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Autore: admin

Le prospettive dell’integrazione

L’integrazione è una prospettiva teoretica e pragmatica. Sono necessari alcuni principi fondanti, da verificare in tempi medio-lunghi; e sono necessarie pratiche e linee operative da verificare continuamente.
E’ molto probabile che, in momenti di crisi sociale accentuata, le verifiche siano rese più difficili. Ed è comprensibile: ogni elemento di riflessione può finire per essere a priori classificata pro o contro l’integrazione.
E’ un fatto, e molto grave, che la prospettiva dell’integrazione sia attaccata da una politica fatta da "tagli" che vengono anche chiamati "razionalizzazioni". Gli effetti di questa politica potrebbero anche essere la paura di riflettere ed il sentirsi nell’impossibilità di compiere le necessarie verifiche.
La situazione generale non facilita; ed in particolare, il mondo dell’informazione è percorso quasi quotidianamente da un modo di conoscere e di far conoscere dominato dal sensazionalismo. Ne siamo un po’ tutti colpiti, ed ogni disfunzione è vissuta come un possibile strumento d’accusa, per trovare colpevoli, dimostrare che tutto è catastrofico. E’ molto difficile porsi di fronte a situazioni di prospettiva di integrazione senza risentire di questo clima, e senza immaginare denunce, colpevoli, schieramenti a favore o contro, eccetera. Insomma: è difficile ragionare serenamente sul tema della prospettiva dell’integrazione.

Una frantumazione pericolosa

Eppure è necessario cercare di ragionare, e di domandarsi come stanno andando le cose. La scuola ha preso un indirizzo che sembra improntato ad una brusca accelerazione di ritmi, ad una certa rinuncia ad impostazioni globali per privilegiare in maniera esplicita e più spesso implicita una prospettiva impostata sulle aree disciplinari, su competenze "affilate", cioè organizzate e da verificare su conquiste cognitive molto definite e formalizzate.
E’ proprio così? E se è così, perché?
Se così stanno le cose nel mondo della scuola – ed è da verificare -, si potrebbe spiegare da questo sfondo il cattivo uso della figura dell’insegnante di sostegno. anche questo cattivo uso è da verificare, certamente. Ma ci sono molti seri indizi che vi sia una presenza nella scuola di handicappati, ragazzi e ragazze, accolti dalla preoccupazione quasi esclusiva della "copertura" dell’orario da ogni tipo di "sostegno": insegnanti statali, e operatori con situazioni varie sia dal punto di vista amministrativo che per la formazione. La preoccupazione della "copertura" si concilia con la prospettiva dell’integrazione? E come si può ragionare su questi aspetti senza sollevare molti, ben comprensibili, sospetti di essere dalla parte di brutale politica dei "tagli"?

Centralità o isolamento della scuola?

La centralità della scuola nel processo di integrazione sembra essere un elemento caratteristico di alcune situazioni come quella italiana. E’ forse utile cercare di capire come si colloca la scuola in un quadro più grande. E soprattutto capire quanto il modello scolastico abbia permesso o meno l’elaborazione di un modello di intervento globale nella prospettiva dell’integrazione. Globale, in questo caso, significa intervento che riguarda l’intera esistenza di un individuo, uomo o donna, bambino o bambina. Il riferimento alla Pedagogia Istituzionale può essere ancora una volta utile.
Ed è proprio pensando alla Pedagogia Istituzionale, come Pedagogia della complessità, che possiamo riflettere sulle nostre modalità di intervenire nelle diverse situazioni e di lavorare. Sarebbe interessante valutare in termini di risorse i nostri modi di intervenire, per cercare di capire se è comprensibile e chiaro per tutti, cioè trasparente, che l’obiettivo a cui tendiamo è la trasformazione della qualità delle risorse, e non l’aumento della loro quantità.
Possiamo criticare una certa impostazione della scuola, basata sulla lettura deficit/handicap come mancanza che fornisce alcuni crediti per poter esigere maggiori risorse.Ma questa critica è anche deducibile, con congruenza, nel e dal nostro operare? In altre parole: in che economia collochiamo il nostro lavoro? In un’economia illimitata, oppure in una realtà i cui limiti sono da conoscere, per misurarsi con loro e ridefinirli.

Integrazione senza handicap

L’integrazione è una prospettiva complessiva. Come tale, non è paradossale verificarne l’esistenza senza la necessità di una presenza così definibile e precisa come può essere un individuo disabile. Nell’eventualità di tale presenza, vi dovrebbero certo essere adattamenti specifici. Ma la strutturazione culturale ed organizzativa di un’istituzione come la scuola non può vivere l’integrazione come un optional addizionale all’occasione. Rovesciando l’impostazione, l’integrazione è un’impostazione strutturale. In questo senso, la presenza concreta di un handicappato, bambina o bambino, può essere un’irruzione di realtà in una strutturazione più o meno fittizia. Il richiamo alla realtà non vale solo per un certo individuo: può intrecciarsi con le esigenze di molti e forse di tutti.
Possiamo capire meglio il significato dell’integrazione come impostazione strutturale prendendo un esempio fuori dal mondo scolastico. Viaggiare in ferrovia per chi è handicappato è possibile ma a particolari condizioni. In una stazione considerata attrezzata, importante nodo ferroviario, vi è un ufficio che ha il compito specifico di facilitare le cose a chi, handicappato, deve o vuole viaggiare. Chi è in questa condizione, deve rivolgersi a quell’ufficio, per poter avere ausili adatti, accesso ad ascensori non aperti a tutto il pubblico, accompagnamento e trasporto bagagli, individuazione del treno adatto, ed altre necessità. E’ più probabile che qualcuno, conoscendo questa disponibilità, tragga una conclusione positiva; e consideri alcune restrizioni come limiti realistici. E’ vero che la maggior parte dei treni non ha spazi adatti, servizi igienici e, prima ancora, accessi al vagone impraticabili. Però non si può avere tutto. Ed è vero che un viaggio va previsto e organizzato in anticipo, perché le ferrovie consigliano di prendere contatto 24 ore prima della partenza; che occorre fare una domanda specifica. Anche su questo potremmo dire che non si può avere tutto e che vi sono limiti realistici.
Guardiamo attorno. Vedremo donne e uomini che, in stazione, scendendo o andando verso il treno, saranno in difficoltà per bagagli pesanti, per scale di accesso ai binari affollate ed in certi momenti impraticabili. Aggiungiamoci le persone anziane, i bambini e le bambine piccole: non è solo l’operazione del salire o scendere da un treno ad essere difficile, ma anche il viaggio, per problemi di spazi, di toilettes minuscole, eccetera.
Un’impostazione strutturale dell’integrazione raggiungerebbe una realtà ampia ed articolata, e non solo chi è handicappato. Proprio per questo, la stessa categoria di individuo handicappato perderebbe ragione d’essere. Di fatto, mette insieme realtà così diverse fra loro da risultare unificate solo n negativo.
Capire tutto questo, nella scuola, vorrebbe dire arrivare a non sentire più la necessità di avere gli handicappati in una rubrica particolare, in un settore di studio o di riflessione contrassegnato dalla stessa categoria: la diversità degli handicappati fra loro ne impedirebbe un raggruppamento separato in negativo, non solo in luoghi fisici ma anche in tematiche culturali, pedagogiche e didattiche.

Nessuna semplificazione ingenua: gli handicappati, e le handicappate, ci sono

Non vorrei che le argomentazioni di questa riflessione – con interrogativi aperti… – inducesse ad una semplificazione inaccettabile, come quella che suona all’incirca così: gli handicappati non esistono; ovvero: siamo in qualche modo tutti handicappati. Le semplificazioni possono avere tutte un significato provocatorio legato ad un momento particolare, ad un certo contesto. Ma possono creare malintesi con conseguenze negative. E’ bene dire con chiarezza che gli handicappati esistono. Ma non sono una categoria omogenea. L’interpretazione riduttiva del mondo in categorie (normodotati e handicappati) porta davvero poco lontano. E la scuola, quando si comporta secondo queste interpretazioni riduttive, è più colpevole di altri aspetti istituzionali, perché la sua specifica funzione la carica di responsabilità.
Non posso dire che la Pedagogia Speciale non esiste. Ma la sua esistenza non è necessariamente legata ad interventi aggiuntivi. E’ piuttosto una "lettura" particolare della Pedagogia. E lo stesso dovrebbe essere per la Didattica. La lettura particolare esige una continua conoscenza dei soggetti handicappati nella loro originalità individuale. Non si può improvvisare. Tutto questo responsabilizza. Ed in particolare, ritengo esiga una conquista di tempo. Abbiamo bisogno di rallentare il tempo, di non precipitarlo continuamente in un attivismo senza respiro. La stessa ristrutturazione della scuola va riletta perché possa respirare con un ritmo non concitato. E questo non è certo un problema di handicappati.

Nuovi disagi

Il problema delle disabilita’ e dell’integrazione nella scuola non
riguarda solo gli studenti affetti da un deficit codificato dalla
burocrazia sanitaria. Il problema, avvertono gli insegnanti,
interessa un’area sempre piu’ ampia di giovani normodotati che
presentano difficolta relazionali e cognitive non certificabili.

Se questo fenomeno e’ particolarmente presente nella scuola
dell’obbligo, il problema sta investendo in modo sempre più
significativo anche la scuola media di secondo grado. Nelle
scuole medie superiori, infatti, va aumentando il numero di
giovani che presentano problemi relazionali e che hanno
manifestato una progressiva difficoltà nei processi di
apprendimento dei percorsi didattici tradizionali.
Non e’ raro in sala insegnanti e nei corridoi della scuola
sentire docenti che discutono le situazioni educative
problematiche dei loro studenti e che constatano le loro
difficoltà sia nelle relazioni con gli insegnanti che con i loro
coetanei, e ne è una vistosa testimonianza il fatto che un numero
sempre più grande di giovani e’ seguita da psicoterapeuti che
diagnosticano forme di disturbo della relazione, che sono oggetto
anche di un preoccupato dibattito sulla stampa.
Un altro problema emergente, meno dibattuto fuori della scuola,
ma molto presente nelle discussioni fra gli educatori, sono le
difficoltà di apprendimento. Dai confronti sugli esiti delle
verifiche, infatti, si rilevano le crescenti difficoltà rispetto
a qualche tempo fa da parte dei giovani di impadronirsi delle
competenze disciplinari e di realizzare una sufficiente autonomia
critica.
Le ragioni dell’emergere di questi fenomeni di disabilità sono
molteplici e complesse. Qui voglio tentare qualche descrizione
del problema e abbozzare qualche interpretazione sulla base delle
discussioni fra colleghi insoddisfatti dai giudizi di rito che
vengono espressi dentro e fuori della scuola.

