Skip to main content

Autore: admin

L’integrazione scolastica in Germania

Nell’agognato imperativo dell’Europa unita, un’Europa composta dei suoi multiformi aspetti e svariati elementi, sembra rendersi evidente la necessità di valutare e criticizzare il micro-macro cosmo dell’handicap. Germania-Italia, due mondi tanto vicini quanto lontani, culturalmente, storicamente, economicamente e socialmente, s’incontrano-scontrano sul tema dell’handicap. La realtà dell’handicap, effettivamente, in Germania sta assistendo ad un tentativo di cambiamento che prende spunto dall’ormai ventennale e consolidato modello dell’integrazione proposto e sostenuto vigorosamente nel contesto italiano.

La ricerca di tale mutamento direzionale, configurantesi come vera e propria rivoluzione, sembra seguire un percorso non privo di difficoltà dettate soprattutto dagli inevitabili scetticismi culturali. Quanto finora esposto si materializza nella realtà universitaria, in cui solo un 10% circa del personale docente, impegnato nell’ambito pedagogico, si dichiara favorevole e si vede impegnato nella ricerca di un nuovo paradigma. Il tema da cui parte la nuova elaborazione sull’handicap nel contesto tedesco è quello che vede sintetizzarsi metaforicamente in “una strada verso la scuola di tutti”. Ciò si sta concretizzando nel tentativo di superamento di un paradigma che esprime la concezione dell’handicap come deficit e non come risorsa. In effetti, la situazione su cui si va palesando tale paradigma sembra essere data da un sistema scolastico altamente differenziato, che, pur possedendo un’altissima qualità immanente, non si inserisce in un contesto che preveda una nitida centralità dei concetti di “integrazione ed inclusione”.

Il 95% degli alunni disabili nelle classi speciali

La condizione finora descritta trova spiegazione nella storia delle istituzioni didattico-educative tedesche confluente nell’attuale realtà, in cui solo il 5% dei bambini con handicap in età scolare sembra possedere i connotati e le capacità richieste istituzionalmente per poter accedere ad una scuola elementare cosiddetta “normale”. Il restante 95%, generalmente, iscritto in un contesto “speciale”, ossia in scuole, comunque di livello consono all’età, ma che propongono programmi educativo-didattico-assistenziali mirati ed esclusivi, per quanto altamente referenziate dal punto di vista tecnico-scientifico, si pongono come condizioni necessarie di una pedagogia speciale diversa e distinta da quella normale. Quanto sostenuto sino a questo punto trova conferma nel fatto che esistono classi scolastiche in cui è prevista l’iscrizione di alunni categorizzabili attraverso la tipologia di handicap che li contraddistingue; come ad esempio, potrebbe essere una classe frequentata da soli autistici o da soli ipercinetici.
E’ in questo contesto storico-istituzionale che impera il paradigma dell’handicap come deficit e quindi come “segno particolare” che consente una classificazione ed un intervento settorialmente mirato all’handicap e non alla persona come viene proposto e sostenuto in altri paesi dell’Europa e del mondo (Italia, Spagna, Olanda, Canada etc.). Con ciò non si intende sostenere una critica al sistema didattico-educativo-organizzativo tedesco, bensì l’intento è quello di presentare la condizione oggettuale in Germania di questo sistema confluente nelle pratiche rivolte all’handicap.

Pedagogia “regolare” e pedagogia speciale

In effetti la riflessione relativa ad un necessario rinnovamento di tale pragmatica ha avuto inizio alcuni anni fa in ambito accademico e più precisamente all’interno dell’Università di Colonia (una delle più antiche università tedesche, risalente al 1600), dotata di un notevole prestigio storico.
Tant’è vero che, come già accennato, il sistema in cui s’inserisce il “lavoro di aiuto” per i soggetti con handicap, si compone di referenti altamente specializzati; inoltre, tutte le specificità relative agli interventi prevedono una fortissima complementarità d’insieme fra detti referenti.
L’importanza attribuita alla formazione degli specialisti, nel contesto tedesco, avvalora quanto espresso fino ad ora. In Germania, infatti, esistono due facoltà universitarie, distinte per quanto comunicanti tra loro, che si vedono impegnate nella formazione in materia pedagogica. Si tratta di “Pedagogia regolare” e di “Pedagogia speciale”. Tale distinzione trova giustificazione nella differente presentazione dei percorsi didattici in vista delle appropriate finalità educative. In effetti, il percorso seguito dagli studenti che si approssimano al mestiere di pedagogista regolare, termine con cui vengono denominati gli esperti in didattica ed in pedagogia sociale, è molto simile a quello affrontato dai laureandi in scienze della formazione primaria in Italia. La facoltà di Pedagogia speciale, di cui sopra, invece, si pone come percorso decisamente innovativo rispetto al contesto italiano. Il futuro pedagogista dovrà svolgere preventivamente due periodi di tirocinio della durata minima ciascuno di quattro settimane; solo in seguito lo studente potrà scegliere il tipo di handicap su cui specializzarsi (generalmente ne vengono scelti due tipi, come ad esempio possono essere l’autismo e la sordità o l’handicap mentale e la cecità) e due materie di insegnamento (quali potrebbero essere ad esempio matematica e fisica). Il percorso formativo ha una durata di nove semestri ed al suo termine occorre svolgere due anni di “referendariato” ai fini di poter esercitare la professione. Il referendariato, di cui sopra, consiste nel fatto di dover svolgere tutte le mansioni dell’insegnante, osservati e valutati da persone competenti, integrando tale attività, in cui ci si mette necessariamente alla prova, con esami ed una tesi finale. Solo in seguito il pedagogista speciale, ormai formato e specializzato potrà scegliere se lavorare in una scuola speciale o in una scuola con integrazione, per quanto queste ultime siano molto rare ed in fase sperimentale.

Un insegnante specializzato non di sostegno

Il pedagogista speciale, nelle scuole con integrazione, si integra, o comunque dovrebbe farlo, anch’esso all’interno del contesto didattico-educativo, ai fini di attuare una programmazione ed un insieme di attività consone alle esigenze, che si riveli, quindi, produttiva dal punto di vista delle specificità globali. Dal canto loro, invece, le scuole speciali propongono corsi differenti da quelli seguiti nelle scuole regolari (ad esempio, in questo tipo di percorso scolastico non è prevista la preparazione superiore e il conseguente esame di maturità). L’insegnante che opera in queste realtà, infatti, è più libero di programmare, ossia riesce con minor difficoltà a tenere presente che le finalità devono essere “orientate all’azione ed al progetto” e che tutto il lavoro deve essere svolto nell’ordine dell’individuo o del piccolo gruppo.
Da quanto sottolineato finora, si rende evidente il fatto che in Germania non esista una figura comparabile a quella italiana “dell’insegnante di sostegno”, bensì esiste un vero e proprio insegnante che, specializzato nel tipo di handicap con cui si trova a lavorare, progetta e si integra in modo assolutamente complementare al lavoro di team proposto e sostenuto all’interno dell’istituto scolastico, sia esso “speciale” o “con finalità integrative”, anche se sembra persistere un consolidato atteggiamento ancora molto orientato alla patologia, come già sottolineato precedentemente, piuttosto che alla persona nella sua unicità ermeneutica.
In definitiva, l’altissima qualità della pedagogia speciale, in Germania, si basa ancora sul paradigma del deficit, rischiando di limitare la visuale più globale del soggetto e provocando una notevole battuta d’arresto al suo sviluppo.

Essere mondiali

Ho incontrato Giovanni Gazzoli, medico a Goiania, mentre stava facendo le valigie dopo otto anni di lavoro in Brasile. Fra gli scatoloni mezzi imballati e le stanze semivuote dell’appartamento, in bilico tra un futuro in Italia e un passato pieno, speso per combattere le tante lebbre del Brasile, ho acceso il registratoreQuali sono le tue mansioni?
Allora… prima faccio un po’ di storia. Mi sono laureato a Bologna in Medicina e all’epoca avevo già deciso, avendo fatto una tesi di Patologia Tropicale, di lavorare nella cooperazione sanitaria internazionale. Subito dopo la laurea ho fatto una specialità in Belgio di Patologia Tropicale e da lì ho mandato il mio curriculum a varie organizzazioni non governative tra le quali ha risposto l’AIFO, che mi ha dato la possibilità di lavorare in un progetto cofinanziato dal Ministero degli Affari Esteri italiano nello stato di Bahia (che è uno degli stati che compongono gli Stati Uniti del Brasile) in appoggio al programma di controllo organizzato dallo stato per l’eliminazione della lebbra. Il Brasile è il secondo paese al mondo come numero di casi, dopo l’India.

C’è ancora tanta lebbra in giro?
Parecchia: ci sono circa quarantaquattromila casi nuovi in Brasile attualmente. C’è un programma a livello mondiale che prevede di arrivare a meno di un caso ogni diecimila abitanti, questa è la meta dell’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), attualmente in Brasile siamo sui cinque casi ogni diecimila abitanti.

Che cos’è la lebbra?
La lebbra è una malattia contagiosa dovuta ad un batterio, si chiama micobatterio lepre. E’ una malattia oggi completamente curabile. Uno dei più grandi problemi che ci sono attualmente è in relazione al preconcetto molto alto sulla lebbra, per cui è difficile arrivare a curare il paziente. Infatti la cura della lebbra non è riducibile, appunto, alla somministrazione del farmaco perché dal punto di vista sociale la situazione è ancora grave: il malato di lebbra può perdere il lavoro, ha problemi in famiglia, viene discriminato. Si può anche guarire dalla lebbra ma ci si porta dietro questo stigma. I primi sintomi della malattia sono a livello cutaneo, sono delle macchie insensibili. Non è una malattia dermatologica però, ha una predilezione per i nervi dell’apparato nervoso periferico, delle braccia, delle gambe e anche a livello oculare. Può portare delle infermità, se non ben controllata la malattia può causare delle deformità.

Quanti di questi quarantamila casi all’anno riescono ad essere curati?
Tutti sono in trattamento con polichemioterapia, è una selezione di tre farmaci, clofazimina, dapsone e rifampicina, che curano la malattia. C’è un abbandono, diversificato a seconda degli stati brasiliani, causato dal mancato accesso ai servizi, dal pregiudizio e dall’inefficienza del sistema sanitario brasiliano soprattutto in alcune aree sperdute, all’interno degli stati. C’è una media di 20/25% di abbandono della cura ma ci sono degli stati che arrivano anche al 40%.
Il servizio dovrebbe recuperarli, ma molti danno l’indirizzo sbagliato, per non far sapere dove abitano; gli spazi sono immensi e non c’è il personale per recuperare queste persone. Oggi in Brasile è in atto un processo di municipalizzazione, di decentramento: mentre prima era tutto in mano ai federali, alla Fondação National da Saude. Adesso il Sus, il Sistema Unico di Salute brasiliano, prevede il decentramento. I municipi saranno responsabili del proprio territorio ma siamo in una fase di transizione, non hanno personale adeguato, non hanno esperienza. Ancora oggi, in Brasile, è difficile stabilire il futuro del controllo dell’hanseniasi, come viene chiamata la lebbra, nonostante sia in diminuzione la prevalenza, cioè in diminuzione il numero dei casi registrati, e sia aumentato il numero di casi curati. Fino agli anni ottanta la lebbra veniva curata nei lebbrosari, che poi sono stati chiusi; adesso la lebbra è curata nei servizi normali, ma l’incidenza è ancora molto alta soprattutto per i bambini al di sotto dei quindici anni e questo indica che il batterio è ancora in atto. La trasmissione è ancora molto attiva. I farmaci sono donati dall’OMS gratis, o meglio da una organizzazione la ILEP (International Federation of Anti-Leprosy Associations) una federazione di associazioni di cui fa parte anche l’AIFO, che distribuisce la cura contro la lebbra. L’incidenza, che si costruisce considerando i nuovi casi in un anno, è molto elevata: cerchiamo di far prendere coscienza ai segretari municipali che la lebbra è un problema di salute pubblica.

Dare una informazione può aiutare molto contro il pregiudizio. Prima mi hai fatto vedere un testo di una canzone, un cordel…
Sono delle canzoni scritte dai cantastorie nordestini, che anche da noi c’erano in sud Italia, una specie di teatrino con due chitarre, per fare sensibilizzazione, comunicare; funzionava, si faceva nelle fiere e avvicina molto la popolazione.

Oltre a queste iniziative?
L’AIFO lavora dal 1961 nel campo della eliminazione della lebbra. Nei primi anni passava fondi ai missionari che lavoravano in servizi e nei lebbrosari; dalla fine degli anni settanta sono iniziati i progetti di cooperazione vera e propria con personale espatriato come me, di collaborazione tecnica, e attualmente l’AIFO ha venti progetti nell’ambito del controllo della lebbra con segreteria di stato, ha una collaborazione diretta con il Ministero della Sanità, abbiamo cinque progetti in cooperazione con cinque segreterie statali, Distretto federale dove c’è Brasilia, Bahia, Parà, Acre e Goias, più altri progetti con istituzioni religiose, movimenti popolari brasiliani e organizzazioni non governative tipo il MORHAN – Movimento de rehentegração das pessoas com hanseniasi, che lotta contro la discriminazione, che è nato per volontà di persone che hanno sofferto di hanseniasi di persona. Il problema principale, come dicevo, è raggiungere il paziente nella vastità del territorio brasiliano: paziente che in genere non ha nemmeno i soldi per il biglietto dell’autobus per raggiungere di persona il Servizio di Salute. In alcune zone dell’Amazzonia in cui non esiste l’autobus, magari occorre un giorno in barca per arrivare al centro sanitario.

Su una rivista brasiliana ho letto che metà della popolazione è povera o molto povera. Questa fascia della popolazione è garantita dal sistema sanitario?
Purtroppo no. Ufficialmente è dichiarata coperta dal servizio sanitario ma in realtà la copertura sanitaria non esiste, non essendo una priorità la salute pubblica. Le municipalità brasiliane sono più interessate ad avere un ospedale funzionante che non a sviluppare progetti di prevenzione, che eviterebbero che le persone arrivino all’ospedale: l’ospedale ha un maggiore impatto politico sulla popolazione. Tieni conto poi che gli ospedali ricevono i pazienti ma la maggior parte delle volte con carenza di personale e senza gli adeguati farmaci. Ti faccio un esempio: qui a Goiania, una città abbastanza attrezzata che ha un milione di abitanti, capitale dello stato di Goias, non esiste acqua potabile per tutti, con i conseguenti risvolti sulla salute pubblica. All’interno del territorio, nella vasta campagna, ci sono villaggi con case in fango e paglia non solo senza acqua potabile ma senza nemmeno i servizi igienici, canalizzazioni delle fognature, ecc.
In questa realtà difficile l’AIFO finanzia attività di formazione del personale locale, attività di prevenzione delle incapacità, attività di trattamento, riabilitazione e prevenzione – sensibilizzazione sanitaria. Il pensiero di Raoul Follerau è lottare contro tutte le lebbre (contro tutte le forme di discriminazione), ed è per questo che dal 1996 l’AIFO opera su tre settori: lebbra, infanzia e riabilitazione su base comunitaria, promuovendo e finanziando corsi di formazione tenuti da personale brasiliano (tutti settori non ritenuti prioritari). Come medico mi spetta la supervisione amministrativa e tecnica di tutti i trentatré progetti e, pur viaggiando all’interno del Brasile, praticamente compio, con l’aereo, in un anno l’equivalente di due volte il giro del mondo. Poi per arrivare in certi posti sperduti ho viaggiato anche in asino!

Che cosa è per te fare riabilitazione?
Si pensa sempre alla riabilitazione guardando ad un aspetto della persona, quello fisico. Anche qui nei paesi in via di sviluppo, del cosiddetto terzo mondo, (espressione che non mi piace sia perché penso che il mondo sia uno solo, sia perché questa distinzione – primo, secondo e terzo – è stata fatta da chi ha i soldi: i paesi in via di sviluppo sono in realtà i paesi sfruttati) se noi aspettiamo che i grandi centri riabilitativi, con una visione meccanicistica, risolvano i problemi, non ci siamo. Bisogna guardare alla riabilitazione da un punto di vista della globalità della persona.

Sono arrivato che stai facendo gli scatoloni…Quale tipo di sintesi, anche a livello personale, faresti di questi otto anni di esperienza?
Sono stati anni importanti, duranti i quali ritengo di avere instaurato un tipo di cooperazione paritaria, cercando di non pensare solo ai rapporti costi benefici finali ma osservando anche, nella realtà locale, lo sviluppo quotidiano, in relazione alla globalità dei fattori esterni. Spesso si pensa solo al proprio progetto perdendo di vista la visione d’insieme, ciò che ci accade intorno. Uno dei più importanti lavori condotti è stato mettere in contatto tra loro associazioni non governative o istituzioni religiose, isolate sul territorio, con le competenti istituzioni a livello locale e, tramite le mie conoscenze del funzionamento dell’amministrazione ministeriale, si sono sviluppati rapporti di collaborazione tra istituzioni locali e federali. Questo credo che sia uno dei punti di forza del mio lavoro, anche se non era previsto negli obiettivi iniziali. Non ci limitiamo a contare il numero di malati curati o quello di personale formato, pur essendo importante, sarebbe limitativo. Aver contribuito a far crescere una nuova risposta a livello comunitario è più importante.

Oltre al lavoro, a livello personale, quanto di Giovanni è diventato brasiliano e
come vedi il tuo ritorno nel vecchio mondo?
Mi considerano brasiliano, mi sono calato definitivamente nel modo di essere e di vivere, però conosco anche il mio mondo e ci ritorno abbastanza consapevole delle difficoltà che dovrò affrontare. Penso che la cosa più importante, ma anche più difficile, sia poter mettere a disposizione l’esperienza acquisita qui, in Italia e in Europa, dove sta sviluppandosi adesso una società multirazziale. Il Brasile è un mistura di razze ma c’è una fortissima distinzione di classi (non razzismo diretto alla razza, ma alla classe economica di appartenenza).

