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Autore: admin

Il piacere passivo, il piacere di ricevere

Per uno sviluppo soddisfacente nell’ambito della sessualità, un passaggio basilare riguarda la percezione del proprio corpo e la necessità che il corpo rappresenti una unità. Questo presupposto si organizza nel bambino attraverso una esperienza di sostegno-contenimento e cura che crea i primi nuclei dell’immagine corporea e quindi della costruzione del Sé. Possiamo dire che la rappresentazione che abbiamo della sessualità è il risultato delle esperienze affettive e corporee dell’infanzia, dalle quali si svilupperanno a loro volta, le prime relazioni, la capacità di riconoscersi e differenziarsi, la strutturazione di una identità maschile o femminile.
Il primo piacere relativo a queste prime fasi di sviluppo è il piacere passivo, il piacere di ricevere; esso è in fondo il piacere di essere; mettere dentro come primo passaggio del processo di strutturazione in termini globali; è ciò che definisce i confini del proprio corpo. Nella condizione di ricezione passiva, il piacere erotico è diffuso in tutto il corpo e tale si ripropone nell’arco della vita, arricchito poi da altri piaceri.
La bocca è simbolicamente l’area privilegiata, riassumendo tutti gli organi e sensi tesi a introiettare ciò che dall’esterno viene percepito; la pelle, la mano, gli occhi, il senso tattile, quello termico, quello cinestesico con la percezione di come le diverse parti del proprio corpo sono disposte tra di loro e nello spazio circostante.
Questo piacere definito passivo partendo dal concetto di massima dipendenza che il bambino vive nei primi mesi di vita, è di fatto il piacere di essere oggetto di cure, di essere "nelle mani" dell’altro. Il contatto, il calore, il dialogo tonico, la contiguità dei corpi sono gli elementi che caratterizzano questa estrema dipendenza.
In condizioni in cui sia presente una patologia, il contenimento dell’esterno si prolunga per un periodo di tempo molto più lungo, a volte indefinitamente, con la sua carica di componenti ambivalenti.
Da un lato la relazione madre-bambino, adulto-bambino, rimane più facilmente ancorata ad una dimensione più contenitiva e di cura "passiva" rivolta al bambino, dove si mantengono caratteristiche nelle quali il piacere e il benessere sono legati prevalentemente alla passività, alla dimensione del ricevere, al corpo oggetto di una manipolazione ed espressione di forte dipendenza, molto oltre i termini di uno sviluppo non modificato dalla disabilità.
Dall’altro lato convive con questi aspetti, la difficoltà di questa cura che spesso non riesce a immaginare nei pensieri degli adulti che si occupano di un bambino così gravemente in difficoltà, un successivo passaggio di possibile raggiunta autonomia. Da qui discende un piacere di prendersi cura che si colora via via anche di sentimenti conflittuali di rifiuto, di uno stato sempre più innaturale di vicinanza e dipendenza. Gli esiti sul comportamento di tali difficili conflitti possono avere un’ampia gamma di espressioni: dall’allontanamento più o meno definitivo, ad un accudimento caratterizzato da un occuparsi "tecnicamente" del bambino (per i suoi bisogni fisici, per la necessità di interventi medico-riabilitativi …), all’attaccamento esclusivo e intoccabile dall’esterno (spesso escludendo anche il padre).
Queste e le molte altre modalità di legame sono comunque l’espressione di un difficile coinvolgimento spesso non dovutamente considerato nella presa in carico di queste situazioni.
Il piacere dell’essere da un lato, e il piacere di prendersi cura, dall’altro lato, subiscono una forte e dolorosa sollecitazione. Dal punto di vista del disagio psichico ed emotivo, si possono manifestare quadri diversi di sofferenza. a seconda della gravità con cui sono colpite le relazioni significative.

Sviluppo psicosessuale e disabilità

Nella esperienza e nella teoria psicoanalitica, la sessualità non fa riferimento solo all’apparato genitale, alle sue funzioni, ai suoi bisogni con relativo soddisfacimento, ma a un complesso ampio di piacere e attività presenti fin dai primi momenti della vita di un bambino, non riconducibili ad un unico significato.
La sessualità può essere qui utilmente adoperata come nascita della persona attraverso il piacere, o meglio ancora, attraverso l’alternarsi del piacere e della sua mancanza; piacere che primo fra tutti si introduce e si struttura coniugando la percezione sempre più complessa che il corpo impara a "sentire" e riprodurre via via che lo sviluppo procede.
Il piacere "sentinella di vita" (Fornari), è il primo motore entro cui poi si inserisce il piacere sessuale e le sue evoluzioni nel tempo e nella storia di ciascun individuo. E’ un intreccio inscindibile ciò che, attraverso il corpo, promuove il senso di sé, la sensazione di esserci, di esistere come soggetto sempre più definito e separato dal corpo materno e dalle sue cure; il bambino è la risultante di questi aspetti e fondamentalmente della cura che riceve. Il suo sviluppo dipende dal dialogo incessante tra sé e chi di lui si occupa, dialogo dalle innumerevoli sfumature nelle quali il corpo è lo strumento più immediato. Esso non interrompe mai di inviare messaggi ed è una sorta di porta di ingresso ad ogni successiva comunicazione con sé stessi e con il mondo.
La presenza di un deficit, di una malattia, di una alterata funzionalità pone una serie di interrogativi e di variabili sulla già fragile continuità di quel dialogo così denso di significati da comprendere e da utilizzare. Potremmo dire che le ambiguità e le percezioni altalenanti che pur rappresentano, nello sviluppo normale, un passaggio fondamentale nella costruzione del Sé, diventano particolarmente sollecitate quando il corpo, invece di essere luogo di sensazioni positive in quantità sufficiente da garantire le basi del "ben-essere", è il luogo del danno, della funzione alterata, della diversità. Un corpo che vive in modo amplificato il divario tra ciò che sente e ciò che riesce a decifrare, modificare, esprimere.
Diventa più vivida la difficoltà di coniugare il gesto con il "sentire", la motricità con le emozioni: una difficoltà di integrazione che non riguarda solo il piano motorio, ma anche il piano del Sé, dell’identità e della sua percezione soggettiva. Lo stato emotivo che si può produrre è uno stato più o meno forte di angoscia. All’angoscia primaria (Winnicott) di cadere-precipitare, disperdersi nel vuoto, normalmente tamponata dalla vicinanza corporea ed emotiva dell’adulto che si prende cura del bambino, si somma l’impossibilità di accedere a una competenza che via via integri in modo compiuto le esperienze sensoriali afferenti al bambino,le sue risposte attraverso una motricità adeguata e il contributo emotivo e relazionale che a queste esperienze fa da sfondo.

Il rapporto con il corpo

Per ricostruire: "Il vissuto delle persone disabili": è necessario guardarsi da ciò che può dare l’illusione che ci sia una descrizione di tali vissuti a partire dalle diverse patologie e che questo offra certezze utili.
Nella stessa misura è necessario non dimenticare che il rapporto col corpo, con le
emozioni e il mondo degli affetti, con la sessualità e i suoi molteplici significati sono attraversati dalla realtà che la presenza di un deficit rappresenta.
Queste due dimensioni sono chiamate di volta in volta trovare una loro area di influenza reciproca che è in definitiva la storia di ciasuna persona; solo considerandole entrambe forse non si fa torto al desiderio di comprendere e non si cade nella negazione della specificità che il deficit attiva nella costruzione dell’identità della persona disabile.
La sessualità favorisce una riflessione sul senso del piacere e, all’opposto sul confronto con il dolore; sulla costruzione della identità e inevitabilmente sugli ostacoli che questo processo può incontrare; sulla vitalità o la patologia delle relazioni; sul senso dello sviluppo e la prospettiva di un futuro possibile o viceversa sull’impossibilità di proiettarsi nel tempo, immaginando una realtà che valga la pena di essere vissuta, nonostante la patologia; su come e se possono convivere la creatività che un percorso riabilitativo sufficientemente rispettoso può avviare e la sofferenza e il senso di impotenza vissuto attraverso il corpo, le emozioni, i processi cognitivi di chi vive sulla propria pelle la presenza di un danno permanente.
La sessualità quindi per quegli aspetti che evocano il piacere di esserci e quindi la vita, con gli intrecci costruttivi ma anche dolorosi che la caratterizzano e che la presenza di una condizione patologica rende meno nascosti.
Tra i compiti di sviluppo di un bambino c’è l’immenso impegno di compiere un fruttuoso scambio tra le aree della corporeità, del mondo emotivo e delle acquisizioni cognitive. L’influenza della cura con cui questo bambino è accudito sappiamo essere fondamentale per la buona riuscita di questo percorso; la presenza di una difficoltà non può non implicare un effetto su tutta la complessità percettiva, emozionale e motivazionale, del bambino, ma anche della madre, del padre, delle figure più prossime da cui quel bambino dipende.
La motricità, le capacità intellettive, le implicazioni psicologiche sono entità solo artificiosamente distinte, e questo è tanto più vero quanto più si vada a ritroso nel processo di crescita; non solo le ridotte capcità che la patologia determina influenzano lo sviluppo, ma anche le rappresentazioni che di tale alterazione hanno la madre, il padre, la complessità dei legami familiari, gli adulti che nel tempo si avvicendano nella presa in carico di quel bambino.