"Manca di attenzione"

La comunità degli insegnanti, riguardo a questo insieme di
disabilità, ha costruito un suo linguaggio (o un suo gergo) che
risulta sempre più insufficiente per definire questi casi: "manca
di attenzione", "non si impegna", "non e’ in grado di costruire un
argomentazione", "non sa contestualizzare le sue idee", "e’ un
ragazzo che si è isolato dai suoi compagni", "ha comportamenti
arroganti", "non e’ consapevole delle sue difficoltà", ecc. Se
queste diagnosi nel loro complesso rappresentano un reale stato
di malessere dei giovani a scuola, sono pure la dichiarazione di
impotenza e di incapacità degli insegnanti di intervenire
positivamente nei processi educativi.
Così questa realtà educativa difficile, invece di promuovere una
nuova progettualità per delle nuove strategie pedagogiche, ha
prodotto, e produce, chiusure che sono il sintomo di uno
smarrimento conoscitivo ed esistenziale degli educatori. Un
sintomo questo che trova anche espressione nella massiccia
richiesta di pensionamento in questi ultimi tempi da parte di
molti insegnanti che non vedono la possibilità di dare riposte
adeguate alla crisi del loro ruolo.
Ritornando al tema delle ragioni delle disabilità non
certificabili degli studenti, si può sintetizzando, definirlo il
problema della mancanza di un linguaggio comunicativo adeguato
capace di includere nello stesso orizzonte di attesa studenti e
insegnanti. In questo particolare tipo di rapporto, si può
riscontrare anche un’altra difficoltà, che considero più grave
della prima: si tratta dell’assenza di un piano metacomunicativo,
cioè di quella dimensione relazionale in cui le parti coinvolte
nella comunicazione discutono delle difficoltà del loro stesso
dialogo come premessa indispensabile per aprire qualsiasi reale
comunicazione.
Se questo disturbo nella comunicazione lo giudichiamo cruciale
per l’educatore di oggi, si tratta di dipanare i meccanismi
relazionali che caratterizzano il linguaggio
intersoggettività della comunità educativa scolastica per
enucleare le eventuali patologie relazionali che intralciano
quella necessaria intesa che comporta il dialogo educativo.
Il luogo primario della comunicazione fra studenti e insegnanti
sono i linguaggi dell’insieme delle discipline dove si codificano
e decodificano i messaggi. Ma questo mondo linguistico appartiene
a sfere di valori e di attese diversi.
L’insegnante codifica, sulla base del programma e di una sua
diagnosi delle competenze dei suoi allievi, un insieme di
informazioni e di interpretazioni, selezionato a sua volta dal
più ampio insieme delle informazioni e interpretazioni della sua
disciplina. E si aspetta che gli studenti interiorizzino questo
materiale didattico e, grazie al rinforzo di una buona pagella,
realizzino una preparazione che aderisca il più possibile ai
messaggi e ai modelli organizzativi e interpretativi da lui
proposti. Questo modello skinneriano del rinforzo, seppure in
modo sfumato, resta il modello didattico prevalente. L’attesa
dell’insegnante si fonda quindi su un modello di apprendimento
per imitazione: cioè quella modalità per cui l’insegnante, dando
per scontato il valore motivante della sua proposta, fa del suo
programma il banco di prova dell’apprendimento di schemi di
conoscenza da riprodurre più fedelmente possibile al modello
originario esposto in classe.
Se questo e’ l’atteggiamento di fondo dell’insegnante il risultato
non può che creare una situazione comunicativa problematica
perché non tiene conto né del peculiare momento di sviluppo
psicologico dei suoi studenti, né del contesto storico che stiamo
vivendo.
Gli studenti/adolescenti vivono una dimensione che con la
terminologia di Erikson possiamo definire il periodo della
"moratoria psico-sociale", cioè quel periodo adolescenziale in
cui i ragazzi non hanno ancora individuato una loro identità e
attraverso contrasti, e contraddizioni cercano di costruirsene
una; e questa ricerca si sviluppa anche nella comunità
scolastica, che per l’adolescente e’ una istituzione coatta che e’
costretto a frequentare e che lo impegna per una parte
consistente della sua giornata. La scuola pertanto diventa
giocoforza importante. E questa importanza non consiste
nell’apprendimento dei contenuti dei programmi ministeriali, o
delle sue comunità ampie finalità formative, ma nel confronto con
l’adulto/insegnante e nelle relazioni che il ragazzo stabilisce
con i coetanei. Questa dimensione specifica dell’adolescente e’
ulteriormente marcata dalla particolare situazione storica che
viviamo.

L’insegnamento non è più un modello culturale per gli allievi

L’accelerazione nei processi di trasformazione
economica, tecnologica, sociale, e culturale non da
all’adolescente la possibilità di guardare all’adulto/insegnante
come all’archetipo del suo futuro. L’insegnante/adulto, infatti,
non rappresenta nell’attuale contesto storico ne’ un modello
culturale autorevole ne’ una professione desiderabile e pensabile.
Da qui nasce quel duplice sentimento che provano gli studenti nei
confronti dei docenti, che oscilla fra il compatimento per un
ruolo che non comprendono e, allorquando lo si riconosca, la
simpatia per l’impegno che mettono nel dare un senso alla loro
fatica.
Di fronte a questo sfondo comunicativo gli insegnanti provano un
sentimento di frustrazione e di impotenza che si traduce in un
atteggiamento di autoironia, da un lato, e, dall’altro, di
rifiuto nei confronti di cioè che giudicano l’assalto barbarico
dei giovani che prediligono Stephen King, o ancor peggio un
programma televisivo sportivo, a un buon romanzo di T. Mann.
L’insegnante, in questo quadro relazionale insoddisfacente, ha
sviluppato nei confronti dei suoi allievi un particolare modello
di comportamento, analizzato dalla pedagogia speciale, che
caratterizza le relazioni fra i bambini con
handicap e i loro genitori. Si tratta di un comportamento
duplice: da un lato l’insegnante rifiuta i suoi studenti perché
non sono come li vorrebbe, e questo si conclude con una
bocciatura; oppure, al contrario, il suo comportamento diventa
protettivo per la fragilità manifestata dagli allievi negli
impegni scolastici e questo si conclude con una promozione
appena mascherata dalla speranza di futuri recuperi didattici,
che pero, sono ritenuti improbabili.
Così gli insegnanti cadono in quel comportamento tipico dei
genitori di figli handicappati certificati, che per il senso di
colpa della minorazione vorrebbero allontanarli perché non
rappresentano la realizzazione della loro immagine sognata di
figlio. Oppure all’opposto hanno pronta una batteria di
giustificazioni per assolvere i loro esisti cognitivi e
relazionali negativi. Va sottolineato che spesso nello stesso
insegnante, come nei genitori di figli con deficit conclamato,
convive in modo schizofrenico questo irresolubile dualismo che
disturba il rapporto educativo.
Gli studenti dal canto loro, come accade agli handicappati
certificati, sfruttano le contraddizioni di questo sistema
relazionale insinuando e rafforzando il senso di colpa
dell’insegnante per trarne profitto sia nel caso di una
bocciatura che di una promozione non convincente. Lo studente,
infatti, se e’ stato respinto attribuisce all’insegnante, con
giustificazioni non importa se sinceramente sostenute, la
responsabilità dei risultati negativi – "il Professore non mi
capisce", "non e’ bravo nelle spiegazioni", ecc. Nel caso di una
promozione, invece, che non avverte giustificata rispetto al
metro didattico riconosciuto nella classe, rivendica la sua
abilita di averla fatta franca.
Entrambi gli attori di questa commedia didattica comunque provano
il sentimento di una comunicazione mancata, di un legame
frustrante.
E ciò che è più nocivo in questo meccanismo relazionale e’ il
prolungamento, o l’intorbidamento, della "moratoria
psicosociale", che conferma e riproduce le disabilità
deresponsabilizzando i giovani nel momento in cui dovrebbero
invece cominciare a definire consapevolmente il campo dei loro
impegni riguardo a se stessi e all’ambiente sociale con cui si
rapportano.

Dal logocentrismo alla multimedialità

Questa e’ solo una parte del problema della comunicazione.
Un’altro aspetto rilevante di questo lo si può individuare sul
piano più specifico dei processi di apprendimento. cioè comunque
non e’ da considerare in modo disgiunto da quello relazionale
visto sopra; in quanto ogni processo cognitivo avviene in un
ambiente sociale che attiva e scandisce lo sviluppo delle
conoscenze dei ragazzi.
La questione a cui qui mi voglio riferire sono i meccanismi
cognitivi, chiamati in gioco nell’apprendimento e che riguardano
i processi di significazione che dipendono, da un lato, dallo
sviluppo delle funzioni della mente e, dall’altro, dai meccanismi
di acculturazione sociale.
E’ questo secondo aspetto, ancora poco considerato, che mi pare
importante sottolineare qui per le rilevanti ricadute nel campo
educativo.
A questo proposito si può constatare che i processi cognitivi a
partire da qualche decennio fa stanno assumendo connotati del
tutto nuovi.
Il logocentrismo, o la parola scritta, sta perdendo, o ha già
perso, la centralità della sua funzione nel sistema degli scambi
delle informazioni. E nella scuola questo processo sta mettendo
in crisi le modalità tradizionali di trasmissione della cultura.
Gli insegnanti, educati nella scuola logocentrica, mancano di
strumenti per affrontare la nuova situazione caratterizzata da
un’atmosfera segnica multimediale. Stiamo assistendo ad un
fenomeno che presenta molti aspetti paragonabili a quello che si
è verificato allorché si e’ passati dalla civiltà orale,
fonocentrica, della parola parlata, alla civiltà della scrittura,
logocentrica, della parola scritta. Così come in quella grande
trasformazione si e’ sviluppato un modo diverso di percepire, di
memorizzare, di analizzare, ecc; così oggi, nella civiltà
multimediale, noi vediamo che le procedure di raccolta delle
informazioni, di formalizzazione dell’esperienza e manipolazione
dei simboli si presenta con caratteristiche di cui avvertiamo
l’importanza ma che ancora non sono state definite né dal punto
di vista cognitivo né dalla più ampia prospettiva delle
trasformazioni antropologiche.
Se questo e’ lo status questionis, qui voglio solo delineare
qualche aspetto di questo problema che ha un forte impatto nel
lavoro didattico.
Ciò che gli insegnanti maggiormente denunciano nei processi di
apprendimento degli studenti e’ la mancanza di controllo del testo
sia nella produzione scritta che orale. Qui quando mi riferisco
al testo intendo in generale quel paradigma del testo scritto in
cui le singole parti sono state ben selezionate e ben coordinate
in una struttura complessiva senza ridondanze, ripetizioni,
secondo uno schema sequenziale ben paragrafato, ecc.
Questi procedimenti, che come abbiamo detto rappresentano il
modello di produzione di un testo scritto, richiedono capacità di
attenzione, memorizzazione e soprattutto abilità nel passaggio
dal concreto all’astratto che però hanno solo in parte a che fare
con il modello, o i modelli, della civiltà multimediale. Infatti
quest’ultima non richiede in modo esclusivo i processi di
concettualizzazione della realtà percepita attraverso una sua
formalizzazione nei caratteri tipografici come quelli del nostro
alfabeto, in quanto il testo multimediale e’ soprattutto una
produzione e\o riproduzione, non di segni astratti convenzionali,
ma di immagini, non importa se appartenenti al mondo della
fiction oppure a quello delle informazioni.
E ancora, se la civiltà della scrittura prevede un ordine spazio-
temporale del testo; nella civiltà dell’immagine si privilegia
l’accostamento aprospettico dei messaggi. Anche nell’uso della
posta elettronica dove apparentemente lo scambio delle
informazioni avviene secondo il modello del testo scritto
tradizionale, le comunicazioni sono brevi e poco argomentate. Il
modello di comunicazione non e’, quindi, quello ciceroniano ma
piuttosto quello della pubblicità, dove l’occhio non
necessariamente considera la totalità organica del messaggio ma
le sue parti, come elementi autonomi.
Cosi, dunque, i nostri studenti sono immersi in questo mondo di
messaggi strutturati secondo la logica dei multimedia. E la
nostra denuncia riguardo alla mancanza di attenzione,
all’incapacità’ di categorizzare e strutturare argomentazioni dei
nostri allievi, non fa i conti con il modello di comprensione dei
messaggi dei mass media a cui sono sottoposti fuori dalla scuola.
Se constatiamo, nella produzione sia scritta che orale dei nostri
allievi, una mancanza di organicità un procedere
nell’esposizione per accostamenti, uno zigzagare nel mare
magmatico delle loro informazioni, piuttosto che per
coordinamento delle sequenze; oppure se l’attenzione, invece di
isolare gli stimoli relativi solo alle finalità didattiche, e’
intermittente, si lascia attrarre dalla costellazione delle
sollecitazioni dell’ambiente (fenomeno questo che un collega ha
icasticamente definito attenzione da telecomando); allora si
tratta di valutare più consapevolmente i nostri comportamenti
educativi nel contesto comunicativo globale in cui sono calati i
giovani oggi.