Quando approfondisti i tuoi interessi sulle malattie tropicali cosa ti aspettavi? Avevi già l’idea di fare qualcosa di simile a quello che hai fatto?
Quello che mi ha spinto a fare Medicina è stata la conoscenza di colleghi che avevano condotto, anche prima della laurea, esperienze nelle zone più povere del mondo, analoghe alla mia. La possibilità di fare qualcosa di efficace in zone difficili mi ha sempre stimolato. Lavoravo in una parrocchia che aveva connessioni con missionari…è stata facile la scelta, poi con mia moglie siamo partiti per il Brasile.

E’ interessante vedere le motivazioni…
Sì, ma se uno aspetta di avere la motivazione, che deve crescere…non lo so…è una decisione tua, personale senz’altro, ma la scelta avviene per i tuoi contatti per le tue amicizie, attraverso la tua sensibilità ai problemi internazionali, attraverso il tuo sentirti un po’ mondiale…viene dall’esperienza dagli stimoli che uno riceve, chissà… per fortuna, o chissà per sfortuna…Potrei essere stato utile anche in Italia. L’esperienza brasiliana può essere molto utile in Italia.

Parlavo con Claudio Batista docente all’Università di Porto Alegre, che il Brasile è un paese molto ricettivo, anche troppo per alcuni versi, in grado di fare molti passi in avanti. Anche tu sei ottimista in questo senso?
Il grande problema del Brasile, oltre quello sanitario, è quello dell’educazione. Oltre il 17% della popolazione è analfabeta totale (considerando anche chi sa scrivere solo il proprio nome, si arriva quasi al 25%). La gestione politica è terrificante: i sindaci non sono i gestori del territorio bensì i veri e propri padroni; affiggono ancora i manifesti con scritto “Questo l’ho fatto io”. Qui si vota ancora la persona, non un’idea politica. Durante le campagne elettorali i dentisti lavorano a più non posso: il sindaco paga i dentisti per mettere a posto i denti alle persone dicendo loro che è lui che paga. C’è una voluta mancanza della partecipazione della maggior parte delle persone alla vita politica e sociale del Paese. I ricchi (che sono ricchissimi concentrano una quantità di risorse sproporzionata, la classe media fa di tutto per sopravvivere ed i poveri sono abbandonati a se stessi.

Qual è la cosa del tuo lavoro che è riuscita meglio e quella che è riuscita peggio?
La cosa venuta meglio è avere avuto la possibilità di conoscere tutte le realtà e di poter trasmettere quello che è l’AIFO ai progetti. Per esempio un mese fa abbiamo fatto l’incontro di tutti i responsabili di progetto qui a Goiania ed è stato un momento molto importante; abbiamo avuto la possibilità di trasmettere il messaggio dell’AIFO e di uniformizzarlo. Una carenza, una cosa che non siamo ancora riusciti a fare è sviluppare una rete progettuale nuova con le istituzioni; per esempio, lavoriamo con altre ONG o con movimenti locali, radicati sul territorio, ma è una strada da sviluppare.

Il popolo brasiliano è ottimista o pessimista?
Secondo me nessuno delle due. E’ fatalista. Ci sono delle aree talmente degradate ed abbandonate che la popolazione non ha nemmeno l’idea di cosa potersi aspettare di meglio, tipo piantare qualche albero e iniziare una sorta di piantagione. Sono abbastanza fatalisti nel senso che non sanno cosa potersi aspettare di meglio e si accontentano di quello che hanno. Un famiglia nata e vissuta da sempre in una capanna di paglia, senza acqua, nell’interno del Piauì, nel mezzo del Sertão bahiano, cosa si aspetta? Quelli invece accorsi dalle campagne verso le grandi città hanno a che fare con i problemi della delinquenza, della disoccupazione e conducono una vita di rassegnazione. Arrivano in città attratti da un sogno e vanno a fine nei quartieri periferici con capanne che sono peggiori di quelle che hanno abbandonato, con l’aggravante che non sanno come “districarsi” nella vita cittadina. Tutto ciò genera violenza: i bambini di strada potrebbero anche tornare a casa se non incontrassero lì una situazione anche peggiore rispetto alle incertezze della strada.

Di che cosa ha bisogno il Brasile?Hai tre minuti di tempo per rispondere…
Beh insomma, è un po’ difficile…(ride). La questione del bisogno è una questione universale. I bisogni per arrivare alla felicità delle persone sono gli stessi in tutto il mondo; il Brasile ha bisogno di maggiori possibilità di avere una chance di ricercare la felicità, di esprimere la propria idea. Esistono però bisogni primari legati alla sopravvivenza quotidiana che portano in secondo piano altri bisogni, eppure il Brasile è l’ottava potenza industriale nel mondo anche se al 79° posto per qualità della vita (l’Italia è 18° e primo è il Canada).

Mi rendo conto sempre di più che le distanze geografiche sono immense, il Brasile è 28 volte l’Italia…
Considera però questo: non è che chi abita nel suo piccolo abbia una visione più ristretta di chi vive in città. Se prediamo un Caboclo (un ex-indigeno che vive sui fiumi dell’Amazzonia) che pesca e vive in un ambito ristretto, ha una coscienza dell’ambiente, e quindi una consapevolezza di se stesso, della Natura in cui vive, molto più forte di quella di un impiegato che abita in città. Pur senza avere conoscenza delle dimensioni del Brasile, dell’esistenza di Brasilia, pur avendo bisogni completamente differenti dall’impiegato, ha una coscienza del proprio essere maggiore. Questi indigeni, pur vivendo isolati, hanno una sensibilità maggiore e non paragonabile a quella della maggior parte della borghesia o del turista medio. Pensa all’italiano che viene in Brasile per turismo sessuale e comincia a lamentarsi del caffè sulla Varig (la compagnia aerea di bandiera). Quale sensibilità può avere? La sensibilità cioè non viene solo dalla tua partecipazione attiva alla vita sociale, dal tuo essere persona impegnata; ma viene anche dalla relazione tra te a la Natura.

Tornando al personale…
Spero in Italia di potere mettere a frutto l’esperienza acquisita qui. Spero. Un progetto di cooperazione è valido se tu porti qualcosa dove vai ma anche se riesci a riportare qualcosa di utile al mondo dal quale sei partito.

Dimmene una.
Secondo me l’idea di mondialità del Caboclo, di cui parlavamo prima, è un idea utile da riportare in Italia. Si crede che il poveretto africano o brasiliano siano più limitati, ma non è così.

Unico mondo

Brasile, paesi lontani, nuovo mondo. Brasile, volti familiari, l’eterna vicinanza e calore del cuore, del sole sulla testa. Due mesi lontano da casa, due mesi vicino a se stessi, a braccetto con la vita. In Brasile tutto è autocontraddittorio, in un tempo che non è solo quello recente e storico della conquista, ma è eterno, è quello della natura che permea con i suoi ritmi tutto quanto. Il passato italiano del dopoguerra, con la sua arte di arrangiarsi, i mille piccoli mestieri per sopravvivere, una Napoli grande come un continente; il futuro prossimo venturo, mescolanza di razze e meticciato di culture: passato e futuro insieme, ovvero la contemporaneità di un esperimento straordinario, Africamericaeuropeo o europamericafricano, o…

Le prossime tre interviste che riportiamo (in questo numero e nel prossimo) le ho raccolte per strada, in un viaggio che mi ha portato dal sud a Goiania, capitale dello stato di Goias, “vicino” a Brasilia, nel cuore o in uno dei cuori di questo paese grande 28 volte l’Italia. Ho incontrato Giovanni e Pio, italiani, due modi di incarnare una tensione a far nascere luoghi più umani, due modi diversi (uno è medico, l’altro educatore) ma così simili di diventare brasiliani. Cesar, l’amico psicologo che mi ha ospitato nello stato di Rio Grande do Sul, me lo aveva pur detto: se un brasiliano va a vivere in Italia, può starci anche una vita che resta brasiliano, ma se un italiano viene a vivere qui diventa brasiliano. Ecco forse ciò che distingue il nuovo mondo dal vecchio: non è solo la quantità di bambini e giovani che si vedono per le strade ma è la straordinaria capacità di assorbire tutto, è la sensazione che tutto può accadere, è la speranza che alberga nel cuore di ogni brasiliano.

Speranza, danza, festa. Leggendo l’intervista a Deolinda, originaria dello stato di Parà, nel nord equatoriale, forse si può intuire il senso tutto brasiliano della commistione tra la dura lotta per la vita e la speranza nel futuro, tra la miseria del presente di molti poveri e la tensione spirituale, mistica che si materializza in mille chiese, culti, danze, incontenibile. Giovanni, Pio, Deolinda: tre modi di essere vicini a chi soffre, che siano i bambini della favela o i lebbrosi, da secoli l’immagine degli ultimi, la pietra di paragone tra l’abbraccio di San Francesco e i lebbrosari-campi di concentramento.

Vorrei ringraziare Monica Tassoni dell’AIFO, Associazione amici di Raoul Follerau, per avermi messo in contatto con queste persone e avermi fatto conoscere le loro storie. Storie di vecchio e nuovo mondo insieme, uniti, o come piacerebbe dire a Giovanni, storie da unico mondo, e non da terzo o primo.

Cronaca di un’accoglienza

Giuliana

Prototipo di accoglienza:
al mattino sia che io arrivi da casa, sia che arrivi da un’altra scuola, dedico sempre un breve momento di rilassamento, anche solo un minuto per “staccare” prima di incontrarlo.
E’ un ragazzo di 19 anni con un handicap motorio e con gravi disturbi del linguaggio (handicap grave) non parla ma è in grado di capire e di esprimere i suoi desideri tramite gesti convenzionali.
Al momento dell’incontro io lo saluto, mi contraccambia il saluto (tramite un gesto convenzionale che lui usa per salutare). Gli chiedo se a casa i familiari stanno bene e lui mi spiega se c’è stato qualcosa di particolare oppure no.
A volte mi racconta di uscite fatte alla sera con l’obiettore oppure mi racconta del compleanno oppure, visto che è un tifoso accanito, mi racconta della sua squadra.
Io, prima lo ascolto e tramite quello che mi racconta cerco a mia volta di interessarmi di questi argomenti per riuscire a dialogare con lui, per avere un riscontro positivo. Poi in riferimento al programma scolastico gli chiedo se ha voglia di studiare, lavorare oppure di fare qualcosa; nelle risposte lui esita sempre; allora gli do un messaggio di questo tipo:
”Ti va bene ripassare o studiare chimica un’oretta e poi andare a fare merenda al bar della scuola?”
Lui acconsente sempre anche quando la materia che gli viene proposta è da lui detestata.
Da parte sua, c’è sempre un continuo volermi ringraziare (toccandomi la fronte) per ogni cosa che facciamo insieme. Come risposta a ciò, lo ringrazio anch’io, gli spiego che, se vedo che sono seguita nel lavoro, nelle cose che facciamo, oppure che apprende molto facilmente gli argomenti che trattiamo, io trovo molta soddisfazione nel lavorare e quindi sono motivata a proporre cose nuove.
Lui mi ringrazia molte volte, è un mezzo per comunicare attraverso il contatto fisico delle mani quasi una conferma dell’accettazione di sé, e a volte io mi sento impreparata a questo.

Margherita

Sono le otto del mattino, fa freddo e sono fuori, davanti al portone della scuola ad aspettare Andrea. Vedo arrivare la macchina a velocità sostenuta, frena di colpo sfiorando la colonna del portico. Intravedo Andrea che si tiene a stento con la mano sinistra, l’unica che può utilizzare, e noto il suo sguardo, tra il preoccupato e il divertito.
Mi scorge e vedo che mi saluta e mi sorride. Gli vado incontro con la carrozzina, apro lo sportello e lo aiuto a scendere.
Noto le sue gambe che sono sempre più lunghe ogni giorno che passa. Penso: ”Ormai è un ragazzo!”. Scambio alcune parole col papà, prendo lo zaino che mi sembra un macigno e mi sento uno sherpa.
Sconnessi della strada, mi infosso in un tombino, riemergo e scavalco il super-gradino del portone. Finalmente siamo a scuola!
Adesso saluto Andrea con più calma, gli sorrido, gli chiedo se ha studiato, se è preparato per il compito o l’interrogazione. Scherziamo un po’.
In alcuni giorni, sorridere mi pesa un po’ di più perché ho sonno o sono stanca o triste, ma cerco di non abbassare la guardia, perché mi piace pensare che a scuola Andrea si possa anche divertire.
Sì, a volte per lui divento anche un clown.

Anna

Quasi tutte le mattine accolgo Mattia, un bambino di nove anni, che frequenta la III elementare, arriva a scuola accompagnato dalla zia. Lo aspetto nell’aula di sostegno, Mattia arriva un po’ più tardi dei compagni e non entra in classe, è un bambino ipercinetico, generalmente entra nell’auletta correndo, la zia lo rincorre affannosamente, lo saluto, lui mi guarda, ma non risponde al mio saluto, mi fa immediatamente una richiesta del tipo:
”Giochiamo con i Re Magi?”
Io gli rispondo:
”Mi hai salutato?”
Dopo questa richiesta mi saluta, poi riprende a correre all’interno della stanza, oppure tenta di aprire gli armadi dove c’è il materiale per prendere quello che più lo attira in quel momento.
Tutto questo ha la durata di circa 5/10 minuti ossia il tempo necessario per scambiare quattro chiacchiere con la zia.
Quando la zia ci lascia riesco a controllare un po’ di più la situazione, riesco ad ottenere la sua attenzione facendolo sedere, parlandogli con calma e proponendogli un’attività.

Teresa

Giuliano arriva in macchina accompagnato dalla madre. Appena vedo arrivare la macchina esco e vado loro incontro, saluto entrambi con un “Buongiorno!” e con un sorriso. Aiuto la madre a sistemare Giuliano nella carrozzina e intanto gli chiedo come va e se c’è l’occasione gli faccio alcuni complimenti:
” Che bel vestito che hai stamattina; che bel cappellino!; fammi vedere il gioco nuovo ecc.”.
Poi ascolto la madre che certamente avrà da dirmi che cosa ha fatto Giuliano di speciale il giorno prima, o se quella mattina c’è stata baruffa: questo mi aiuta a capire di che umore è. Quindi rassicurata la madre, lei se ne va ed io a seconda di come lo sento e del suo umore gli parlo di quelle attività che si pensava di fare in quel giorno oppure se la luna è storta, gli propongo qualcosa che gli piace particolarmente.

La costruzione del “noi”

Si potrebbe dire che per crescere, e per, vivere, abbiamo bisogno di essere ciascuno sé stesso, o, sé stessa, e di poter “abitare” in un “noi”. Per spiegare questa
espressione, possiamo servirci di un semplice apologo.
Un nonno e un nipotino. Potremmo anche variare i generi a piacere, e dire: una nonna e un nipotino, o una nipotina. I due vanno a far legna. Il bambino è piccolo, e il nonno vigoroso. Tornano a casa con il nonno che porta sulle spalle la legna e il nipote. E il bambino dice: abbiamo fatto legna.
Anni dopo, nonno e nipote vanno ancora a far legna. Il nipote è diventato un uomo, e il nonno ha perso forza e vigore. Tornano a casa, e il nipote porta la legna e sorregge il nonno, che dice: abbiamo fatto legna.
Utilizzo questo piccolo apologo per indicare una condizione che permette a soggetti diversi, e ciascuno con la propria identità, di avere uno scenario condiviso, e di poter dire “noi” indipendentemente dalla forza, dal contributo, dal rendimento e da altri fattori. Si potrebbe dire anche che vi è un comune riferimento ad una Gestalt, cioè una percezione di segni secondo una struttura. In questa si confondono elementi di realismo ed elementi di simbolicità.
In questo libro, incontriamo molte storie, accompagnate da riflessioni puntuali ed opportune. Incontriamo la storia di Walid.
E leggiamo che il padre di Walid sia a lungo seduto immobile in una poltrona sgangherata, pensando al suo villaggio in un paese lontano, dove sarebbe rispettato, e dove sicuramente tornerà. Walid non ha quell’immagine in testa. Non può vedere suo padre sullo sfondo del villaggio. Non può vederlo accolto con rispetto dalla sua gente. Lo vede invece affaticato, forse umiliato. Per Walid è più difficile crescere, perché fa fatica a trovare un “noi” in cui “abitare”. Dovrebbe misurare le sue forze da solo. Se avrà la capacità di raccogliere legna e di portarla, bene. Diversamente, potrebbe cercare in molti modi di mascherare le proprie incapacità. Ad esempio, con l’aggressività.
Non esiste unicamente il “noi” famigliare, ci può essere quello degli amici, quello della scuola, quello del lavoro. Ma il “noi” famiglia è importante, anche simbolicamente. Quando è in crisi quel “noi” possono essere in difficoltà anche gli altri “noi”. La scuola, ad esempio, può essere vissuta come competitiva o come del tutto indifferente, e quindi lontana dalla possibilità di costruire un “noi” abitabile.
Un’altra storia leggibile in questo libro riguarda Sandra e Mohamed, persone adulte che costruiscono insieme, anche con fatiche, un “noi” in cui abitare. Si può dunque costruire, con pazienza e sicuramente attraverso difficoltà, quello che è venuto meno. In qualche modo, possiamo vedere in Sandra e Mohamed un percorso che aiuta a capire più profondamente la parola accoglienza, che accompagna comunità. I motivi di un’accoglienza sono, molte volte, materiali: possono essere un tetto sotto cui riparare, un letto in cui dormire, un bagno dove lavarsi… E un aiuto importante ma limitato. Vi sono situazioni in cui questo aiuto si ripete ogni giorno: diventa un’abitudine di sopravvivenza che non può essere sottovalutata, e senza la quale delle stesse situazioni sarebbero disperate. Ma questi aiuti non sono ancora accoglienza. Possono essere il suo avvio. L’accoglienza è costruire, o ricostruire, un “noi” in cui abitare. Ed è una parola che contiene la reciprocità. In questo si differenzia dall’aiuto, che si basa su una differenza “vettoriale”, come è proprio il rapporto fra chi arriva e chi parte. Così l’aiuto si basa sulla differenza fra chi aiuta e chi è aiutato, o aiutata. Anche nell’accoglienza vi è chi accoglie e chi è accolto, o accolta. Vi è chi dà e chi riceve. Ma la durata di un’accoglienza cambia il rapporto di differenza “vettoriale” in una convergenza ed in una complementarità. Perché anche chi riceve accoglienza deve a sua volta accogliere. Dall’aiuto può nascere l’accoglienza. Ma chi ha bisogno di aiuto corre il rischio della subordinazione e dell’assistenzialismo. Per questo vi sono attente riflessioni sulla relazione d’aiuto: senza una riflessione formativa, questa può trasformarsi in relazione di dominio.
Questo libro nasce dall’esperienza delle comunità di accoglienza. Sandra ha bisogno di aiuto; e da questo si sviluppa un’accoglienza che sviluppa accoglienza, quella fra la stessa Sandra e Mohamed.
L’accoglienza è la ricostruzione di una rappresentazione di sé aperta alla reciprocità, e quindi capace di costruire un “noi”.
Le persone ? bambine e bambini, donne e uomini ? che sono accolte hanno un’immagine spezzata.
E’ forse giusto cercare di capire il significato pieno dell’accoglienza. E credo di capirne meglio il senso, a partire dall’attenzione alle situazioni “estreme”, con un bisogno evidente di accoglienza. Mi riferisco a vicende di vite spezzate e dalla persecuzione razziale dovuta al nazismo. Questo riferimento è certamente problematico. Non sarebbe giusto banalizzarlo ed appiattirne il profilo. Nello stesso tempo, il razzismo genocida ha molti elementi in comune con la nostra normalità. In particolare, credo che vi siano drammatici elementi di continuità nell’interpretazione dell’altro filtrata da stereotipo, Lo stereotipo consente una violenza che può esprimersi in molti modi: da quelli asettici e “puliti”, realizzati con norme e regolamenti, a quelli sanguinosi della persecuzione diretta.