Lavoro di cura, corpo e sessualità

In ogni relazione il corpo è il linguaggio più tipico e immediato, è fonte di perenne comunicazione, le sensazioni che provoca nell’altro sono un invito o un ostacolo alla prosecuzione del rapporto. Il corpo parla attraverso i suoi odori, i suoi movimenti, la sua forma, il suo abbigliamento, tutti questi segnali spesso sono inconsapevoli ma fondanti l’ interazione tra persone. Ogni persona presentando se stessa, presenta contemporaneamente il suo modo di considerare l’ altro. Nella comunicazione tra corpi si può instaurare più o meno un ritmo, un passo di danza: tanto più c’ è empatia, comprensione reciproca, tanto più c’ è ritmo, capacità di aspettare, di sincronizzarsi, di compiere movimenti non intrusivi ma complementari, di affidarsi e fidarsi reciprocamente.
Una riflessione significativa nel lavoro di cura riguarda quindi il corpo come sostanza della relazione, come dimensione primaria della persona, del suo essere.
Nelle relazioni di cura c’ è sempre un aspetto corporeo, che pur essendo a volte massiccio è spesso pieno di invisibilità; quindi gli viene attribuita ad esso poca importanza, mentre al contrario il contatto e l’intimità tra i corpi dell’operatore e dell’utente mette in luce una reciprocità e complessità di emozioni molto diverse a volte legati al maternage, a volte al piacere, all’ imbarazzo, alla vergogna. Ogni corpo è un corpo sessuato, e quindi l’incontro tra corpi, all’interno della relazione di cura, è anche un incontro tra corpi sessuati.
Approfondire il tema della sessualità significa lavorare sulle emozioni tra operatore e persona disabile, anche attraverso la sostanza stessa di queste emozioni, cioè il corpo.
Spesso il corpo della persona disabile viene percepito da chi lo cura in maniera fissa, nella staticità, sembra un corpo che non matura, che forse non diventa mai adulto (e quindi esplicitamente sessuale) in quanto continua ad avere delle esigenze primordiali di cura (essere lavato, vestito, imboccato) che lo avvicinano di più al corpo di un neonato che al corpo di un uomo o di una donna.
Il rapporto tra corpo e sessualità può ampliare la riflessione rispetto ad un tema quale quello dell’identità: l’identità corporea determina anche la maturazione dell’identità sessuale e questo anche in presenza di un deficit. Esiste uno stretto legame tra percezioni provenienti dal corpo, sentimenti che ne derivano e la costante evoluzione dello sviluppo psicosessuale.
In questa prospettiva si inserisce la necessità di comprendere e approfondire la consapevolezza che occuparsi della sessualità dell’altro è anche occuparsi del corpo dell’altro attraverso il proprio corpo.Il coinvolgimento nella relazione di cura dell’ emotività sono spesso fortemente sollecitati dal contatto corporeo e dalla sessualità.
Nell’esercitare il lavoro di cura in qualche modo si fanno i conti con le poprie modalità e capacità di stare in relazione, di includersi nelle diade, di non separare rigidamente se stessi da ciò che si fa. Ci si trova di fronte alla necessità di integrare la dimensione affettiva con le competenze lavorative.
La fatica e il travaglio di trovare un equilibrio tra le diverse componenti può evocare immagini di inadeguatezza professionale, in ultimo fragilità personale e risultare quasi incompatibile con le competenze del lavoro.
Alcuni compiti o ruoli che hanno a che vedere con l’assistenza o il contatto corporeo, evocano paure antiche di essere troppo "materni", "vicini", di essere svalutati. Allora si ricorre ad una tecnica asettica, adottata spesso come antidoto per avere una distanza emotiva che possa mettere al riparo da tutto ciò.
Il contatto con un corpo portatore di rappresentazioni che evocano anche la diversità provoca un confronto inevitabile con il proprio corpo e con il rapporto che esso sottende con questi argomenti.
Chi fa una professione che prevede un quotidiano contatto con la sofferenza, corre il rischio di trovarsi nella condizione emotiva di non legittimare per se stesso alcun aspetto vitale, giocoso, soddisfacente del proprio essere. Quasi una sorta di lutto che produce una miriade di piccole o grandi situazioni: non parlare della propria vita, dei propri affetti, dei cambiamenti e progetti o anche vestirsi in modo dimesso con la scusa delle comodità e cosi via.
Se però non ci si legittima a essere e ad avere cose che potenzialmente possono essere invidiate (salute, cura del proprio corpo, sessualità), se non si tollera l’eventualità dell’attacco invidioso , può accadere che ci si ritrovi a togliersi di dosso tutto quello che può caratterizzare la propria persona e svuotare quindi la relazione.
Così facendo chi cura gli altri può ridursi ad una modalità di porsi timorosa e scostante condannando se stesso ad un aspetto mesto e schivo, nel tentativo onnipotente e fallimentare di controllare l’altro, prevedendone e neutralizzandone le reazioni. Per contro
la corporeità nel rapporto tra chi cura e chi è bisognoso può implicare situazioni molto complesse e coinvolgenti e suscitare la gelosia, la rabbia, l’invidia di chi ne è escluso (altri operatori, utenti, familiari). A volte il "privilegio" della relazione a due si accompagna al piacere del contatto, e a promuovere reciproche emozioni.
L’intimità mette in luce una reciprocità di emozioni a volte legate al maternage, a volte legate a provare imbarazzo, vergogna e anche senso di disgusto e desiderio di fuga.
Il lavoro di cura "corporeo", pur essendo così presente, è spesso caricato di una grande invisibilità; viene ad esso attribuita un’importanza tanto scontata da diventare irrilevante e questo indirettamente forse permette di impoverire la capacità di riflettere sulle eccessive identificazioni tra operatori e utenti o, viceversa sul bisogno di affermare e confermare le differenze.
Spesso risulta difficile parlare della fisicità delle persone a cui prestiamo aiuto e dell’aspetto corporeo del rapporto. E’ possibile vivere emozioni intense ma queste sono spesso difficilmente verbalizzabili. L’utente, sporco o pulito, tenero o aggressivo, sorprende, provoca, disorienta. Costringe chi si occupa di lui a considerare sensazioni molto diverse e direttamente legate all’affettività, l’aggressività, la sessualità. Non è facile soffermarsi con il pensiero e comunicare agli altri il forte imbarazzo provato in certi momenti di intimità, le inquietanti emozioni suscitate dal contatto tra corpi e che quindi agiscono in tema di sessualità e affettività.
Per riuscire a rendere partecipi altri della propria esperienza, occorre riconoscere innanzitutto a se stessi il proprio sconcerto, la propria istintiva reazione, sia essa di ansia, di piacere, di disgusto o attrazione.
D’altro canto, assumendosi la responsabilità di dire a qualcun’ altro la propria emozione si fa strada la possibilità di elaborarla meglio interiormente.
Indubbiamente l’incontro con chi vive sulla propria pelle la presenza visibile della diversità o della mancanza di integrità, produce un contatto diretto con la vitalità, la caparbietà dell’esserci, con l’imposizione del proprio bisogno.
Tutto questo include anche il confronto con la finitezza, il limite e la loro sopportabilità.