Cambiano i processi cognitivi

Noi insegnanti, ritenendo il modello del testo scritto
un aspetto imprescindibile della formazione, in quanto abilità
necessaria alla promozione culturale dell’individuo, esercitiamo
una forte pressione sugli studenti per ridurli alla ragione del
nostro modello. Pur ammettendo che tale valutazione sia corretta,
non si può prescindere neppure dai modelli di apprendimento
dominanti. Perciò mi pare indispensabile avvicinarci alle nuove
forme di acculturazione per condurre un intervento formativo più
consapevole. Tenendo conto delle indiscutibili potenzialità didattiche offerte
da questi nuovi mezzi di comunicazione, non si tratta di
abbandonare le nostre competenze acquisite a favore di
miracolistiche formule didattiche multimediali.
Si tratta piuttosto di far interagire il patrimonio culturale
tradizionale con i nuovi mezzi messi a disposizione
dalle nuove tecnologie comunicative per realizzare progetti
educativi capaci di comprendere il nuovo orizzonte segnico.
I suggerimenti didattici, in questa direzione, e’ mia convinzione,
possono venire soprattutto dal nostro lavoro in classe.
A proposito posso raccontare una mia esperienza.
Io sono un insegnante cieco, e per essere autonomo nella
correzione dei compiti, ho chiesto alla classe la disponibilità a
svolgere le tracce dei temi, anziché su un foglio, al computer.
Ciò mi ha consentito di rilevare che le competenze espressive
degli allievi sono mutate di segno rispetto al lavoro con carta e
penna.
Innanzitutto, ho rilevato che il computer ha permesso loro di
evitare molta parte degli abituali errori di ortografia. Ma cioè
che mi ha colpito maggiormente e’ stata la struttura argomentativa
adottata dalla maggioranza degli studenti. Seppure la
composizione delle argomentazioni fosse stata costruita rispetto
a quella su carta, con periodi più brevi e con uno scarso uso
delle proposizioni subordinate, le analisi sono risultate più
chiare e gli svolgimenti nel complesso sono risultati più
lineari. Quale incidenza abbia questa macchina nei processi di
apprendimento noi insegnanti non lo sappiamo, come non sappiamo
quali siano le modificazioni nei processi cognitivi dovuti ai
nuovi mezzi di comunicazione nel loro complesso. Ma possiamo
cominciare a esplorare questo campo con l’aiuto, oltre che dei
nostri studenti, di psicologi ed esperti della comunicazione. In
questo modo, forse, se sapremo imparare ad apprendere le modalità
di comprensione dei giovani che abbiamo davanti in classe ci
sembreranno meno estranei e ci consentirà di intervenire
positivamente nelle situazioni educative più difficili.
Picasso affermava di aver imparato in fretta a dipingere come
Raffaello; ma di essersi impegnato una vita a imparare a
dipingere come un bambino.

Pasqua

Pasqua
disegni di Andrea Pazienza -storia Marcello D’Angelo, tratto da “Tormenta”, Milano Libri Edizioni,1985

Cooperazione internazionale e disabilità

Cooperare con i paesi poveri, e in particolare proporre e realizzare progetti che riguardano i disabili; è questo il tema della nostra inchiesta che riporta le testimonianze di persone che lavorano in Palestina, in Nicaragua e in altre parti del mondo; un lavoro difficile che, accanto alla scarsità di risorse locali, deve fare i conti con situazioni politiche a volte difficili, al limite della pericolosità. Nonostante le difficoltà, da queste esperienze emergono risultati importanti e idee originali; è il caso della riabilitazione su base comunitaria, un metodo riabilitativo particolarmente adatto in certe situazioni di povertà. Raccontare queste esperienze è anche un modo per fare dei confronti fra chi opera nel sociale nel mondo occidentale e chi lavora in un contesto del tutto diverso, alla ricerca di punti di contatto e di presa di coscienza di un fatto: che il perseguimento dello sviluppo e del benessere non può essere pensato solo per una parte (piccola) del mondo, ma deve riguardare l’intero pianeta.

 

I primi tre mesi

La scuola elementare spesso si definisce come luogo che insegna a leggere e scrivere, e a far di conto.
E velocemente, voglio aggiungere io, troppo velocemente.
I primi mesi della scuola elementare sono accompagnati spessissimo da un’ansia collettiva che pervade genitori, insegnanti, nonni e quindi bambini.
Aleggia come una paura che il bambino possa essere non del tutto normale se entro Natale non ha imparato a leggere e scrivere.
L’attesa può essere rimandata a gennaio o febbraio, ma se, dio ne guardi, il piccolo ad aprile non decifra ancora almeno parole semplici come "ape" o " banana", scoppia il caso. Il bambino spesso è l’unico nella classe a trovarsi in questa situazione così radicale di non apprendimento, a volte i bambini sono due.
Una sensazione di diversità negativa li circonda e si impossessa di loro.
Uno può diventare un ribelle-disturbatore, l’altro un introverso isolato.
Si cominciano a consultare psicologi e psicopedagogisti.
Alla scuola materna i bambini non avevano mostrato niente che non andava, a casa erano considerati "normali": hanno imparato a parlare, a lavarsi, a mangiare da soli….
Cosa è successo allora?
A questo punto, si indaga soltanto sul bambino "diverso", o ci si chiede se tutti gli altri bambini hanno imparato a leggere con la sufficiente serenità e gioia e nel rispetto dei propri ritmi?
0 meglio, hanno imparato a "leggere", o a "decifrare" scritti per mezzo di suoni, ignorando il senso e lo scopo degli strumenti culturali della lettura e della scrittura? Sono stati velocemente addestrati, o si sono realmente impadroniti di uno strumento fondamentale di comunicazione?
In Italia, e non solo, si lamenta un numero elevatissimo di "analfabeti di ritorno", e un numero molto basso di veri lettori.
Intellettuali, sociologi, linguisti si impegnano, su giornali e mezzi di comunicazione, in ampi dibattiti; si sprecano le statistiche, si mettono sotto accusa la televisione, la scuola; manca spesso una puntualizzazione che affronti il problema alle origini.
Certo molte sono le "responsabilità" della scuola: la mancanza di biblioteche, l’uso a volte dominante dei libri di testo uguali per tutti e di discutibile validità e via dicendo.

Se entro Natale non sai leggere…

Il punto che mi sembra non sufficientemente analizzato in profondità è quello che riguarda che cosa succede nei primi tre mesi della prima classe elementare, quando i bambini per la prima volta vengono a contatto in forma istituzionalizzata e con le aspettative di tutti sulle spalle, con il dovere di imparare a leggere e scrivere.
Se lo hanno fatto studiosi o gruppi di insegnanti (Clotilde Pontecorvo, il Movimento di Cooperazione Educativa), le loro ricerche e scoperte non sono divenute rinnovamento ampio della scuola, né tanto meno patrimonio dell’opinione pubblica.
Con l’approsimarsi dell’abbassamento dell’obbligo a cinque anni, anche se questo avverrà all’interno della scuola dell’infanzia, credo che sarebbe di fondamentale importanza aprire un ampio dibattito che coinvolga il mondo della cultura, gli addetti ai lavori e l’opinione pubblica in generale, proprio per evitare un pericolosissimo equivoco che potrebbe vedere abbassare l’età degli apprendimenti del leggere e dello scrivere, mantenendo metodi frettolosi, ansiogeni, spesso privi della conoscenza dei fondamentali studi epistemologici.
A questo proposito non posso fare a meno di citare la ricerca condotta in Argentina negli anni 1974-76 da Emilia Ferreiro e Ana Teberosky (La costruzione nella lingua scritta nel bambino, Giunti e Barbera, Firenze, 1985). Le due studiose della scuola svizzera di Piaget applicano per la prima volta nel mondo il metodo di indagine piagetiano all’apprendimento della lettura e della scrittura.
Si vengono così a conoscere i percorsi mentali dei bambini nei confronti della lingua scritta, che certo non hanno inizio né a 6 né a 5 anni ma molto prima, e procedono secondo tempi e ritmi diversificati, pur seguendo tappe comuni e identificabili. Le scoperte di queste studiose, come dice la Pontecorvo, che le ha fatte conoscere in Italia, confermano riguardo al metodo le grandi intuizioni di Freinet, e danno un supporto teorico al metodo naturale. Si tratta in breve di un metodo che, come dice la parola stessa, rispetta la natura del bambino, aspettando con la stessa serenità e la stessa fiducia con cui si è aspettato che il bambino aspettasse a parlare, senza contargli i mesi addosso, che impari a leggere e scrivere, cioè che costruisca questa fondamentale conoscenza attraverso strategie personali, nella sicurezza e nel piacere.
Saranno questi gli elementi che faranno di lui un buon lettore anche da adulto.
Nella mia più recente esperienza, al termine di una gioiosissima prima elementare, in una classe di 19 bambini, ve ne erano due che ancora non erano in grado di leggere e scrivere. Hanno tranquillamente imparato, e bene, durante il corso del secondo anno, sono sempre stati sereni e felici di venire a scuola, né loro né i loro compagni hanno mai rimarcato diversità spiacevoli. I genitori e i nonni, indispensabili coeducatori, hanno atteso senza smanie il naturale sviluppo conoscitivo dei loro bambini, ritrovando a volte insieme a loro il gusto e la gioia di leggere.

Primo incontro e fiducia nella relazione di cura

E’ un brano molto conosciuto quello che vi proponiamo, tratto dal libro "Il piccolo principe" esemplare come metafora dell’incontro con l’altro, primo ed ineludibile atto di ogni relazione di cura e di aiuto.
E’ sulla scena di questo incontro che vediamo già delinearsi molti degli elementi che strutturano la relazione interpersonale e che diventano, di volta in volta, maggiormente pregnanti.
Il momento del primo incontro è emblema, infatti, di tutte le aspettative che sono in gioco, di chi direttamente è dentro la dimensione relazionale e di chi ne è, almeno temporaneamente fuori, come la famiglia.
Per questo il momento dell’incontro ha bisogno di tempi e spazi definiti per questo e non per altro, tempi e spazi che costituiscono la struttura portante del rito. Attraverso l’uso sapiente del rito si lavora per costruire, con processi lenti e reciproci, legami di fiducia. La fiducia come legame significativo che unisce in un rapporto, base primaria di ogni acquisizione o apprendimento. Il lavoro di cura passa tra le condizioni che facilitano, e all’inverso ostacolano, la creazione di questi legami che trovano nei riti e nei ritmi della quoditianità il modo concreto di realizzarsi.

