa è la battaglia più dura, perché è anche la più mortificante: tuo figlio è sempre un problema… mai una risorsa!
In questo senso i nostri rapporti con gli insegnanti di sostegno, o per meglio dire con l’istituzione Scuola vanno da:
chiamare i Carabinieri perché il corpo docente con le sue gerarchie ha deciso che un bambino non può entrare a scuola in quanto cerebroleso… alla più grande stima fiducia e collaborazione reciproca tra i nostri figli ( e ovviamente le nostre famiglie) e gli insegnanti… ciò che è ancora determinante è il rapporto personale tra tutte le componenti in causa, accompagnato dalla volontà dei professionisti di voler fare un lavoro di squadra, di équipe, a servizio del bambino e della sua famiglia, con il riconoscimento di ruoli e competenze diverse e assolutamente complementari, e non gerarchiche (i professionisti la sanno lunga, i genitori “rompono”…).Le famiglie piano piano prendono coscienza che questa non deve essere più una esperienza privata, i nostri figli più sono gravi e più possono essere una risorsa per tutti perché la loro presenza pone domande ed esigenze sociali e culturali alle quali tutti ( politici, amministratori, docenti ecc.) devono dare delle risposte con fatti di evidenza sociale. Non con i buoni sentimenti.
Sintetizzando: è vero che casi positivi di integrazione o di successi scolastici dei nostri bambini e ragazzi sono dipesi dal rapporto di collaborazione creatosi fra famiglia e insegnanti di sostegno: i presupposti determinanti sono stati e sono il rispetto da parte degli insegnanti per i bambini, per i genitori e la famiglia nel suo insieme, la fiducia nei bambini e la fiducia nei genitori per la loro specifica e insostituibile competenza, in quanto esperti soprattutto nell’amore e nella conoscenza del proprio figlio con handicap, nella capacità di imparare continuamente da lui, in una continua e meravigliosa crescita reciproca. Negli altri casi c’è solo battaglia o le famiglie si ritirano dalla scuola.

Cosa ne pensate del livello formativo degli insegnanti di sostegno?

Prima di tutto: gli insegnanti hanno voglia, desiderio e “fame” di formazione di qualità, per quanto riguarda la nostra esperienza. Abbiamo organizzato nello scorso marzo a Cagliari un corso di aggiornamento dal titolo “risorsa handicap” (informazioni presso il sito internet http://web.tin.it/abc_sardegna ) con la docenza tra gli altri di Imprudente, Canevaro, Tortello, Zucchi, Ianes e la nostra di genitori di bambini handicappati.
Ci aspettavamo 150 iscrizioni e invece abbiamo avuto, con nostra grande sorpresa più di 1000 presenze, dei quali oltre 600 docenti curriculari!
La preparazione e la formazione ci sembra in generale molto carente, non tanto negli aspetti di formazione specifica e di padronanza degli strumenti operativi, ma soprattutto in quelli di formazione “culturale” di base riguardo alle visioni e teorie corrette e più avanzate e più positive dell’handicap, molto più stimolanti e motivanti per gli stessi insegnanti e per il loro lavoro. A volte si discute di lana caprina, tipo se il medico non mi dà la sua diagnosi io non so cosa fare, e noi diciamo: ma vuoi guardarlo con i tuoi occhi quel bambino o quella bambina ? Perché sei sempre spaventato? Perché ti fermi davanti ad ogni piccolo problema?
Altre volte troviamo insegnanti integralmente capaci, che sanno prendere la situazione in mano in maniera collaborativa, anche nella scarsità di mezzi e risorse e collaborare a dei progetti che si rivelano spesso vincenti.

Autonomia scolastica, Progetto Berlinguer, manovre finanziarie che di fatto tagliano risorse: di fronte a queste novità’ come si prospetta l’integrazione scolastica e la professione dell’insegnante di sostegno?

Se gli insegnanti dimostreranno che difenderanno la qualità dell’integrazione scolastica con la stessa intensità della sacrosanta difesa del posto di lavoro, sappiano che siamo pronti a scendere in piazza con loro, nel nostro interesse perché ogni servizio sul territorio è per noi una possibilità in più di non rinchiudere nessuno in un istituto! Abbiamo combattuto tante battaglie, è vero che siamo un po’ stanchi, ma continueremo ad andare avanti: li aspettiamo al nostro fianco quando sapremo organizzarci meglio, essere più collegati, quando riusciremo a capire che l’esperienza di ognuno di noi non è un fatto privato ma una potenziale bomba-risorsa per tutti, e allora … i nostri figli riusciranno a far scoppiare la rivoluzione.

A.B.C. SARDEGNA
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Una risorsa per la scuola e per le famiglie

La FADIS (Federazione Associazioni di Docenti per l’Integrazione Scolastica) è un organismo che raccoglie nove associazioni dislocate sul territorio nazionale; abbiamo rivolto alcune domande a Nicola Quirico che ne è il presidente, sulle difficoltà e le prospettive di lavoro dell’insegnante di sostegno.Cominciamo con dei dati, quanto sono gli insegnanti di sostegno oggi in Italia?

Secondo i dati forniti dal Ministero della Pubblica Istruzione i docenti di sostegno in servizio nell’anno scolastico 1998/99 è stato di 58.756. L’ introduzione del parametro 1/138 introdotto con la legge finanziaria del 1997, cioè basando la determinazione degli organici di sostegno sul numero totale degli studenti dalle materne alle superiori diviso per 138, ha determinato una maggiore uniformità nella distribuzione dei docenti sul territorio nazionale. Tuttavia come sottolineato sia dalle associazioni degli insegnanti di sostegno sia dalle associazioni dei genitori questo parametro andrebbe rivisto e adeguato al rapporto 1/100 in quanto non soddisfa le reali necessità della scuola a fronte di un aumento degli alunni in situazione di handicap ed in particolare di quelli gravi verificatosi in questi anni.

Come si diventa insegnanti di sostegno, quali percorsi di studio deve seguire oggi un giovane che vuole svolgere questa professione? Anzi visto che il percorso formativo ha avuto, ed ha, una storia piuttosto contorta, descrivici la situazione che si è creata riferendoti a quello che è successo.

Purtroppo quella della formazione dei docenti di sostegno è uno nodi più complessi che riguardano questa professione. I docenti di sostegno sono stati formati attraverso un corso biennale di specializzazione di 1.300 ore polivalente, questi corsi sono stati l’iter formativo normale per la maggior parte di essi fino al 1997. Poi abbiamo assistito con grande disappunto alla sospensione dei corsi biennali per l’attivazione di corsi cosiddetti “intensivi” che prevedono un iter formativo di sole 450 ore senza trattare l’area della minorazione visiva ed uditiva. I corsi sono stati rivolti a personale demotivato e proveniente da classi in esubero della scuola media superiore in particolare. Tali corsi sono stati accolti dagli stessi docenti interessati con scarsa attenzione e partecipazione, un vero fiasco sottolineato da più parti. Per ovviare alla cronica carenza di personale specializzato da quest’anno sono stati riaperti i corsi biennali di specializzazione che saranno gestiti dalle Università in convenzione con Enti e Associazioni. Purtroppo proprio in questi giorni vengano segnalate irregolarità e perplessità sull’attivazione di questi corsi proprio dal Ministero stesso. In ogni caso si sta creando una babele formativa a fronte di un bisogno reale che attende risposte immediate.
Come FADIS crediamo che la formazione dei docenti debba essere di qualità anche in questa fase transitoria, infatti siamo sempre n attesa che parta la specializzazione universitaria prevista per 2001. Specializzazione universitaria che ci lascia anche in questo caso perplessi per il modesto numero di ore sempre 450 senza obbligo di frequenza, che servono per ottenere un titolo universitario che sarà abilitante all’insegnamento.
Infine è bene ricordare che circa 10.000 docenti sono stati utilizzati nel precedente anno scolastico senza nessuna professionalità e competenza.