Così dicono le parole di un passo letterario:
"Ecco la mia storia, in parole semplici. Ti Prego di non chiedermela più. Te l’ho detta per darti un avvertimento. Le persone daneggiate sono pericolose. Sanno di poter sopravvivere."
[…]"Lo so. Non è un tesoro da custodire gelosamente. Solo una storia che non desidero raccontare, di un ragazzo che non hai mai conosciuto."
"E questo ti rende pericolosa?"
"Tutte le persone danneggiate sono pericolose. È la sopravvivenza che le rende tali."
"Perché?"
"Perché non hanno pietà. Sanno che gli altri possono sopravvivere, come loro."
[tratto da Hurt, Il danno, I Canguri/Feltrinelli, Milano, 1991, p. 36]

L’importanza del corpo

Non è possibile parlare di sessualità prescindendo dal corpo che la esprime in quanto essa comprende diversi piaceri che partono o passano dal corpo e che si strutturano all’interno delle relazioni affettive. La sessualità non si restringe solo al piacere genitale ma a tutta una serie di piaceri, affetti, desideri e pensieri che si sviluppano dall’ infanzia e lungo tutto l’ arco della vita. Secondo Galimberti "il corpo è lo sfondo di tutti gli eventi psichici".
Il fondamento della nostra identità personale sta nel vissuto del nostro corpo , infatti ciascuno vive e sente il proprio fisico e le sue funzioni come espressione di sé e come possibilità di relazione con gli altri e con gli oggetti. Il corpo è un modo di essere nel mondo, è un mezzo di espressione di tutta la persona, è una manifestazione concreta dell’ esistere. La presenza del corpo dà la coscienza di esistere: di sentirsi vivi, parte dell’ universo.
Il corpo è anche il primo e principale strumento di relazione, vi è una ininterrotta interazione tra esso e l’ ambiente. Da questa continua interazione si costruisce l’ immagine corporea, cioè la rappresentazione di se stessi come corpo sessuato in mezzo ad altri corpi sessuati. E’ una costruzione che si realizza gradualmente sia attraverso lo sviluppo fisico ( i cambiamenti fisiologici, sensoriali, motori) sia attraverso le modificazioni ambientali e il modo in cui gli altri vedono, manipolano, considerano il nostro corpo.
La nostra immagine corporea ruota attorno ad un nucleo costante : io sono io nel tempo nonostante i cambiamenti fisici che possono avvenire ; contemporaneamente vi è anche una prospettiva evolutiva: il corpo matura, si modifica, da corpo di bambino diventa corpo di adolescente, poi di adulto, poi di anziano. La storia del corpo è importante perché è la sintesi della propria storia, qualcosa di sentito e di soggettivo legato ai cambiamenti che il fisico mostra nel corso del tempo assumendo sempre nuovi significati; attraverso la sua presenza permette il rapporto con la realtà e definisce la visione del mondo distinguendo soggetto e oggetto, interiorità ed esteriorità, conscio e inconscio.
Il corpo può evocare l’incontrollabile, fin dal primo momento dell’esistere, per i suoi bisogni primari. E’ esperienza comune come esista l’impossibilità di essere padroni totalmente del proprio corpo e quindi il senso di vuoto che da questa può derivare. Il corpo è il luogo dei desideri primari e dei ritmi e anche la prima espressione del proprio volere. Esso è infatti il luogo delle nostre origini e del manifestarsi delle emozioni anche contrastanti. La sua rappresentazione evoca ciò che non si può nascondere, sia negli aspetti che ci rendono simili agli altri, sia per quelle parti che sottolineano le diversità. Il corpo è produttore di cose che di volta in volta possono assumere una valenza positiva o negativa. E’ il luogo in cui si evidenzia l’affermazione di sé, o viceversa ciò che può evocare dipendenza e debolezza.

Un’antologia letteraria

Rompere il silenzio nella ricerca di una propria identità e di una propria storia è intraprendere una strada in cui non vi sono facili e sicure risposte, in cui la comunicazione, legata ad

un grosso groviglio di dolore, di angoscia e di vissuto personale, a fatica trova parole adeguate.
Le parole di Margherite Duras sembrano dare voce a questi difficili interrogativi che forse desideriamo rimangano tali. "Ma quel giorno non sono le scarpe la nota insolita, inaudita nell’abbigliamento della ragazza. Quel giorno porta in testa un cappello da uomo con la tesa piatta, un feltro morbido color rosa, con un largo nastro nero. A creare l’ambiguità dell’immagine è quel cappello. Come fosse capitato in mio possesso l’ho dimenticato. Non vedo chi potrebbe avermelo dato. Credo che me l’abbia comprato mia madre e su mia richiesta. Unica certezza: è un saldo di saldi. Come spiegare quell’acquisto? Nessuna donna, nessuna ragazza portava cappelli da uomo nella colonia, a quei tempi. Neppure le indigene. Ecco come deve essere successo. Mi sono provata quel cappello, tanto per ridere, mi sono guardata nello specchio del negozio e ho visto, sotto il cappello maschile, la magrezza ingrata della mia persona, difetto dell’età, diventare un’altra cosa. Ho smesso di essere un dato grossolano e fatale della natura. E’ diventato l’opposto, una scelta che contrastava la natura, una scelta dello spirito.
Improvvisamente è diventata una cosa voluta. Mi vedo un’altra, come sarebbe vista un’altra, al di fuori, a disposizione di tutti, di tutti gli sguardi, immessa nella circolazione delle città, delle strade, del piacere. Prendo il cappello che, da solo, mi trasforma tutta, non lo abbandono più. Per le scarpe deve essere successa più o meno la stessa cosa, ma dopo il cappello. Lo contraddicono come il cappello contraddice la figura gracile, quindi fanno per me. Anche quelle non le abbandono più, vado ovunque con quelle scarpe, quel cappello, fuori con ogni tempo, in tutte le occasioni, in città". (*)
"Una scelta che contrastava la natura…", la natura che contrasta una scelta, tante scelte, numerosissime scelte. La diversità da nascondere, da comprimere, da camuffare contrapposta alla diversità voluta, ostentata, fatta bandiera. Infine, ultima in ordine di apparizione, la diversità di vivere "… a disposizione di tutti, di tutti gli sguardi, immessa nella circolazione delle strade, della città, del piacere".
La diversità che sporca e che purifica, che rompe l’integrità (ma questa non esisterebbe se non integrando i contrasti); che si ritrova in una ragazza vestita con un cappello maschile che fa parlare e scrivere di sé, così, affermandosi e, nella stessa misura, negandosi. La diversità che c’è e non c’è e che all’improvviso si ripropone a ciascuno, ridente o con un nodo in gola. E il cappello, le scarpe, il desiderio? E’ la donna, l’adolescente, la ragazza bianca o quella col cappello rosa a tesa larga e con un nastro nero? Cosa di tutto questo rappresenta mille ugualissime, differenti similitudini?

da Hp: Prima di tutto una donna
Un’antologia di brani letterari può rappresentare un’altra realtà attraverso cui confrontare il pensiero e le domande che il corpo, la persona, le identità possono far scaturire.
Nessuna possibile semplificazione; molte individualità a cui prestare attenzione. Le scelte possono essere infinite. Questi brani solo perché evocano un’immagine o un frammento di ricordo, possono essere vicini a un aspetto significativo oppure non sfiorare nemmeno la propria verità.

(*) Il brano è tratto da "L’amante" di M. Duras, Universale Economica Feltrinelli

Le separazioni violente

Il momento della separazione dal proprio ambiente familiare e dall’inserimento in un luogo estraneo raccontato da Mario Barbon nel capitolo" Rimini" (tratto dal suo libro Non ho rincorso le farfalle) viene accostato ad alcuni brani tratti da J. Amery, Intellettuali ad Ausschwitz.
Sono due voci che pur nella loro diversità testimoniamo la sofferenza e il dramma di chi è separato per forza e con forza da ciò che ama e che quindi è familiare, per trovarsi gettato in un mondo in cui il sentimento di estraneità sottende ogni attimo e gesto della vita quotidiana.

Mario Barbon

"Il mio nuovo istituto si trovava a Rimini e secondo l’assistente sociale di Treviso si sarebbe trattato di un piccolo paradiso, ma come si sa le assistenti sociali sono sempre portate a fare bei castelli. Io non ero tanto contento di riprendere il mio peregrinare. Avevo avuto la fortuna di fare l’esperienza di Firenze, che ricordavo con un po’ di nostalgia; comunque, ormai che il cambiamento era deciso, speravo di trovare nel nuovo istituto almeno un po’ della comprensione che avevo trovato a Firenze.
Il ricovero al "Sol et Salus" avvenne ai primi di febbraio. E’ inutile dire che in me era sopraggiunta l’angoscia che da parecchio tempo non provavo, eppure c’era una certa una certa disponibilità, almeno apparente a partire…sotto sotto però non l’avrei mai desiderato. Appena pa’ mi prese in braccio per portarmi a prendere il treno scoppiai a piangere, tiravo calci a destra e a sinistra, e pensavo: ma perché volete sempre aver ragione voi?"