Il piccolo Principe (*)

In quel momento apparve la volpe. "Buon giorno", disse la volpe.
"Buon giorno", rispose gentilmente il piccolo principe, voltandosi: ma non vide nessuno. "Sono qui", dise la voce, "sotto al melo…" "Chi sei?" domandò il piccolo principe, "sei molto carino" "Sono una volpe", disse la volpe. "Vieni a giocare con me", le propose il piccolo principe, "sono così triste…"
"Non posso giocare con te", disse la volpe, "non sono addomesticata".
"Ah!scusa" fece il piccolo principe. Ma dopo un momento di riflessione soggiunse: "Che cosa vuol dire "addomesticare"? "Non sei di queste parti tu" disse la volpe. "Che cosa cerchi?"
"Cerco gli uomini" disse il piccolo principe. "Che cosa vuol dire "addomesticare"?
"Gli uomini" disse la volpe, "hanno dei fucili e cacciano. E’ molto noioso! Allevano anche delle galline. E’ il loro solo interesse. Tu cerchi delle galline?"
"No", disse il piccolo principe "Cerco degli amici. Che cosa vuol dire "addomesticare?"
"E’ una cosa da molto dimenticata. Vuol dire "creare dei legami"…."
"Creare dei legami?"
"Certo", disse la volpe "Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo e io sarò per te unica al mondo".
" Comincio a capire", disse il piccolo principe. "C’è un fiore…credo che mi abbia addomesticato…" "E’ possibile", disse la volpe. "Capita di tutto sulla Terra…"
"Oh! Non è sulla Terra", disse il piccolo principe..
La volpe sembrò perplessa:
"Su un altro pianeta?" "Sì"
"Ci sono dei cacciatori su questo pianeta?"
"No"
"Questo mi interessa! E delle galline?"No"
"Non c’è niente di perfetto", sospirò la volpe.
Ma la volpe ritornò alla sua idea:
"La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi guarda! Vedi laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticatop. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano…"
La volpe tacque e guardò a lungo il piccolo principe:
"Per favore…addomesticami", disse.
"Volentieri", rispose il piccolo principe, "ma non ho molto tempo, però. Ho da scoprire degli amici, e da conoscere molte cose."
" Non si conoscono che le cose che si addomesticano", disse la volpe "Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!"
"Che bisogna fare?" domandò il piccolo principe.
"Bisogna essere molto pazienti" rispose la volpe. "in principio tu ti siederai un po’ lontano da me, così, nell’erba. Io tiguarderò con la coda dell’occhio e tu non dirai nulla. Le parole sono una fonte di malintesi. Ma ogni giorno tu potrai sederti un po’ più vicino…"
Il piccolo principe ritornò l’indomani.
"Sarebbe stato meglio ritornare alla stessa ora", disse la volpe " Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore…Ci vogliono i riti".
" Che cos’è un rito?" disse il piccolo principe.
"Anche questa, è una cosa da tempo dimenticata", disse la volpe "E’ quello che fa un giorno diverso dagli altri giorni, un’ora dalle altre ore. C’è un rito, per esempio, presso i miei cacciatori. Il giovedì ballano con le ragazze del villaggio. Allora il giovedì è un giorno meraviglioso! Io mi spingo sino alla vigna. Se i cacciatori ballassero in un giorno qualsiasi, i giorni si assomiglierebbero tutti, e non avrei mai vacanza
Così il piccolo principe addomesticò la volpe. E quando l’ora della partenza fu vicina:
" Ah!" disse la volpe, "…piangerò"
"La colpa è tua" disse il piccolo principe, "io non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che tiaddomesticassi…"
"E’ vero", disse la volpe
"Ma piangerai!" disse il piccolo principe
"E’ certo", disse la volpe
" Ma allora che ci guadagni?"
" Ci guadagno", disse la volpe, "il colore del grano"
Poi soggiunse: " Va’ a rivedere le rose. Capirai che la tua è unica al mondo. Quando ritornerai a dirmi addio, ti regalerò un segreto".
Il piccolo principe se ne andò a rivedere le rose.
" Voi non siete per niente simili alla mia rosa, voi non siete ancora niente", disse "Nessuno vi ha addomesticato, e voi non avete addomesticato nessuno. Voi siete come era la mia volpe. Non era che una volpe uguale a centomila altre. Ma ne ho fatto il mio amico ed ora è per me unica al mondo.
E le rose erano a disagio.
"Voi siete belle, ma siete vuote", disse ancora, "Non si può morire per voi. Certamente, un qualsiasi passante crederebbe che la mia rosa vi rassomigli, ma lei, lei sola, è più importante di tutte voi, perché è lei che ho innaffiata. Perché è lei che ho riparata col paravento. Perché su di lei ho uccisi i bruchi ( salvo i due o tre per le farfalle)". Perché è lei che ho ascoltato lamentarsi o vantarsi, o anche qualche volta tacere. Perché è la mia rosa".
E ritornò dalla volpe.
"Addio", disse
"Addio" disse la volpe "Ecco il mio segreto. E’ molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi"
"L’essenziale è invisibile agli occhi", ripetè il piccolo principe, per ricordarselo.
"E’ il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante".
"E’ il tempo che ho perduto per la mia rosa…sussurrò il piccolo pirncipe per ricordarselo.
"Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato.
"Tu sei responsabile della tua rosa…"
"Io sono responsabile della mia rosa…"ripetè il piccolo principe per ricordarselo.

(*) tratto da Il Piccolo Principe, Antoine de Saint-Exupery, Edizioni Bompiani

Jerry Lewis

“Un eroe comico è per tradizione un handicappato che può salvarsi dalla distruzione solo grazie alle continue astuzie proprie dell’oppresso e a una fortuna paradossalmente spropositata”

Nel campo del cinema, vi sono varie definizioni di personaggio comico. Eccone una, dovuta a Jean-Pierre Coursodon ("Buster Keaton & Co", Paris, Seghers, 1964):
"Un eroe comico è per tradizione un handicappato che può salvarsi dalla distruzione solo grazie alle continue astuzie proprie dell’oppresso e a una fortuna paradossalmente spropositata".
Questa definizione trova una interpretazione letterale, parossistica, somatica in Jerry Lewis.
Il suo personaggio non è riducibile a un tipo: pensarlo come "picchiatello" è appena un modo di parare la sua movenza spastica, quella di un corpo irriducibile all’ordine del reale (come alla compostezza della commedia hollywoodiana). Potremmo, forse, ritrovare delle ascendenze nello shlemil (Jerry si chiama Joseph Levitch); ma di questo "incapace" della tradizione ebraica sarebbe allora il figlio degenere (Jerry Lewis non è Woody Allen). Se Jerry fa il disadattato è per difesa. Per difendersi rispetto alle cose che vanno di traverso: "the time is out joint" (come dice Amleto, evocato da Derrida nel suo Spettri di Marx). Il tempo è fuori sesto, le membra non stanno al loro posto. Jerry sfugge all’identità, non gli basta una sola maschera. A volte si traveste (riesce a interpretare anche sette parti, per parodia). All’occasione si traveste da donna. Ma questa ambiguità al sessuale non gli impedisce di amarle, le donne, di sognare di loro; nelle Folli notti del dottor Jerryll (1963), in uno sdoppiamento classico, Jerry nei panni del professor Kelp tiene la sua lezione all’università mentre, trasognato, pensa a Stella: e parla delle "lunghe gambe dello scarabeo", del "corpo meraviglioso della formica", dei "capelli biondi dei pesci" – pura lirica surrealista -. Altre volte si succhia il pollice, strepita (in Italia, con la voce di Carlo Romano), pesta i piedi a vuoto, regredisce a un imbarazzante stadio infantile. O persino, in un eccesso mimico incontrollato, a uno stadio scimmiesco. Ma Jerry che si rifiuta di crescere fa solo la scimmia dell’adulto. E dell’adulto assume su di sé il ridicolo. Per questo, ci mette a disagio: dove centrare il mio corpo di spettatore, bambino o adulto, di dignitoso impiegato? Per questo gli sta accanto Dean Martin, cantante confidenziale che ritiene di saper cantare così come s’è convinto di essere bello. Tuttavia il modello, o forse l’altro Io di Jerry non è Dean Martin. Potremmo dire, con un chiasma imperfetto, è James Dean. (Nel 1956, peraltro, vi allude esplicitamente nel film The Delicate Delinquent). Un esegeta dell’opera lewisiana, Robert Benayoun, ha parlato di Jerry come "anti-James Dean" ("Bonjour Monsieur Lewis", Paris, Losfeld, 1972). Noi preferiamo pensarlo come suo fratello crudele. Dean, il ribelle, rappresenta a giusto titolo l’eroe della gioventù moderna. Secondo una celebre analisi di Edgar Morin ("I divi", Milano, Garzanti, 1977), l’adolescenza che trova in James Dean la sua espressione cinematografica comincia culturalmente a dissociarsi dal cinema:"La sua nuova cultura, che prende forma per la prima volta dai film di James Dean, trasferisce l’interesse culturale degli adolescenti sul rock, sulla musica, la canzone, il ballo. Nel corso di quegli anni decisivi che vanno dal 1957 al 1962 si verifica una dissociazione fondamentale: il cinema resterà sempre uno spettacolo per la gioventù, ma per essa lo star-system smetterà di esercitare il ruolo di modello culturale dominante". Questa dissociazione passa attraverso i corpi. Di qui sorgono, per esempio, Elvis Presley, e appunto Jerry Lewis. Nel corpo posseduto, tarantolato del rock, come nel crampo meccanico, involontario e altrettanto irrefrenabile di un personaggio spastico si agita una rivolta che di lì a poco muterà la faccia del pianeta.
Più di vent’anni fa, Robert Benayoun poteva scrivere: "Finché Jerry girerà dei film, è certo che non si suiciderà". Oggi, Jerry Lewis, partecipa a qualche raro film e alle trasmissioni Telethon a favore dei disabili. Sentiamo la sua mancanza.