Come valutate il Progetto di Berlinguer di riforma e integrazione scolastica, quali riflessi potrà avere sulla vostra professione? In particolare cosa s’intende per “normalizzazione dell’integrazione” e per “riutilizzo intelligente degli insegnanti”?

Ci sentiamo di condividere il documento laddove si afferma che occorre “favorire il passaggio da una gestione puramente aritmetica dell’organico dei docenti di sostegno ad una fondata sulla visione complessiva della situazione e sulla necessità di differenziare le risposte in base, non più solo al numero delle certificazioni e alla gravità del deficit, ma soprattutto alle condizioni reali delle singole istituzioni scolastiche”. In quest’ottica, si potrebbero verificare situazioni nelle quali un istituto scolastico abbia necessità di aumentare il numero di insegnanti di sostegno, mentre un altro ritenga opportuno ridurlo. Le norme attuative, citate immediatamente dopo nel documento degli Orientamenti generali per una nuova politica dell’integrazione, non risultano essere coerenti con i principi sopra menzionati, perché a fronte di un aumento di 46 alunni certificati nell’a.s. 1998/1999, si è verificato una diminuzione di 674 docenti di sostegno che si ritiene presumibilmente compensata dall’attivazione di “modelli efficaci di integrazione”. In nessuna parte del documento si precisa in che cosa consistano tali modelli efficaci di integrazione, come vengano e siano stati censiti, e come venga verificata la loro efficacia e riproducibilità su scala nazionale. Per quanto riguarda la formazione dei docenti si ravvisa un’ipotesi di responsabilizzazione diversa dei docenti curricolari in relazione all’integrazione, ma il ruolo che questi andranno ad assumere nei confronti di tale situazione non è chiaro. Sarebbe opportuno sapere se, nelle intenzioni di chi scrive, è prevista l’eventuale sostituzione della figura dell’insegnante di sostegno con quella dell’insegnante curricolare. Se questa risultasse essere un’ipotesi fondata, ci preme ricordare che non la condividiamo, in quanto le due figure hanno compiti integrati. Il profilo professionale del docente specializzato che rappresenta un reale supporto alla classe nell’assunzione di strategie e tecniche pedagogiche, metodologiche e didattiche integrative, che conduce un lavoro di consulenza a favore dei colleghi curricolari e di interventi specializzati centrati sulle caratteristiche e le risorse dell’allievo (come riportato nel documento) è condivisibile. In contraddizione con ciò che è sempre stato lo spirito stesso dell’integrazione è il fatto che questo “profilo professionale nuovo” veda il docente di sostegno come unico garante nei fatti di una “progressiva riduzione della didattica cosiddetta frontale”. La “formazione del contingente degli insegnanti impiegati per il sostegno” (ovviamente in possesso di specializzazione) ha come obiettivo ultimo quello di metterli in grado di intervenire in classi che presentino alunni certificati di ogni tipologia. La creazione di “nuclei di docenti con competenze specifiche e da impiegare – al di là delle graduatorie in uso e con il ricorso a forme di remunerazione dell’eventuale disagio – laddove esista l’eventuale bisogno” non siamo riusciti a capire realmente cosa significhi in termini pratici. L’unica interpretazione che siamo riusciti ad individuare è, crediamo, molto lontana dalle idee dello scrivente, in quanto si tratta di ipotizzare di avere dei docenti “super esperti” in determinate tipologie di minorazione (ad esempio docenti che “si occupano” di classi con alunni non udenti, altri che si occupano di non vedenti, ecc.), filosofia ormai sperimentata e superata dalla normativa già da diversi anni con l’istituzione del docente con specializzazione polivalente. Ciò che riteniamo molto utile è dare la possibilità alle scuole che hanno necessità di interventi molto specifici (traduttori braille, mediatori LIS, ecc.) di fare convenzioni con personale esterno, in possesso di queste specifiche competenze. Ciò non vuol dire che tali figure possano essere sostitutive dell’intervento fatto dal docente specializzato per il sostegno. Quest’ultimo, infatti, è anche l’unico che ha le reali competenze per lavorare in quei consigli di classe in cui si trovano alunni che hanno difficoltà di apprendimento che emergono come conseguenza di una condizione di svantaggio socio-culturale o di inadeguato approccio pedagogico-educativo-didattico della scuola.
In conclusione:
– l’insegnante specializzato per il sostegno è un insegnante della scuola che lavora in classe e per la classe in cui si trova un alunno certificato o un alunno in difficoltà di apprendimento che emergono da una condizione di svantaggio socio-culturale o di inadeguato approccio pedagogico-educativo-didattico della scuola;
– l’insegnante specializzato costruisce progetti insieme al gruppo operativo multidisciplinare (DPR del 24/2/94), ma usa la sua funzione docente nelle classi con attività didattiche anche alternative (classi aperte, lavoro a gruppi, insegnamento individualizzato).

L’attuazione graduale delle norme relative all’autonomia scolastica che problemi vi pone?

L’introduzione dell’autonomia nelle scuole ma in generale di tutte quelle riforme in atto nella scuola italiana: innalzamento dell’obbligo, nuovo esame di stato, riforma dei cicli debbono essere attentamente valutate perché in momento di grandi cambiamenti il diritto allo studio degli alunni in situazione di handicap non venga meno. I rischi sono tanti e l’attenzione dei direttori scolastici e amministratori locali ha queste tematiche è talvolta molto bassa. A titolo di esempio vorrei citare il caso dei rimborsi per i docenti di sostegno impegnati quest’estate nel nuovo esame di stato. Dopo ripetute richieste di chiarimento con il Ministero sull’entità del compenso dovuto sono arrivati rimborsi pari a lire 700 l’ora. Sicuramente aldilà della cifra che parla da sola è la scarsa attenzione che a questo problema si pone che deve mettere in allarme docenti e genitori. Il docente di sostegno è una risorsa per la scuola che va sostenuta e promossa. Attualmente si richiede a tutti i docenti una forte capacità progettuale e di coordinazione tra i vari soggetti presenti nel territorio. Credo che queste competenze siano in possesso dei docenti di sostegno e il loro apporto all’innovazione della didattica possa essere notevole, l’importante è dargli gli strumenti per operare concretamente per tutte le situazioni di disagio e svantaggio presenti in numero sempre maggiore nella scuola pubblica. L’integrazione scolastica quando è stata di qualità è stata forse una delle più grandi innovazioni della scuola pubblica italiana di questi ultimi vent’anni.

*FADIS,
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Un sostegno adeguato e formato

“L’autonomia scolastica, se male interpretata, può incoraggiare nuove forme di emarginazione…Il rapporto di 1 insegnante di sostegno ogni 138 alunni va rivisto anche in previsione dell’aumento dei ragazzi certificati nelle scuole…”. Intervista sull’integrazione e sul ruolo degli insegnanti di sostegno a Mario Tortello, del Comitato per l’integrazione scolastica di Torino e direttore della rivista Handicap e scuolaParliamo questa volta di integrazione dal punto di vista dell’insegnantedi sostegno: a quali difficoltà va incontro in quest’anno scolastico?

Alle difficoltà di sempre e a qualche problema in più. A meno che, nella prassi, cambi veramente qualcosa. O meglio: a meno che le esperienze positive realizzate in quasi trent’anni di integrazione scolastica vengano mutuate in modo capillare dalle istituzioni scolastiche che, per di più, si avviano all’autonomia organizzativa, didattica, … Mi spiego: è dalla fine degli anni ’70 che la normativa sottolinea la necessità di rifiutare un’impostazione che delega al solo docente per il sostegno l’integrazione scolastica degli alunni e delle alunne in situazione di handicap. Nel 1995, la premessa ai programmi vigenti dei corsi di specializzazione scrive con grande efficacia che l’integrazione è dovere deontologico di tutti gli insegnanti che la inverano, a partire da quelli curricolari. E’ la scuola, nel suo complesso, che si deve attrezzare per sostenere l’esperienza di integrazione; non un docente ad hoc, per di più all’interno d’un famigerato sgabuzzino di sostegno (sic!). Quest’anno, poi, ci possono essere alcune difficoltà in più: una riduzione effettiva del numero di insegnanti per il sostegno, dovuta anche all’aumento degli alunni certificati e presenti complessivamente nei vari ordini e gradi di scuola. Oppure, all’utilizzo, a tale scopo, di personale non preparato e in certi casi completamente a digiuno di nozioni relative alla situazione di allievi e allieve con bisogni educativi speciali. Ancora: possono essere state costituite classi alquanto numerose, pur in presenza di allievi handicappati inseriti. Le disposizioni definitive sulla formazione classi sono arrivate a Provveditorati agli Studi e alle scuole quando le operazioni burocratiche erano praticamente concluse, con gravi conseguenze in alcune situazioni che si traducono nel mancato rispetto dei diritti sanciti dalla legge-quadro sull’handicap e dalle altre norme vigenti.