Mario Barbon

"Ma forse in quel momento nessuno pretendeva di aver ragione. Il viaggio fa abbastanza tranquillo; la giornata era tiepida e quando arrivai a Rimini c’era il sole. Dentro di me, però, desideravo che quel viaggio non finisse mai. Usciti dalla stazione prendemmo l’autobus che, guarda caso, si ferma a duecento metri dall’istituto. Questo si trova proprio in riva al mare; come aspetto, visto dall’esterno non era male, ma bisognava vedere se anche l’interno vi corrispondeva. Quando entrai sentii in me l’angoscia. Sbrigate le solite formalità, una signorina ci accompagnò al reparto, che era staccato dalla struttura principale. Percorso un lungo corridoio, ci trovammo in una specie di labirinto di stanze."

Jean Amery

"Seguendo i sentieri dei contrabbandieri attraversavamo la Eifel notturna e invernale, in direzione di un paese, il Belgio, i cui doganieri e gendarmi non ci avrebbero consentito di passare il confine legalmente: eravamo privi di passaporto e visto, privi di un’identità civile giuridicamente valida, eravamo profughi. Fu un lungo cammino nella notte."

Mario Barbon

"Ma forse in quel momento nessuno pretendeva di aver ragione. Il viaggio fa abbastanza tranquillo; la giornata era tiepida e quando arrivai a Rimini c’era il sole. Dentro di me, però, desideravo che quel viaggio non finisse mai. Usciti dalla stazione prendemmo l’autobus che, guarda caso, si ferma a duecento metri dall’istituto. Questo si trova proprio in riva al mare; come aspetto, visto dall’esterno non era male, ma bisognava vedere se anche l’interno vi corrispondeva. Quando entrai sentii in me l’angoscia. Sbrigate le solite formalità, una signorina ci accompagnò al reparto, che era staccato dalla struttura principale. Percorso un lungo corridoio, ci trovammo in una specie di labirinto di stanze."

Jean Amery

"Felicemente giunti ad Anversa e confermato il nostro arrivo con un cablogramma ai parenti rimasti a casa, cambiammo il denaro in nostro possesso, complessivamente quindici marchi e cinquanta pfenning, se ben ricordo. Questo era il patrimonio con il quale dovevamo iniziare, come si dice, una nuova vita. La vecchia ci aveva abbandonati. Per sempre? Per sempre. Ma l’ho capito solo adesso, dopo quasi ventisette anni."

Mario Barbon

"Qui purtroppo ho visto uno spettacolo, se così si può chiamare, che non dimenticherò mai. C’erano bambini, seduti a dei tavoli piccoli, che avrebbero dovuto mangiare, ma da soli non ci riuscivano e si sporcavano tutti, sporcando anche il pavimento, sicché era uno spettacolo proprio brutto. E c’era una signorina, alta, scura di capelli, con un naso che assomigliava a un becco d’aquila: questa sarebbe stata la Piter, che come vedeva quei bambinetti sporchi non esitava a batterli senza riguardo. Quando vidi tutto questo mi misi a piangere, mentre la signorina cercava di calmarmi. "Portami a casa, voglio venire a casa!" cominciai a gridare alla mamma, finché la signorina, sempre la stessa,a un certo punto mi diede un bicchier d’acqua, ed io la bevvi perché avevo sete, solo che in quel bicchiere c’era una dose di sonnifero. Poco dopo infatti mi è venuto sonno e allora ho capito lo scherzo che mi aveva fatto. La mamma ebbe appena il tempo di salutarmi che io mi addormentai".

Jean Amery

"Con qualche banconota e qualche moneta straniera affrontavamo l’esilio: che desolazione! Chi non lo sapeva, apprese nella sua vita quotidiana di profugo che l’esilio trova la migliore definizione proprio nella parola Elend (desolazione) che etimologicamente ha in sé il concetto di messa al bando."

Mario Barbon

"Quando mi svegliai mi sembrò di essere a casa, ma ben presto mi ricordai dove mi trovavo. La camera era piccola, a due letti, e c’era un altro ragazzo, forse caduto anche lui nella trappola della signorina. Da parte mia non ci fu neppure il tentativo di avviare un dialogo, avevo ben altri pensieri. Pensavo a casa mia cercando di immaginare che cosa stessero facendo in quel momento le mie sorelle; e papà e mamma, dove potevano essere? Non c’era in me nostalgia di casa, era subentrata una certa indifferenza e anzi mi sembrava più che normale di trovarmi in quel posto dove non conoscevo nessuno al di fuori di una signorina che sembrava piuttosto antipatica"

Jean Amery

"Che cos’era , cos’è la nostalgia di casa provata da coloro che dal Terzo Reich erano stati cacciati allo stesso tempo a causa delle loro opinioni e del loro albero genealogico? Impiego malvolentieri in questo contesto un termine oggi non più di moda, ma forse non ne esiste uno più adatto: la mia, la nostra nostalgia di casa era una forma di autoestraniazione. Il passato era di colpo sepolto, e non si sapeva più chi si era."

Mario Barbon

"Nei primi giorni mi lasciarono in pace, tanto per darmi il modo di ambientarmi, e così mi mettevano in un angolo del soggiorno da dove potevo guardare tutti quelli che passavano. Vidi anche la signorina Piter, che molto gentilmente mi chiese come andava. Ricordo che rimasi colpito dalle grida che venivano dalla sala di fisioterapia e mi chiedevo a che cosa erano dovute. Purtroppo di lì a qualche giorno avrei dovuto "cantare" anch’io."

Jean Amery

"Volti, gesti, abiti, case, parole ( anche quando più e meno le capivo) erano realtà sensoriali, ma non segni decifrabili. Quel mondo per me era privo di ordine. Il sorriso del poliziotto che controllava i nostri documenti era benevolo, indifferente o sarcastico? La sua voce profonda tradiva astio o esprimeva? Non lo sapevo.
Barcollavo attraverso questo mondo i cui segni erano per me indecifrabili quanto i caratteri etruschi."

Mario Barbon

"Ben presto entrai nella stanza cosiddetta di fisioterapia o per meglio dire "stanza di tortura". La mia fisioterapista era la signorina Piter, che secondo le sue parole mi avrebbe rimesso in piedi. Sta di fatto che la mia volontà di migliorare, se prima era mediocre, discese a zero. Nei primi tempi la ginnastica era di rilassamento e fin qui tutto sarebbe andato bene, ma un giorno la signorina Piter, senza alzare la voce, come era solita fare con chi secondo lei non sopportava abbastanza, mi disse: "Oggi ti metterò le docce". In un primo momento la mia fantasia si era divertita a immaginare queste docce come quelle di un bagno, ma più tardi capii che si trattava di qualcosa di rigido e di doloroso. Le docce sono una forma di cartone rigido che segue generalmente la sagoma della gamba: adesso la signorina Piter doveva drizzare le mie gambe e perciò mi metteva le docce. Si dà il caso però che generalmente chi è colpito da paralisi spastica abbia i tendini e le corde delle gambe e delle braccia che si ritirano e si irrigidiscono. Potete quindi immaginare che cosa succede quando si tenta di raddrizzare questi arti. Comunque la signorina Piter tentò di tranquillizzarmi dicendo: "Guarda Mario, oggi le tieni 15 minuti, domai mezz’ora, fino a quando dovrai portarle tutta la notte". Non avevo dato troppo peso a quelle parole anche perché dovevo ancora "provare", però adesso posso dire da che cosa erano provocate le grida che avevo sentito fin dal primo giorno.
Cominciai così a capire che cosa voleva dire portare quegli arnesi. E come se non bastasse la tortura fisica, c’era anche quella morale, poiché quando questa benedetta signorina si metteva sulle mie ginocchia, provocando ovviamente dei dolori, io non dovevo gridare, né stringere i denti per non gridare, ma semplicemente dovevo far finta di essere al cinema o alla spiaggia. E se qualche volta mi scappava un "aio" la signorina Piter mi sgridava dicendo: "Ma no che non ti fa male, è solo una tua impressione!". A queste parole la mia mente si divertiva a immaginare forme di tortura arcaiche come il tiro con i cavalli e la signorina Piter legata ad un albero…
Avrei voluto farle sentire lo stesso dolore che mi provocava prendendomi la gamba e tirandola fin quasi a spezzarla. Direte che la mia testa era soltanto "confusa" a causa de dolore, però possono dire con sincerità che in tutto il periodo trascorso in quell’istituto ho sempre desiderato di torturare, seppure con la fantasia, qualcuno, e non ero l’ unico che nutrisse di questi pensieri. Fantasie del genere erano all’ ordine del giorno per tutti i miei compagni, che si divertivano ad immaginare quale avrebbe potuto essere il supplizio migliore per questa o per quella persona. La nostra consolazione, se tale si può definire era il cinema: ricordo che aspettavamo con tale ansietà quel giorno che tutto il resto era relativo"