Il cinema è un mostro

L’homme est à venir.
L’homme est l’avenir de l’homme.
Francis Ponges

L’uomo medio è un mostro
P.P. Pasolini

Alle ultime Giornate del Cinema Muto di Pordenone è stata proiettata la prima versione cinematografica di Stella Dallas, vero e proprio paradigma del melodramma materno. Una donna sposa un uomo che appartiene ad una classe sociale molto superiore. Ben presto l’impossibilità di lei ad amalgamarsi con l’ambiente di lui li separa. Lei, donna "volgare" ma madre affettuosissima e irreprensibile, mantiene ciò che oggi si chiama l’affidamento della figlia. Crescendo, la ragazza si dimostra sempre più simile al padre, sicché la donna fa di tutto per inserirla nell’ambiente aristocratico che è ad essa più consono. Quando si accorge di essere lei stessa l’ostacolo a questo inserimento, decide allora di farsi da parte e di lasciare che la ragazza vada a vivere col padre, pur sapendo di non poter reggere al dolore di questa separazione.
Abbiamo deciso di citare questo film, perché durante le escursioni di Stella Dallas nel jet set, nelle didascalie che riportano i commenti dei presenti ricorre più volte, esplicitamente, la parola freak, mostro. Per fare di lei un freak bastano vestiti appariscenti, maniere un po’ grezze e una conversazione improntata sui binari della franchezza. Il cinema è arte dell’evidenza. Il cinema è crudele.
Cambiamo ora completamente prospettiva. In Cobra Verde, film di colui che è forse il principale poeta cinematografico dell’abnorme (nel senso etimologico di fuori della norma), Werner Herzog, abbiamo ad un certo punto un dialogo bellissimo fra il terribile bandito che dà nome al film e un ragazzo nano di nome Euclides, il solo uomo del villaggio che non fugge davanti agli occhi diabolici del brigante del Sertao.
_Tu con la tua gobba sei l’unico uomo diritto qui – gli si rivolge Klaus Kinsky -.Io ho portato un’intera montagna. Amico, dammi da mangiare".
C’è qualcosa di perverso e contemporaneamente geniale nel modo in cui Herzog, in questo film, utilizza attori handicappati. Metafore, o, se vogliamo, pleonasmi, comunque simboli visivi del destino del protagonista. Sacchi massacranti sulle spalle nelle miniere del sud est fanno di lui un bandito, ed eccolo alle prese con un nano coraggioso dalla schiena curva. Così, nel finale, sulle sponde africane dell’Atlantico, Cobra Verde si esaurisce nel tentativo titanico e impossibile di spingere una barca in acqua da solo, sfidando le correnti e le onde dell’oceano. Sullo sfondo, un ragazzino dalle gambe atrofizzate procede verso di lui, camminando sulle mani a passi lentissimi, faticosamente, in un modo che sembra moltiplicare la distanza invece che ridurla. Ciò che sarebbe intollerabile altrove diventa in Herzog quasi accettabile: forse è una questione di sofferenza, di partecipazione. Quello che è certo è che Herzog, rispetto ad una barricata ideale, si mette dalla stessa parte dei suoi personaggi, dei suoi attori. Dalla parte opposta, ad esempio, Claudio Groff, traduttore della sceneggiatura, che descrive la scena come _la lunga sequenza del protagonista che cercava invano di far scivolare in mare la barca incagliata in un disperato tentativo di fuga mentre sullo sfondo danza in controluce la figura mostruosa dello storpio, a metà fra uomo e animale, simbolo di una storia iErrore. L’origine riferimento non è stata trovata.ntessuta di crudeltà, abiezione e follia" (1).
Quello di Herzog è un caso di affinità, in tutto simile a quello di un Tim Burton, sul quale torneremo in seguito. Ben diverso l’atteggiamento di autori diversissimi fra loro come Fellini o David Lynch, i cui film sono pieni di personaggi notevoli, di figure strane, insolite, bizzarre. Il secondo gioca sul filo del fantastico e spesso lo attraversa: l’idea di partenza, tuttavia, è vedere cosa succede quando una società si trova a contatto con qualcosa di non-previsto, di inaudito, di inassimilabile. Elephant Man è, in questo senso, un film manifesto. E’ anche un manifesto di quasi tutto ciò che il cinema (prodotto di una società) può fare di qualcuno che varca la soglia della normalità: esasperarlo, mostrarlo, farne un business, soccorrerlo, provarne paura, repulsione, pena. E ancora sfruttarlo, studiarlo, normalizzarlo.
Fellini riesce a farne altre due cose, sintetizzate magnificamente in un film come il Casanova. Fellini sa rarefare l’anormalità fino a farne un materiale onirico, la proiezione di un desiderio. Fellini, al contempo è uno che i "mostri" li colleziona e li cataloga. Lo stesso che Hitchcock o Lang fanno con i maniaci o gli assassini.
David Cronenberg riporta le cose su un piano individuale. Quello di cui Cronenberg non si riesce a capacitare è di avere un corpo. Che questo corpo abbia una forma definita, che non si sappia che cosa ci sia dentro, che non si possano smontare e rimontare i pezzi. Tutte queste sono cose che lo tormentano. Cosa entra e cosa esce da un corpo. Qual è la sua relazione con il resto della natura, con la tecnologia, ovvero quella parte di natura inventata dall’uomo. Qual è il rapporto che lega il corpo al pensiero, il corpo alla fantasia. Perché il pensiero non può smuovere i corpi, perché questi non possono fondersi fra loro, fondersi con quelli degli animali, con quelli delle cose. E ancora, perché una cosa come la droga, il cui effetto è puramente chimico, produce risultati clamorosi a livello dell’immaginario. Infine, il mistero incredibile del sesso e della maternità. Per Cronenberg ogni essere umano è un mostro perché ogni essere umano deve convivere con un corpo. Deve convivere con ciò che è.
Uno dei capitoli di un libro curioso, dedicato ai medici nel cinema (2) si intitola Oscar per un handicap. Titolo azzeccatissimo. Negli ultimi tempi, ma non solo, il modo più sicuro per conquistarsi un Oscar è scrivere, dirigere o almeno interpretare un film che narri le vicende di un disabile. Brevissima carrellata: Rain Man, Risvegli, Figli di un dio minore, Il mio piede sinistro, Forrest Gump. Tutti impostati, più ancora che su un personaggio, su un tipo preciso di handicap. Tutti, più o meno, ben fatti. Tutti, più o meno, percorrono i territori del pietistico e del politicamente corretto. Tutti sono stati premiati e osannati. Niente da ridire se la cosa può servire a diffondere una maggiore sensibilità generale nei confronti delle esigenze dei disabili in questione. Meno piacevole il tono programmatico con cui si decide di affrontare e quindi di trattare l’argomento. Il cinema, per cultura se non per natura, e quello di Hollywood più di ogni altro, si preoccupa di casi straordinari, di personaggi fuori dal comune, di eventi e fatti che escono dalla consuetudine. Far vedere la vita dell’uomo della strada non è per il cinema bigger then life interessante. Far vedere la vita del generale Custer, di Billy the Kid o di Rocky Balboa lo è molto di più, per il semplice motivo che questa gente fa o ha fatto cose che la maggior parte degli individui non fa. Combattere gli indiani, sparare agli sceriffi, fare a pugni con colossi muscolosi, sono tutte cose particolari, difficili, estreme. Così la vita di Anna dei Miracoli, che è uno dei pochi film biografici su disabili in cui l’apparato spettacolare (che pure c’è) non prende il sopravvento sull’umanità del personaggio, è interessante perché ogni minima insignificante esigenza diventa un’avventura per una ragazzina che, letteralmente, non sente, non vede e non parla. Il rischio è appunto quello di farsi prendere la mano, far diventare un ragazzo affetto da autismo una specie di versione in carne ed ossa del robot Hal 9000 di Odissea nello spazio, rendere il giovane spastico del Mio piede sinistro il corrispettivo estremo degli atleti di Momenti di gloria. Prendere l’handicap in questa maniera può diventare un modo paradossale per normalizzarlo. Meglio, forse, che ignorarlo, ma pericoloso. Certo riduttivo.
Altro paradosso. Spesso è il cinema di genere a dirci, fra le righe, sull’handicap le cose più significative e incisive. I numerosi ciechi del thriller, al di là della vicenda contingente, ci parlano in modo decisamente concreto dell’angoscia del buio o di quanto il mondo può essere ostile per un non vedente. Molto meno concreta, per quanto apparentemente più diretta, è la messa in scena dei "drammi" di una sordomuta nei Figli di un dio minore, o, addirittura, l’elucubrazione metaforica di Dove siete? Io sono qui. Allo stesso modo, Le avventure di un uomo invisibile di John Carpenter, prende il racconto di H.G. Welles per farne un film che è insieme una grande satira sulla civiltà dell’immagine e la parabola esemplare di un disabile che trova la felicità. Chase è un uomo come tanti che, in seguito ad un incidente, resta privo dell’immagine. Non ha cercato né voluto essere tale, lo è e basta. Ben presto deve fare i conti con la mancanza di una qualità che gli altri hanno, con la repulsone, il timore, l’esclusione. Piano piano deve abituarsi all’idea di non poter più fare cose che gli altri possono fare, deve riadattare il mondo a sé e riadattare sé al mondo.
Proseguiamo e terminiamo ancora sul terreno del film di genere. E’ idea di Michele Canosa che la biografia di Ed Wood realizzata da Tim Burton sia un vero e proprio remake di Freaks (del quale trattiamo altrove). Tim Burton è un giovane autore che, fin dal suoi esordi, ha saputo sviluppare una vera e propria poetica della diversità, dell’esclusione, dell’artista come corpo estraneo, e del solitario (non per scelta) come prototipo dell’artista. Tutto questo fa sì che nei suoi film il patetico imperi, ma nell’accezione positiva (o comunque non negativa) del malinconico. Da Beetlejuice a Mr. Skeleton, da Batman al giovane Edward Mani di forbice, i suoi eroi sono gente che ha subito una mancanza, una menomazione fisica o psichica della quale portano ben visibili i segni. Una mancanza che ha, al contempo, donato loro qualcosa, una mancanza che li ha spinti ai margini della società dei normali. In Ed Wood questi personaggi sparsi e solitari si raccolgono in una comunità ristretta, destinata ad essere incompresa, temuta e minacciata da coloro che la vedono dall’esterno e non sanno superare il ribrezzo o la paura. Una comunità di mostri, ma una comunità umana, dove la sofferenza preliminare ha lavorato a che la regola generale non sia l’aggressività ma l’indulgenza. Homo homini licantropus. Ed Wood girava horror.