Autonomia della scuola e docenti di sostegno: quali novità porterà neiriguardi di questa figura professionale?

L’autonomia scolastica può rappresentare una grande occasione per innalzare la qualità dell’integrazione degli alunni in situazione di handicap, sia per quanto concerne i rapporti fra scuole e la costituzione di vere e proprie reti di sostegno, sia per quanto attiene alle sinergie con altre istituzioni extrascolastiche, a partire dagli enti locali. Ma può essere anche un rischio: può incoraggiare nuove forme di emarginazione, più sottili e pericolose. Nella logica del risparmio, potrebbe riprendere fiato, ad esempio, la logica della concentrazione di personale e risorse in alcune scuole cosiddette particolarmente attrezzate. In questo caso, in nome d’un preteso efficientismo – la cui efficacia sull’educazione e sull’istruzione delle persone in situazione di handicap è ancora tutto da dimostrare – gli alunni con handicap verrebbero concentrati in alcuni plessi o in alcune classi, deresponsabilizzando tutte le altre scuole ordinarie. La logica dell’integrazione si muove invece sul terreno diametralmente opposto: sono il personale specializzato, le attrezzature, i sussidi che debbono raggiungere gli studenti là ove sono naturalmente inseriti, non gli allievi e le famiglie che debbono adeguarsi alle strutture esistenti.
“E veniamo così anche alle potenziali novità dell’autonomia scolastica rispetto al ruolo dei docenti per il sostegno.
“Nella prima ipotesi, quella di vera integrazione e di innalzamento della qualità degli interventi, tale insegnante può vedere molto arricchito il suo ruolo: egli rappresenta una risorsa importante non solo per il singolo alunno, ma per tutta la scuola e è chiamato ad attivarsi nella individuazione di tutte le altre risorse, umane, materiali e della storia a sostegno del lavoro di tutti i colleghi per la piena integrazione scolastica. Può aiutare il team docente nell’analisi della situazione di partenza dell’alunno con deficit e nella definizioni di interventi individualizzati, ma strettamente ancorati alla programmazione di classe; può attivare, anche in concorso con altri insegnanti, metodologie didattiche che fanno minor ricorso alla lezione frontale e sono più attente agli aspetti cooperativi; può incoraggiare la ricerca di risorse extrascolastiche, sia sul territorio che in rapporto alle competenze assegnate dal legislatore agli enti locali.
“Nella seconda ipotesi, quella di concentrazione degli alunni in alcune scuole o classi a secondo delle tipologie di deficit o della presunta gravità degli handicap, il docente per il sostegno vede, a mio avviso, ulteriormente mortificato il suo ruolo propositivo e fortemente amplificato il rischio della delega. Inoltre, poiché la concentrazione di alcune tipologie di alunni in poche scuole modifica il rapporto numerico naturale tra allievi in situazione di handicap e coetanei non handicappati, diventa più difficile ricorrere a una risorsa umana fondamentale per l’integrazione: i compagni di classe. Infine, negli anni, può scemare il livello di motivazione e di impegno degli stessi insegnanti, costretti a operare in un ambiente che può offrire minori stimolazione di quello della scuola comune e minori occasioni di interscambiabilità dei ruoli e dei compiti, anche come prevenzione del burn out.

La finanziaria del ’98 aveva diminuito il rapporto tra insegnanti disostegno e alunni; come si presenta la situazione quest’anno?

Più che diminuire il rapporto tra docenti per il sostegno e alunni handicappati, la Finanziaria per il ’98 ha modificato radicalmente i criteri di assegnazione del personale specializzato: non più in ragione di 1 ogni 4 alunni certificati, più le deroghe ritenute necessarie in caso di presenza di gravi deficit, ma nel rapporto di 1 ogni 138 alunni complessivamente presenti nei diversi ordini e gradi di scuola delle singole province. Il rapporto 1/138 si è subito rivelato insufficiente a coprire i fabbisogni documentati. Va detto che, inizialmente, il governo aveva previsto un rapporto ancora più sfavorevole: 1/150; poi, anche su sollecitazione dell’Osservatorio permanente sull’integrazione scolastica delle persone in situazione di handicap presso il ministero della Pubblica Istruzione, ha presentato l’emendamento recepito dalle Camere nel testo definitivo della manovra. Tuttavia, già nel volgere di pochi mesi, il rapporto 1/138 si è rivelato improprio e inadeguato. Nell’anno scolastico 1998-99, l’assegnazione dei docenti per il sostegno sulla base delle nuove norme si è rivelata alquanto macchinosa, anche per l’iter imposto dal legislatore alla definizione del decreto applicativo. Le disposizioni arrivate ai Provveditori hanno dato origine a molti dubbi interpretativi, con la conseguenza che in alcuni casi il fabbisogno di sostegno è stato coperto in maniera meno inadeguata solo a anno scolastico avanzato. La dimostrazione di tali disagi sta nel testo della Finanziaria ’99. Dopo un ampio dibattito parlamentare, il legislatore ha ulteriormente perfezionato le norme della manovra precedente, indicando in maniera esplicita la necessità di coprire comunque il fabbisogno nazionale di integrazione scolastica. Tuttavia, anche per l’anno scolastico 1999-2000, si ha la sensazione che esistano gravi carenze a questo proposito: Di fatto, le disposizioni ministeriali applicative sono arrivate agli Uffici scolastici provinciali e alle scuole fuori tempo massimo, quando molte operazioni burocratiche erano già state espletate. A una prima analisi, i bisogni dovrebbero essere maggiormente scoperti su due fronti: il numero di docenti per il sostegno, specie nella scuola superiore; la classi, nuovamente molto numerose. Com’è noto, quest’anno entrano in vigore le norme che innalzano l’obbligo di istruzione nella secondaria di secondo grado; ed è statisticamente significativo il numero di allievi in situazione di handicap che passa dalla media alla superiore, senza la possibilità immediata e chiara di coprire i conseguenti posti di sostegno in più. Un problema che va risolto con urgenza. Infine, pur avendo il Parlamento sancito che, di norma, le classi con alunni in situazione di handicap debbono essere costituite nuovamente con non più di venti alunni, pare che in sede di applicazione sia molto alto il numero di classi con 25 o più iscritti. E’ chiaro che in tale contesto di aggravano i rischi di delega al solo docente per il sostegno.

Quali sono le novità che si prefigurano nella prossima finanziaria?