La pedagogia dell’accoglienza

Chi ha bisogno di accoglienza è finito prigioniero di uno stereotipo. In particolare, sottolineo il fatto che l’individuo si rappresenta prigioniero dello stereotipo, anche al di là della storia. Vi è una spezzatura fra la storia reale e quella vissuta.
E questo ci fa capire come importante sia il ruolo di una pedagogia dell’accoglienza.
Ho capito un po’ meglio ciò che sto scrivendo, perché, mentre riflettevo a proposito di questo libro, ho letto una bella tesi di laurea, scritta bene e su un tema simpatico: le tasche dei bambini, intesi come bambini e bambine. Sono tasche che possono contenere qualche piccolo segreto, e che comunque sembrano garantire uno spazio personale. L’autrice, Cosetta Biondi, individua anche tasche che noti fanno parte del vestito. Sono le tasche della sezione della scuola dell’infanzia, e quelle dell’ambiente. Sono quei luoghi che permettono ad un bambino, o ad una bambina, di avere spazi personali attorno a sé. E tutto questo mi ha ricordato un ragazzo che, anni attorno al 1980, frequentava una scuola media. Era seguito in maniera particolare dal servizio socio?sanitario, ed aveva alle spalle una famiglia un po’ disastrata. Si presentava come un ragazzone, grosso, taciturno e sfuggente, che non voleva mai entrare in classe, e che portava, in inverno come in estate, un cappotto pesante. Il suo aspetto sembrava far parte della problematicità del “caso”. Ma un bel giorno successe qualcosa di imprevisto: apparve magro e senza cappotto. Come era accaduto? Una brava insegnante aveva operato per arrivare a individuare insieme a quel ragazzo uno spazio per lui, da considerare come suo personale. Niente di straordinario, ma un semplice armadietto, che quel ragazzo doveva e poteva considerare come suo. L’insistenza dell’insegnante aveva ottenuto il risultato, con la sorpresa di scoprire che la sagome grossa di quel ragazzo era dovuta al fatto che portava addosso, sotto la camicia, tutti i suoi tesori, e per questo viveva sempre con il cappotto. A casa, le persone della sua famiglia gli portavano via tutto, e così aveva trovata uno spazio personale unicamente a contatto di pelle. La
possibilità di avere un armadietto, e la sicurezza di poterlo conservare anche per il periodo delle vacanze, aveva operato una vera e propria metamorfosi.
Ripensandoci, dopo anni, capisco che in quel caso l’accoglienza aveva avuto bisogno di un lungo percorso. E questo mi fa dire che una pedagogia dell’accoglienza deve difendere e conquistare il tempo, e non può limitarsi ad una cerimonia. Non basta informare l’altro che è bene accolto, o accolta. Noti basta un’informazione per cambiare una rappresentazione di sé e delle vicende che si vivono.
Ritorno alle situazioni tragiche di chi è stato prigioniero dei campi nazisti. L’assenza di spazi intimi, la quasi impossibilità di avere delle “tasche” o anche solo una piccola tasca personale erano un motivo di disumanizzazione. Binjamin Wilkomirski raccontato la sua infanzia di bambino in un lager e poi, dopo la liberazione dal campo, in un orfanotrofio. Noi pensiamo che fra le due esperienze non possano esserci confronti possibili, e l’uscita dal campo debba essere stata una vera liberazione. Ma con sorpresa scopriamo che l’orfanotrofio, pur offrendo cibo in abbondanza, un letto pulito e caldo, acqua calda per lavarsi, dimentica di offrire a quel bambino una vera e propria accoglienza. Il campo era dissenteria, topi, fame e sete, bambini congelati, violenza in ogni istante. Eppure leggiamo: “Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a trovare un legame fra quei due mondi. Cercavo inutilmente un filo al quale aggrapparmi.
Potevo sottrarmi al presente insopportabile, estraneo, soltanto tornando al mondo e alle immagini del passato. Passato che mi era quasi altrettanto insopportabile, però mi era familiare: almeno ne conoscevo le regole” (Binjamin Wilkomirski, 1996, p. 55).

Fuori dal lager

L’importanza della parola accoglienza, accanto a comunità è fondamentale. E’ in quella parola che si realizza un percorso, anche lungo e faticoso, che permette di realizzare un cambiamento di schema percettivo, di rappresentazione di sé e della realtà.
Non basta uscire da una situazione terribile. Potremmo ritenere che il passaggio da una condizione penosa ad una migliore sia di per sé un aiuto risolutivo. Non è così. Il cambiamento, che dall’esterno viene considerato come liberazione, può essere nuova sofferenza, incomprensione, perdita di punti di riferimento. Lo possiamo capire proprio da chi racconta la fine dell’esperienza del campo e la propria sopravvivenza allo sterminio. Lidia Beccaria Rolfi è una delle donne sopravvissute a Ravensbruk. Il suo racconto della liberazione ci può fare capire come l’assenza di un’accoglienza sia continuazione della sofferenza. E’ un’indicazione il fatto che l’autrice, morta nel febbraio 1996, ha raccontato la fine dell’esperienza del campo dopo cinquant’anni di silenzio. Sta in silenzio chi ritiene che nessuno ascolti.
Accoglienza è ascoltare attivamente. E chi leggerà questo libro capirà cosa vuol dire.
Ho insistito a fornire come chiave di lettura la parola accoglienza. Non è per sottovalutare comunità. Le due parole sono insieme. Ma ho cercato di capire come non basti avere o trovare un aiuto in un luogo chiamato comunità, ma occorra vivere reciprocamente l’impegno di un percorso a cui ci si può educare.

Note bibliografiche

C. BIONDI, Le “tasche” come contenitori. Bambini, oggetti, attività ludiche, tesi di laurea in Pedagogia, relatrice la prof.ssa Milena Manini, Università degli Studi di Bologna, a.a. 194/95, sessione straordinaria primavera 1996.
B. WILKOMIRSKI. Un’infanzia 1939-1948, Frantumi, Mondadori, Milano, 1990; ediz. originale 1995.
L. BECCARLA ROLFI, L’esile filo della memoria, Einaudi, Torino, 1996.

(*) tratto da, Minori, luoghi comuni, Comunità Edizioni

Guido parla al suo psicoanalista

Guido mi attende in sala d’aspetto, impaziente, provvisto della sua tipica, indispensabile valigetta. E’ accompagnato dalla mamma come sempre. Il nostro è un incontro quindicinale regolare, tuttavia Guido mi chiede sempre, alla fine di ogni seduta, che gli scriva su un foglio la data del prossimo appuntamento, in grande e stampatello: così lo potrà leggere talvolta nei giorni che ci separano, malgrado la sua poca vista, e così potrà confortarsi nell’attesa. Guido tiene molto alla seduta, e mi accoglie sempre, quando vado a riceverlo, sorridente e smanioso di cominciare. A volte nel mio studio, traffica a lungo nei preparativi: si porta sempre nella sua valigetta un magnetofono, con cui registra scrupolosamente ogni seduta, da circa tre anni.
Ha così accumulato una sua riserva di cassettine fatte di incontri con me, dei racconti che mi fa, delle emozioni che ha provato, dei miei commenti, dei suoi e dei miei stessi sentimenti. Queste registrazioni credo facciano parte e forse definiscano la sua storia personale, che viene faticosamente scrivendo, addentrandosi, addentrandoci nel suo inconscio oltre l’opacità della rimozione, malgrado l’altra opacità e l’altra penombra e il limite apparentemente uniforme e doloroso della sua malattia.
Così Guido mi è apparso e mi appare ogni volta di più un bambino, ora un ragazzo straordinariamente vivo e conflittuale, che per me che faccio lo psicoanalista vuole dire ricco, dinamico, teso a dipanare ed a farmi leggere la sua storia, quella passata e quella che viene via via costruendo con la sua vita.
La festa dei diciott’anni: cosa farò da grande?
Ora è di fronte a me, il suo registratore è in funzione, mi chiede di leggergli
qualcosa che fa fatica a decifrare, ma finalmente racconta o piuttosto fantastica e associa:
“Ti ricordi dove eravamo rimasti?” mi domanda.
Confesso che mi emoziona sentirlo dire così, mi accorgo di come da tempo veniamo costruendo un filo, una trama, la sua storia appunto, sospinti dalla forza dei suo desiderio, muovendoci attraverso gli ostacoli delle sue paure e delle sue inibizioni, sempre più familiari però, sempre un po’ meno rigide.
“ Ti ricordi la tua festa di compleanno, dei tuoi diciotto anni, gli amici invitati… “ gli dico.
Soddisfatto sorride; sa bene che ha solo sedici anni, ma il desiderio di essere grande è più forte. La mia complicità lo rallegra; mi raccontava infatti, e la riprende, la festa fantasticata dei suoi agognati diciotto anni. E’ in un paese della valle Leventina, dove è andato in colonia, e molti sono gli amici invitati. Minuziosamente li elenca, e descrive la loro sistemazione nelle camere dove saranno alloggiati: educatori, allievi, compagni. In ogni camera, e l’elenco è lungo, sistema almeno un giovanotto, una giovane donna e un ragazzo. Credo alluda a un incontro amoroso, a una scena primaria, una potenziale scena d’amore, osservata certo in modo celato e discreto, ma con gioia, con eccitazione. Qua e là quest’ultima esplode: Guido infatti talora scoppia in gioiose e buffe imprecazioni, grossolanamente sessuali, ride di gusto, mi osserva divertito mentre cerco di indicargli il piacere sfidante e trasgressivo che prova, l’imbarazzo o il rimprovero che vorrebbe suscitare in me. Ora il racconto della festa si interrompe: mi elenca il menu, anzi i menu dei pranzi e delle merende che con gli amici godrà o ha goduto. Per Guido il piacere del cibo è grande e fondamentale, e pur se i cibi sono semplici e ripetitivi, Guido ha letteralmente l’acquolina in bocca, e non di rado stimola il mio appetito: sento la forza del suo desiderio di vivere, la semplice vitalità del soddisfare gioiosamente un bisogno fondamentale, e accessibile con relativa facilità.
Ci saranno poi anche invitati importanti, uomini di stato, giornalisti; di essi Guido sente parlare al telegiornale: suoi ospiti lo festeggeranno insieme con i suoi amici reali. Curiosità e ambizioni sono in Guido sempre più forti: sempre di più egli mi comunica il suo desiderio di far parte del mondo degli adulti, dei grandi.
Naturalmente ci sarà alla sua festa anche della musica, della buona musica: allora mi chiede di scrivergli elenchi accurati di cantautori e delle loro canzoni. Accenna più volte a qualche motivo, contento più che mai se lo conosco e lo intono con lui.
Alla grande festa che mi descrive non prevede che partecipino i suoi familiari, né suo padre, né sua madre, né Giovanni, il fratello minore. A me riserva un posto di riguardo alloggiandomi per la notte in una camera con una educatrice, che in verità non conosco, e i soliti comprimari.
L’assenza dei genitori è non di rado giustificata con un:
“ Sono morti!” che non ammette repliche e non prevede sentimenti di tristezza; piuttosto sa di «me la devo cavare anche senza di loro, che d’altra parte spesso mi infastidiscono con le loro richieste».
Se gli chiedo di Giovanni mi risponde secco:
“ Lascia perdere! “
Tuttavia mi descrive con eccitazione un curioso incidente che accade durante la festa, a pranzo o mentre fanno merenda: un certo Giovanni (non il fratello dunque, tuttavia omonimo), ragazzino terribile, si diverte, e Guido lo mima e ripete in prima persona le sue parole, si diverte, dicevo, a fare un chiasso indiavolato e a provocare con parole volgari e dileggi i presenti. In questa vicenda di identificazioni e di proiezioni (cioè di attribuzione ad altri di proprie emozioni) evidentemente Guido è ora alle prese con l’aggressività, sia quella secondaria sotto forma di invidia e gelosia per il fratello più piccolo, sia quella primaria, dunque per dir così l’istinto aggressivo come tale. Il mio interesse per la storia che mi racconta è dunque particolarmente grande; sono curioso quanto mai delle vicissitudini delle difese nei confronti dell’impulso aggressivo.
Dunque Guido continua: il cattivo comportamento di Giovanni è tale che una educatrice prima ed un educatore poi sono costretti ad allontanare il reprobo. L’agitazione?eccitazione di Guido è al colmo, rivolto all’irriducibile trasgressore grida:
” Vattene via, di fuori, a dormire da solo nel prato, dove è buio e dove nessuno ti sentirà quando piangerai! “
Riflettendo infine un attimo, Guido conclude:
“Ti mandiamo via, ti rimandiamo dalla tua mamma! “
Dico a Guido che così Giovanni si perderà la festa e i bei programmi previsti durante la colonia, e aggiungo che per Giovanni tornare dalla mamma più che una gioia appare una punizione e una sconfitta. Guido tace un po’, quindi con convinzione mi dice:
“Certo è così, sono d’accordo! io invece in Leventina farò uno stage, imparerò a tagliare le piante nei boschi.”
Mima il gesto e mi chiede di imitarlo. Lo faccio e gli dico:
“Tu Guido vuoi fare il boscaiolo! Altroché birichinate… “
Mi risponde con entusiasmo:
“ Certo, si dice così, il boscaiolo! “
Ecco dunque un buon modo per impiegare l’aggressività e diventar grande, penso io.
E’ il termine della seduta. Ma per Guido gli elenchi di videocassette, cassette musicali, storie, canzoni e cantanti, non sono mai completi, non sono mai finiti, la seduta non sarebbe mai finita. Da tempo per convincerlo a separarsi da me ricorro ad una piccola e dolce violenza: gli faccio trovare un dolce, una brioche, che addenta di gusto mentre gli scrivo su di un foglio in grande la data dei prossimo appuntamento.
Sono passati quasi tre anni dalla prima seduta; Guido è un giovanottino robusto, simpatico; sento che Guido ha dentro di sé fiducia e speranza, più di quanto avesse agli inizi: erano allora più evidenti le sue paure e le sue inibizioni. Non è più il bambino malato, spaurito di qualche anno fa.
Certamente Guido mi ha qui portato il mondo dei suoi conflitti inconsci, e mi ha chiesto di considerarli tali, come un qualunque ragazzino nevrotico. Così il suo interno paese straniero è diventato oggetto della nostra curiosità, dei nostro interesse, del nostro studio semplice ma appassionante.
Ora il suo mondo interiore di aspirazioni, di desideri e certo di ansie e di dolore, ma soprattutto di gioia e di voglia di vivere, tutti questi sentimenti sono entrati a far parte di più della sua identità, del suo esserci, della sua consapevolezza. Guido mi ha via via dato la percezione di una sua particolare, e vorrei dire segreta consapevolezza: quella di una sua identità diversa, in filigrana sofferta ma accettata anche con le sfide che pone, e le gioie che infine può dare.
E’ così che in Guido il sentimento della solitudine dell’individuazione ha dei colori sfumati e teneri, dei suoni misteriosi e familiari insieme, un sapore ghiotto come nel corso della mia esperienza non avevo incontrati mai.