Jean Amery

"Il potere del torturatore sotto il quale geme il torturato, non è invece altro che l’assoluto trionfo del sopravvivente sull’individuo che, escluso dal mondo, è spinto verso la sofferenza e la morte.
Stupore per l’esistenza dell’altro che nella tortura si impone senza limiti e stupore per ciò che si può diventare: carne e morte. Il torturato non cesserà mai più di meravigliarsi che tutto ciò che, a seconda delle inclinazioni, si può definire la propria anima, il proprio spirito, la propria coscienza o la propria identità, risulta annientato quando nelle articolazioni delle spalle tutto si schianta e frantuma. Che la vita sia fragile, questa ovvia verità l’ha sempre saputa, e anche che sia possibile metterle fine "con un semplice ago", come ha scritto Shakespeare. Ma solo attraverso la tortura ha appreso come sia possibile rendere un essere umano unicamente carne, e trasformarlo così, mentre è ancora in vita, in una preda della morte.
Chi ha subito la tortura non può più sentire suo il mondo. L’onta dell’annientamento non può essere cancellata. La fiducia nel mondo crollata in parte con la prima percossa, ma definitivamente con la tortura, non può essere riconquistata. Nel torturato si accumula lo sgomento di avere vissuto i propri simili come avversi: da questa posizione nessuno riesce a scrutare verso un mondo in cui regni il principio della speranza. Chi è stato martoriato è consegnato inerme all’angoscia. Sarà essa in futuro a comandare su di lui.

L’angoscia: e in aggiunta tutto ciò che abitualmente chiamiamo i risentimenti.
Anch’essi restano e hanno scarse possibilità di concentrarsi in una spumeggiante e purificante sete di vendetta".

Sfide e corpi

Il corpo evoca l’incontrollabile dal primo momento dell’esistere, l’impossibilità di essere padroni totalmente.
Il corpo dialoga con il senso del vuoto e dell’appartenenza.
Il corpo è il luogo dei primi desideri e il luogo dei ritmi.
Il corpo è la prima espressione del proprio volere.
Il corpo è la nostra origine, è la dove si manifestano le emozioni, è ciò che non si nasconde.
Il corpo è ciò che materializza le maggiori similitudini e le maggiori diversità.
Il corpo dà sostanza alle cose più sublimi e a quelle più sporche.
Il corpo è il luogo dei silenzi e al contempo spazio in cui osare, fare rumore.
IL corpo veicola messaggi che mostrano aspetti di noi che non possono essere controllati dalla volontà.
Misurarsi a partire dal corpo muove rappresentazioni che richiamano il caos. La sessualità non ha un territorio se non quello multiforme dei corpi.
Quale di questi aspetti appartiene a una riflessione sulla sessualità?
Forse il punto di partenza per occuparsi dei bisogni legati alla sessualità e alla disabilità riguarda l’ammissione che è molto improbabile costruire confini netti che separino ciò che in questo elenco appartiene a tutti, da ciò che appartiene a chi è disabile, ammalato, diverso.
Un interrogativo potrebbe essere utilmente considerato per avvicinare e comprendere ciò che attiene alla sessualità , quando è declinata a partire dalla disabilità: "cosa sente un corpo quando è sottomesso al corpo di un altro? Come si costruisce una percezione di sé sufficientemente integra se il primo livello corporeo è minacciato?

Il corpo, l’identità, le difese

L’immmagine corporea e l’immagine di sé sono chiamate a fare i conti con gli aspetti deficitari legati alla disabilità; si intrecciano competenze incomplete e "diverse" con la frustrazione che ad esse si accompagna. La rappresentazione di se stessi esprime spesso il senso di frattura, di ferita inferta al sé che di volta in volta assume forme e significati diversi, legati alle storie personali e alle cause del deficit.
Si unisce spesso all’idea di una unità spezzata un vissuto soggettivo di rifiuto, di esclusione e il corpo, o la persona tutta per le sue incapacità, rappresenta il luogo di sentimenti carichi di ambivalenza.
Le ragioni di questa condizione tanto ambigua quanto deprivante si rintracciano in una consapevolezza molto diversa da persona a persona, nei riguardi della diversità che l’handicap esprime, rappresentando una parte di sé che non corrisponde al desiderio comune d integrità, che altera le funzioni (fisiche e/o mentali) che influenza le relazioni e i legami.
Il corpo in particolare può assumere su di sé l’esplicita espressione di alcuni aspetti più ampiamente connessi con la doppia valenza di cui sopra.
Si può creare, nel vissuto soggettivo di un bambino hadicappato e nei sentimenti di chi sicura di lui, la percezione di un corpo svilito, svuotato di significati, cancellato perché luogo nel quale si concretizza il deficit ( non sapersi muovere,non saper produrre azioni o comportamenti adeguati e intelligenti, non saper concepire e utilizzare emozioni e sentimenti sufficienti a intessere relazioni…)
Al contempo il corpo, per le medesime ragioni, può essere iper-investito di cure, interventi, manipolazioni e indagini.
Il corpo può essere oggetto di evitamento, perché diverso, incapace, spaicevole tanto da rasentare l’invisibilità unitamente alla condizione di corpo inevitabile perché dà spessore e sostanzialità al limite, all’impotenza, al bisogno e alla dipendenza.
Gli elementi fin qui considerati desiderano sottolineare come esistono aree molto ampie di condivisibilità e coincidenza di sensazioni emotive nel panorama dei diversi tipi di deficit, senza che sia utilmente possibile separare completamente il mondo dei deficit fisici e motori, da quello dei disturbi intellettivi e psichici.
Per portare un esempio la scissione mente-corpo è inevitabilmente una modalità difensiva che riguarda sia la persona disabile, ma anche chi si occupa di tale persona; è un meccanismo, spesso inconsapevole, che l’operatore mette in atto a salvaguardia di una difficile identificazione. Ci si trova di fronte ad una modalità che opera come se l’interlocutore, con questa scissione, cercasse di riconoscersi solo attraverso la parte "sana" della persona ammalata, sofferente, disabile.
Questo meccanismo è facilmente riconoscibile se riferito ad una persona con una patologia o una disabilità fisica e si manifesta con una sopravalutazione e idealizzazione delle capacità intellettive, razionali ed emozionali, spesso cancellando il corpo, i suoi segnali, le sue implicazioni relazionali, affettive e sessuali.
Se il danno riguarda la componente mentale e psichica, spesso si realizza la stessa scissione, scotomizzando gli aspetti deficitari e quindi difficili da comprendere.
In questo senso riguardo gli aspetti che richiamano il tema della sessualità, si creano forti incomprensioni da parte di familiari e operatori. Le interpretazioni e le attribuzioni di significato riguardo ad alcuni comportamenti sessuali meno inibiti o che non si contengono entro modalità ed espressioni comunemente condivise, sono spesso mantenute molto distanti da aspetti e vissuti di "normalità". Tutto appare come se le emozioni, il desiderio, la ricerca di piacere, l’appagamento a partire dal corpo non appartenessero ad una matrice comune, ma dovesse essere inventato un nuovo codice per decifrare queste componenti.
Così ad esempio la masturbazione, l’esercitazione di un eccitamento o di un sentimento non vengono paragonati a un "sentire" condiviso, partendo da significati riconoscibili e presenti con o senza la presenza di un deficit o un disagio psichico.
Questa modalità inconscia di prendere le distanze, di separare, evoca inevitabilmente un’interpretazione che ricerca il controllo di ciò che per gli altri versi proprio la sessualità manifesta come imprevedibile.
Mai come nel campo dell’handicap si è manifestato il bisogno di affermare che la sessualità non è solo cosa che appartiene al terreno della genitalità. Forte è il ricorso ad una lettura delle manifestazioni anche sessuali delle persone disabili come "puri" istinti dettati da tempeste ormonali o, all’opposto, espressione di affetti esclusivamente platonici e di una sublimazione tanto desiderata quanto totalizzante. Proprio in quanto posizioni estreme sono significative e illuminanti quando possono mostrare, magari con un percorso di riflessione, la loro natura spesso difensiva.
Dividere salomodicamente i tipi di deficit e le relative condotte e necessità sessuali, forse esprime questa difficoltà di cogliere, nella relazione di cura, le analogie e le identificazioni possibili; se riconosciute, le medesime realtà diventano la prima concreta possibilità di scambio e quindi di crescita. La sessualità, come l’acqua, non può essere attraversata senza essere disposti a sentirsi immersi nelle sue peculiarità.