A metà settembre ’99, le possibili innovazioni non sono ancora note. C’è da augurarsi che venga innanzitutto rivisto il rapporto 1/138. Com’è noto, a parte l’anno scolastico 1999-2000, storicamente, negli ultimi dieci anni, il numero complessivo di allievi continua a diminuire, mentre il numero di quelli certificati aumenta in modo significativo: nel 1998-99, gli alunni in situazione di handicap iscritti in tutti gli ordini e gradi di scuola erano oltre 117 mila (quasi 17 mila nella sola secondaria superiore). Se il rapporto per l’assegnazione dei docenti per il sostegno resta immutato, la forbice è destinata sempre più a allargarsi. Inoltre, vi è da ritenere che, nei prossimi anni, il numero di alunni handicappati sia destinato a crescere, per molti motivi: grazie ai progressi della medicina, diminuisce la mortalità neo natale, ma aumentano i casi di bambini che nascono con qualche malformazione; l’innalzamento dell’età media delle donne al primo parto, aumenta la possibilità di mettere al mondo figli con “diversità” genetiche; la presenza di famiglie immigrate registra anche l’aumento di minori con deficit, in tali nuclei, per diversi motivi. Ancora: gli allievi handicappati saranno complessivamente più numerosi per altre ragioni: l’aumento di iscrizioni nella scuola dell’infanzia; l’innalzamento dell’istruzione obbligatoria; l’accresciuta loro presenza nelle superiori, oggi ferma a percentuali molto basse rispetto agli altri ordini di scuola. E’ doveroso, quindi, ritoccare il rapporto 1/138, prevedendo, da un alto, un meccanismo di adeguamento automatico, senza rinviarlo all’approvazione di nuove leggi, d’altro lato stabilire una volta per tutti norme chiare e definitive per la formazione classi e l’assegnazione delle risorse per il sostegno, senza cambiare le carte in tavola di anno in anno, per di più fuori tempo massimo.

Progetto Berlinguer: che elementi di novità comporta per l’integrazione scolastica e in particolare per gli insegnanti di sostegno (in particolare quando si parla di “normalizzazione del sostegno” e di “riutilizzo intelligente degli insegnanti”)?

Nel febbraio ’99, il ministro della Pubblica Istruzione ha partecipato a tre audizioni presso la Commissione VII della Camera, riferendo fra l’altro sugli orientamenti generali per una nuova politica dell’integrazione. Rispetto al ruolo e ai compiti dei docenti, ha annunciato che intende ‘mettere a punto un profilo di insegnante nuovo, consono alla domanda attuale dell’insegnante specializzato per il sostegno’, con tre obiettivi. Primo: assicurare ‘un reale supporto alla classe nell’assunzione di strategie e tecniche pedagogiche, metodologiche e didattiche integrative’, per una progressiva riduzione della didattica frontale. Secondo: garantire ‘un lavoro di effettiva consulenza a favore della classe e dei colleghi curriculari, nell’adozione di metodologie individualizzanti e quindi dirette alla costruzione del piano educativo personalizzato’. Terzo: provvedere alla ‘conduzione diretta di interventi specializzati, centrati sulle caratteristiche e le risorse dell’allievo handicappato a partire dalla conoscenza di metodologie particolari, che non sono in possesso dell’insegnante curricolare’.
Sin qui, quello che prevede il ministro nel documento consegnato alla Camera. Mi pare che si tratti di una ulteriore puntualizzazione dei compiti già previsti dalle premesse ai programmi dei corsi biennali di specializzazione, in particolare di quelli del 1995, che dovrebbero essere meglio riletti e analizzati, per le molte sollecitazioni positive offerte alla ridefinizione dei docenti per il sostegno. Certo, va detto con chiarezza che – senza un intervento straordinario di formazione e aggiornamento sulle tematiche generali dell’integrazione scolastica destinato a tutti gli insegnanti, in primis a quelli di classe – non possiamo fare molti progressi. Si tratta di interventi indispensabili e urgenti, previsti da anni, ma di fatto mai proposti con la necessaria forza dall’amministrazione scolastica. Eppure, senza il coinvolgimento pieno di un intero team docente o di un intero consiglio di classe, senza supporti adeguati alla progettazione quotidiana degli interventi, senza la presenza di Centri di documentazione e risorse idonei a sostenere il loro impegno, l’esperienza di integrazione scolastica rischia di segnare il passo, se non addirittura di tornare indietro.

La formazione di un docente di sostegno è stato quanto di più caotico e contorto si sia potuto immaginare. In futuro, chi vorrà fare questa professione che studi dovrà intraprendere? Recentemente, i quotidiani (4 settembre 1999) hanno parlato della riapertura dei corsi di formazione per insegnanti di sostegno, corsi che fruttano alle associazioni che li gestiscono, miliardi e che i frequentanti pagano a caro prezzo: di cosa si tratta?

Nel nuovo quadro normativo, la formazione di base di tutti gli insegnanti e la loro specializzazione deve avvenire a livello universitario. Vale per i futuri maestri (si vedano i corsi di laurea in Scienze della formazione primaria, avviati nell’anno accademico 1998-99); vale per i neo-laureati in qualunque disciplina che aspirano a insegnare (le scuole di specializzazione partono quest’anno in molti atenei italiani, pur fra alcune incertezze e tanta disinformazione); vale anche per la specializzazione sulle disabilità.
La scuola, non solo italiana, è sempre più la scuola delle diversità. Perciò, vi sono alcune conoscenze e competenze che debbono diventare patrimonio di tutti i docenti, anche di quelli che non si specializzeranno per il sostegno. Ad esempio, l’Università di Torino ha indicato come esame obbligatorio per tutti gli studenti la Pedagogia speciale.
Per quanto concerne invece i percorsi di specializzazione a sostegno dell’integrazione scolastica, vanno registrate gravi preoccupazioni. In molti casi, i curricoli di studio previsti dagli atenei indicano per lo più discipline medico-cliniche e psicologiche. Ma in questi casi la specializzazione sarebbe carente sul fronte pedagogico e didattico. Forse, sarebbe utile una nota congiunta agli atenei da parte dei ministri dell’Istruzione e dell’Università, per sottolineare tali esigenze.
Per quanto riguarda i corsi di specializzazione appaltati dalle Università agli enti privati, onestamente, non mi pare un gran passo in avanti. E’ l’Università che deve assumere in prima persona la responsabilità di formare. Utilizzando il meglio delle competenze interne alle diverse Facoltà, ma senza la presunzione del sapere. Ci sono fior di esperienze sul territorio e formatori di grande qualità che non sono degli accademici. Se l’autonomia degli atenei non serve per valorizzare risorse come queste all’interno dei corsi universitari, perché spendere tante energie per realizzarla?.

Si riparla anche di fondi per le scuole speciali; ma non ne esistevanopiù in Italia? Che insegnanti andranno ad insegnare in quelle scuole?

C’è un disegno di legge approvato al Senato a metà settembre che prevede lo stanziamento di 60 miliardi in tre anni per concentrare in alcune scuole gli alunni sordi e ciechi, anziché garantire il personale specializzato e gli ausili in tutte le scuole comuni ove tali allievi sono naturalmente inseriti. Molte associazioni hanno illustrato a governo e Parlamento le gravi conseguenze di tali ipotesi normative. Al momento, il Senato si è mostrato sordo e cieco a ogni richiesta, ragionevole, che non venisse dalle lobbies delle associazioni storiche. E’ un segnale grave e preoccupante, un campanello d’allarme. Non mi stupirebbe se, tra qualche tempo, un ministro dichiarasse a qualche giornale che non tutti gli alunni handicappati possono e debbono frequentare la scuola. Avrebbe certamente un gran seguito popolare. Ma a patirne, come sempre, sarebbero i più deboli.

L’insegnante di sostegno tra autonomia scolastica e progetto di riforma

L’integrazione scolastica vede coinvolti vari soggetti, i disabili, le famiglie, la scuola, i compagni di classe e naturalmente anche gli insegnanti di sostegno che, in questo delicato meccanismo, hanno un ruolo di primo piano.
Di fronte alle novità che presenta quest’anno scolastico (l’autonomia scolastica) e a quelle che si presenteranno (progetto Berlinguer di riforma, la finanziaria ’99), abbiamo deciso di realizzare una serie di interviste che avessero come tema si l’integrazione, ma che si soffermassero proprio sul ruolo e le difficoltà degli insegnanti di sostegno.
Abbiamo sentito la voce di un rappresentante dei diretti interessati, poi quella di un esperto che da anni si occupa di integrazione scolastica e infine abbiamo intervistato un genitore presidente di un’associazione molto attiva. Da questo coro di voci, che rappresentano punti i vista diversi, abbiamo cercato di dare un quadro (fornendo anche dei dati) completo della situazione e dei suoi nodi problematici.