(*) tratto da Daniela e Giangiacomo Carbonetti, Vivere con un figlio down, Franco Angeli Editori

Il lavoro di cura nella quotidianità

Il lavoro di cura si realizza in una relazione tra persone. Seguiamo il suo farsi e ci muoviamo verso il terreno della condivisione e della differenza. Vediamo all’opera ruoli diversi tra chi cura e chi è curato e bisogni soggettivi che si modificano incontrandosi ed allontanandosi.
Il lavoro di cura e di aiuto è ad un tempo profondamente radicato nella concretezza di un gesto, di un’azione, di un ambiente, ma anche intrinsecamente immateriali; diventano qualcosa di più e i diverso dall’insieme di tutti quei gesti, azioni, spazi perché attraversati dalla dinamiche relazionali che rivelano emozioni, prese di posizioni, orientamenti ideali.
In questo numero di HP presentiamo alcuni contributi tesi a raccontare il binomio materialità/immaterialità come uno degli indicatori più significativi del lavoro di cura e di aiuto al di là degli ambiti professionali dove esso si realizza ( il lavoro educativo con i bambini molto piccoli, il progetto terapeutico di un Ser.T…) dove ogni particolare “parla” di quella particolare relazione tra quotidianità ed straordinarietà.
L’uso degli spazi ( aperti o chiusi, pubblici o privati), l’utilizzo della corporeità come strumento di lavoro, i riti del tempo: tutto supporta il recupero del quotidiano in una “dimensione di raccoglimento e di relazione che consenta uno scambio, un dialogo, un abbraccio…in cui ci si possa prendere cura di sé, ri-prendersi in mano, vedersi, distanziarsi, comprendersi e riprogettarsi all’interno dei una relazione con un’altra persona, con se stessi”.

Ricordo di Luciano Tavazza

Recentemente è scomparso Luciano Tavazza, presidente della FIVOL (Fondazione italiana per il volontariato), fondatore e per lunghi anni presidente del MoVI, (Movimento di volontariato italiano).
Con Luciano Tavazza scompare una delle intelligenze più lucide del volontariato italiano e una delle poche persone capaci di una continua e coerente spola tra cultura laica e cultura cattolica, tra volontari e cittadini, tra servizi pubblici e volontariato, tra operatività e riflessione culturale, tra attualità e memoria, tra vertici e base.
Per chi lo conosceva di persona, come alcuni di noi, scompare contemporaneamente un padre, un amico, un maestro.
Vogliamo ricordarlo con un suo articolo del 1994, apparso sulla Rivista del Volontariato, dedicato alle “paure” del volontariato. Paura come limite ed insieme snodo di crescita; ci pare questo articolo senz’altro un pezzo importante del testamento spirituale di Luciano.Il volontariato moderno, celebrerà nel 1994 venti anni di riflessione culturale, di radicale rivisitazione dei suoi valori, delle motivazioni che lo ispirano, del ruolo che è chiamato ad assolvere, attraverso innovatìve strategie sociali, economiche, politiche, per far fronte ad una serie di appuntamenti non eludibili con la storia del nostro Paese.
Ogni tappa di svìluppo del suo dinamico cammino ha registrato ? anche in certi ambienti socialmente meno maturi ? una reazione di paura, di rifiuto del nuovo, un timore quasi congenito di perdere identità, autonomia, prestigio, potere, dimenticando il pressante invito dell’attuale Pontefice ad abbandonare l’assistenzialismo per “affrontare i problemi alle radici”, anziché chiudersi nella prassi del puro “riparatorio” a “schierarsi dalla parte dei poveri” anziché rifugiarsi nelle sole opere di carità!
Una sorta di cultura del sospetto, mai applicata per condurre un esame di coscienza civile e religiosa sulla validità storica del loro operato, ma proiettata sempre nell’essere “annunciatori di sventure”, come diceva argutamente Giovanni XXIII. Paventando cioè rischi, difficoltà, pericoli, dimenticando di essere espressione di un messaggio evangelico alla ricerca spirìtuale ed operativa di orizzonti di “nuovi cicli e nuove terre”.
Questi ambienti del volontariato alle soglie dei 1994 sono percorsi oggi dalla settima paura: il confronto ? che pare non eludibile ? fra il mondo dell’azione volontaria, della gratuità, del disinteresse, con quello economico, del mercato, delle imprese; quasi che fosse non difficile e complesso, ma di per sé impossibile, comporre imprenditorialità e solidarietà al contrario dì quanto anche autorevolmente affermato dal Stefano Zamagni (docente di Economia all’Università di Bologna), nell’ambito della recente settimana nazionale dei cattolici italiani in cui fu sottolineata l’urgenza di accettare con crescente competenza, autonomia, progettualità questo fondamentale confronto.
Eppure basterebbe un minìmo di “memoria storica” per registrare che, chi ha avuto precedenti pregiudìziali paure lungo il cammino del volontariato, ne è uscito ogni volta sconfitto sia sul piano culturale sia nella presenza incisìva sul territorio, abbandonando ?così di volta ìn volta ? gli emarginati al loro destino o indebolendone le dìfese.
Varrà la pena di ripercorrere insieme queste tappe di mutamenti e paure cariche dì insegnamenti.

Nel 1974 Monsignor Nervo delineava ? come contributo della Caritas italiana ? alcune caratteristiche innovative del volontariato moderno: la rimozione delle cause, il dare voce agli oppressi, il puntare al mutamento delle politiche sociali, l’uscire dalla sola beneficenza e dall’assistenzialismo.

Seguono quattro anni dì durissime e sotterranee polemiche. Si arriva persino a dire che “si scivola verso un volontariato marxisteggiante”. La reazione della cultura italiana anche dei soggetti lontani dalla Chiesa, dei volontariato laico è invece tutta positiva. L’opinione pubblica guarda ora con più attenzione e stima questo tipo dì azione gratuita, liberata dal concetto di beneficenza.
Nel 1978 alcuni movimenti impegnati nell’azione volontaria (tra cui l’ANPAS e il MoVI) hanno sostenuto la necessità che il volontariato avesse, oltre alla dimensione delle testimonianze, dei servizi, della donazione e condivisione, la dimensione politica; di impegno cioè a mutare la qualità della vita nella comunità. La reazione di questa seconda paura è ancora più violenta.
Alleandosi con i partiti che avvertivano in questa scelta la caduta del collateralismo, la crescita della autonomia del volontariato, gli stessi ambienti ancora una volta denunciavano la “dissacrazione dell’autentico volontariato”, l’intrusione in campi non suoi; leggevano il termine “politico” per “partitico”, annunciavano l’uscita da un “cammino storico che ci teneva lontani dalla tentazione del potere!”. Questa scelta segnava invece una svolta, una maturazione dei gruppi rispetto all’attuazione dello spirito della costituzione; una crescita dei movimenti nella difesa dei diritti di cittadinanza.
Un certo volontariato tradizionale ? fermo alle opere di beneficenza ? sembrava non capire che chi afferma di non far “politica” fa la peggiore delle politiche possibili: si schiera con i forti, con chi non vuole cambiare il sistema di ingiustizie sociali, con le “strutture di peccato” (Giovanni Paolo XXIII°).

Nel 1982 e dal 1984 i convegni biennali organizzati dal Centro di volontariato di Lucca affrontavano due problemi nodali: la legislazione del volontariato e la collaborazione con gli Enti Locali, abbandonando così una tradizione storica di separatezza, di concorrenzialità, talvolta di lotta fra iniziative della società civile e servizi e politiche dello Stato, delle Regioni, delle autonomie locali. Immediate le reazioni, della terza e quarta paura, talune addirittura di carattere integralistico: la legge sarebbe stata la “fine dell’autonomia”, la gabbia, la trappola. Questi gruppi di retroguardia persino in Parlamento fecero per cinque anni la lotta al progetto Lipari?Martini, mentre a parole fingevano di essere d’accordo. Non parliamo della auspicata collaborazione con lo Stato. Moriva così ? a loro dire ? il protagonismo del volontariato, la sua originalità e libertà, ci si appiattiva sul Pubblico!
Mischiare professionisti “senza ideali” a volontari “portatori di valori” sembrava essere l’ultima sciocchezza! Per fortuna oggi, nonostante reali difficoltà, incomprensioni e talora insuccessi, il volontariato più maturo collabora gradualmente, nella dovuta autonomia, sia alla nuova legislazione del Paese, sia alla revisione e innovazione delle sue politiche sociali.

Dal 1986 i gruppi di azione gratuita più attenti ai problemi della lotta alla emarginazìone e della difficoltà di vincerla qualora la si affronti in ordine sparso, o addirittura sul piano della concorrenza, hanno iniziato un ampio dibattito culturale e una collaborazione organica con il sindacato e le cooperative di solidarietà sociale. Si sono levate ancora una volta a causa della quinta paura le reazioni allarmistiche: il volontariato sarà “divorato” da queste realtà sociali molto più forti; alla gratuità si sostituirà l’imprenditorialità; al volontario il “militante”, al protagonista del gratuito il socio lavoratore; al non economico la legge della cooperazione; al dialogo la conflittualità, al messaggio sociale della Chiesa, le politiche rivendicative dei sindacati. Oggi a otto anni di distanza si deve invece registrare, che nel rispetto delle non valicabili autonomie, chi lo ha voluto ha costruito importanti sinergie con queste due componenti;

Negli anni ’90 la Fondazione Zancan, sempre attenta a cogliere il nuovo, le “gemme terminali” ? come dice Nervo ? dei fenomeni sociali, sottolineava l’opportunità di un volontariato attento a collaborare con il “terzo sistema”. Ciò in una visione di “strategie di insieme” per il mutamento incisivo delle politiche sociali, divenute inefficaci e obsolete, talvolta controproducenti nel nostro paese. Produce in proposito materiale di studio di ottima qualità.
La reazione della sesta paura è sempre la stessa. Che cosa è questo “americanismo”? Non esiste il “settore no profit”! Vogliamo “imbastardìre” l’azione volontaria? Cosa c’entra l’azione gratuita con i patronati, con l’associazionismo, con il lavoro autogestito? Vogliamo far morire forse i gruppi parrocchiali? Vogliamo inventare la “terza via” mai riuscita e nessuno in economia?

Ed eccoci all’ultima paura. La Fondazione Italiana per il Volontariato, dopo aver ascoltato le sollecitazioni di numerose grandi organizzazioni affronta a Bari durante la “II°Settimana nazionale dei volontariato” ? nella primavera del 1993 ? il problema dei rapporti fra l’azione gratuita ed il mercato, l’impresa, il mondo della produzione; la necessità inoltre di una revisione del sistema fiscale, ispirandosi a legislazioni europee ed anglosassoni sperimentate positivamente da alcuni decenni. Ed ecco che piove fuoco: stiamo per venderci, ci si domanda, alla Confindustria, alle Banche? Si diventa succubi del padronato. Ci si avventura nel mondo dell’economia capitalista!
A parte questi lamenti, di soggetti in eterna apprensione, il volontariato si trova oggettivamente dinanzi a questa sfida. La sua preparazione in materia è oggi ancora insufficiente.
Perciò vuole studiare tempestivamente il problema e si rivolge a quanti economisti, imprenditori, amministratori, sindacalisti, sociologi, responsabili di nostre organizzazioni, possono aiutarlo a condurre una ricerca che aumenti la sua progettualità, imprenditorialità, la sua cultura delle imprese.

Non solo, ma anche l’individuazione, la ricerca di fonti finanziarie trasparenti, che non ledano la sua autonomia, che provengano dalla libera scelta dei cittadini, con procedure che superino l’attuale penalizzante sistema fiscale.
Per questo proseguira la sua ricerca, dal 19 al 27 marzo 1994 a Bari, in occasione della “II° Settimana nazionale del volontariato”, aperta al contributo culturale di tutti.
A chi di nuovo si allarma, si suggerisce di riflettere sulla “memoría storica” di questi venti anni di crescente successo della qualità di solidarietà espressa dal volontariato.
Agli immemori ricordiamo un detto della saggezza orientale: “nella dimenticanza della memoria è la radice del male”.
Nel nostro caso il “male” di arrivare in ritardo, rispetto alle esigenze di solidarietà tempestiva,
richiesta dalla sofferenza odierna di alcuni milioni di italiani.

Dall’identità plurale all’identità gagja: una proposta per gli educatori

La stimmate sociale di handicappato, matto, tossico e disgraziato aumenta il grado di emarginazione, sofferenza, chiusura e produce handicap, follia… Compito dell’educatore è consentire e promuovere l’apertura di spazi mentali e sociali per lo sviluppo dell’alterità, l’alterità dentro se stessi.“Gli zingari non possono continuare a fingere di vivere una propria cultura in quanto si tratta ormai di un miscuglio di sopravvivenze già da secoli non vitali e improduttive…..La mendicità, cui da secoli di dedicano le donne zingare, non è compatibile con il senso di dignità che oggi qualifica l’uomo come proprietario del lavoro, ed anche l’uso di strumenti come le automobili o i fili elettrici nelle roulotte, manifesta apertamente l’impossibilità di conservare anche il più piccolo frammento di vita nomade.
Gli zingari debbono capire (ed è nostro dovere aiutarli in questo) che possono fare il massimo possibile per la loro cultura se l’assumono come “storia”, da consegnare ai documenti , con tutto il suo patrimonio letterario, musicale, religioso , politico. Tentare di trattenere la vitalità nel vissuto quotidiano è invece un’operazione, non soltanto illusoria, ma perdente….E (la loro cultura) muore perché non produce più nulla di proprio, anche se continuano a vivere gli uomini che ad essa si richiamano”.
Queste ed altre asserzioni appaiono nell’articolo di una “gagja” che di mestiere fa l’antropologa (Ida Magli), e sono state scritte su un giornale (Il Resto del Carlino) il 13 Aprile 2000, abbastanza vicino alla Pasqua, in una città (Bologna) che pensa di essere civile e sviluppata, che crede di essere ricca, che scrive su volantini e manifesti di essere capitale della cultura nel 2000. L’antropologa “gagja” parte da un episodio che è la corretta rappresentazione socio-antropologica di cosa significhi essere civili, sviluppati, ricchi e culturalmente centrali: significa che se ci capiti dentro e sei Rom puoi morire di freddo o bruciato nella tua roulotte a due anni. Ma, ancora di più, sono le sue asserzioni che vanno lette come rappresentazione culturale di cosa significhi essere appartenenti ad una cultura sviluppata, civile, ricca e occidentale. E proprio di questo che vogliamo parlare in questo nostro articolo gagjo.
Un altro gagjo, Andrea Canevaro, parla di identità plurale. Come è noto a quell’altra minoranza etnica (ne rom ne gagj, oppure tutte e due le cose e altre ancora) che sono – in genere- gli operatori sociali, si tratta di un idea legata strettamente al concetto di ambiente, che ci interessa confrontare e processare attraverso ingranaggi culturali e antropologici che ora ci appaiono salienti.

L’identità plurale

Noi non siamo una sola cosa, siamo tante cose, siamo un numero indeterminato di cose, siamo sani a causa delle nostre incongruenze, abbiamo facce diverse in situazioni diverse, viviamo simultaneamente sentimenti contraddittori, siamo sani se siamo in grado di vivere la crisi, se siamo in grado di rivestire ruoli diversi.
Declinazione in termini di lavoro educativo: l’handicappato, il matto, il tossico, il disgraziato in genere, non è solo quella cosa lì, la stimmate sociale di handicappato, matto, tossico e disgraziato al contrario aumenta il grado di emarginazione, sofferenza, chiusura e produce handicap, follia, eccetera. Compito dell’educatore è consentire e promuovere l’apertura di spazi mentali e sociali per lo sviluppo dell’alterità, l’alterità dentro se stessi.
Ma non si può lavorare sull’identità dell’altro in modo diretto perché sarebbe pura violenza o pura manipolazione, occorre un mediatore, occorre lavorare sui contesti, sulle trame connettive (dice Canevaro), sull’ambiente, occorre creare spazi e significati che l’altro possa occupare-interpretare di sua iniziativa.

Quando Canevaro parla di ambiente ha in mente le persecuzioni naziste agli ebrei, ragiona sullo sradicamento che subirono intere popolazioni e sugli effetti sui loro comportamenti e sul loro esistere, riesce però a mantenere il fuoco anche sul caso singolo, su quello che capita una persona col suo nome, sull’esperienza concreta dello sradicamento.

Assaggiare gli altri

Ma che idea di uomo sta dietro il concetto di identità plurale?
Non solo un idea di uomo, ma anche un’idea di vita e di senso che si articolano sulla esperienza.
In tedesco c’è una parola molto poetica che denota al tempo stesso esperienza e avventura: Erlebniss, e il punto è proprio quello: nell’esperienza, nello sperimentare il mondo, nell’assaggiare gli altri, nel lasciarsi provare dagli altri, nel farsi invadere dal mondo, c’è la costruzione del senso, la partecipazione alle cose, l’appartenenza all’altro da me (cosa, idea, persona o divinità), c’è l’appropriazione (io sto dentro la pancia di mia madre, il suo seno sta dentro la mia bocca), c’è lo scambio e la reciprocità che ci mescola agli altri. E tutto questo avviene col corpo, con la pancia, le viscere, il sangue, le ossa, il cervello, le parole, i sentimenti, la memoria, la speranza. E tutto questo contribuisce a costruire la dignità della persona e la culturalità delle comunità umane.
Le culture hanno dinamiche simili a quelle che hanno le correnti negli oceani o le perturbazioni atmosferiche: le correnti marine, per esempio, si diversificano soprattutto per temperatura e salinità e per questo tendono a rimanere separate e a seguire ripetutamente certi percorsi ma ai loro margini di mescolano si sfrangiano producono schiuma e onde, e nei tempi lunghi anche loro si modificano.
E la dignità? La dignità è il principale prodotto dell’esperienza: io, corpo, mente, memoria, speranza, paure varie, meschinità varie, desiderio, io, anzi noi, persone, comunità, linguaggio, simboli, storia, progetti, noi sappiamo cos’è un uomo, noi sentiamo cos’è un uomo, e siccome lo sappiamo e lo sentiamo vorremmo farlo o esserlo, almeno, nel nostro piccolo ci proviamo. Questa è la dignità: l’immaginazione, l’assunzione, la proprietà di un’idea di uomo e la tensione a quell’idea.
La dignità non c’è per forza, è il risultato finale di una crescita fatta di appartenenza culturale, di rispetto di sé, di relazione con gli altri, di esperienza del mondo.