Note

1) Claudio Groff, "Introduzione a: Werner Herzog, Cobra Verde", Milano, Mondadori, 1990, pp. 7-8
2) Luciano Sterpellone, "Medi-Cine", Roma, Arti Grafiche Editoriali, 1994

La rete che cambia

Parecchie cose sono cambiate in rete in questi ultimi anni, anzi in questi ultimi mesi; stiamo naturalmente parlando di rete telematica (di internet). Quando nel 1995 cominciammo ad usare timidamente l’armamentario telematico interrogando le BBS specializzate sul tema dell’handicap (qualcuno si ricorda ancora cosa siano le BBS?) il panorama era completamente diverso da quello di oggi, nel bene e nel male. Nel male perché quello era un mondo da iniziati, a volte chiuso e tendenzialmente elitario, difficile anche da comprendere, nel bene perché le poche persone presenti (in quell’anno non più di 80 mila in Italia) erano più consapevoli del valore sociale del mezzo telematico di quanto non lo si sia oggi.
In Italia, paese molto arretrato in termini di cultura tecnologica, se confrontato con i paesi sviluppati, la diffusione di internet è stata ed è rapidissima, anzi mi viene da dire furiosa. Internet è diventata una moda e chi non la conosce e non la usa non fa parte del gruppo che possiede anche gli altri status symbol (i telefonini, la macchina, il dvd…). Tutto questo ha naturalmente un prezzo, e il prezzo che si paga è quello di uno svilimento delle nuove tecnologie vissute unicamente come nuova occasione di consumo. Sia ben chiaro internet è anche questo, dovrebbe rendere la nostra vita più facile permettendoci acquisti on line, permettendoci il confronto di prodotti diversi e di prezzi diversi. Ma la telematica non finisce qui.
Da tre anni a questa parte come Centro di Documentazione Handicap giriamo per l’Italia organizzando corsi di formazione sulle nuove tecnologie rivolti agli operatori sociali, ai volontari, agli insegnanti, alle persone svantaggiate. I nostri non sono corsi puramente informatici ma parliamo anche di telematica sociale, di come sia possibile informarsi e fare informazione sui temi sociali. In base a questa genere di esperienza abbiamo notato come le persone che frequentano i corsi siamo aggiornate sulle ultime novità web e siano a digiuno delle altre applicazioni (che non siamo i browser) che servono per comunicare in rete. Molti conoscono kataweb, tiscalinet, gli mp3, le nozioni base dell’uso dei motori di ricerca, ma nessuno sa (per lo meno in modo chiaro) cosa siano le mailing list, ancora meno cosa siano i newsgroup, gli strumenti sicuramente più originali della rete (ancora oggi). Non conoscere ed usare i gruppi di discussione significa rinunciare alla comunicazione digitale più interessante. Il prezzo che si paga è allora questo, vivere la telematica come un susseguirsi di pagine web da guardare e basta, senza partecipazione attiva e senza alcun senso critico. E’ anche vero che il web si arricchisce sempre più di nuove potenzialità e tendenzialmente convoglia su di sé tutte le varie possibilità comunicative che vengono svolte da applicazioni diverse (newsreader, le applicazioni per la gestione della posta elettronica e per l’uso delle chat). Ma, almeno per adesso, i browser (Internet Explorer e Netscape, per citare i più noti) non permettono le stesse potenzialità. E non è, naturalmente, una sola questione di conoscenza tecnologica (delle applicazioni); la telematica può essere realmente uno strumento di liberazione (lo si può dire senza paura) liberazione dall’ignoranza, dalle barriere, dall’isolamento, ma perché lo sia occorre anche crederlo, ed allora ecco l’importanza dei valori condivisi (di solidarietà e di speranza) dove la tecnologia figura come un mezzo da usare (incredibilmente nuovo e rivoluzionario), ma solo un mezzo per migliorare il modo di stare su questo pianeta. Di come poi il digitale muti questi contenuti (e la nostra socialità), beh, questa è tutta un’altra storia.

Oggi le handycomiche

Avete un racconto, un aneddoto, una barzelletta, un qualcosa di divertente da raccontare che nasce dalla più sofferta e quotidiana esperienza di vita, di lavoro, di amicizia in questo magico, magico mondo che è l’handicap? Inviatecela e, se farà ridere veramente, ve la pubblicheremo.

Ridere di handicap

C’era una volta un bellissimo giovane handicappato di nome Smile. Smile non era un handicappato qualunque, cioè uno dei soliti disabili che non riescono a camminare e per questo vagano lenti sulle loro carrozzine, spingendosi con le mani, per le strade della città, andando sempre in giro senza motivo ed intralciando il traffico delle macchine e dei pedoni; oppure di quelli che occupano con le loro automobili, i parcheggi riservati, non lasciandoli liberi ai normodotati, che non trovano posto. Al contrario, Smile era proprio un handicappato speciale, un handicappato perfetto a cui non mancava proprio nulla; infatti aveva molte qualità e molti pregi, come quello di non riuscire a scavalcare gli enormi marciapiedi delle strade, a scalare le numerose scale che si trovano negli edifici pubblici, a tagliare i traguardi delle vette di numerosissimi scalini, a raggiungere i giganteschi banconi dei bar. Inoltre ogni giorno doveva sempre superare nuovi ostacoli, per poter salire sugli autobus, per recarsi negli uffici pubblici, nelle discoteche, nei negozi e tutto questo, insieme ad altre numerosissime difficoltà e problemi, rendevano, Smile, un handicappato veramente eccezionale.
Purtroppo nonostante tutte queste qualità, Smile, aveva un grande difetto, che complicava la sua vita ed il suo rapporto con le altre persone. Il suo grande difetto era il ridere, infatti Smile rideva, rideva, rideva sempre, rideva di tutto e su tutto, gli bastava un raggio di sole, lo sbocciare di un fiore, il saluto di una donna, il sorriso di un vecchio, il ciao di un bambino e Smile rideva, rideva senza smettere più.
Il ridere di Smile, non era un ridere comune, oppure un ridere di gusto o un ridere di cuore, Smile rideva con tutta la sua anima, con tutto il suo corpo, per questo sembrava che Smile ridesse proprio di handicap; inoltre quando Smile rideva, era così contento e così gioioso, che pareva non stare più nella pelle e nel suo handicap dalla grande felicità.
Purtroppo, questo grande difetto, procurava a Smile tantissimi guai, infatti quando andava a chiedere un lavoro, una carrozzina nuova, un nuovo ciclo di terapia o qualsiasi altro aiuto ed agevolazione, i medici, le assistenti sociali, gli impiegati, vedendolo ridere a quel modo, lo scambiavano per un qualsiasi altro normodotato e non gli davano mai, i giusti servizi che Smile richiedeva.
Smile, a causa della sua grande felicità, veniva molto spesso scambiato per una persona normodotata, anche dalla gente che incontrava per strada, così quando Smile trovava degli ostacoli o non riusciva a scavalcare un marciapiedi, nessuno riusciva ad accorgersi che aveva bisogno di una mano e nessuno gli prestava aiuto.
Smile, era proprio disperato, perchè non riusciva proprio a correggere questo suo difetto; infatti nonostante mettesse a frutto tutta la sua buona volontà e tutto il suo impegno, non riusciva a migliorare ed a scrollarsi di dosso il brutto vizio di ridere.
Quando Smile, doveva affrontare un nuovo colloquio o doveva conoscere delle nuove persone, cercava di prepararsi mentalmente ad essere un handicappato triste e depresso, come un qualsiasi altro normalissimo disabile. Per questo motivo, cercava di affrontare questi colloqui, nelle giornate più piovose, più fredde e più grigie, che infondono nell’ anima un profondo senso di malinconia e tristezza; poi cercava di pensare a tutte le miserie ed a tutte le povertà che ci sono nel mondo, pensava alla sua condizione di handicappato, alla sua impossibilità di camminare, così diventava triste e scoraggiato, con una faccia seria e scura.
Purtroppo tutte le persone che incontrava, vedendolo così serio, scoraggiato e triste, gli sorridevano gentilmente, gli battevano una mano sulla spalla in segno di incoraggiamento, si dimostravano tutti gentili e premurosi nel suoi confronti e così Smile, scoppiava a ridere, a ridere di handicap.
I medici, gli assistenti sociali e gli impiegati, che assistevano a questa scena, rimanevano stupiti ed allibiti, sentendosi beffati e truffati, trattando Smile come un normododato bugiardo ed imbroglione, scacciandolo via in malo modo da tutti i loro uffici.
Smile, rimaneva molto mortificato a causa di tutte queste situazioni, perchè nonostante tutto il suo impegno e tutti i suoi sforzi, non riusciva proprio a correggere il suo caratteraccio e vedeva andare in fumo tutti i suoi buoni propositi; ma anche questa mortificazione era di breve durata, perchè gli bastava uscire dall’ufficio e vedere un frammento di arcobaleno, la forma strane di una nuvola, il brillare di un sottile raggio di sole e Smile tornava subito allegro, ridendo, ridendo di handicap.
Un giorno, Smile, venne a sapere che quella stessa sera, Cheese, il suo comico preferito, si sarebbe esibito in uno spettacolo nel teatro della sua città. Appena Smile, apprese questa notizia, decise subito di andare ad assistere allo spettacolo. Infatti, fin da bambino aveva sempre seguito tutti gli spettacoli televisivi di Cheese ed adesso non voleva proprio perdere l’occasione di poterlo vedere dal vivo; per questo motivo era veramente al colmo della gioia e dell’eccitazione, non stando più nella pelle e nel suo handicap dalla grande felicità ridendo, ridendo di handicap.
Purtroppo, quando Smile arrivò al teatro, si trovò di fronte una crudele e gigantesca scala di marmo, che di colpo gli sbarrò l’entrata al teatro, vedendo infrangersi tutti i suoi desideri, tutti i suoi sogni, contro quella crudele barriera architettonica; così Smile divenne triste e scoraggiato, con una faccia seria e scura.
Mentre Smile si avviava alla sua macchina, per tornare a casa, gli vennero incontro gli uomini addetti alla sicurezza del teatro, che vedendolo così triste e desolato, gli offrirono il loro aiuto, per fargli salire la scala, facendo leva sulle ruote posteriori della carrozzina. Smile accettò molto volentieri questa proposta e nel suo cuore si riaccese la speranza di poter vedere finalmente lo spettacolo di Cheese.
Smile, apprezzando molto la gentilezza di quegli uomini e rendendosi anche conto della loro grande fatica, nel trasportarlo in quel modo, non finiva mai di ringraziarli. Purtroppo, quando arrivarono in vetta alla scalinata, Smile, dalla grande felicità, scoppiò in una fragorosa risata di handicap.
Gli uomini della sicurezza, vedendolo ridere a quel modo, si sentirono profondamente offesi, beffati e truffati, scambiando nuovamente Smile, per un normodotato disonesto e bugiardo; così per punizione riafferrarono i manici della carrozzina e lo riportarono subito in fondo alla scala.
Adesso, Smile, si ritrovava solo, triste, deluso ed amareggiato, perchè per colpa di quel suo brutto difetto, aveva di nuovo perso un’occasione d’oro.
Gli uomini della sicurezza, vedendolo di nuovo così serio e malinconico, pensarono che quella persona era veramente handicappata, quindi decisero di richiamare Smile e di portarlo nuovamente su per la scala.
Quando gli uomini della sicurezza gli offrirono nuovamente il loro aiuto, Smile, non credeva alle proprie orecchie e cercò di trattenersi il più possibile per non perdere anche questa occasione; ma ancora una volta, arrivati in cima alla scala, Smile scoppiò in una fragorosa risata di handicap.
A questa nuova risata, quegli uomini andarono su tutte le furie e sentendosi doppiamente beffati, derisi ed ingannati, riafferrarono con forza, prontezza e determinazione i manici della carrozzina di Smile, riportandolo immediatamente in fondo alla scalinata.
Così, Smile, rimase ancora una volta, solo, deluso e depresso, perchè a causa di quel suo terribile difetto, aveva perduto definitivamente anche quest’ultima occasione.
Gli uomini della sicurezza, vedendo Smile, avviarsi così tristemente alla macchina, spingendosi con le mani sulle ruote, furono nuovamente assaliti dai dubbi precedenti, tanto che pensarono di andarlo a richiamare, per portarlo di nuovo su per la scala, ma poi nell’incertezza decisero di lasciar perdere; perchè se Smile fosse stato un falso handicappato, tutto ciò sarebbe stato per lui il giusto castigo, sentendosi, per questo, anche molto fieri per aver punito così duramente un imbroglione di quel calibro. Al contrario, se quella persona, fosse stata veramente handicappata, una rinuncia, una delusione in più a quelle che già quotidianamente subiscono gli handicappati, non avrebbe certamente fatto una grande differenza.
Mentre, Smile, stava andando alla macchina per tornare a casa, gli venne in mente di fare un giro dietro al teatro; qui trovò un ampio spazio aperto, dove vi era un’ottima acustica, così pensò di rimanere in quel punto e di accontentarsi, almeno, di ascoltare lo spettacolo di Cheese.
Quando Cheese cominciò il suo spettacolo, declamando il suo monologo di battute comiche, tutto il pubblico del teatro, ed anche Smile all’esterno, cominciarono a ridere, a ridere; ma le risate di handicap di Smile erano così forti, così fragorose, che coprivano e sovrastavano tutte le risate del pubblico del teatro e persino la voce del comico stesso.
Cheese, disturbato da quella specie di rumore fuori campo, uscì da dietro le quinte per affacciarsi ad una finestra del teatro e scoprire da chi o da dove proveniva quella simpatica risata.
Quando Cheese si affacciò alla finestra che dava proprio sullo spiazzo aperto, vide Smile tutto solo seduto sulla sua carrozzina, lo invitò ad entrare in teatro per assistere allo spettacolo, ma Smile gli spiegò che non poteva entrare a causa della scala e gli raccontò anche dello spiacevole equivoco nato con gli uomini della sicurezza. Allora Cheese rientrò in teatro e comunicò a tutto il pubblico, che tutti gli spettatori paganti se volevano continuare ad assistere allo spettacolo, dovevano immediatamente uscire dal teatro, mentre coloro che non avevano pagato il biglietto, potevano rimanere tranquillamente seduti in teatro e così dicendo uscì di nuovo di scena.
Tutto il pubblico rise fragorosamente alle parole del comico, credendo che fosse una delle sue solite battute assurde ed esilaranti, anche perché, naturalmente e logicamente, tutti quanti avevano pagato il loro biglietto; ma poi non vedendolo più rientrare in scena, pensarono tutti insieme di uscire e di andare dietro al teatro per vedere cosa stava accadendo.
Quando tutto il pubblico arrivò nello spiazzo aperto dietro il teatro, trovò Cheese che continuava tranquillamente il suo spettacolo affacciato alla finestra e Smile seduto in prima fila sulla sua carrozzina, che si stava godendo lo spettacolo, ridendo, ridendo di handicap. Infatti Smile era felicissimo, perché, non solo poteva assistere e vedere dal vivo il suo comico preferito, ma anche perchè finalmente qualcuno lo aveva considerato come una persona normale, senza badare ai suoi pregi ed al suoi difetti.