Credito al cittadino, i servizi alla persona

Oggi il sistema di offerta dei servizi alla persona: a) è progettato e finanziato in toto dall’ente pubblico; b) è regolato da una convenzione rigida che fissa a monte i parametri esecutivi; c) l’impresa sociale non risponde direttamente al cittadino, cioè al cliente finale, bensì all’ente pubblico che compra in blocco il servizio e lo distribuisce agli utenti; d) la concorrenza tra imprese fornitrici è limitata al momento della gara; e) il cittadino utente, se riceve il servizio pubblico ha un ambito di scelta limitato; f) se non rientra nelle fasce protette dal servizio pubblico, si affaccia su un mercato che non è amministrato ed è lasciato a se stesso.
Questo stato di cose solo in apparenza protegge i fornitori. In realtà noi – e qui parlo a nome delle cooperative sociali di Città Visibile – dobbiamo arrancare in salita. E’ uno sforzo piegare i binari prefissati dalla convenzione verso le domande emergenti dei cittadini. Non dimentichiamo gli utenti: è noi che incontrano ogni giorno ed è a noi che rivolgono le loro esigenze più pressanti e specifiche. E’ uno sforzo inventarci nuove risposte, che poi bisogna far rientrare nel pacchetto acquistato a monte dalla convenzione. Infine c’è un lavoro notevole, in gran parte invisibile e non retribuito dal committente pubblico, che dobbiamo fare per mettere d’accordo da un lato il soggetto assistito, i suoi familiari e conviventi, dall’altro soprattutto per mettere d’accordo gli operatori pubblici, che spesso divergono tra loro: quelli presenti e quelli latitanti, quelli nel comune, nella Asl, nella scuola.
Ci siamo convinti che il sistema sta in piedi a fatica, traballa perché gli manca una gamba. Il terzo attore, che poi in sostanza è l’attore principale, il cittadino. Non temiamo che il suo protagonismo possa metterci in difficoltà, più di quanto non lo siamo oggi, all’interno di un sistema incompleto.

Idee per un nuovo sviluppo

I servizi alla persona stanno diventando un campo nuovo di investimento e occupazione e questo è senz’altro un fattore positivo. La qualità dello sviluppo nel nostro paese come in tutta Europa si scommette su un nuovo equilibrio tra il numero esorbitante di persone in cerca di lavoro e la crescita altrettanto rapida di bisogni collettivi insoddisfatti. Facciamo nostra un’idea dello sviluppo che mette in gioco i cittadini, sia dal lato della domanda che dal lato dell’offerta di servizi. Questa intuizione, divulgata per la prima volta ad ampio spettro in Europa dal Libro bianco di Delors, oggi è maturata. Non è più solo un progetto, ma si fa strada nelle politiche locali e in alcuni patti territoriali (ancora pochi), dove, accanto alle infrastrutture economiche cominciano ad entrare a pieno titolo anche gli investimenti nel sociale, nei servizi alla persona.
Lo sviluppo di una economia sociale dovrà puntare alla crescita di due campi distinti, ma secondo noi fortemente complementari:
– servizi alla persona, rivolti alle famiglie e alle persone che vivono sole, che per vivere nel proprio ambiente e domicilio hanno bisogno dell’aiuto e dell’assistenza più o meno continuativa e intensiva;
– servizi per la socialità, che organizzano tempi e luoghi di frequentazione collettiva, per piccoli e grandi gruppi.
I servizi per la socialità sono essenziali proprio per evitare che i servizi di cura diretti alla singola persona e al nucleo familiare si impoveriscano all’interno di una logica privatistica. Purtroppo dobbiamo riconoscere che in generale nei servizi alla persona l’impronta assistenziale è ancora forte. E’ quel modo di intendere il servizio che si rivolge al cittadino come destinatario e non come partner; un soggetto separato dal resto della comunità, portatore di una categoria di disturbi, impedimenti, povertà, costretto a ricevere e impossibilitato a dare, perché ridotto dalla condizione di bisogno allo stato di “minus”. In questa logica i professionisti del sociale, in quanto responsabili del programma d’intervento per lui, si sentono spesso autorizzati a pensare al posto suo. In un certo senso, tengono sotto sequestro, sotto tutela il suo “progetto di vita”.
Aggiungo che anche i servizi costruiti dal privato sociale corrono tutti gli stessi rischi dei servizi pubblici: indurre passività e creare steccati, anziché attivare i soggetti interessati e promuovere scambi orizzontali tra le diverse opportunità del territorio.

La dimensione sociale del servizio

La sfida è questa: trasformare tutto il sistema dei servizi, progettati per dare risposte ai cittadini bisognosi di protezione e assistenza, in un sistema che moltiplica le capacità produttive della collettività. Centri diurni, palestre, centri culturali, parchi, ludoteche, banche del tempo, laboratori di autonomia e creatività, centri di divertimento e per il turismo culturale e ambientale, sono le infrastrutture che fanno da ponte tra gli interventi di tutela e riparazione del danno, rivolti ai cittadini più deboli, e interventi rivolti a tutta la popolazione. Solo questo ponte e un ambiente ricco di legami sociali possono impedire all’assistenza di diventare assistenzialista.
Molte cooperative hanno costruito e stanno costruendo luoghi della socialità, in parte per iniziativa e investimento autonomo, ma in prevalenza in virtù di un mandato dell’ente pubblico, che ne finanzia il funzionamento. Dunque, alcuni esempi mostrano che non c’è una incompatibilità di principio tra servizio sociale ed economia sociale. Tuttavia sappiamo che il passaggio dalla gratuità al mercato mette a rischio alcuni principi e valori che consideriamo determinanti nei servizio alla persona. In questo campo la logica di mercato deve essere regolamentata all’interno di binari molto chiari e tassativi, per garantire in primo luogo la parità di diritti e di opportunità per cittadini deboli e forti, ricchi e poveri, e in secondo luogo la qualità del lavoro di aiuto. I soggetti pubblici, a livello nazionale, regionale e locale, dovranno convertirsi da compratori di servizi in regolatori e promotori del mercato di servizi.

Compratore, valutatore, produttore

Riflettiamo sul cittadino acquirente partendo da esperienze che danno autonomia di scelta, secondo una gamma di possibilità variamente articolate: a) l’ente pubblico fa scegliere al cittadino se preferisce avere il servizio o avere il denaro per comprarlo presso una platea di fornitori accreditati b) il cittadino dispone di una card o un buono con cui può ottenere un servizio, aggiungendo in misura variabile denaro proprio, c) il cittadino può scegliere se rivolgersi a organizzazioni come le cooperative o se assumere aiutanti domestici, diventando in questo caso datore di lavoro.
Il contributo di Marja Pijl al convegno “Credito al cittadino”, che si è tenuto a Roma il 25-26 gennaio, è importante perché non ci racconta solo l’esperienza olandese del personal budget, ma proviene da una ricerca comparata su vari paesi europei. Ci dice che non tutti i cittadini sono adatti ad esercitare il ruolo di acquirente; mostra i casi in cui questo ruolo deve essere assistito; indica quando e perché è conveniente per il cittadino rivolgersi a un fornitore di servizi organizzato, piuttosto che diventare lui stesso datore di lavoro.
Il contributo di Kai Leichsenring sull’assistenza domiciliare a Vienna ci descrive come il Comune ha governato il passaggio ad un regime di maggiore scelta per il cittadino, dentro una cornice di regole più precise. Regole che in primo luogo hanno messo in chiaro le metodologie del lavoro domiciliare, a cui il Comune ha voluto dare un nome di grande effetto, “il concetto viennese”; regole sull’accesso dei cittadini, le graduatorie e la contribuzione degli aventi diritto per tipologie di bisogni e fasce di reddito, i prezzi amministrati; regole per la verifica della qualità dei fornitori.
In secondo luogo ci interessa approfondire il ruolo del cittadino come valutatore del servizio che riceve. Se per comprare ci vuole un mercato amministrato, per fare valutazione ci vogliono competenze specifiche.