La banalizzazione dell’esperienza

Negli anni ottanta non sono morte le ideologie (in realtà, da questo punto di vista, l’unico cambiamento è consistito nella omologazione di quasi tutti i mass-media e di quasi tutti i partiti, che si sono adeguati al pensiero unico della globalizzazione), negli anni ottanta, in verità, è stata legittimata e condotta a compimento la nullificazione, la banalizzazione, il massacro dell’esperienza, cioè delle condizioni sociali e culturali che rendono significativa l’esperienza delle persone e delle comunità. Lo ha compiuto la scuola (non dagli anni ottanta, ma da molto prima), lo ha compiuto la televisione, lo hanno compiuto i giornali e le riviste, lo ha compiuto con enorme potenza il cinema, con enorme potenza la musica a iniziare da Woodstock, lo hanno compiuto le radio, vere creatrici di senso comune giovanile, lo ha compiuto la medicina, il sistema produttivo, e più di tutti lo ha compiuto il sistema dei consumi.
Lo hanno compiuto pagati, mandati, costruiti e inventati dai soggetti macroeconomici e macropolitici che avevano e hanno bisogno di pilotare il cambiamento culturale, addirittura antropologico, per poter conservare e aumentare il loro potere ottimizzandone il rapporto costi-benefici : la storia degli anni settanta in America Latina (le dittature militari con relative guerriglie) e recentissima in Asia (l’applicazione letterale e feroce delle ricette dell’FMI e le conseguenti crisi economiche) hanno insegnato alle grandi multinazionali che, per continuare a gestire il loro potere, l’uomo così com’è non va più bene: hanno scoperto che piuttosto che spendere miliardi di dollari per mantenere sottomesso militarmente un popolo è conveniente disumanizzarlo, cioè privarlo della sua dignità e gestirlo dolcemente: costa meno.
L’articolo “gagjo” dal quale siamo partiti testimonia che noi occidentali in questo senso siamo molto più avanti degli altri popoli, che il processo di nullificazione dell’esperienza e di cancellazione della dignità è giunto a compimento; altri sono i popoli che stanno resistendo: i rom e i sinti sono la avanguardia di questa resistenza e per questo noi “gagj” dobbiamo dichiarare morta la loro cultura, noi che la nostra dignità l’abbiamo seppellita sotto un cumulo di immondizie, dobbiamo asserire (ignorando le regole elementari dell’antropologia, che, per costituzione epistemologica, è relativista) che ormai sono loro ad essere privi di dignità.

Aiutiamoli a morire

Se vi fossero dubbi sul fatto che siamo stati disumanizzati, ho le prove: stadio Heysell, muoiono in quaranta prima di Juve-Liverpool, si sa dei morti, lo sanno i calciatori e giocano, lo sa la Tv e partita è trasmessa, lo sanno i telespettatori e la guardano (almeno i nazisti potevano dire ce lo hanno ordinato, ma qui cosa si può dire?), pochi giorni fa in Turchia i morti erano solo due, ma hanno giocato lo stesso;
centri di permanenza temporanea, sono veri lager dove vengono stipati esseri umani che non hanno commesso reati, sono in Italia in cerca di lavoro senza visto, esistono davvero; bombardamento di Baghdad, di Bassora, genocidio in corso del popolo irakeno, stiamo partecipando, perché?; ma la prova principale è l’Operazione Arcobaleno: ehi, serbi e kossovari, non sapevamo neanche che a pochi chilometri da noi esistevate!, ora vi bombardiamo, anzi vi bombardiamo e vi aiutiamo, (l’Esperienza dice: se butto giù una bomba da un aereo a duemila metri d’altezza o molto di più non so esattamente dove cadrà, la Televisione Globalizzata dice: i bombardamenti sono chirurgici, state tranquilli uccidiamo solo il nemico i buoni li aiutiamo tutti insieme, la Mancanza di Dignità dice: uccidiaiutiamoli (cioè aiutiamoli a morire, come dice in ultima analisi anche l’articolo da cui siamo partiti) anche se non sappiamo perché, anche se ce li abbiamo a fianco da qualche decennio e non c’eravamo mai accorti di loro, anche se sappiamo con certezza che tra sei mesi ci diranno che tutto quello che ci stavano raccontando sui serbi era propaganda bellica).
A proposito, tutto quello che ci raccontavano sui serbi era propaganda bellica (vedere gli ultimi numeri di Le Monde Diplomatique che cita fonti ONU, e di vari organismi internazionale della nostra parte).

L’uomo è solo una macchina produttiva?

Noi “gagj” siamo senza dignità perché siamo deprivati della nostra esperienza, siamo convinto di non avere il diritto di pensare cosa è un uomo, non lo sappiamo più dire, e accettiamo che ce lo dica qualcun altro.
Il signor Qualcun Altro ci sta dicendo che l’uomo è uno strumento produttivo. Il signor Qualcun Altro è un quadro medio alto della Philips, della Nestlè, della Monsanto, della General Motors, della Fiat, della Sony. Forse è l’intero consiglio d’amministrazione di una banca o di una finanziaria assicurativa. Il signor Qualcun Altro è preso molto sul serio da quasi tutti i partiti politici e da quasi tutti i quotidiani,
ma è preso molto sul serio anche dalla gente comune. Con la gente comune il tipo di comunicazione cambia: non discorsi, ma file di oggetti desiderabili nelle corsie degli ipermercati, vetrine nei centri commerciali, film, varietà e sanremi vari, campionato di calcio, formula uno, sono tutti casi in cui è il linguaggio è quello delle cose o dei sentimenti, e si tratta di linguaggi da cui è molto più difficile difendersi perché essendo senza parole sono anche senza pensieri e quindi con scarsa possibilità di critica. Il problema è che tutti questi media (dai giornali alle corsie dei supermercati) dicono sempre la stessa cosa e si confermano tra di loro: l’uomo è una macchina produttiva, se non produce e non sa stare nel mercato, allora è un problema che va risolto.

Lettere luterane

Il mutamento antropologico in Italia è già avvenuto. E’ già stato descritto con precisione in tutti i suoi aspetti qualitativi e anche nelle sue cause storiche da Pasolini, è pubblicato in Lettere Luterane e in Empirismo Eretico. Pasolini ne ha descritto bene anche qualche meccanismo, in particolare quelli legati al linguaggio, aspettiamo che qualche antropologo o sociologo riprenda le sue osservazioni e le articoli in modo sistematico.
In questo mondo parlare e praticare l’identità plurale è due cose alternative tra loro: o è una pia intenzione, fiorellino da coltivare in un piccolo orticello, per poi essere messo nell’occhiello di qualche dipendente del signor Qualcun Altro, oppure è una pratica socialmente eversiva, che vive nell’emarginazione, insieme ai profughi, ai rom, agli sconfitti perché improduttivi, e in quanto improduttivi privi del diritto alla dignità e all’esistenza.
Ai sociologi e agli antropologi, e a chi svolge lavoro educativo occorre chiedere di ricostruire e reinventare le condizioni per la possibilità dell’esperienza. Non escludiamo che i luoghi privilegiati della ricerca siano proprio quelli che si tenta di neutralizzare con l’idea dell’aiuto (dai zingaro, fatti aiutare a morire).
Rom e Sinti, come fate voi a resistere? Come fate voi a mantenere la vostra dignità? Ecco, forse questa potrebbe essere l’inizio di una ricerca socio-antropologica.

Il bambino disabile a scuola

Come valutare l’impatto e l’integrazione dei bambini disabili nella scuola? E come indagare in che modo i genitori percepiscono e vivono il mondo della scuola in cui il figlio è inserito?
Una ricerca condotta in provincia di Padova tra i bambini disabili minori di 8 anni. (*)Il concetto di integrazione nasce già negli anni settanta determinando nella scuola la volontà di realizzare percorsi metodologici adattati ai bisogni di ciascuno (9, 17).
Emergono e si impongono, grazie anche ad una serie di interventi legislativi (1, 3), nuovi modelli socio-pedagogici, che mettono al centro del processo educativo lo sviluppo della personalità dell’allievo e la sua capacità di comunicare e di apprendere.
Nel clima di rinnovamento del sistema educativo italiano, determinato dal “Documento Falcucci” (CM 227/75) (10), la legge 517 del 1977 (11) rappresenta una pietra miliare, abolisce infatti le classi differenziali e le scuole speciali, definisce il ruolo dell’insegnante di sostegno e le forme di integrazione per i soggetti portatori di handicap.
La nuova realtà scolastica che viene così a delinearsi è molto complessa e diversificata in quanto richiede, oltre ad un rinforzo e affinamento della pratica didattica, un intervento qualificato di insegnamento “differenziato”.
Successivamente la legge quadro sull’handicap (L.104/92) (12) pone come obiettivo dell’integrazione lo sviluppo delle potenzialità della persona disabile nell’apprendimento, nelle relazioni e nella socializzazione (7).
La normativa sottolinea l’importanza del coinvolgimento della famiglia nel processo educativo del bambino e della collaborazione tra scuola, USSL ed enti locali (8, 13, 14). Queste istituzioni concorrono insieme a fornire le risorse umane, tecnologiche ed economiche, necessarie per garantire la maggiore integrazione possibile.
La scuola diventa così un luogo di relazione tra le varie agenzie educative e tra le diverse persone che hanno preso in carico il soggetto con handicap (16).
Nella scuola il bambino entra in contatto con gli insegnanti e con la rete educativa, in cui esistono regole e rapporti non ancora sperimentati; socializza, trova la possibilità di sviluppare e approfondire relazioni trasversali con gli adulti e con i coetanei, in un nuovo contesto. C’è quindi una continuità tra funzione genitoriale e scolastica, una alleanza e una complementarietà che offre maggiori possibilità di sviluppo delle potenzialità di ciascun soggetto (2). La socializzazione del soggetto con handicap con i coetanei, sia all’interno, ma anche all’esterno dell’ambiente scolastico, offre ulteriori opportunità formative capaci di motivare, orientare e sostenere l’apprendimento e le relazioni.
Ogni bambino è unico ed irrepetibile, con un proprio stile cognitivo, strategia di apprendimento, forma espressiva e comunicativa (5, 15, 17). Quando si tratta di un bambino disabile l’unicità, quindi la diversità, è vissuta quasi esclusivamente nella sua accezione negativa.
La sua diversità è infatti molto più difficilmente contenibile in un modello standard di essere e soprattutto di apparire.
In generale le istituzioni reagiscono con difficoltà verso ciò che devia “dall’atteso comune”, perché richiede loro flessibilità, adattamento ed innovazione; tutte qualità che sono difficili da attuare nelle agenzie organizzate e da tempo strutturate.
Anche la famiglia spesso si rapporta con difficoltà all’unicità del proprio figlio disabile, proiettando al di fuori di sé sentimenti negativi e vivendo quindi momenti di difficoltà e di incomprensione verso l’istituzione scolastica che “non dà il supporto richiesto e non fa tutto quanto potrebbe”.
A volte i genitori possono essere sopraffatti da sentimenti di impotenza tendendo a delegare ogni responsabilità educativa; altre volte chiedono con insistenza attività inutili o impossibili, idealizzando le capacità del figlio e superando nelle aspettative ciò che è ragionevole attendersi (6, 18).
Da queste riflessioni è sorta l’esigenza, nell’ambito di uno studio di prevalenza sulla disabilità all’età di 8 anni nella Regione Veneto, di valutare l’impatto e l’integrazione dei bambini disabili nella scuola e indagare come i genitori percepiscono e vivono il “mondo della scuola” in cui il figlio è inserito.

Materiali e Metodi

Lo studio è stato condotto nella coorte dei nati nel 1988 nella provincia di Padova, seguiti dalla nascita fino agli 8 anni. Tale provincia poteva ritenersi ideale per la numerosità dei soggetti seguiti e rappresentativa della situazione demografica, culturale e sociale di tutta la Regione Veneto.
Sono stati inclusi nello studio i soggetti che abbiano presentato dalla nascita o successivamente ad essa, e comunque entro il 31/12/96, una o più menomazioni disabilitanti. Si sono considerate le disabilità con un danno funzionale di ordine medio-grave, tali da richiedere una presa in carico specifica da parte dei servizi socio-sanitari e/o una certificazione per la frequenza scolastica. Sono stati esclusi dallo studio i casi con patologia cronica, come ad esempio l’asma o l’epilessia ben compensata, e i casi di cosidetto “handicap sociale”, ovvero i soggetti che soffrono di una condizione di svantaggio dovuta a problematiche familiari di ordine sociale, ma che non presentano alcuna menomazione o disabilità. Questa decisione è stata assunta per poter ottenere un’area di studio più omogenea, anche se meno numerosa, che costituisce il nucleo centrale e più problematico della disabilità.
Per individuare e poter successivamente selezionare i casi si è seguito un approccio di tipo “multifonte”. Sono state cioè attivate contemporaneamente tre diverse fonti di informazione:
1. la rete dei Servizi socio-sanitari (compresi gli istituti/enti privati convenzionati);
2. la Scuola;
3. le Associazioni d’utenza.
Gli elenchi derivanti da queste tre fonti sono stati confrontati tra loro, con l’obiettivo di riuscire ad individuare tutti i bambini eleggibili per lo studio.
Si è indagato il vissuto delle famiglie con un bambino disabile attraverso un’intervista domiciliare utilizzando un questionario pre-codificato. Quest’ultimo era costituito da differenti parti, che andavano a sondare: la composizione della famiglia, il percorso diagnostico, terapeutico e riabilitativo, il grado di autonomia del bambino, la scuola e i problemi ad essa connessi. A conclusione dell’intervista i genitori erano invitati ad esprimere il loro accordo su una serie di affermazioni riguardanti l’utilizzo di strutture, istituti o scuole speciali per soggetti con handicap. A ciascuna proposizione poteva essere assegnato un punteggio da 1 a 10. Per l’analisi descrittiva dei dati ogni affermazione è stata associata ad una variabile dicotomica creata con il seguente criterio: un punteggio ³ 8 esprimeva concordanza dei genitori con l’affermazione, un valore < 8 significava disaccordo o indecisione.
L’intervista è stata condotta da tirocinanti della Scuola per Educatori Professionali della Provincia di Padova appositamente formati. Durante tutto il periodo dello studio è rimasta attiva una finestra telefonica dedicata alle famiglie per qualsiasi tipo di informazione o delucidazione.
L’ultima fase dello studio è stata caratterizzata da una serie di “interviste a testimoni privilegiati”, interlocutori particolarmente attenti, preparati e strategici per il ruolo istituzionale ricoperto, al fine di conoscere i loro orientamenti e le loro tendenze sul problema. Sono state pertanto contattate diverse figure professionali che operano a contatto con l’handicap e che rappresentano tutte le istituzioni coinvolte. Del mondo della scuola sono stati intervistati: il provveditore agli studi, un direttore didattico, uno psicopedagogista, un insegnante di sostegno, un insegnante elementare. Tutte le interviste ai testimoni privilegiati, essendo state registrate, sono state integralmente trascritte e soggette ad una prima rilettura tendente ad evidenziare orientamenti, problemi e proposte.
Dei circa 10.000 nati nella provincia di Padova nel 1988, 202 erano “in carico” ai servizi per problemi riferibili ad una disabilità e/o handicap entro il compimento dell’ottavo anno di vita. Da questi ultimi sono stati selezionati i casi e stimata la prevalenza della disabilità medio-grave a 8 anni e alla nascita.
Successivamente i dati sono stati analizzati distinguendo i casi in 3 gruppi: soggetti con disabilità mentale (sindrome di Down, ritardo mentale associato ad altra patologia, come la paralisi cerebrale, autismo e altre psicosi), soggetti con problemi di apprendimento (disturbi specifici della lettura, della scrittura, del linguaggio e dell’apprendimento) e soggetti con altre patologie (deficit dell’udito, spina bifida e miopatie).

I risultati della ricerca

142 soggetti rispondono ai criteri di inclusione descritti sopra e quindi la prevalenza di disabilità medio-grave a 8 anni è risultata dell’1,5% (I.C. 1,14-1,86).
Le patologie dell’area mentale riguardano il 45% del totale dei casi e se a queste sommiamo quelle della comunicazione e dell’apprendimento, raggiungono il 68%.
Ad otto anni il 98% dei bambini frequenta la scuola; solo uno di questi è iscritto alla scuola speciale. Nella scuola il bambino disabile trova molte risorse a lui dedicate: dall’insegnante di sostegno all’operatore addetto all’assistenza fornito dal Comune o dall’Ulss, agli insegnanti di classe che lo seguono in modo individuale. Queste figure professionali sono assegnate secondo le necessità espresse dalle disabilità presenti (mentali, dell’apprendimento e fisiche) e sono assorbite quasi totalmente dall’area mentale, come appare dalla tabella 1.
L’integrazione nella classe in almeno metà dei casi non si traduce in una vera integrazione sociale.
Nelle tabelle 2 e 3 viene riportato come vive e cosa fa il bambino disabile a scuola e fuori da essa.
Solo metà dei bambini disabili infatti, rimangono sempre in classe, pur svolgendo attività specifiche, e solo un terzo svolge le medesime attività proposte ai compagni. Vengono seguiti al di fuori della classe (soprattutto) i soggetti più difficili e disturbanti, quelli con problemi psichici e/o con patologie nell’area mentale.
Se osserviamo i rapporti che si creano tra i genitori dei bambini con handicap e la scuola, notiamo che l’insegnante di sostegno è la persona che ottiene il maggior gradimento, infatti le famiglie di tutti e tre i gruppi hanno un rapporto positivo e di collaborazione con essa (75%). Le famiglie riferiscono di avere buoni rapporti con gli insegnanti della classe nel 49% dei casi, con il personale ausiliario della scuola e con la direzione nel 22-21% e con gli altri genitori nel 15%.
I difetti di apprendimento sono quelli che spingono le famiglie a giudizi più negativi sull’istituzione scolastica in tutte le sue componenti: insegnanti di sostegno e ordinari, direzione, altre famiglie.
Buoni rapporti con i propri compagni di classe vengono riportati dal 57% dei genitori, con una percentuale doppia tra i genitori di bambini con disabilità motoria o sensoriale rispetto a quelli con disabilità mentale. Il 3-5% di questi due gruppi di genitori afferma inoltre che il proprio figlio non è accettato dai compagni di classe.
Nonostante che i rapporti instaurati dai genitori con il mondo della scuola non siano molto soddisfacenti, se escludiamo l’insegnante di sostegno, solo un genitore su otto esprime il bisogno di una maggior collaborazione tra scuola e genitori. (Tabella 5)
Inoltre, in un contesto in cui le istituzioni si impegnano per raggiungere il maggior livello di integrazione possibile per il bambino disabile, un genitore su tre preferisce la scuola “speciale” a quella “normale”, sostenendo che “in una scuola speciale il bambino ha insegnanti che conoscono il suo problema e lo aiutano” e uno su quattro afferma che “per il futuro del bambino, è meglio stare in una comunità pronta ad accogliere le sue esigenze”, piuttosto che rimanere in famiglia.
Le interviste aperte ai testimoni privilegiati hanno evidenziato concordanza con le famiglie per quanto attiene i problemi della frammentazione e conflittualità tra servizi e operatori e per gli aspetti della carenza di informazione e comunicazione con la famiglia. Le interpretazioni delle istituzioni per gli altri punti critici e soprattutto per le soluzioni ritenute valide ed efficaci sono invece più lontane rispetto a quelle delle famiglie. Si ritiene, ad esempio, che una soluzione ottimale per affrontare i problemi delle famiglie e l’integrazione del bambino sia il coinvolgimento della famiglia stessa nel percorso riabilitativo e nella stesura del piano educativo individuale (cosa peraltro già prevista dalla normativa vigente). Altro aspetto riferito in ogni intervista è il problema della formazione degli operatori, al quale tutti i professionisti intervistati gli hanno assegnato un valore determinante.