Il piacere attivo, il piacere di fare

Il piacere attivo, tappa dello sviluppo che prepara ad una parziale uscita dalla dipendenza , è rappresentabile come il piacere del corpo che può.
A livello relazionale si traduce anche nel piacere di fare piacere all’altro, prima di tutto attraverso il corpo e le sue funzioni (controllo degli sfinteri, il riconoscimento delle regole, dei ritmi della vita quotidiana, e così via).
E’ qui che si struttura anche il piacere di fare da soli e quindi i nuovi rapporti con l’esterno. Tipiche le crisi di rabbia del bambino quando si trova di fronte ad un limite; al bambino handicappato è paradossalmente non concessa questa possibilità, sia perché il limite viene negato da chi gli sta attorno, sia perché egli stesso non ha potuto sperimentare pienamente il piacere del corpo che può.
In questa fase si sviluppano due importanti aspetti emotivi e relazionali: il dubbio e la vergogna. Essi sono legati al timore che il bambino avverte di non essere in grado di controllare completamente il proprio corpo e di ricevere per questo un rimprovero, oltre all’inevitabile frustrazione. Questi aspetti, che strutturano la stima di sé, nel bambino con deficit s’innescano in dinamiche nelle quali già una parte di sé è una parte su cui non può fare affidamento.

I rischi di una sovrapposizione patologica

Dal punto di vista della psicopatologia Romana Negri elenca alcuni profili particolarmente significativi per la loro rintracciabilità nell’esperienza quotidiana di contatto con alcuni bambini o adulti disabili e con il loro modo di interagire.
Il primo profilo evidenzia una sorta di indifferenziazione totale con l’oggetto, cioè con l’altro da sé e con le parti interiorizzate di questo primordiale interscambio. Si trova in persone con un alto grado di disagio che non tollerano contatti diversi da quello cutaneo. Persone con gravi handicap che facilmente cadono in uno stato di grave angoscia, arginabile solo a fatica e con un contenimento fisico nel senso letterale del termine. Questa condizione di incontenibile disperazione può assumere la forma di frequenti atti di auto-aggressività e di distruttività verso di sé o verso l’esterno, spesso inspiegabili rispetto alla ricerca delle cause che hanno scatenato tale disperazione. Essere bloccati, abbracciati, tenuti stretti dall’esterno, è l’unica modalità che può consentire una lenta e faticosa riconquista dello stato precedente, stato spesso caratterizzato da una condizione di chiusura, immobilità o solo ridottissima capacità di comunicazione con la realtà circostante.
E’ importante sottolineare come la difficoltà abbia origine da una impossibilità di una identità separata e come questa possa essere tamponata, nelle sue espressioni di angoscia, proprio a partire dal corpo, dal contatto, dal confine fornito dall’esterno.
Un secondo quadro psicopatologico è caratterizzato dal prevalere di componenti autistiche, da condotte di estraniamento, da un uso degli oggetti come conferma primaria del proprio sentire, e così via. Questo stato di smantellamento del Sé è l’espressione di una incapacità del bambino di unificare e fare proprie le stimolazioni che, a partire dal corpo, dovrebbero via via diventare, nel corso dello sviluppo, percezioni e sensazioni collegate al mondo delle emozioni, del sentire, dell’entrare in relazione.
Il corpo e le sue sensazioni sono paradossalmente utilizzate per mantenere un distacco, un non-contatto tra la stimolazione e il mondo emotivo perché sentite come troppo angoscianti e pericolose; tale mancata coesione del Sé (Gaddini, Bion) rende particolarmente difficile ogni tipo di relazione. L’unico contatto accettato da queste persone è molto spesso quello con oggetti inanimati o dal funzionamento meccanico e la gran parte degli stimoli del proprio corpo e del corpo dell’altro, nelle occasioni di vicinanza e di scambio umano, non evocano condizioni di benessere, calore, piacere, comunicazione e così via.
Un terzo esempio delle conseguenze prodotte da una difficoltà nel processo di separazione e quindi di costruzione di una individualità sufficientemente autonoma, è rappresentato da bambini e adulti con deficit che manifestano comportamenti prevalentemente improntati all’imitazione. Sono persone che ripetono e copiano atteggiamenti e modalità di chi sta loro vicino, senza che questo possa diventare esperienza propria da cui apprendere. Questi bambini non riescono a simbolizzare, cioè a riempire con pensieri, idee, fantasie proprie, lo spazio potenziale (Winnicott) che la separazione e l’alterità evocano e producono; le loro condotte sono di conseguenza soprattutto condotte di tipo adesivo, che riconducono a una condizione di passività nella quale molto difficilmente trova spazio la dimensione creativa dell’agire e dell’essere in relazione in modo attivo e propositivo.
Un’ulteriore modalità patologica di organizzazione del Sé riguarda bambini che prediligono vivere in un mondo fantastico, nel quale vestire i panni degli adulti che si prendono cura di loro: genitori, terapisti della riabilitazione, operatori. Preferire "essere l’altro" diventa l’unica opportunità praticabile in un contesto relazionale nel quale il bambino non ha potuto avvalersi, nei legami affettivi, di un oggetto (relazione-persona) capace di contenere ed elaborare dentro di sé proiezioni dolorose e intollerabili per il mondo emotivo del bambino.
La mancanza di una funzione che possa sostenere, da parte dell’adulto, contenuti emotivi angoscianti in presenza di una malattia o di una menomazione, impedisce al bambino di tollerare a sua volta quelle parti bisognose di aiuto, malate, incapaci e deprivanti. La elevata difficoltà che questi bambini si trovano ad affrontare diventa così la difficoltà di immaginarsi, sentirsi, viversi come persone che includono nella rappresentazione di sè la propria patologia, il proprio svantaggio. Il dolore è negato, la disabilità è separata dalla propria identità, la diversità evitata attraverso il mondo fantastico, illusoriamente chiamato a sostituire un proprio mondo interno e una realtà tanto dolorosa da non trovare cittadinanza in nessuna delle relazioni più prossime al bambino. Tutto questo altera inevitabilmente il processo di crescita e la capacità di apprendere e di mediare con il mondo circostante. Viene impedita l’accettazione della dipendenza e quindi, in definitiva, l’autentico riconoscimento del limite da un lato, e della soggettività dall’altro. In fondo, in un’ottica che si occupa di sviluppo psicosessuale l’altro è "usato" per garantire questa costruzione fantastica proprio perché il bambino non ha potuto godere della capacità dell’adulto di "farsi usare" e quindi essere aiutato a ricollocare dentro di sé anche aspetti della proprio realtà psichica e corporea esperiti come inaccettabili, inadeguati, indegni.
Questa incapacità di riconoscersi bisognosi di aiuto influisce sulla percezione di sé incluso il contatto col sé corporeo e diventa determinante nella costruzione delle diverse modalità relazionali.
Con questi bambini la sensazione più frequente che l’adulto avverte nei loro riguardi oscilla spesso tra due estremi: da un lato ci si può sentire magicamente inglobati nella realtà fantastica nella quale essi si mantengono, in una condizione di legami e vincoli impalpabili in cui "tutto" è possibile; dall’altro lato è altrettanto viva la percezione di inutilità ed autenticità di ciò che si gioca all’interno della relazione intuendo anche la grande vulnerabilità che queste persone nascondono e che rende molto complesso il lavoro di avvicinamento autentico al loro essere più vero, che nasconde l’area di sofferenza impensabile, nel suo significato di non-pensabile.
Alcune tessere del mosaico rappresentato finora si possono raccogliere in tre aree:
– i confini del proprio corpo e i suoi significati
– le sensazioni che hanno origine attraverso il corpo
– gli aspetti comunicativi e relazionali che il corpo riceve e produce nell’incontro con l’altro

I processi psicopatologici delineati mostrano, con diverse gravità, come queste tre aree sono profondamente intrecciate tra loro e come la presenza di un deficit possa intervenire in qualsiasi momento ad interrompere o alterare la necessaria sintonia che queste aree richiedono.

Primavera

Dopo tanto grigio e finestre chiuse e aria viziata oggi è il primo giorno di primavera: il calendario non fa testo, la luce è quella, quello è l’odore.