Non un cliente, ma un sistema sociale

Quasi mai nel campo dei servizi di prossimità, a domicilio, ci troviamo di fronte ad un unico cliente, autonomo, che compra, decide, valuta e sceglie da solo. Basta pensare al vasto segmento dei servizi che ruotano attorno agli anziani che perdono autonomia; il “cliente” invecchiando perde lucidità mentale, perde i conviventi, le sue forze per uscire di casa diventano sempre più esigue, figuriamoci quante energie può dedicare ad organizzarsi gli aiuti. Il semplice potere di acquisto, non gli restituisce il potere sociale che sta perdendo su tutti i fronti. Ha bisogno di qualcuno che programmi, organizzi e valuti il servizio insieme a lui. D’altra parte abbiamo visto che questo qualcuno (chiunque sia) subisce la tentazione di esautorarlo, sostituirsi a lui interamente.
Ma come coinvolgere questo particolare “utente-cliente”? E’ un unico soggetto o stiamo parlando di una pluralità di soggetti che sono parte di un sistema? E, se è così, come conciliare esigenze e logiche che si presentano spesso in forma conflittuale:
– la logica del soggetto è quella di farsi aiutare nella vita quotidiana, dipendere da altri, senza diventare un “minus”, un soggetto dimezzato
– la logica dei familiari e dei “vicini” è di sostenere la persona dipendente, senza essere risucchiati totalmente nel processo di aiuto, consumare tutte le proprie energie e denaro;
– la logica degli aiutanti domestici stipendiati è di offrire prestazioni flessibili, senza rinunciare alla dignità e ai diritti del lavoro
– la logica delle organizzazioni di servizio, cooperative, associazioni è di dare il massimo di qualità, senza rimetterci sul piano economico, mantenendo in equilibrio l’azienda e gratificando i membri dell’organizzazione.
Tutte queste esigenze devono trovare un punto di equilibrio, mettendo al centro il soggetto più debole, ma aiutando anche chi aiuta.
Il domicilio non è solo un luogo dove portare i servizi, ma è anche il centro di governo degli aiuti e delle prestazioni, sia professionali che gratuite. E’ stata formulata la proposta di individuare, all’interno della rete di aiuti informali, un familiare referente che funga di collegamento con tutti gli altri aiuti professionali. Un’altra idea è quella del facilitatore, una nuova figura che ha il compito di collegare familiari e servizi; si sta sperimentando in due distretti della Asl 7 di Catanzaro Lido e Soverato.

Quale professionalità nel lavoro di cura

In primo luogo dobbiamo osservare come sta cambiando la percezione del lavoro di cura, proprio in virtù di una platea sempre più ampia che sperimenta direttamente il costo personale e sociale della sua mancanza. Questo riconoscimento è una pre-condizione per creare lavoro di qualità. Ma il cambiamento più importante riguarda il contenuto. Al lavoro di cura si chiedono compiti sempre più complessi, proprio perché complessi sono diventati non solo le patologie e i bisogni del soggetto da prendere in carico, ma anche, come abbiamo visto, del sistema che gli ruota attorno. Le cooperative che gestiscono l’assistenza domiciliare sono il punto di osservazione cardine di questo fenomeno. In quanto organizzazioni che portano il servizio fin dentro le mura domestiche sono nella posizione ottimale per misurare le competenze e le abilità richieste:
– attenzione al singolo e lettura contestuale del sistema,
– progettazione giorno per giorno, flessibilità e gestione delle emergenze.
– lavoro materiale, pulizia della casa e della persona, che costruisce una relazione affettiva, densa di significati simbolici e sostitutiva di altre figure familiari
– sensibilità, empatia da bilanciare con una gestione protettiva delle proprie emozioni
– conoscenza del quartiere e dell’ambiente di vita allargato
– procedure burocratiche, operazioni bancarie, accesso ai servizi sanitari, ecc.
Oltre a queste abilità generali, vengono richieste specializzazioni per tipologie, in quanto il lavoro di cura cambia in base anche alla gravità del soggetto, alla presenza di Alzheimer, malattie infettive, relazioni violenze e varie complicazioni. Inoltre, quando il servizio si apre dal contesto familiare ai luoghi della socialità, emerge tutta un’altra area di competenze: animazione socioculturale, gestione dei gruppi, promozione di attività ludiche, artistiche, sportive, ecc.
Dunque, è importante che anche i cittadini imparino ad apprezzare, nel senso letterale del termine; sappiano dare il giusto prezzo alla qualità che chiedono, quando si spostano dal mercato dei servizi domestici a quello dei servizi di cura. In questo passaggio di mentalità si gioca il ruolo della cooperazione sociale. Qual è infatti il plusvalore fondamentale offerto da un servizio organizzato, rispetto al singolo prestatore d’opera? Noi sosteniamo che il cittadino cliente può esigere da un’organizzazione la garanzia della professionalità. Solo un’organizzazione, infatti, può selezionare, formare, aggiornare, sostituire, monitorare gli operatori. Il singolo lavoratore vende sul mercato le poche o tante competenze di cui dispone, ma se non appartiene ad un organismo più ampio, è solo garante di se stesso. La cooperativa, invece, funge da accumulatore delle competenze, grazie al suo operare su più servizi, alla continuità nel tempo, alla specializzazione per aree, al patrimonio di riflessione collettiva. Compito del regolatore pubblico è di incoraggiare l’investimento delle cooperative in professionalità e di promuovere la consapevolezza nei cittadini e nell’opinione pubblica.

(1) già presidente della associazione Città Visibile

Brasil voçé è lindo

Ho incontrato la psicologa Carla Vasques presso l’Istituto Pestalozzi di Canoas, nello stato di Rio Grande do Sul, lo stato più a sud del Brasile. Questa è stata la prima intervista che ho realizzata nel mio viaggio ed è stata anche quella che mi ha aperto gli occhi sulla situazione delle persone disabili in questo paeseCarla mi è stata presentata da Cesar Bridi, uno psicologo che è venuto in Italia a conoscere il lavoro educativo che viene fatto a Bologna ed in particolare a visitare il nostro Centro Documentazione e il Progetto Calamaio. Sia Cesar che Carla sono delle persone che nonostante le enormi difficoltà che affrontano nel loro lavoro credono che la vita delle persone con disabilità possa migliorare. Osservando le baracche che costeggiano la tangenziale prima di giungere al Pestalozzi e i bambini seminudi che giocano in mezzo alle pozzanghere ed ai rifiuti, mi chiedevo da dove nasce la forza di credere, di sperare che le cose un giorno migliorino. Alcune risposte le ho avute in questa intervista e un’altra me l’ha data Carla qualche giorno dopo quando a me e a Cesar ha confessato che dopo l’intervista ha pianto per l’emozione. Credo che fintanto che il Brasile avrà figli in grado di lottare e soffrire per lui, questo paese “così miserabile” e così meraviglioso potrà avere un futuro. Il prossimo anno sarà il cinquecentesimo dalla scoperta del portoghese Cabral e tutto il paese si sta preparando per festeggiare. Una canzoncina di Milton Nascimento, che si sente in uno spot pubblicitario strapieno di bambini e un po’ retorico, dice “Brasil, voçé è lindo…”. E’ vero: Brasile sei bellissimo, perché i tuoi figli hanno la forza di sognare.

L’Istituto Pestalozzi è stata la prima scuola speciale del Brasile. E’ ancora in funzione nonostante che la legge sull’integrazione scolastica dei disabili sia già stata varata. Che cosa ne pensi?

La legge sull’integrazione in Brasile ha quattro anni. Ma ancora le scuole non ricevono gli alunni. Se il Pestalozzi non esistesse, non ci sarebbero possibilità per chi soffre anche del più piccolo disturbo mentale. Io penso che la maggior parte dei bambini che stanno qui potrebbe essere accolta nell’insegnamento regolare, ciò darebbe la possibilità ai bambini di identificarsi gli uni con gli altri. L’incontro con la differenza ed il recupero si svilupperebbero molto. Quello che invece succede qui è che il Pestalozzi è l’unico luogo dove questi bambini hanno accesso. Talvolta i bambini vanno nella scuola regolare ma non sono accettati e allora tornano qui. Ciò genera in pratica una dipendenza dall’Istituto perché è l’unico luogo che li riconosce, dove attingono un riconoscimento della loro identità. Ripeto: penso che la maggior parte di loro potrebbe entrare nell’insegnamento regolare. Solo adesso ci sono dei segnali di cambiamento, che permettono a questi bambini di essere accettati a scuola, ma quando sono piccoli. Continuando con i soliti modi di insegnamento la scuola regolare finisce per ricacciare indietro i bambini nella scuola speciale.