Alcune considerazioni

La scuola, per perseguire l’integrazione dei bambini disabili, li inserisce nella classe con i propri coetanei, luogo ideale di relazione, al fine di stimolarne la crescita ed il processo formativo; inoltre destina loro parecchie risorse umane, anche se molte di queste sono assorbite dai soggetti con patologie dell’area mentale e dell’apprendimento.
All’interno della scuola comunque pare esserci un comparto a se stante, che interessa i bambini disabili e chi strettamente li segue nei loro percorsi educativi e formativi, tanto che l’insegnante di sostegno sembra perdere la sua funzione di risorsa specifica per l’inserimento e l’integrazione del bambino disabile e sembra diventare uno strumento alternativo alla classe.
Eppure, l’integrazione degli alunni con handicap dovrebbe favorire, secondo alcuni autori (9, 15), la possibilità di esprimere ed ottimizzare al massimo la specificità esistenziale di ciascuno.
In particolare, notiamo che nel rapporto che il bambino disabile instaura con i compagni, l’integrazione risulta più difficile nelle menomazioni mentali, non solo nel gioco, ma anche nelle attività che svolgono insieme in classe. Anche l’inserimento scolastico si realizza più difficilmente quando l’handicap è mentale, disabilità che interessa quasi la metà dei bambini a quest’età.
Una valutazione negativa della scuola arriva comunque dalle famiglie con figli che presentano disturbi del comportamento o dell’apprendimento.
E’ comprensibile comunque che, in una situazione in cui il volontariato, le associazioni d’utenza e non da ultimi i servizi socio-sanitari sono attivi ma spesso lontani da queste famiglie, la scuola diventi un punto di riferimento indispensabile, e in qualche caso l’unico alleato dei genitori.
La scuola dovrà quindi sperimentare nuove strategie per coinvolgere maggiormente il bambino disabile, e chi lo segue, nelle attività di classe e con il raggiungimento dell’autonomia gestionale dovrà garantire un minor turnover di insegnanti, assicurando la continuità del processo educativo, condizione di maggior garanzia per gli interventi didattici (4).
La scuola però non può essere considerata esaustiva delle risposte ai bisogni d’integrazione dato che tutte le agenzie educative concorrono al processo formativo del bambino, ognuna per la parte che le compete, per dovere istituzionale o per scelta programmata.

BIBLIOGRAFIA

AAVV. Handicap e scuola. La mappa degli interventi per l’inserimento. Integrazione 1994; 1/2: 62.

D’Ambrosio C, Okely O. Famiglia e scuola: relazioni e funzioni nel progetto di crescita. Il bambino incompiuto 1994; 5:51-60.

3) De Anna L., “L’intégration scolaire des enfants handicapés en Italie”. The European Electronic Journal on Inclusive Education in Europe. [Available http://www.uva.es/inclusion/texts]

4) Cacioni M. La continuità educativa. Handicap Risposte 1999; 2: 34-36.

5) AAVV. Unico e irripetibile. La diversità come base della cultura. Informazioni Handicap 1996; 5: 38-39.

6) Samory M. Il bambino con handicap: l’evento familiare. Prospettive Sociali e Sanitarie 1996; 10: 14-17.

7) Benciolini P. La legge 104/92 e il sistema dei servizi socio-sanitari per l’età evolutiva: condizioni istituzionali, organizzative e professionali. Servizi Sociali 1996; 2: 43-49.

8) AAVV “L’intesa”, strumento basilare per l’integrazione scolastica. Servizi Sociali 1990; 5: 5-11.

9) Canevaro A., “La maratona dell’integrazione. I significati profondi di un concetto.”, Integrazione 1997; 5/6: 10-12.

10) Rollero P. L’integrazione scolastica degli handicappati a vent’anni dalla circolare Falcucci. Prospettive Assistenziali 1995; 110: 14-19.

11) Legge 517 del 4/8/1977. Norme sulla valutazione degli alunni e sull’abolizione degli esami di riparazione nonché altre norme di modifica dell’ordinamento scolastico. G.U. n. 224 del 18/8/1977.

12) Legge n. 104 del 5/2/92. Legge quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate. Supplemento ordinario al G.U. n. 39 del 17/2/92.

13) D.P.R. 24/2/94. Atto di indirizzo e coordinamento relativo ai compiti delle unità sanitarie locali in materia di alunni portatori di handicap. G.U. n.87 del 15/4/94.

14) Circolare n. 33 del 20/10/1993. Indirizzi sull’integrazione scolastica e sociale della persona con handicap. B.U.R. Regione Veneto n. 91 del 29/10/93.

15) Canevaro A. La diversità necessaria. AccaParlante 1997; 7: 48-54.

16) Nocera S. Il futuro dell’integrazione. Verso il duemila. Handicap Risposte 1999; 2: 29-31.

17) European Agency for development in special needs education. Integration of handicapped pupils in the Mainstream School system. 28/11/1995 [Available http://www.uva.dk/gammel/handicap.htm]

18) Nursey AD, Rohde JR, Farmer RDT. A study of doctors’ and parents’ attitudes to people with mental handicaps. Journal of Mental deficency research 1990; 34 (2): 143-155.

(*) ricerca condotta e redatta da:
A. Furlanetto P. Facchin, Unità di Epidemiologia e Medicina di Comunità, Dipartimento di Pediatria di Padova
P. Bortolon, M. Zorzi, B. Buratto, Scuola di Specializzazione in Igiene e Medicina Preventiva, Università di Padova
M. De Danieli, Ufficio Pari Opportunità, Provveditorato agli Studi di Padova

Vila Esperança

Ho incontrato Pio Campo, italiano, in un caldo, invernale, pomeriggio di luglio a Goias Velho, vecchia capitale dello stato di Goias, vicino, si fa per dire, a Brasilia. Nel mio viaggio in Brasile questo è stato uno degli incontri più importantiChe cosa è Vila Esperança?
Da un punto di vista freddamente giuridico Vila Esperança è una associazione apolitica e senza fini lucrativi e religiosi. Il suo scopo è lavorare sul riscatto e sulla valorizzazione della cultura brasiliana e quindi sulle radici culturali indigene e africane, che sono i due ceppi che compongono, insieme alla razza bianca, questa mescolanza che è il popolo brasiliano. Vila Esperança già nelle costruzioni riflette l’influenza di queste culture perché volevamo che i bambini che la frequentano si abituassero ad avere stimoli visivi che ricordassero loro da dove vengono, qual è la loro storia. Questo perché in Brasile, come in tutti i paesi chiamati del “terzo mondo”, la storia che si studia a scuola è una storia ufficiale, bianca, vista come storia di conquista, di dominazione. Noi invece cerchiamo di presentare la storia con occhi latino americani, che guardano dal sud del mondo, e che quindi interpretano più criticamente la realtà, soprattutto in relazione a questi 500 anni (il Brasile è stato scoperto da Cabral nel 1500) che sono stati 500 anni di sterminio culturale in nome della cultura europea o nord americana. Il lavoro che facciamo è aiutare i bambini, ma anche gli adulti, a riscoprire il valore, la bellezza di queste culture, che sono scritti nel colore della pelle, nei tratti somatici, nelle usanze e nel modo di vivere che resiste, anche se faticosamente, a dispetto della propaganda delle telenovelas dove domina un mondo sempre bianco, europeo, uno stile di vita che non è quello di qua.

Prima di continuare ti volevo chiedere se il pavone attacca l’uomo.
Non preoccuparti: forse lo stiamo un po’ innervosendo, seduti qui vicino alla sua gabbia. Vedrai che adesso il pavone si calma perché va a dormire.

Quanti bambini ci sono?
Ci sono duecento bambini che frequentano assiduamente la Vila. Concretamente è organizzata così: c’è una scuola elementare che va dalla prima alla quarta elementare, i maestri sono del luogo. Forse lo sai già, ma le uniche scuole che funzionano in Brasile sono quelle private perché c’è una volontà chiara del governo di non investire nelle scuole pubbliche, che sono quelle frequentate dalla maggior parte della popolazione di un certo ceto sociale. Queste scuole non funzionano, è un po’ diverso dall’Italia dove le scuole private sono un po’ per chi non riesce a studiare; qui invece formano la classe dirigente. Un popolo, invece, che non ha cultura è più facile da governare e da dominare.

Quello che mi colpisce della Vila è il suo essere una scuola a cielo aperto, un labirinto di stradine e sentierini che collegano “l’aula di geometria” (una scalinata composta da figure tridimensionali) al tendone del circo, dalla sala cucina al teatro indigeno, e ad altri posti ancora, sempre immersi nella vegetazione, circondati da “totem” e da una grande varietà di animali. Mi ha colpito quando ci siamo fermati di fronte un’ aula scolastica, con i consueti banchi e io ti ho chiesto: “questa è la scuola?”. E tu: “No, è solo l’aula per imparare a scrivere. Tutto è la scuola”.
Vedi, questa scuola di Vila Esperança è rivolta alla classe povera, ai bambini che vivono nella favela. E’ una scuola che funziona bene e che ha una impronta ben specifica: abbiamo fatto un calendario scolastico che dà importanza alle date che sono fondamentali per la storia del popolo brasiliano. La programmazione culturale ha dei ritmi ben precisi: ad esempio per due mesi studiamo la cultura africana, altri due studiamo la cultura indigena, eccetera. L’anno inizia con un progetto che si chiama Ancestralità ed è dedicato alla riscoperta degli avi: si apre con attività della Vila nelle quali collaborano i nonni, che stanno qui con i loro nipoti, insegnando quello che hanno appreso nella loro vita e che son cose che si stanno perdendo. I nonni insegnano a tessere con il telaio a mano, l’arte della terracotta, insegnano i piatti di cucina che anche qui sono sempre più sostituiti da cose americane, di plastica. C’è poi un interessante progetto della medicina naturale, ricette fatte con le erbe, che hanno un potere curativo enorme.

Ho visto che la stessa medicina ufficiale (l’ho constatato ad esempio nell’ospedale di Ceres, nell’interno dello stato di Goias, che ha un vero e proprio settore di produzione) punta molto sulle medicine naturali a base di erbe e minerali.
E questo è solo un aspetto di una cultura ricchissima. Questi nonni sono discendenti diretti degli indios e dei negri, hanno un bagaglio culturale che discende dalla cultura indigena e africana, anche per quanto riguarda lo stile di vita. Lo sforzo della Vila è di lavorare per dare una coscienza del valore della tradizione: a partire da qui si può fare un anche lavoro sociale per riallacciare i legami familiari che sono abbastanza difficili…hai una nuvola di zanzare addosso, pazienza…del resto siamo in Brasile. No…cambiamo posto… meglio…
(ci spostiamo nel tendone del Circo, uno dei tanti luoghi di questa magica Vila…)
Ti dicevo, come in tutte le situazioni di miseria anche le relazioni familiari si sfibrano: uno dei nostri obiettivi è di riallacciare, di rendere più umani i legami familiari. Tutta la programmazione degli eventi si conclude con una festa che raggruppa tutte le famiglie: si lavora insieme uno-due mesi e alla fine, con danze e canti, i bambini fanno vedere ai genitori quello che hanno imparato. Da un lato si fa conoscere questa cultura alla gente e dall’altro l’obiettivo educativo e affettivo è di ricollegare quello che sta facendo il bambino ai genitori. C’è anche una ludoteca, frequentata dai 120 bambini che vengono al pomeriggio, divisi in gruppi di venti: l’obiettivo è di giocare, rendere accessibile un mondo che purtroppo loro vedono solo in televisione. Qui hanno tutti i giocattoli che vogliono, presentiamo un mondo ludico che è quello nel quale dovrebbero vivere tutti i bambini.

Da quanti anni è attiva la Vila?
Da 9 anni: da quest’anno abbiamo aperto un memoriale indigeno-africano, che illustra alcuni aspetti della loro arte. I pezzi provengono sia da questa parte del Brasile che da altre; alcuni provengono dalle zone africane, da cui sono venuti gli schiavi. Essere indio o negro, nonostante si faccia finta che non esista il razzismo, è sempre un motivo di difficoltà, forse è come essere uno del sud in Italia. E’ una cosa sedimentata dentro alle persone, ed è per questo che anche noi troviamo difficoltà nell’aiutare il recupero di queste radici. A me sembra che dopo un po’ di anni stia nascendo un certo orgoglio di far parte di queste culture, che hanno una loro ricchezza e bellezza valide tanto quanto, se non di più, della nostra europea. I bambini che frequentano la scuola, a me sembra di poter dire, assumono
una postura diversa nei confronti della vita, di orgoglio di essere quello che sono per affrontarla a testa alta. In termini affettivi potremmo dire che ricevono qua una buona dose di ottimismo nei confronti della vita umana. Le feste, ad esempio: sono manifestazioni ricche e allegre, sono momenti importanti che aumentano la loro autostima. Qui a scuola, come dappertutto, imparano a leggere, scrivere e a fare di conto, ma sempre con la nostra impostazione culturale ben specifica. Tant’è che qui non studiano inglese ma hanno le nozioni basiche di una lingua africana, lo yorubà.

Ci sono bambini disabili?
Ci sono due bambini con difficoltà motoria, un altro è muto… Diciamo che le difficoltà spesso dipendono dalla violenza familiare. Qui alla Vila i disabili sono ben inseriti, aiutati in un senso positivo, c’èun’accettazione spontanea da parte dei loro compagni.

Come vi sovvenzionate?
Lo spazio è stato fondato da tre persone, io, Robson (brasiliano di Belo Horizonte) e Lucia, anche lei come me italiana. Quando ci siamo incontrati avevamo l’aspirazione di creare un piccolo mondo nel quale ci fossero relazioni più umane, di rispetto della diversità. Per realizzarlo abbiamo messo insieme quello che avevamo, abbiamo venduto le nostre case (chi aveva la casa) e abbiamo comperato questo terreno. Ci siamo messi a costruire piano piano tutto. Siamo anche un gruppo di teatro, e ci manteniamo facendo ogni due anni una tournée in Italia. La Rete Radiè Resch finanzia una parte del progetto, poi l’associazione Amici di Vila Esperança e infine l’AIFO, che in questi ultimi due anni ha finanziato il progetto Salute per un lavoro di prevenzione. Io, Robson e Lucia siamo gli unici volontari e ci chiamiamo Gruppo Circo.

Domanda da educatore. Avevo letto un documento interessante fatto da voi ma che mi ha lasciato perplesso: voi affermavate che Vila Esperança è la vostra vita. Non siete preoccupati di tenere distinti la vita e il lavoro? Voi come fate ad evitare il famoso “burn out”, ovvero, detto in altri termini, flippar via, cioccare?
Quello che succede è che Vila Esperança è anche la nostra casa. Proteggersi ogni tanto, isolarsi, è importante: ognuno si ritaglia il suo spazio, la sua casa. E’ un momento di ricarica, perché a volte è faticoso: nel periodo di “ferie”, quando i bambini non sono a scuola, in realtà lavoriamo il triplo. Non ci si può assentare, mai: unico strappo alla regola è ogni due anni una tournée in Italia. Stiamo via un mese e mezzo, la Rete Radiè Resch organizza per noi una serie di spettacoli che teniamo in tutta Italia. E’ vero, a volte è difficile ma non possiamo mai fermarci: la villa è quello che noi sognavamo e i sogni hanno una parte romantica e una faticosa. Quando qualcuno ha qualche problema si ritaglia spazi, per stare un po’ da solo.

Accanto alla Vila sorge un monastero che ospita Marcelo Barros, uno dei più importanti teologi della liberazione brasiliani. Avete collaborazioni col monastero?
Di buon vicinato: la teologia della liberazione, è nella stessa linea di lotta nella quale noi siamo. Come ti dicevo il nostro progetto non ha una impronta religiosa se non nel rispetto delle varie religioni. Uno dei progetti è di allestire un giorno la Casa delle religioni, attraverso stimoli visivi, odori magari, perché i bambini abbiano la possibilità di scegliere. Anche la religione cattolica è quella degli invasori si è imposta in un modo poco umano: il candomblè, la religione africana che celebra il culto degli Orixas, è stato perseguitato dalla polizia per vari anni, ha dovuto nascondersi. Il culto di molti santi della chiesa cattolica in realtà nasconde il culto di queste divinità africane. Il candomblè è estremamente presente ma ancora non ha il coraggio di uscire.