Sullo sfondo i fiori del mercato sono una macchia accesa di colore: arrivano certo da lontano, da Israele magari o dai mercati dell’Olanda, però sembrano spuntati 11, quello e il loro luogo naturale.
Prende dall’armadio il tailleur blu e la camicia chiara di seta, sopra hanno ancora l’odore della lavanderia. Trasferisce oggetti da una borsa all’altra perchè anche gli accessori siano quelli adatti.
Si trucca a lungo, il fard finge l’abbronzatura e le passeggiate all’aperto, la pelle oggi e forse più luminosa, gli occhi certamente lo sono.
Sul bavero un mazzolino di fiori.
In macchina la luce forte e fredda la abbaglia, strizza un po’ le palpebre ma gli occhiali scuri restano alti sui capelli, nient’altro che un ornamento.
Parcheggia a un centinaio di metri dalla scuola (potrebbe fermarsi davanti al portone, il contrassegno la autorizza a farlo), saluta il vigile urbano che la conosce: oggi anche suo figlio camminerà nella primavera, i loro passi troveranno un accordo, l’aria tiepida sosterrà i suoi movimenti e li renderà più facili.
Aspettando che i bambini escano le solite chiacchiere di madri, progetti di vacanze e incertezze di baby-sitter, tutto è sempre un po’ più complicato per lei ma interviene come tutte, si sente a posto nei capelli e nelle calze a plumetis, è attraente e non le capita spesso di ricordarsene.
I bambini escono fra grida e spintoni: suo figlio come sempre per ultimo, la maestra gli da le braccia e sostiene il suo corpo difficile.
Affaticato dalle scale suo figlio trasferisce tutto il peso su di lei, sorride del suo sorriso storto a sua madre che si è fatta bella, nei suoi occhi c’è una storia lunga e una scintilla di sole.
Sul portone si guarda attorno:
– E la macchina?
Gia il lampo allegro è scomparso, la piazza è per lui un continente lontano: per stanchezza, per vergogna.
Dalla bocca sformata gli scende un filo di saliva, più pesante si attacca a lei, dice:
– Non ci vengo. Portala qui.
Anche la voce viene fuori con sforzo, disarmonica.
La delusione le increspa appena le labbra, gli sta chiedendo una briciola di gioia ma chissà che davvero non sia troppo per lui. Sta per cedere con amarezza quando la madre di un suo compagno – ha un tailleur blu cosi simile a quello di lei – offre la propria disponibilità e un diversivo:
– Andiamo, vi compro il gelato.
II bar è più avanti, a pochi metri dalla macchina. II compagno di scuola e abituato a lui, è attratto dalla primizia forse altrimenti non concessa:
– Dai, sono pochi passi, vieni.
I pochi passi durano tanto, le gambe vanno di qua e di là senza controllo, l”inverno ha lasciato sul selciato una fanghiglia su cui è facile scivolare. Sua madre lo sostiene
e lo guida, la spalla a cui lui si aggrappa è gia tutta sgualcita e fuori assetto.
Nel bar affollato il suo corpo complicato occupa molto spazio, per fortuna c’è un tavolino libero e i due bambini prendono posto: accaldati, eccitati, il lampo di primavera ce l’hanno sulle guance tutti e due.
Mentre lui sta ancora componendosi sulla sedia, con il collo allungato dal desiderio l’altro ha già pronte le sue richieste:
– lo voglio il cono: pistacchio cioccolato e fragola. Per un’occhiata della madre ricorda di essere in certo modo debitore, premuroso chiede al compagno:
– Tu quale vuoi?
– lo uguale, – risponde, la voce è sgraziata e decisa.
– Magari ti faccio fare una coppetta, – propone la madre del compagno, lo sguardo che scivola senza fermarsi sulle sue mani troppo grandi e percorse da spasmi.
Si incupisce, rabbioso si asciuga la saliva che gli bagna il mento, la sua voce è una spada quando ribadisce:
– Voglio il cono.
Le due donne si guardano. Sua madre ha capito e silenziosa annuisce, autorizza; allora l’altra non può che accettare ma è come se facesse le spallucce, ordina i due coni e le sue sopracciglia declinano ogni responsabilità.
I due bambini affrontano il gelato con identica voglia però uno con movimenti goffi e convulsi, è più la parte che si squaglia via che quello che riesce a succhiare.
La cialda è in gran parte sbriciolata, un grumo dolce inesorabilmente scende in giu. Sua madre se ne accorge, cerca parole che non lo feriscano:
– Me lo fai assaggiare? – dice, per mettervi riparo.
Se n’è accorto anche lui, e conosce le sue attenzioni: – No, – risponde, e si affanna con la lingua, con le labbra, con tutta la bocca.
Sua madre non interviene ma non riesce a scostarsi, a lasciarlo davvero solo: tutto il corpo è proteso nell’aiuto che sa di non dovergli dare, lo sostiene con tutto quello che ha dentro, qualcosa che forse può definirsi anima.
L’ansia accentua l’incoerenza dei movimenti e improvvisamente tutto il pistacchio è sulla manica blu del tailleur, lei dice "non fa niente" ma la macchia è vistosa, l’altra ha occhi che significano te Io avevo detto.
I gelati sono finiti, i tovagliolini di carta cancellano le tracce più evidenti.
Camminando storto suo figlio si aggrappa ancora a lei, dice piano e senza coraggio:
– Era buono, mi piacciono i coni. Domani me lo ricompri?
– Sì, – promette lei.
Si stringono le mani: complici, e forti.
Quando salgono in macchina il contrassegno brilla nel sole: sedendosi lei stira con la mano la seta gualcita della camicetta, raddrizza il mazzolino sul bavero. Le calze sono rimaste ben tese.
Fa una carezza a suo figlio, la mano è calda e la guancia intenerita dal sole.
È primavera ancora, sull’asfalto e sui tetti, sui capelli e sulla pelle. È primavera nel cielo e anche – per quanto oscuro possa sembrare – all’inferno.

Tratto da "Manicomio primavera" di Chiara Sereni

Paula

Abbiamo concordato con il neurologo di staccarti dal respiratore per un minuto, Paula, ma non l’abbiamo detto al resto della famiglia perché non si sono ancora ripresi da quel fatidico lunedì in cui sei stata sul punto di andare in un altro mondo. Mia madre non riesce a parlarne senza scoppiare a piangere, si sveglia di notte con la visione della morte china sul tuo letto. Credo che come Ernesto lei ormai non preghi più perché tu guarisca ma perché non soffra ancora, ma io non ho perso la volontà di continuare a lottare per te. Il dottore è un uomo gentile, con gli occhiali appoggiati sulla punta del naso e un camice spiegazzato che gli danno un’aria vulnerabile, come se si fosse appena alzato dalla siesta. È l’unico medico in questo posto che non sembra insensibile all’angoscia di noi che passiamo la giornata nel corridoio dei passi perduti. Invece lo specialista in porfiria, più interessato alle provette del suo laboratorio dove ogni giorno ti analizza il sangue, ti visita poco. Stamattina ti abbiamo staccata per la prima volta. Il neurologo ha esaminato i tuoi segni vitali e ha letto il rapporto della notte, mentre io invocavo mia nonna e la tua quella Granny incantevole che se ne andò quattordici anni fa, affinché venissero in nostro aiuto. Pronta? mi ha chiesto, dandomi da sopra le lenti, e ho risposto con un cenno del capo perché non mi usciva la voce. Ha mosso un interruttore e subito è cessato il ronzio liquido dell’aria nel tubo trasparente nel tuo collo. Anch’io ho smesso di respirare, mentre orologio alla mano contavo i secondi supplicandoti, imponendoti di respirare, Paula, per favore- Ogni istante si scandiva come una frustata, trenta, quaranta secondi, niente, altri cinque secondi e sembrava che il tuo petto si fosse mosso un poco, ma così leggermente che poteva essere un’illusione, cinquanta secondi… e non si poteva aspettare oltre, eri esangue e io stessa stavo soffocando. La macchina tornò a funzionare e presto un po’ di colore ti tornò in volto. Misi via l’orologio tremando, mi bruciava la pelle, ero madida di sudore. Il medico mi porse una garza.
"Si pulisca, ha del sangue sulle labbra," disse. "Oggi pomeriggio tenteremo di nuovo, e anche domani, e così via, a poco a poco, finché respirerà da sola, " ho deciso appena ebbi ripreso l’uso della parola. "Forse Paula non ci riuscirà…"
"Sì che ce la farà, dottore. La porterò via di qui, ed è meglio che mia figlia collabori. "
"Suppongo che le madri ne sappiano sempre di più. Abbasseremo a poco a poco l’intensità del respiratore per costringerla a esercitare i muscoli. Non si preoccupi, non le mancherà ossigeno," sorrise dandomi un affettuoso buffetto sulla spalla.
Uscii con gli occhi bagnati di lacrime per raggiungere mia madre, credo che la Memé e la Granny siano rimaste con te.