Ho visitato la scuola Pestalozzi e devo dire che ho molto apprezzato l’approccio sperimentale che viene dato alle materie insegnate, in particolare il laboratorio di giardinaggio dove viene fatto un lavoro di educazione all’ambiente che è veramente all’avanguardia. Le insegnanti sembrano molto motivate e l’atmosfera che si respira è positiva. Eppure sono perfettamente d’accordo con te nel ritenere che i questi bambini possano essere inseriti tranquillamente nelle scuole normali.

Questo Istituto ha settantatré anni ma il problema principale è che non parla con la comunità, è un luogo chiuso, è un luogo protetto, la comunità non conosce il lavoro che viene fatto qui. Io stessa, funzionaria, non conoscevo il lavoro che si fa qui.

Tu pensi che questo luogo debba essere chiuso e debba diventare a sua volta una scuola normale?

Penso di sì, può cioè trasformarsi in una scuola inclusiva dove ci siano degli spazi aperti anche per i bambini normali.

Ma qui c’è un progetto del genere?

Per ora no, questa è una scuola diciamo a gestione familiare e da sempre il suo fondamento è di essere una scuola per persone con deficienza. In questa situazione non sta ancora percependo la necessità di trasformarsi. Quello che è complicato, penso, è comunque l’inclusione di alunni psicotici, autistici. Perfino qui nella scuola speciale questo tipo di alunni non viene accettata.

Ma se né la scuola normale né quella speciale li accetta, che fine fanno?

Stanno presso i genitori. Quando io lavoravo con le scuole facevo la selezione e collocavo in classe anche bambini con gravi problemi mentali. Risultato: gli alunni sono stai mandati via…e anch’io. Qui non c’è un sistema di assistenza per i cosiddetti “gravi”: esiste l’APAE, Associazione di genitori ed amici degli eccezionali (Associação dos Pais e Amigos dos Excepcionais). E’ un luogo che non ha un progetto pedagogico, non ha progetti culturali.

In tutto il Brasile avviene che i cosiddetti gravi non abbiano accesso a nessun tipo di scuola?

Sì, devi pensare che il Pestalozzi è uno dei migliori istituti del sud, cioè a dire di tutto il Brasile. Qui a Porto Alegre la situazione è un po’ migliore. Comunque la tendenza da registrare è che la stessa famiglia isola il bambino dalla convivenza con gli altri. Ti faccio un esempio: io avevo un paziente, un bambino che inizialmente era stato inserito nella scuola normale. Un giorno ha morso alla guancia una insegnante, un beijo, un bacio che si è trasformato in morso, ed è stato allontanato. Il bambino è rimasto traumatizzato da questo evento: io ero riuscita a trovargli un’altra possibilità presso un’altra scuola normale, ma la famiglia ha preferito non prendere più in considerazione l’idea dell’inserimento. Almeno qui all’istituto i bambini sono tutti uguali: questo è quello che i suoi genitori hanno pensato.

Quando un alunno arriva a vent’anni cosa succede?

Di lavoro non se ne parla. C’è una pensione di cinquanta reais a mese (circa cinquantamila lire) che viene data a chi possiede una carta di identità dove c’è scritto “invalido”. Cosa succede? Visto che la famiglia non ha possibilità, questi individui stanno per strada o chiusi in manicomio. La prospettiva di futuro non c’è. Bisogna fare un lavoro in età precoce perché in questo modo diminuisce l’internamento psichiatrico e l’invalidità sociale. Quello che si potrebbe fare qui è un lavoro intermediario tra la questione clinica e la scuola.

Prima ho visitato il laboratorio di falegnameria dell’Istituto e c’era un ragazzo penso tra i venti e trent’anni, oltre l’età scolare quindi, che credeva che io fossi argentino e che mi spacciassi per italiano.

Sì, qui ci sono ragazzi anche molto grandi. Alcune attività qui dentro, il vari laboratori di falegnameria, eccetera, sono realizzate con il contributo del comune di Canois, per vedere se c’è la possibilità di lavoro, di iniziazione al lavoro. C’è addirittura un caso, considerato proprio il massimo, di un ragazzo che non è riuscito a finire il corso di studi di una scuola pubblica e ora occupa un posto in un supermercato come addetto agli imballaggi. E’ da due anni che tiene questo luogo di iniziazione al lavoro, è un progetto caro, e il governo sta tagliando i fondi. Qui al Pestalozzi dopo la scuola non c’è una età di uscita. Le attività alternative hanno una funzione di parcheggio per i ragazzi. Qui loro si trovano bene e sono accettati. Non c’è un vero progetto politico verso il mercato del lavoro.

In che relazione stanno povertà e deficienza?

Esiste una relazione tra povertà, deficienza e disparità sociale, e abbandono sociale. Se la povertà genera deficienza? Non so. Ci può essere una questione organica legata alla denutrizione. Grande parte del nordest ha un numero impressionante di mortalità infantile….lì si muore perché manca il cibo. Nascono con basso peso. A questo livello è vero che la povertà genera la deficienza ma non esiste in Brasile una ricerca su questo argomento.

Presso l’opinione pubblica la povertà è percepito come un problema più importante della deficienza?

Nessuno dei due lo è. Il Brasile è un paese così povero, così miserabile, perché è questa la verità, che il cuore delle persone si sta indurendo… Allora le persone non stanno lì a chiedersi a come migliorare concretamente la situazione: oggi io parlavo con una mia amica del fatto che i poveri non si guardano più. Tornata dalla Spagna mi sono trovata in centro a Porto Alegre e quasi ho pianto perché mi chiedevo: come può esistere questo, questa miseria. Noi ci difendiamo, e per questo di fatto non si pensa alla deficienza. Ciò genera a sua volta una mancanza di progetto politico. I massmedia non parlano di questo: nella telenovela si parla di un paese bello, ricco, divino. Guarda la nostra tv. Oppure: chi è che la gente ha eletto? Un intellettuale che parla bene, Fernande Henrique Cardoso. E prima di lui un soggetto perverso, Fernando Collor. Cardoso è un professore universitario, Cambridge, eccetera, e all’opposto c’era Lula, cioè una persona più simile alla gente, del Partito dei Lavoratori, un personaggio che ha lavorato nel movimento sindacale. Ma il popolo brasiliano non va a votare uno simile a lui perché non ha educazione per pensare a se stesso, ai propri problemi.

C’è una legge che viene chiamata di beneficio sociale. Un medico e un assistente sociale firmano un modulo in cui si dichiara che il soggetto è incapace al lavoro, non è capace di fare questo e quello, non ha autonomia. Ossia è praticamente morto, è un vegetale. Il salario minimo qui è di 120 reais (120 mila lire). I genitori vengono qui per implorare a noi che assegnino la pensione di invalidità (50 reais), questo perché tutta la famiglia ha bisogno di soldi per sopravvivere. Io non l’ho mai fatto perché non mi è mai successo ma ho colleghi che si sono trovati in questa situazione. Loro hanno chiesto: “Ma vi rendete conto che vostro figlio così non ha futuro, non potrà lavorare, non potrà avere una famiglia, vi rendete conto che state chiudendo con il destino di vostro figlio?”; e loro per risposta: “beh, o faccio questo o lui ora morirà di fame”. E i miei colleghi firmano.

Torniamo alla tua domanda iniziale sul Pestalozzi: nonostante tutto qui perlomeno i bambini hanno una educazione, hanno alimentazione, hanno statuto di alunni. Ci sono qui in clinica pazienti che fanno riabilitazione per cinque giorni alla settimana, è un servizio da primo mondo.
Che criterio viene usato per accettare un bambino disabile nella scuola?