Altri progetti nel cassetto?
Completare gli spazi fisici della Vila (manca il collegamento dell’acqua potabile). Un progetto molto attraente è il Carrozzone Ambulante: arrivare, un po’ come saltimbanchi lì dove il teatro e la ludoteca non possono arrivare. Siamo riusciti a comprare un camion della seconda guerra mondiale per raggiungere i posti più sfigati, per farlo diventare della terza pacifica. Ci serve solo da metterlo a posto…

Secondo te è ripetibile una esperienza come questa?
Parli di altre Vila Esperança? Guarda, c’è una ragazza che ha lavorato da noi, che poi si è sposata, e che ha creato una ludoteca più o meno con lo stesso spirito di qui. L’importante è creare ambiti umani: poi ogni ambito ha la sua caratteristica.

Penso che la tua sia una formazione soprattutto artistica. Ho visto che nel tuo lavoro utilizzi molto la danza.
La danzaterapia è nata con Maria Fux, che vede la danza non come una serie di passi stereotipati ma come qualcosa che nasce dall’essere umanao e dal desiderio di superare i limiti che ognuno di noi si porta dentro. E’ una danza che nasce dai sentimenti e dall’emozioni che la persona ha: è importante stabilire con il proprio corpo una relazione intima, riscoprire le potenzialità che il corpo ha in una relazione creativa. Utilizzando tutto il proprio essere, testa, sesso, braccia, gambe…Questo metodo si applica a qualsiasi tipo di persona, anche a persone che hanno difficoltà a livello fisico: nella danza terapia si parte da quello che una persona è, anche se non è come Carla Fracci. Non c’è una normalità ma ognuno con le sue caratteristiche, con i suoi limiti e la sua capacità di rompere questi limiti, recuperando la capacità creativa anche al di là della sedia a rotelle. Da due anni faccio una esperienza di lavoro in un ospizio, dove ci sono persone rifiutate dalle famiglie per i più svariati motivi, persone anche molto anziane. Ero arrivato lì tutto tranquillo, con la mia cassettina di musica da far ascoltare, e la suora mi fa: “Sa, sono tutti i sordi”. In un primo momento non sapevo cosa fare. Poi mi sono accorto che lo stesso avveniva il riconoscimento, tramite la gestualità, della musica. E’ stata ed è una esperienza bellissima e che mi ha insegnato molto. I ricoverati hanno avuto una felicità enorme di capire che cosa era la musica e di vedere che erano capaci di esprimersi. Abbiamo anche realizzato uno spettacolo presso il teatro di Goias: gli “scemi del paese” hanno potuto danzare in uno spazio solitamente destinato a ben altri generi di spettacolo. E’ stato un momento molto forte. Attualmente lavoro una ora alla settimana: la danza terapia non ha un approccio massiccio, non è una danza qualsiasi.

(Ci mettiamo insieme a guardare la registrazione dello spettacolo. I sordi, anziani e ingobbiti, danzano armoniosi al suono della musica che non sentono, mentre una voce recita il verso: “il mio corpo è la mia casa e io amo la mia casa”.)

Dove appare la cura: tra eccezionale e quotidiano

Se la cura educativa è individuata in alcuni attimi, che abbiamo visto condensarsi attorno ad alcuni elementi, è importante chiedersi dove appare: in quali luoghi, in quali contesti, in quali spazi, in quali tempi, attraverso o dentro quali oggetti. t importante chiedersi in quali confini essa si mostri, oltre che come. Perché qui, forse, si coglie appieno la sua materialità, il suo essere iscritta in azioni “incarnate” oltre che nelle intenzioni, il suo essere di fatto ciò che quel muri, quegli oggetti, quel tempi, quegli spazi consentono che sia. Perché anche i muri, l’organizzazione dell’ambiente e l’articolazione del tempo veicolano un’immagine di cura e influiscono sulla pratica, forse in maniera silente, ma non per questo meno significativa.
La nostra ricerca della cura nell’esperienza educativa prosegue quasi ricostruendo una mappa dei luoghi in cui essa sì dà. Una mappa non lineare, dal momento che si tratterà di entrare in questi luoghi, per comprendere come sono fatti, e di cosa. Una mappa non certo precisa, sicuramente non definitiva, ma che pone in contatto con l’eccezionalità contenuta nella quotidianità dei luoghi educativi, sicuramente di quelli da noi esplorati.

Se la scuola – con le sue aule, i suoi atri, la sua mensa, il suo giardino, i suoi confini – e la comunità – con le sue camere da letto, la sala da pranzo, la cucina, l’ufficio e quant’altro – costituiscono il contesto lato in cui si educa, si insegna, si lavora, la cura appare all’interno di esso in luoghi precisi. Li abbiamo chiamati “nicchie”, quasi a significare delle insenature, dei ripiegamenti, degli spazi a parte in cui avviene qualcosa di diverso, che merita attenzione. Spazi separati, anche solo simbolicamente, che appartengono ad un contesto più ampio, da cui hanno origine e per cui esistono, ma che, nel momento in cui appaiono, sembrano godere di vita propria. Sono innanzitutto spazi di uso quotidiano, luoghi in cui ci si cura di sé, luoghi di intimità, come la camera da letto, la cucina, la casa dei genitori di un ospite, il bagno deserto della scuola. La cura si dà uno spazio circoscritto, che traccia confini simbolici rispetto alla che recupera la quotidianità in una dimensione di raccoglimento e di relazione che consente uno scambio, un dialogo, un abbraccio, in cui, lontani dal rumore, dalla chiacchiera, direbbe Heidegger, dalle consuete occupazioni, ci si possa prendere cura di sé, ri-prendere in mano, vedersi, distanziarsi, comprendersi e riprogettarsi all’interno di una relazione intima con un altra persona, con se stessi.
Lo spazio in cui si dà la cura definisce una cornice, istituisce uno stacco e consente a chi in questo spazio si trova coinvolto di riprendere contatto con sé, di calmarsi, di chiedere aiuto, di confidarsi, di raccontare una storia, di cercare un senso per la propria sofferenza. E non c’è bisogno che la cornice sia quella di una porta che si chiude: può essere anche un «confine invisibile», una linea, un cerchio tracciato con un gesso intorno ai piedi di un bambino:

Un bambino ipercinetico, difficile, aggressivo e prepotente con i compagni. A volte, ma proprio a volte, dolcissimo. L’incubo delle nostre giornate (mie e della mia collega), e nei momenti di insonnia delle mie notti … L’incubo del bambino continua: io urlo, lui urla, lui mi abbraccia, io lo coccolo. t lui che conduce il gioco. Poi un giorno lui è in piedi al centro della classe dopo averne fatte tante ai suoi compagni. Io ho in mano un pezzo di gesso e d’impulso gli traccio un cerchio intorno ai piedi. Lui piange, urla, ma non si muove dal cerchio. Per lui che vive in assoluta confusione, mi spiega lo psicologo che lo segue, è stato terapeutico potersi fermare per riposare e organizzarsi (11 confine invisibile, scuola materna).
Il confine invisibile istituisce uno spazio altro, dal sapore iniziatico e transizionale: quello spazio da cui si può uscire diversi, pur essendo sempre se stessi. Qui la cura non passa attraverso le parole, ma attraverso un dialogo tacito e corporeo che legittima uno spazio in cui il tempo e il corpo si fermano, ed è possibile prendersi cura di sé. Ed è forse proprio perché si dà all’interno di quel dialogo che il gesto assume un valore curativo, e non costrittivo, o, per usare una parola forte, violento.
Ma la cura può avvenire anche in spazi aperti, al riparo di un grande albero, si è visto, nel giardino di una comunità. Anche questi si pongono come spazi altri, attigui a quelli in cui si educa, si lavora. Sembrano spazi di contorno, o a lato, forse marginali. Sono quegli spazi in cui è possibile avere una relazione diversa con i bambini o con le persone ospiti in comunità: sono spazi non contrassegnati da ruoli o da posizioni, o meglio in cui ruoli e posizioni reciproche si danno, si sanno, ma sembrano essere sfumate, sembrano poter esser allontanate come lontana è la scuola, la comunità. In essi si respira una certa libertà; distanza e vicinanza sono determinate da una situazione che si sottrae a regole di comportamento più o meno rigide: vi sono altre regole altre, tacite, in funzione delle quali si può vivere quella «sospensione del giudizio», di un sapere teorico o pregiudiziale, grazie alla quale diminuisce il rischio che la relazione di cura precipiti in una relazione di conoscenza oggettivante (Bertolini, 1988, Sichel, 1998). Da questi spazi può scaturire una parola che cura. Purché siano salvaguardati: la loro cornice va legittimata all’interno del più ampio contesto educativo in cui si situano, pena il mancato riconoscimento e l’oblio di quanto in essi è successo. Come dire che perché la nicchia funzioni come luogo di cura, la continuità di essa con il contesto da cui si ritaglia dev’essere palpabile, la sua appartenenza sentita. Questo sembra implicare la tematizzazione di un passaggio da un luogo ad un altro differente ma non così distante da essere fuori dal contesto: il riconoscimento di una transizione, di uno spostamento che prima di essere locale è esistenziale, ponendo le persone in situazioni, in mondi diversi, in posizioni diverse.
Quando questo passaggio viene in qualche modo riconosciuto e forse anche protetto, si può dare cura anche in luoghi meno liberi da vincoli e da regole: all’interno di spazi istituzionalmente significativi, come l’ufficio della scuola o della comunità, o la comunità stessa. Gli stessi ruoli, quando servono per imporre e garantire spazi e tempi in cui sia possibile «occuparsi dell’altro», del suo progetto esistenziale, ponendo le condizioni perché in tal modo egli arrivi ad occuparsi di sé, diventano allora importanti:

Lavoro in un centro di reinserimento, dove gli utenti devono fare i conti prima o
poi con l’uscita dalla comunità ed affrontare la vita esterna… Ultimamente ho stabilito con l’utente dei tempi precisi da rispettare come scadenze improrogabili con
se stesso e con la comunità per l’uscita… Ho strutturato con lui degli incontri nel
mio ufficio durante i quali ho cercato di fargli capire come e dove fosse più utile
indirizzare la ricerca di un alloggio, non perché non lo ritenessi capace di farlo, ma
semplicemente per rimandargli il fatto che per lui era giunto il momento di sperimentarsi nella realtà ordinaria non solo dal punto di vista lavorativo ma anche nel
quotidiano, di confrontarsi con la solitudine, la noia, con la gestione del tempo libero e che il contenimento della comunità non poteva e non doveva durare in eterno. Gli ho anche detto che in qualunque momento, dopo l’uscita, poteva fare riferimento alla comunità e venire per riportare le sue impressioni, i suoi timori e i
suoi progressi. Nei giorni successivi è stato puntualissimo nel riferirmi della sua
ricerca di un alloggio, rinfrancato forse dal fatto di essere seguito con attenzione;
la sua ricerca ha dato esisto positivo in pochi giorni (Intuizione, comunità).

Qui la cura educativa avviene in comunità, e le stesse regole della comunità istituiscono uno spazio di dialogo in cui è possibile vedere un disagio e rispondere alla richiesta di aiuto sottesa. La comunità stessa si pone come luogo di transizione tra un dentro, che si è imparato a conoscere e che forse è in qualche modo diventato il nuovo mondo delle persone qui ospitate, e un fuori che fa paura, che può respingere, cui si sente di appartenere poco, se non per niente. Ritagliando dei momenti e delle situazioni in cui cominciare a occuparsi di questo fuori, o meglio di questo passaggio da un luogo ad un altro, la comunità sembra diventare lo spazio in cui si può modulare la transizione, tollerarne la fatica e rendere sensato il dolore del distacco. La comunità si comporta come una nicchia aperta rispetto al fuori: un luogo che protegge ma che non trattiene; semmai appare un rifugio in cui fermarsi, riflettere, riprendersi per poter poi uscire.
Perché ciò sia possibile sembra essenziale la consapevolezza delle cornici, dei confini, di quella membrana che separando un dentro da un fuori consente un rapporto tra dentro e fuori, e un rapporto mediato, in grado di esporre ma non troppo e di proteggere, ma non troppo, chi deve compiere questa transizione. E questo pare valere per ogni nicchia in cui si dia cura. Lo spazio della cura sembra allora riecheggiare quello spazio potenziale in cui si dà possibilità di formazione, di apprendimento (Mottana, 1993, p. 1125); quell’area in cui sia possibile, protetti da una cornice stabile, chiara, sicura, vedere la propria fatica esistenziale, semplicemente esprimere il proprio bisogno, il proprio dolore, riappropriarsene grazie alla presenza di altri, al cui mondo si sente di appartenere, lasciarsi andare, lasciarsi destrutturare per poi potersi ricomporre, e andare oltre. In questo senso, lo spazio della cura richiede di essere visto, pensato e progettato pedagogicamente.

(*) C. Calmieri, La cura educativa, Franco Angeli Editore, MI, 2000

Il gioco delle parti tra affetti e conflitti

La corporeità del rapporto educatrice-bambino può implicare dinamiche complesse e suscitare la gelosia e la rabbia del piccolo gruppo dei bambini esclusi: il «privilegio» della relazione a due si accompagna al piacere del possesso e del contatto e a profonde, reciproche emozioni.
Spesso le operatrici intuiscono il vissuto ansioso delle madri, sentono che possono essere gelose del nido e di loro, che per tutto il giorno le hanno sostituite accanto al proprio figlio in un modo sicuramente non neutro: i bambini infatti mostrano senza pudore il proprio attaccamento affettivo all’educatrice, anche di fronte alla madre.
«Come si sveglia, Giovanni chiama Letizia e vuole andare al nido» diceva alla direttrice una madre, con espressione soddisfatta per il buon inserimento nel nuovo ambiente: « Ci viene volentieri!… » «Forse fin troppo » commentano spesso tra loro le educatrici e pensano a certi bambini.
Alcuni infatti vengono recapitati o ritirati senza effusioni, o addirittura a volte senza saluti… La madre forse è imbarazzata a mostrare affetto, si difende dalle emozioni connesse alla separazione, e l’operatrice, lì, tra i due, fa da terzo, con funzioni riparative e compensative («Saluta la mamma che va a lavorare!», «Andiamo incontro a mamma che torna») oppure di complicità con la donna, per proteggere il bambino dalla gelosia e dall’invidia (il bambino dice a una educatrice: «Mamma non va a lavorare: è a casa col fratellino»).
Chi è il terzo escluso, tra i tre? Sovente è l’educatrice che deve rimanere o tornare nello sfondo. Ma in altri casi è la madre a notare gli atteggiamenti affettuosi e docili del proprio figlio nei confronti dell’educatrice: «A casa non lo fa!… Con me tante volte è più testone, non mi ascolta mai ». A volte la madre scopre momenti di intimità tra il bambino e l’educatrice.
La reazione può essere impercettibile, ma spesso l’imbarazzo è maggiore in chi è stato sorpreso a dare e prendere affetto dal bambino: quasi fosse un tradimento o un furto. L’intimità mette in luce una reciprocità di affetti: la donna che cambiando i pannolini a un bambino gli parla e lo vezzeggia ricorda troppo la vera madre, e così quando tiene in braccio un bambino che si appoggia al suo viso, come se lo cercasse. Sono momenti in cu la relazione professionale si contamina di troppo affetto per non provare piacere misto a imbarazzo. La madre, se è presente tende a riprendere il suo ruolo, incoraggiata spesso proprio dal l’altra donna che le cede il posto, quasi per rassicurare entrambe.
A volte l’educatrice intuisce che il bambino gioca la sua strategia, che è attivo nelle sue proposte affettive, che è lui a tirar i fili della relazione: vuole farsi chiamare, rincorrere, cercare dalla madre, vuol farla aspettare e ingelosire, forse per farle provare quello che ha provato lui nell’essere lasciato. Le madri sovente stanno al gioco, ma altre volte cercano di controllare la situazione che, per qualche aspetto, sfugge loro: prescrivono allora al bambino le affettuosità di rito per il commiato della sera: «Dà il bacio a Rosina e agli altri bimbi». A volte è il bambino il terzo escluso. La mamma si rivolge solo all’educatrice per le informazioni sulla giornata oppure per parlare di tutt’altro, di cose sue, come se cercasse un momento di sfogo, tutto per sé, con una persona sentita come disponibile. Il bambino continua a giocare oppure cerca di attirare l’attenzione di una del due. La madre che tarda a riprendere in consegna il suo bambino, perché ha bisogno lei stessa di essere ascoltata, mette l’educatrice in una posizione limite: l’altra segue con lo sguardo bambino, aspettando discreta che la mamma lo possa riprendere in tutti ì sensi, proprio come sulla porta conserva la responsabilità per quel che accade dentro e si attarda tra il dentro il fuori della relazione professionale col bambino e la madre.
L’educatrice sa bene, forse per averlo vissuto lei stessa, che la donna che lavora si sente sempre un po’ in colpa nel lascia il proprio figlio, specialmente all’asilo nido, e che per questo vive quasi sempre sentimenti di inadeguatezza, invidia e gelosia nei confronti delle educatrici. L’attaccamento al bambino c’è ma è molto difficile mettersi in contatto con lui dopo una giornata di lavoro, sapendo che a casa c’è altro lavoro da fare, c’è un marito e a volte un altro figlio.
Anche l’educatrice può sentire il peso di una giornata di lavoro con i bambini e conoscendo gli orari di lavoro delle madri tende a vivere ogni ritardo come disinteresse per il bambino, che in effetti è già in attesa, magari da ore. Qualche volta questa diffidenza nei confronti della madre viene fatta pesare sul bambino. Oppure succede che il bambino rimanga ultimo e da solo per molti minuti. La madre giunge desiderosa di trovare un figlio sereno, sorridente e affettuoso, che le vada incontro felice, che si lasci vestire senza fare storie. Il più delle volte non è così: fughe, abbracci disperati alla educatrice di turno, pianti per farsi vestire, lotte per portarsi a casa un giochino del nido, per poter continuare un’attività, ancora un bicchier d’acqua, il bombo, una corsa…
Se la cura educativa è individuata in alcuni attimi, che abbiamo visto condensarsi attorno ad alcuni elementi, è importante chiedersi dove appare: in quali luoghi, in quali contesti, in quali spazi, in quali tempi, attraverso o dentro quali oggetti. t importante chiedersi in quali confini essa si mostri, oltre che come. Perché qui, forse, si coglie appieno la sua materialità, il suo essere iscritta in azioni “incarnate” oltre che nelle intenzioni, il suo essere di fatto ciò che quel muri, quegli oggetti, quel tempi, quegli spazi consentono che sia. Perché anche i muri, l’organizzazione dell’ambiente e l’articolazione del tempo veicolano un’immagine di cura e influiscono sulla pratica, forse in maniera silente, ma non per questo meno significativa.