Dove va, se esiste, il dibattito sull’handicap adulto

“Un handicappato diventa adulto, ma pochi lo sanno davvero”, titolava un articolo di Andrea Canevaro sulla rivista Rocca del 1983.
Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia eppure il dibattito su questo aspetto dell’handicap prosegue ancora in maniera ambigua e altalenante.

Per inquadrare il tema è necessario sottolineare come ci siano state in questi ultimi dieci anni tre parole chiave che hanno cercato di definire il dibattito.
"Handicap adulto" è la prospettiva indicata, e qui semplifico, dal mondo dei servizi socio sanitari.
Bambini handicappati socializzati, inseriti, scolarizzati a cui sono cresciuti il seno e la barba e che a fatica reggevano il parcheggio nel dilatarsi dei percorsi di formazione professionale. La risposta è stata la creazione, là dove questo è avvenuto, dei servizi per l’handicap adulto, variamente denominati, che hanno cercato di tamponare il vuoto di progettualità dovuto ad un vuoto di dibattito.
"Dopo famiglia" è stata la prospettiva di molte associazioni di familiari. Chiara la pesante ambiguità di una prospettiva che si connota con parole di tal genere, pur capendone la legittimità e realtà per tante situazioni contingenti.
Si è però creata una cristallizzazione attorno a questa prospettiva che pare l’unica che proviene dalle associazioni.
"Vita indipendente", con le relative parole chiave e temi di contorno (autonomia, mobilità, turismo, sport, tecnologie, ecc.) è la prospettiva delineata da alcuni gruppi con forte partecipazione delle stesse persone handicappate. La mia personale opinione è che anche questa prospettiva sia cresciuta debole, limitata dalla incapacità di collegarsi coerentemente alle esperienze e culture espresse negli anni precedenti rispetto ai temi legati ai bambini handicappati, e dalle tante ambiguità seminate nella seconda metà degli anni ’80 da tanti handicappati e handicappate "eccellenti" che hanno riempito giornali e televisioni.
Giunti ormai a metà degli anni ’90, in odore di ulteriore pesanti tagli ai servizi sociali che faranno terra bruciata dei diritti meno consolidati (leggasi interventi dei servizi per l’handicap adulto), con un associazionismo dell’handicap ultimo in classifica nel dibattito sul terzo settore e capace solo di proporre nuovi collateralismi testimoni della sua nullità e insipienza politica, cosa ci possiamo aspettare?
Difficile, anzi impossibile dirlo, anche se possiamo registrare l’arrivo sulla scena di una nuova prospettiva, evocata da recenti convegni: "Handicap e invecchiamento" (*).
Da una parte è dato di realtà, e positivo, che tante persone handicappate, migliorando le condizioni di vita, abbiano vita più lunga. Ancora c’è da dire che nella organizzazione di tanti servizi locali esistono fasce di età, generalmente tra i 50 e i 60 anni, in cui si corre il rischio di non essere più in carico ai servizi dell’handicap e non ancora in carico a quelli per gli anziani, e ciò in una situazione di ulteriore aumento dei bisogni.
Sgombrato, speriamo, il campo da approcci demagogici resta tuttavia il rischio che questa prospettiva diventi una nuova parola d’ordine unificante e che definisce un percorso di vita in "discesa" e non in "salita", che si riallinea a coordinate prettamente sanitarie e che spiana la strada alla creazione di strutture, vedi tanti progetti di RSA, che annullano in apparenza l’ambiguità del binomio handicappati/anziani dentro le stesse mura.
Pessimismo? Alle ore 12,30 del tredici di ottobre 1995 certamente sì. Non mi sembra che le persone handicappate, né i genitori delle associazioni, né i tecnici del settore, né il sottoscritto, abbiano le carte in regola per vincere questa sfida.
Sarà opportuno attrezzarsi per un periodo di resistenza.

(*) Il convegno "Handicap e invecchiamento" si è tenuto a Riolo Terme (Ra) il 18 ottobre 1995. Per informazioni: segreteria direttore generale A.USL di Ravenna, tel. 0544/40.90.22 fax 0544/40.90.63

La stimolazione contro l’invecchiamento?

Come devono comportarsi gli operatori sociali di un centro diurno con gli utenti che invecchiano, cosa devono modificare nel loro rapporto educativo? E ancora, come devono essere organizzati i servizi in questa prospettiva? Per rispondere a queste domande è partita una ricerca nella regione Marche a cura del Centro socio-educativo “Francesca”; ne parliamo con il professor Cottini, responsabile del progetto.

Domanda. Che cosa vi ha spinto a fare questa ricerca?
Risposta. Secondo gli studi epidemiologici è fortemente aumentata la vita media dei disabili; i dati dicono che i disabili mentali vent’anni fa vivevano in media 30-35 anni oggi invece per il 60% arrivano ai 60 anni. Naturalmente questo cambiamento pone nuovi problemi.

D. Per alcuni l’invecchiamento dei disabili mentali comporta anche un aggravamento delle condizioni; condivide queste affermazioni?
R. Si assiste ad un deterioramento delle funzioni intellettive però è difficile fare delle generalizzazioni; questi cambiamenti sono lenti e non avvengono all’improvviso quando si raggiunge una certa età. Noi pensiamo, ed è questa una delle motivazioni delle ricerca, che è possibile contenere questo peggioramento delle funzioni intellettive stimolando dal punto di vista cognitivo i soggetti in età avanzata; certo se continuiamo a pensare a strutture per questi soggetti rette solo da personale infermieristico e sanitario non si risolve il problema.

D. Sempre a proposito della ricerca, quali sono gli obiettivi e i tempi di realizzazione che vi siete proposti?
R. La ricerca, che è realizzata dal Centro socio-educativo "Francesca" in collaborazione con l’università di Urbino e l’istituto di Medicina Sociale, ha un preciso fine operativo e non vuol essere una ricerca staccata dalla realtà. Vogliamo suggerire agli operatori e a coloro che dovrebbero organizzare questo tipo di servizi, come dovrebbero funzionare delle strutture che hanno come utenti dei disabili che invecchiano o già lo sono. Per quanto riguarda gli operatori il nostro obiettivo è quello di proporre modalità di intervento gestite dall’operatore, programmi che l’educatore stesso può utilizzare senza dover ricorrere ad altre figure specialistiche. Per quanto riguarda le modalità e i tempi di realizzazione vogliamo condurre la ricerca presso alcuni centri italiani dell’Anffas (Associazione Nazionale Famiglie Fanciulli e Adulti Subnormali); la ricerca dovrebbe durare un paio di anni.

D. In pratica che tipo di intervento dovrebbe compiere l’educatore?
R. Ad esempio programmi di stimolazione percettiva e discriminatoria (l’uguale e il diverso), di stimolazione della memoria e dell’attenzione. Si tratta quindi di puntare più sull’aspetto educativo rispetto a quello assistenziale.

D. Che apporto può dare il campo geriatrico nel caso del disabile che invecchia?
R. Naturalmente non si può pensare di fare uno studio in questo settore ignorando quello che è già stato fatto in campo geriatrico. L’invecchiamento della persona disabile pone però questioni differenti, più specifiche e la risposta non può quindi essere solo sanitaria o ricreativa. In questo caso occorre un’integrazione di competenze.

“Anche l’assistente di base è un educatore”

Lavorare per anni con uno stesso disabile che invecchia; la “strana” differenza tra l’educatore e l’assistente, l’importanza di una rete di servizi sociali. Intervista a Massimo Manferdini, educatore in un centro diurno di Bologna.

Domanda. Lavorare per anni con le stesse persone e trovarsi di fronte al problema che una persona, un utente, prima sa fare e poi non sa più fare; le abilità, le competenze che cambiano ma in negativo. Come vive questo aspetto un educatore, addetto invece al cambiamento in positivo?
Risposta. Questa è una domanda che si apre ad altri quesiti. Quando ci dobbiamo prendere cura di persone che non danno appigli comunicativi, quando il deficit è molto grave o ci ritroviamo di fronte a persone adulte, che hanno già parecchi anni, come muta la relazione pedagogica, come va strutturata, qual _ il senso e come lo inquadriamo dal punto di vista epistemologico? E’ ancora sensata la dimensione delle abilità, delle competenze e delle autonomie? Diventa un lavoro che ha a che fare con il versante di cura più materno, ma che materno non può essere per persone di 50 anni. E’ qualcosa che ha a che fare con un’alterità radicale che molte volte non siamo proprio in grado di sostenere. Sei portato a contatto con un piano di esistenza primordiale, che è vero che appartiene ad ognuno, ma che alcune volte diventa anche insostenibile, proprio dal punto vista della "presa in carico". Questo tipo di lavoro ci pone in una logica per cui si ha un contatto con una persona di questo tipo un paio di mattine la settimana per poi dedicare un certo tempo alla rielaborazione: in questo modo la cosa è sostenibile. Se invece la dimensione è quella della vita di tutti i giorni diviene insostenibile. La dimensione della rielaborazione, della ricerca, sono le uniche che ti possono permettere di fare questo lavoro per molti anni.