Per essere accettati i bambini devono avere solo una deficienza mentale lieve. Comunque le famiglie che hanno un po’ di soldi portano il loro figli a Porto Alegre (capitale dello stato di Rio Grande do Sul). Il Pestalozzi, dal punto di vista della sua immagine, è una scuola per idioti, pazzi e poveri. Questa immagine è molto caratterizzata: per schematizzare si dice pestalozzi-pestalouco (louco = pazzo).

Chi lavora nel sociale, come voi, che difficoltà incontra?

Beh, tanto per dirne una, io lavoro 32 ore settimanali: sono privilegiata e vengo pagata 880 reais lordi, cioè 700 netti (circa 700 mila lire al mese). Lo stato non investe né nella salute né nella educazione. Per fortuna che una particolarità nostra, del popolo brasiliano, è di creare via di uscita, stare aperti a nuove proposte a soluzioni, altrimenti moriremmo di fame. E’ un popolo che si adatta, ecco perché ci incantiamo a sentire parlare del Calamaio. E’ una cosa molto possibile. Non c’è una cultura formatrice unica come ho sentito dire ad un antropologo: qui abbiamo africani, europei e americani. Siamo il popolo del terzo millennio.
Il nostro è un popolo creativo, necessariamente creativo, nonostante tutti i nostri problemi. Perché non ci inviti a parlare in Italia di queste cose?

Ballando, ballando

“Il teatro che rende visibile l’invisibile ha permesso di sviluppare l’immaginazione dei ragazzi e quella del pubblico anche attraverso l’uso della gestualità e del corpo. La diversità che è propria di ognuno di noi è una caratteristica comune in tutte le persone; è necessario saper cogliere e sfruttare questa unicità.” Intervistiamo il coreografo Michele AbbondanzaAvevate già avuto esperienze di danza con i disabili?

No, era la prima volta che lavoravamo con persone fuori dal comune, un po’ particolari; è stata una esperienza molto interessante che ha rappresentato una novità rispetto al nostro metodo; alla fine però non abbiamo cambiato nulla rispetto al metodo stesso. E’ stata una mossa vincente e ne è risultato uno spettacolo autonomo ed emozionante, che ha riscosso successo tanto da ricevere richieste ulteriori di rappresentazione. All’inizio ero abbastanza terrorizzato per questa novità; durante il lavoro abbiamo ripensato più volte al metodo da applicare (se quello classico o meno); alla fine le cose più importanti sono state le riflessioni che ognuna delle parti ha maturato, i ragazzi e i coreografi .

Come giudicate la vostra esperienza personale e quali sono stati, se ci sono stati gli apporti professionali che avete ricevuto oltre a quelli che avete dato?

Le due cose si mescolano sempre; il confine tra la realtà e l’immaginazione in questo mondo è molto sottile ed è difficile fare delle distinzioni. Una riflessione è che quando lavori con gente fuori dal comune, così particolare, che è diversa come attore, il fattore fondamentale diventa impostare il discorso in maniera chiara, prescindendo da qualsiasi considerazione di pietà o compassione. Alla fine dei conti proprio questa chiarezza è risultata la chiave di successo dello spettacolo, che ha consentito di instaurare un rapporto di stima, affetto e sincerità. Il risultato è stato quindi di buona qualità teatrale. Altra considerazione è che non sussistono poi grandi differenze con spettacoli che vedono come protagonisti attori ed attrici affermati, l’importante è fare una analisi delle potenzialità che si hanno a disposizione (a La Spezia ad esempio abbiamo realizzato uno spettacolo con cinque non-vedenti).

Come definireste il vostro metodo?

E’ necessario partire dalla biografia delle persone, dalle loro potenzialità piuttosto che da un codice o da una tecnica predeterminata, piuttosto che dilungarci in considerazioni tecniche, ci interessa il vissuto delle persone; è chiaro che una tecnica esterna è necessaria (stare in piedi, camminare, giacere, stare a sedere.) Noi lavoriamo sulle quattro posture della filosofia zen, da un punto di vista non tecnico la soluzione è cercare le cose molto interessanti che ciascuno di noi possiede.

Ciò significa lavorare senza canoni, senza la tecnica precisa delle discipline classiche: questo può facilitare i ragazzi (tali canoni impediscono comunque a parecchie persone di entrare in questo mondo; ad esempio gambe troppo corte o seno troppo abbondante sono limiti per il balletto classico).

Queste persona e hanno bisogno di rapportarsi con la gestualità, un aspetto che nella danza moderna, o danza dell’anima, come ci piace chiamarla, è molto importante; ognuno di noi ha un corpo particolare ma chi meglio di loro può assaporare la libertà che la danza offre, partendo sempre dalle possibilità che ognuno ha?

Quali sono state le difficoltà e le differenze che avete incontrato nell’affrontare sia handicap fisici che mentali?

Con Marisa (ragazza con problema di handicap sopraggiunto, acquisito) le difficoltà che c’erano sono state superato grazie al rapporto franco e sincero che si era instaurato. Quando si fa teatro non si tratta di danza-terapia o di sedute psicoanalitiche, si va al nocciolo della questione e si ottengono i risultati che si vogliono avere (nel caso in cui Marisa non fosse stata in grado di interpretare la parte sarebbe stata esclusa; ciò non è accaduta ma anzi è riuscita ad alzarsi dalla sedia)

Esiste un problema dei confini che queste persone non riescono a darsi: per risolverlo è necessario porre dei paletti ed essere il più semplici possibile nella comunicazione.

Il vero educatore deve tirar fuori, non aver la pretesa di insegnare: il gesto esprime una intenzione e viene fatto in maniera personale non perché deve essere fatto. Tornando alle difficoltà incontrate l’approccio alle diverse disabilità è stato il medesimo. Laddove esisteva solamente una disabilità fisica abbiamo incontrato persone instancabili, con una voglia di ricevere incredibile, emanavano una grande generosità (un esempio per gli altri attori). Con disabilità mentale si è proceduto con grande chiarezza, senza nessun pietismo anche se è risultato più difficile. Infatti non si possono prevedere le reazioni sia relativamente alla struttura scenica che in fase di creazione ( bisogna vedere se c’è coerenza di risposta in fase di reiterazione). Può allora essere divertente giocare, una voglia che queste persone hanno espresso più volte.

La valenza più grande dello spettacolo è stato il divertimento. Sfruttare diverse caratteristiche ci può stare fino a quando non c’è coercizione di fondo: le persone hanno partecipato allo spettacolo volontariamente e lo hanno fatto per divertimento.

Prima di chiacchierare su questa cosa bisognerebbe vedere: importante è il come si fanno le cose. Se dopo un’opera di quaranta minuti una persona, uno spettatore, esce emozionato, con qualcosa in più, io sono felice, sono riuscito a fare quello che volevo. Poi è bello chiacchierarci attorno: è bello se un critico fa dei ragionamenti. Però, tutto sommato, non è quello che ci interessa. Da parte nostra, ci siamo divertiti molto, tanto da parlarne spesso dopo le prove; abbiamo visto lievitare il lavoro completamente. Sai, all’inizio dovevamo fare una sorte di assistenza, una specie di allenamento. Da lì piano piano la cosa è maturata ed ha acquisito sempre più caratteristiche teatrali, legate alla gestualità. Il teatro che rende visibile l’invisibile ha permesso di sviluppare l’immaginazione dei ragazzi e quella del pubblico anche attraverso l’uso della gestualità e del corpo. La diversità che è propria di ognuno di noi è una caratteristica comune in tutte le persone; è necessario saper cogliere e sfruttare questa unicità.
E’ un peccato che questa esperienza sia finita, sarebbe bello poterla ripetere. Vorrei dire questo: per queste persone così sensibili l’importante è che esse siano in grado di esternare i loro sentimenti. Nel rapporto che si crea con loro non si può prescindere da questa considerazione. Sono convinto che possono divenire a tutti gli effetti dei grandi interpreti.