(*) tratto da C. Capello, M. T. Fenoglio, Perché mai mi curo di te?, Rosenberg &Sellier, TO, 1992

Dare forma al quotidiano. L’accoglienza nel Ser.T.

Il processo di accoglienza in un Ser.T. è parte integrante e fondante il progetto terapeutico del servizio; esso caratterizza e qualifica il Ser.T. come istituzione pubblica di cura e aiuto ed imposta il modello terapeutico, teorico e pratico, da offrire all’utenza. Il processo di accoglienza definisce dunque il Ser.T. stesso, i propri modelli ideologici e teorici di riferimento, le pratiche e le modalità di relazione con l’utenza e tra gli operatori, i processi comunicativi informali e formali, il clima del servizio, la metodologia progettuale.

Quale spazio e clima “istituzionale”

La prima riflessione circa l’accoglienza in un Ser.T. riguarda il rapporto tra domanda e offerta. E’ noto come l’offerta condizioni la domanda – è un principio valido in qualsiasi ambito istituzionale e di mercato – ed è quindi estremamente significativo che tipo di organizzazione l’utente incontra quando entra nel servizio. In questo senso sono diversi gli elementi da considerare che riguardano l’intero setting istituzionale: come sono organizzati gli spazi e i tempi e come vengono giocati i ruoli sia tra gli operatori che tra gli operatori e gli utenti. E’ evidente che un servizio pubblico quale è il Ser.T., che ha l’obbligo della risposta e si deve predisporre ad accogliere una utenza in difficoltà e per specifiche caratteristiche spesso resistente alla cura, deve organizzare spazi e costruire un “clima” istituzionale per definizione accoglienti e in grado di non sviluppare emotivamente ulteriore resistenza; i tempi di ricevimento dovrebbero essere segnati da una certa flessibilità e i ruoli degli operatori tesi a una relazione aperta con l’utenza e non troppo rigidi tra loro (nella fase di accoglienza è importante che qualsiasi operatore incontri l’utenza abbia una coerenza comportamentale e metodologica comune a tutto il gruppo e ciò è possibile se i ruoli non sono irrigiditi nelle proprie funzioni).
Nell’ambito del rapporto tra domanda e offerta nelle istituzioni che si occupano della cura della patologia da dipendenza, vi è da considerare che nella maggioranza dei casi la persona tossicodipendente identifica il problema con il sintomo, ossia con la “dipendenza” alla quale sono correlati i problemi di astinenza e degrado esistenziale e sociale. Smettere l’assunzione e l’abuso di sostanze stupefacenti è nella fantasia di molti utenti collegato all’eliminazione dell’astinenza e alla riacquisizione di opportunità socio esistenziali. In altre parole è frequente nelle rappresentazioni degli utenti la sottovalutazione del problema, la presunzione del controllo e della gestione delle sostanze, la resistenza ad entrare in un rapporto terapeutico che affronti la complessità della questione nei termini di un’indagine degli aspetti critici e latenti della propria esistenza e della demolizione degli stereotipi psichici e comportamentali a monte della dipendenza.
Definita dall’OMS “sindrome biopsicosociale” (1981), la patologia da dipendenza necessita di un approccio terapeutico multidisciplinare che deve integrare risposte sanitarie e psicosociali. Da un punto di vista organizzativo, i Ser.T. si strutturano attorno a modelli terapeutici molto diversificati a seconda degli assetti (di potere) ideologici, epistemologici ed istituzionali.

Solo una richiesta sanitaria?

Nella maggioranza dei casi un utente che si presenta autonomamente presso il Ser.T. fa in primo luogo una richiesta sanitaria: eliminare i sintomi dell’astinenza fermando così il malessere fisico, l’emorragia di denaro, il degrado potenziale o in atto. E’ questa la prima fase dell’accoglienza: il medico incontra la persona che porta tale richiesta ed offre una risposta sanitaria che blocca l’assunzione sostanze stupefacenti e inizia un percorso di cura che può prevedere a seconda dei casi la disintossicazione, la prescrizione di metadone, controlli urinari e delle eventuali patologie correlate. Tornando al discorso iniziale, se la prima figura operativa che l’utente incontra quando entra in servizio è un medico, e questi non indirizza o non riesce a indirizzare la persona tossicodipendente a un’altro operatore dell’area relazionale, il percorso di accoglienza si ferma nella formalizzazione più o meno rigida di un rapporto terapeutico centrato sulla relazione duale medico-paziente e in cui gli infermieri dell’ambulatorio possono giocare un ruolo significativo nel processo di accoglienza, nel lavoro motivazionale, nella mediazione verso altre opportunità terapeutiche, a seconda dell’assetto più o meno sanitarizzato del servizio. Se il medico è anche psichiatra, egli potrà iniziare un’indagine diagnostica di tipo psichico ed acquisire ulteriori elementi necessari ad una più complessa e completa risposta terapeutica. Rimarrà il problema di una strutturazione del rapporto terapeutico centrato sulla pressoché totale sanitarizzazione della diagnosi e della risposta – questo certamente a patto che il medico voglia giocare esclusivamente questo tipo di vincolo. Questo tipo di rapporto è spesso simmetrico alle fantasie di cura degli utenti e funzionale al loro bisogno di dipendenza: di fatto continuano a ruotare attorno alle sostanze (metadone, farmaci, psicofarmaci) e a chi gliele dà. In un certo senso questo rapporto riproduce lo stereotipo della dipendenza ed è esattamente ciò che molte persone tossicodipendenti ricercano, “premendo” di conseguenza sui medici per non uscire da questa relazione ambulatoriale che non consente loro di costruire qualcosa di diverso da ciò che hanno sempre fatto e in definitiva di liberarsi sia dalla dipendenza da sostanze sia dal servizio, entrando in un perverso viaggio di andata e ritorno dal quale non escono più.
Se altrimenti la persona che entra al Ser.T. cercando aiuto incontra – in prima battuta oppure insieme al medico oppure immediatamente dopo – un operatore psicosociale, questi può offrire subito una risposta non speculare alla sua richiesta ed iniziare un rapporto terapeutico centrato sul soddisfacimento di altri bisogni e su altri modelli di relazione.
In particolare un operatore psicosociale cerca di dare risposte a bisogni in primo luogo di tipo affettivo, socialità e appartenenza, attraverso cui passano ulteriori risposte di rassicurazione e contenimento. E’ chiaro che la persona che arriva presso il Ser.T., soprattutto se in crisi di astinenza, non trova ciò che cerca, e pure se non è in crisi, egli è motivato a riprodurre i modelli che conosce e cercare il soddisfacimento del bisogno di dipendenza, ed è per tale motivo che l’operatore psicosociale trova difficoltà e resistenze nel rapporto. Si tratta di “agganciare” la persona al servizio vincendo la resistenza e motivando ad una relazione fondata sul riconoscimento di altri bisogni e su altri modelli di significazione, comportamento, comunicazione alternativi ai suoi stereotipi psicologici e culturali.

Il ruolo dell’educatore

L’educatore è probabilmente l’operatore più indicato a questo compito. Nella sua specifica professionalità stanno la costruzione e la gestione di setting educativi e terapeutici meno rigidi di altri, spesso fondati sulla formalità del quotidiano, ed insieme la capacità di proporre relazioni “empatiche” con l’utente, tali da ridurre di molto la distanza culturale e psicologica tra l’universo esistenziale del soggetto in difficoltà e l’istituzione che egli rappresenta. Attraverso questa specifica competenza l’educatore può consentire all’utente di poter usufruire della molteplicità delle risposte terapeutiche del servizio.
Il lavoro sulla motivazione al rapporto non può che passare attraverso un‘iniziale “seduzione” fondata sulla condivisione, sul piacere e sulla rassicurazione. Il soggetto deve “sentire” la partecipazione al suo problema; l’educatore deve saper accogliere il disagio restituendoglielo in una forma elaborata, accettabile e “altra” rispetto ai significati che la persona vi ha sempre attribuito; il soggetto deve trovare piacere nello stare a conversare con un estraneo, non sentirsi invaso né obbligato ma a proprio agio e rassicurato. Per dare un’idea di come un educatore può svolgere questo compito, mi sembra significativa l’esperienza del Ser.T. di *** nel quale l’educatore utilizza il caffè come strumento mediatore. In un angolo del suo ufficio un fornelletto elettrico gli permette di fare caffè con la moka: il gesto di offrirlo e consumarlo insieme ai colleghi, all’utente, a più utenti, senza l’obbligo di un formale colloquio ma costruendo una situazione di socialità che possa consentire al comunicazione ha costituito una modalità di accoglienza che ha permesso la fondazione di relazioni di cura con soggetti altrimenti restii a “fermarsi” in un ufficio che non fosse l’ambulatorio per la distribuzione dei farmaci. In questo senso, la stretta collaborazione tra infermieri ed educatore, la medesima offerta relazionale fondata sul dialogo informale che può strutturare un profondo e formale rapporto terapeutico, è stile condiviso di una metodologia istituzionale e di équipe.
La porta dell’ufficio aperta quando non vi sono colloqui in atto, una disponibilità fatta di attese tranquille e non forzature, battute e ironia, di piacevolezza, costituisce un primo stadio di relazione fondata sul bisogno e sul piacere della socialità e della appartenenza. Il percorso di cura parte dall’idea che il servizio dovrà essere un punto di riferimento per un pezzo dell’esistenza della persona in difficoltà e tale punto di riferimento deve essere organizzato sull’appartenenza e la rassicurazione come modalità diverse e alternative di dipendenza, cioè centrate sulla relazione e non sulle sostanze. Considerando che ogni progetto di autonomia passa attraverso dipendenze che potremmo definire “sane”, antitetiche a quelle “tossiche” che negano ogni opportunità, il modello offerto rappresenta l’impostazione di modalità di rottura rispetto agli stereotipi psicologici e comportamentali proposti dall’utente, consentendo di suggerirgli qualcosa di nuovo ai suoi ripetitivi schemi di riferimento. Il percorso dell’accoglienza definisce dunque uno stile, un clima, una modalità di comunicazione che riguardano l’intero servizio e sanciscono come quel servizio pensa il proprio progetto terapeutico. La costruzione della motivazione alla cura da un punto di vista relazionale e non esclusivamente sanitario è già un atto terapeutico in corso e consente di poter indagare la problematicità della storia della persona e pensare le risposte più adeguate ai suoi bisogni, ai suoi vincoli e alle sue risorse, cioè di fondare il progetto terapeutico vero e proprio.

I percorsi dell’accoglienza

Le situazioni che possono presentarsi nell’accoglienza in un Ser.T. sono molto diversificate, tanto quanto le condizioni fisiche, culturali, psicologiche e sociali della persona che si presenta. In linea di massima, se il servizio si organizza per offrire un’accoglienza integrata in risposta sanitaria e psicosociale, una volta che l’educatore si trova di fronte al soggetto dovrebbe tenere presente una metodologia di intervento funzionale ai due obiettivi principali sopra accennati:
motivare la persona a un percorso non esclusivamente sanitario;
iniziare una prima lettura del bisogno.
La metodologia può prevedere:
la costruzione di un setting del colloquio in cui lo spazio sancisca la strutturazione dei ruoli ma non ne definisca una distanza profonda (un ambiente caldo e poco “ospedaliero”, la scrivania sgombra di cose di modo che lo spazio interpersonale sia più vuoto possibile, un certo disordine che renda dinamico e vissuto l’ufficio, le sedie ad altezza simmetrica, possibilmente di medesima fattura, in cui si possa anche fumare ma con moderazione e con attenzioni – finestra aperta); in cui il tempo sia estensibile tra mezz’ora e un’ora a seconda degli esiti emotivi del colloquio; in cui tra i ruoli vi sia posto per il “tu” o per il “lei” reciproco a seconda delle consonanze relazionali dell’incontro (età/cultura dei soggetti in campo). In un certo senso il setting del primo colloquio tra educatore e utente deve avere alcuni spazi contrattuali che definiscano le regole del tipo di relazione che si instaura e non può essere rigidamente strutturato da una serie di norme istituzionali spesso implicite che spesso propongono un messaggio difensivo latente che allontana i potenziali utenti dalla relazione e dal servizio;
un atteggiamento dell’educatore teso ad accogliere non solo il disagio ma anche le istanze esistenziali dell’utente, un atteggiamento empatico che consente di non rimandare al mittente il dolore o la visione del mondo che questi deposita sull’educatore;
in base alla disponibilità del soggetto, al clima relazionale instaurato, l’educatore può più o meno spingersi oltre nella raccolta di informazioni necessarie ad una prima ipotesi diagnostica, e che riguardano la storia di dipendenza dalle sostanze, i significati che vi attribuisce, la storia familiare e sociale, le relazioni sentimentali e amicali, il lavoro, gli interessi, la rappresentazione di sé e degli altri, il sistema di idee che lo accompagna; insieme, lo informa sulle diverse opportunità terapeutiche del servizio e gli propone il percorso generale di accoglienza che prevede almeno un colloquio con lo psicologo e un altro che coinvolga il nucleo famigliare;
la restituzione al soggetto di un senso dell’incontro. E’ importante che la persona che racconta di sé non abbia la sensazione di aver buttato via tempo e cose sue a qualcuno non in grado di raccoglierle e restituirgliele in un certo senso modificate o ritradotte. L’atto di restituzione è un atto di rispetto e partecipazione alla vita della persona, offre un’opportunità di rassicurazione e a volte di proporre significati sui quali il soggetto può riflettere anche fuori dall’incontro; è in altre parole fondamentale per motivare la persona alla relazione terapeutica in quanto stabilisce l’occasione di una relazione significativa con il servizio e tra educatore e utente.
Ora, la cura della dipendenza patologica è un processo complesso e di difficile risoluzione. La dipendenza patologica è correlata alla dimensione psichica generale della dipendenza, una delle questioni più profonde e arcane della condizione umana. Gli stereotipi psichici e comportamentali che hanno strutturato le personalità e le azioni dei soggetti tossicodipendenti resistono alla loro demolizione e questo vale per chiunque al di là della tossicodipendenza: abbandonare le difese o gli schemi di riferimento che hanno più o meno bene costruito la nostra struttura psichica è un processo arduo e spaventoso, ha a che fare con il cambiamento e tutti sappiamo quanto costi. Chi si occupa di aiuto e cura di tale problema con serietà sa che ha a che fare con una grande complessità e non vi sono soluzioni facili o miracolose. I processi di cambiamento passano sempre attraverso dinamiche affettive profonde, raramente si riesce a cambiare da soli e si ha bisogno di relazioni significative che motivino e attivino meccanismi psichici importanti che consentono appunto la modificazione degli schemi di riferimento.
Il percorso dell’accoglienza sopra esposto descrive l’impostazione di un modello teorico e pratico di aiuto e cura di persone tossicodipendenti. L’idea di fondo è consentire alla persona che si presenta presso un Ser.T. di essere accompagnato in un pezzo della sua vita potendo usufruire di diverse opportunità terapeutiche, di poter affrontare gli aspetti critici della propria storia che lo hanno messo in quelle condizioni, di poter avere un sostegno affettivo nella difficoltà. Gli esiti non sono scontati: la persona può o non può uscire definitivamente dalla sua condizione, certamente potrà stare meno male e potrà migliorare la propria situazione. Se la salute non è assenza di malattia ma una globalità di condizioni fisiche, psicologiche e sociali, questo tipo di approccio cerca di motivare il soggetto ad un percorso di cura globale che integra diverse risposte terapeutiche.

Operatori, familiari e il lavoro di cura

Le pagine dedicate all’approfondimento sul tema del lavoro di cura sono, per questo numero di HP, pagine d’archivio trattandosi, infatti, di due contributi apparsi sulle testate “Animazione sociale” e “Servizi Sociali” negli ultimi anni.
Sono due contributi che abbiamo ripreso in nome della loro validità e della capacità di centrare un elemento spesso trascurato quando si affronta una riflessione su che cosa è la cura, su chi da e riceve aiuto: la trasversalità del prendersi cura, la sua universalità, il suo porsi come elemento caratterizzante la potenzialità dell’agire umano, al di là di ogni specialismo e categoria.
Nel rapporto quotidiano con la sofferenza e il disagio, i familiari e gli operatori si trovano accomunati dall’esposizione ad un forte carico emozionale che né le conoscenze tecniche né la consuetudine sono sufficienti ad affrontare. L’aspetto relazionale è quello che ‘sostiene” il senso di un accompagnamento che, con particolare rilevanza nelle situazioni di gravità, tocca le sfere più intime e profonde della cura di sé.
Diventa necessario, per tutti coloro che sono coinvolti in una relazione di aiuto e cura, trovare spazi e tempi per dare parola alle emozioni e alle dinamiche di coinvolgimento, sempre presenti seppure il più delle volte in modo sotterraneo ed inconsapevole per tentare una rilettura che aiuti a ridefinire in senso positivo e rispettoso il progetto di vita che si va ad elaborare e a porre in essere.