D. La degenerazione o il peggioramento delle competenze della persona disabile potrebbe essere semplicemente considerata come una evoluzione, una occasione di cambiamento…
R. Diciamo evoluzione. Che sia un peggioramento è certo. Ma tutti peggioriamo e tutti ci riadattiamo e non mi sembra che questo faccia eccezione per una persona handicappata. Se il peggioramento è più vistoso si faranno degli adattamenti più vistosi. Il problema è semmai per un educatore che si trova a dovere passare ancora altri anni con questa persona dopo averne magari già trascorsi dieci o dodici.

D. Spesso gli educatori si trovano davanti a utenti di 60 anni per cui il centro per gravi non va più bene e la domanda è: vale la pena di spendere la risorsa "educatore" per lavorare con una persona di quella età o è meglio utilizzare altre figure come ad esempio l’assistente di base?
R. Effettivamente c’è nei nostri servizi una curiosa consuetudine per cui quando gli handicappati diventano anziani non si sa più cosa sono, cioè non si riesce più ad identificare cosa sono perché si sovrappongono due problemi.
Preliminarmente dovrei dire che questa differenza tra educazione ed assistenza è una divisione sulla quale bisognerebbe ragionare, nel senso che non c’è giustificazione al dire che l’assistenza è di grado inferiore all’educazione anche perché bisognerebbe prima definire i vari campi: cosa è l’assistenza? Cos’è l’educazione? L’assistenza viene identificata con l’insieme di mansioni che sono relative, così come di solito si dice, alla cura della persona, alle autonomie di base, all’andare in bagno, lavarsi mangiare e così via. Questo però, con persone che hanno una vita di relazione legata solo a quei momenti, è a tutti gli effetti un livello educativo di relazione. Quindi non capisco perché l’educatore debba essere messo in antagonismo con l’assistente; semmai l’assistenza potrebbe essere una parte specifica, un tipo specifico di relazione dell’universo educativo, non però di grado inferiore. Eventualmente di grado superiore nel senso che tutto quello che riguarda la sfera intima del proprio corpo non credo che rappresenti un tipo di relazione più semplice, bensì più complesso, più delicato. L’altro luogo comune, simmetrico, è che più il deficit diventa grave e più è sufficiente che ci sia una persona che tutto sommato fa il "badante". Invece è proprio il contrario: più il deficit è grave e più è richiesta competenza. Ne segue quindi che la figura dell’assistente di base viene ad essere una specie di artificio non motivabile in termini pedagogici ed epistemologici, ma motivabile in termini di risparmio economico. L’assistente di base infatti viene ad essere sostanzialmente un educatore pagato di meno e che non ha responsabilità di progetto. Se fosse pagato di più sarebbe comprensibile vista la specializzazione in "assistenza", ma essendo pagato meno la distinzione a mio avviso non è più chiara.

D. Il livello di qualità dei servizi per persone handicappate ha creato forti attese rispetto ai bisogni legati all’handicap e alla terza età. Che giudizio dai della situazione attuale dei servizi?
R. Adesso tutti parlano di rete ma c’è una grande ambiguità di fondo: se la rete viene organizzata mantenendo i servizi solo come capacità di accoglienza non c’è rete in realtà ma c’è semplicemente un inventarsi i progetti sugli utenti che rimarranno sempre lì "fino a che morte non ci separi"; la discriminante invece dovrebbe essere l’offerta di prestazioni. In questo modo gli utenti possono cambiare: perché ad un certo punto può darsi che un utente non voglia più fare un tipo di attività oppure che questa non sia adatta a lui/lei. In questo senso anche il problema del lavorare per tanto tempo con gli stessi utenti subisce una certa modificazione proprio a partire da un cambiamento di logica di gestione dei servizi sociali.
Il più delle volte i servizi sociali non sono organizzati con una logica di rete: in questo modo i centri diurni e i vari servizi vengono a configurarsi come isolette o binari morti dove non c’è una prospettiva di percorso, diciamo di "progetto personalizzato".
Se si pensano i servizi sociali in termini di accoglienza, per cui ogni servizio si configura per la sua capacità di accogliere utenti, allora i servizi diventano più o meno piccole isole che tendono a saturarsi. Se si ragiona sul tipo di utenza con cui ci si trova a lavorare allora vengono ritagliati, inventati dei progetti facendo affidamento sulla creatività e la professionalità degli educatori, sulla loro capacità di non frustrarsi. L’altra prospettiva potrebbe vedere i servizi configurarsi per le prestazioni, per quello che offrono: ad esempio il tal centro giovanile si è specializzato sul cinema o sull’arte, un altro centro fa lavori di falegnameria, all’interno di un centro per anziani si è organizzata una attività connessa al ballo ecc. Allora chi ha compiti di gestione dei servizi si trova ad avere di fronte un menù, una mappa di opportunità con cui l’equipe – che dovrebbe esserci – può organizzare un progetto individualizzato inventandosi degli itinerari flessibili.
In questo modo non avremmo più strutture dove per quindici anni ci sono gli stessi utenti; in questo modo la vita degli utenti assomiglierà maggiormente a quella di tutte le persone che passano da una istituzione all’altra, senza essere assorbite da un unico luogo per sette od otto ore al giorno.

Ma quando un disabile diventa vecchio?

Gli anni passano, il bambino diventa ragazzo e poi adulto, l’invecchiamento continua senza sosta; è normale. Ma quando questo capita alla persona disabile allora si pongono dei problemi specifici ed anche alcuni rischi.

Il tema può essere visto da punti di vista differenti; quello del servizio sociale che deve pensare ad una organizzazione opportuna, quello dell’educatore (là dove ce n’è bisogno) che deve saper modificare il suo rapporto, quello della famiglia e delle associazioni e infine quello dello stesso disabile.
Sono livelli di osservazione diversi ma tutti necessari per ricomporre, attorno al disabile che invecchia, un tema che altrimenti rischia di essere affrontato in modo frammentato e con logiche diverse (la razionalità, l’emozione, l’economicità, l’ideologia…).
Intanto bisogna chiedersi perché parlare di questo tema adesso e i rischi che può comportare.

I disabili intellettivi vivono e vivranno più a lungo

Per quanto riguarda il primo aspetto bisogna dire che si tratta essenzialmente di una questione di numeri; in tutti i paesi europei e, presumibilmente in tutti quelli occidentali, il numero di persone handicappate mentali con più di 50 anni raddoppierà nell’arco dei prossimi 10 anni. Questo comporterà dei problemi nuovi che i normali servizi sociali non sono sicuramente attrezzati ad affrontare; le stesse famiglie poi vedono allungarsi il "periodo di accudimento" che tende a proiettarsi oltre la vita degli stessi genitori (è il tema del "dopo di noi").
Secondo Anna Contardi dell’Associazione Italiana Persone Down, "Il problema dell’invecchiamento delle persone Down è diventato molto grosso dato l’allungamento della vita; i servizi che funzionano solo su alcuni aspetti, come l’inserimento lavorativo, lasciando scoperto tutto il resto. Questo naturalmente là dove per fortuna esiste un servizio per l’handicap adulto".
Per Wilma Cavallazzi, presidente dell’Anffas (Associazione Italiana Famiglie Fanciulli e Adulti Subnormali) di Bologna, _Questo problema investe fortemente i genitori che hanno paura di morire prima dei loro figli. Il compito delle associazioni di genitori diventa a questo punto quello di sollecitare gli Enti Pubblici a progettare. Una risposta possono essere le RSA (Residenze Sanitarie Assistenziali); oggi molti disabili finiscono semplicemente nei ricoveri per anziani ma queste sono risposte improprie a persone che anziane non sono".
I rischi invece possono essere diversi; innanzitutto c’è il pericolo di generalizzare. Una cosa è parlare di invecchiamento per un handicappato mentale o per una persona affetta da una malattia degenerativa e un’altra cosa è parlare di invecchiamento per i disabili fisici.

Semplice invecchiamento o invecchiamento precoce?

Per quanto riguarda la precocità dell’invecchiamento la questione è delicata: in che termini e con quale sicurezza si può parlare di precocità?
Qui le opinioni sono differenti. "Io non credo all’invecchiamento precoce dell’handicappato; per alcune categorie può essere vero, ma l’affermazione non può essere totalizzante; -afferma Fausto Ameli, coordinatore del Polo Handicap Adulto Azienda USL Città di Bologna- La stessa espressione "l’handicappato che invecchia " va rivista, bisogna pensare alla persona disabile nelle varie età della vita e comunque rimane un problema di integrazione. Se perseguiamo una politica di integrazione per il bambino handicappato così deve essere per l’handicappato che invecchia. Il rischio fondamentale è quello di un ritorno alla medicalizzazione che è in parte condiviso dagli anziani e in parte è il tipico modo di concepire l’handicap come una malattia".
Dice Laura Maccherini, coordinatrice del Centro residenziale "casa Paderno" dell’Aias (Associazione Italiana Assistenza agli Spastici) di Bologna:"Dopo i 40 L’invecchiamento è precocissimo. Le esigenze sanitarie e assistenziali diventano predominanti e superano quelle educative. Questo vale in parziale misura anche per i disabili fisici. A questo punto il problema educativo è quello di sfruttare al meglio il tempo rimasto libero dalle esigenze sanitarie e assistenziali".

Se l’infermiere subentra all’educatore

Dalle testimonianze ora riportate emergono altri rischi. L’invecchiamento (più o meno precoce) può diventare un alibi per non affrontare più la questione dell’integrazione (nella famiglia, nel lavoro, nella vita sociale…) e nella peggiore dell’ipotesi (come è il caso delle case di riposo per anziani) può spianare la strada all’istituzionalizzazione.
A questo punto bisogna distinguere e precisare l’apporto che possono dare le strutture sanitarie e quelle sociali; infatti il sociale e la geriatria rispondono a logiche e ad intenti ben diversi. Mentre per il primo vale il discorso dell’educabilità, del progresso e dell’integrazione a vari livelli, per il secondo vale un discorso di mantenimento, fin dove è possibile, di capacità fisiche e mentali che stanno scemando.
E il discorso non si ferma al confronto di competenze fra l’educatore e l’infermiere o l’assistente di base, ma va all’interno della stessa professionalità dell’educatore ponendo nuovi quesiti.
"C’è anche il rischio – conferma Fausto Ameli – di un approccio educativo ad oltranza; in alcuni centri diurni si continua ad insegnare per anni ad un disabile oramai di una certa età a leggere , ad esempio, l’orologio; ma se questa persona non lo ha imparato a quarant’anni certo non lo imparerà più. L’approccio educativo molto spesso non è preparato ad affrontare questi cambiamenti e a volte si arriva all’errore di trattare come un bambino una persona che non lo è più. Faccio un altro esempio; l’inserimento lavorativo è importante ma può non esserlo più per una persona di 55 anni; allora – conclude Ameli – qui non ci deve essere un "accanimento pedagogico-educativo", ma bisogna riorientare tutto l’intervento a partire dalla persona".