Willie arrivò appena saputo della nuova crisi, e stavolta potè lasciare l’ufficio per cinque giorni, cinque giorni interi con lui… come ne avevo bisogno! Queste lunghe separazioni sono pericolose, l’amore incespica su sabbie incerte. Temo di perderti, mi dice, sento che ti allontani sempre più e non so come trattenerti, ricordati che sei la mia donna, la mia anima. Non l’ho dimenticato; ma è vero che mi vado allontanando, il dolore è un cammino solitario. Quest’uomo mi porta una ventata d’aria fresca, le avversità gli hanno temprato il carattere, niente lo sconvolge, possiede una forza inesauribile per le battaglie quotidiane, è inquieto e frettoloso, ma lo invade una calma buddhista quando si tratta di sopportare sventure, perciò è un buon compagno nelle difficoltà. Occupa completamente il piccolo territorio del nostro appartamento in albergo, alterando le delicate abitudini che abbiamo stabilito io e mia madre, muovendoci come due ballerine in un’angusta coreografìa. Una persona delle dimensioni e delle caratteristiche di Willie non passa inosservata, quando viene lui c’è disordine e rumore e il cucinino non riposa, l’intero edificio odora dei suoi sughi saporiti. Prendiamo un altra stanza e facciamo i turni con mia madre per andare all’ospedale, così posso rimanere qualche ora sola con lui. Al mattino prepara la colazione e poi chiama la suocera, che si presenta in camicia da notte, con le calze di lana, avvolta nei suoi scialli e col segno del cuscino sulle guance, come una nonnina da favola, si installa nella nostra stanza e cominciamo la giornata con pane tostato e tazze di caffè aromatico portato da San Francisco. Willie non ha saputo cosa fosse una famiglia fino a cinquant’anni, ma si è abituato rapidamente a condividere il suo spazio con la mia e non gli sembra strano svegliarsi in tre nel letto. Ieri sera siamo andati a cena in un ristorante di Plaza Mayor, dove ci siamo lasciati tentare da chiassosi camerieri travestiti da contrabbandieri da melodramma, che ci hanno serviti in una sala di pietra dal soffitto a volta. Tutti quanti fumavano e non c’era una sola finestra aperta, eravamo lontanissimi dall’ossessione nordamericana per la salute. Ci siamo intossicati con cibi micidiali: calamari fritti e funghi al peperoncino, agnello arrostito in un tegame di terracotta, dorato, croccante, trasudante grasso, fragrante di erbe aromatiche, e con una brocca di sangrìa, quel capolavoro di vino alla frutta che si beve come acqua, ma poi, quando si cerca di alzarsi in piedi, si sente come una mazzata alla nuca. Non avevo mangiato così da settimane, con mia madre spesso ci nutrivamo con una tazza di cioccolata in un’intera giornata. Ho passato una notte tremenda con paurose visioni di maiali spellati che piangevano la propria sorte e calamari vivi che si arrampicavano sulle gambe, e stamattina ho giurato di diventare vegetariana come mio fratello Juan. Non più peccati di gola. Queste giornate con Willie mi rinnovano, sento di nuovo il mio corpo dimenticato da settimane, mi palpo i seni, le costole, che ora mi segnano la pelle, la vita, le cosce grosse, riconoscendomi. Questa sono io, sono una donna, ho un nome, mi chiamo Isabel, non sto trasformandomi in fumo, non sono scomparsa. Mi osservo nello specchio d’argento di mia nonna: questa persona dagli occhi desolati sono io, ho vissuto quasi mezzo secolo, mia figlia sta morendo, eppure voglio ancora far l’amore. Penso alla solida presenza di Willie, sento che mi si accappona la pelle e non posso fare a meno di sorridere di fronte all’abissale potenza del desiderio, che mi fa trasalire nonostante la tristezza, ed è capace di far retrocedere la morte. Chiudo per un istante gli occhi e ricordo nitidamente la prima volta che abbiamo dormito insieme, il primo bacio, il primo abbraccio, la scoperta sorprendente di un amore sorto quando meno ce lo aspettavamo, della tenerezza che
ci prese d’assalto quando ci credevamo salvi con l’avventura di una sola notte, della profonda intimità creatasi fin dall’inizio, come se durante tutta la nostra vita ci fossimo preparati per quell’incontro, della facilità, della calma e della fiducia con cui ci siamo amati, come quelle di una vecchia coppia che ha condiviso mille e una notte. E ogni volta dopo la passione soddisfatta e l’amore rinnovato ci addormentiamo vicini vicini senza che ci importi dove inizia l’uno e finisce l’altro, né di chi sono queste mani o questi piedi, in una complicità così perfetta che ci incontriamo nei sogni e il giorno dopo non sappiamo chi ha sognato chi, e quando uno si muove fra le lenzuola l’altro si accomoda negli angoli e nelle curve, e quando uno sospira sospira l’altro, e quando uno si sveglia si sveglia anche l’altro. Vieni, mi chiama Willie, e mi avvicino a quell’uomo che mi aspetta nel letto, e rabbrividendo per il freddo dell’ospedale e della strada e dei singhiozzi soffocati, che diventano brina nelle vene, mi tolgo la camicia e aderisco al suo grande corpo, avvolta dal suo abbraccio finché entro in calore. A poco a poco entrambi prendiamo coscienza del respiro ansimante dell’altro, e le carezze si fanno sempre più intense e lente man mano che ci arrendiamo al piacere. Mi bacia e torna a sorprendermi, come ogni volta in questi quattro anni, la morbidezza e freschezza della sua bocca; mi aggrappo alle sue spalle e al suo collo saldi, accarezzo la sua schiena, bacio l’incavo delle sue orecchie, l’orribile teschio tatuato sul suo braccio destro, la linea di peluria del suo ventre, e aspiro il suo odore sano, quell’odore che sempre mi eccita, abbandonata all’amore e grata, mentre sulle guance mi scorre un fiotto di lacrime inevitabili, che cade sul suo petto. Piango di pena per te, figlia mia, ma credo di piangere anche di felicità per questo amore tardivo che è venuto a trasformarmi la vita.

(Tratto da Paula, Isabel Allende, Feltrinelli)

Marcia trionfale

Quando escono nel freddo lei gli alza il bavero, gli avvolge bene la sciarpa. Lui come sempre la abbraccia forte, le lascia sulle guance 1’impronta umida di molti baci.
Lungo la strada lui fa tanti sorrisi, saluta tante volte: in pochi gli rispondono, lui però conserva la sua aria lieta.
Lei gli tiene la mano, preoccupata che corra ad abbracciare sconosciuti.
Sulla piazza del mercato brillano tre fuochi di cassette, intorno imbacuccati i commercianti bevono cappuccini bollenti, battono i piedi sul selciato ghiacciato per scaldarsi, scambiano commenti sul freddo e la stagione.
La vecchia al banco degli ortaggi ha il fazzoletto di lana stretto attorno al viso chiuso, lo scialle incrociato sul petto sfatto. Pulisce spinaci con mani spaccate, il suo freddo è solitario e irrimediabile.
Davanti alle fiamme arancioni il bambino batte le mani contento, il riverbero brilla sul vetro dei suoi occhiali spessi. Al suo apparire il gruppo si è sciolto, uno sciamare impaurito di uccelli neri. Ciascuno è tornato al suo banco e si da dà fare, il bambino cerca inutilmente corpi da abbracciare: solo sua madre è lì, sempre vicina per ripararlo dalle delusioni.
All’estremità opposta del mercato, con un coltellino la vecchia comincia a raschiare una carota.
II bambino e sua madre percorrono la piazza per mano, c’e tanto freddo intorno. Lei compra banane, formaggio: al silenzio della gente è abituata, all’imbarazzo o alle parole di circostanza. All’ invisibilità, quando ti guardano e fanno finta di niente. Solo suo figlio non si abituerà mai: infatti le sue mani tozze e screpolate continuano a lanciare baci al cielo, sorride all’intorno, regala gutturali dichiarazioni d’amore che nessuno raccoglie.
La vecchia lava la carota sotto il getto di una fontanella, scuote via l’acqua con energia e cura. Torna dietro il suo banco, l’attesa è coperta da gesti comuni, di ordine o di pulizia.
Madre e figlio avanzano attraverso il mercato, le voci intorno non li riguardano, le parole che si scambiano non penetrano il muro di vuoto che li circonda.
Un sorriso più largo scopre i denti brutti del bambino, gli occhiali gli ballano sul naso in una felicità non trattenuta: allora sua madre gli lascia la mano, lascia che come ogni giorno vada correndo verso il banco delle verdure.
II viso amaro della vecchia ha mille rughe, più incise adesso mentre il bambino va verso di lei: in una mano ha la carota, ben chiusa in un sacchetto di plastica, con l’altra gli fa ciao.
II bambino cerca nelle tasche gli spicci che sua madre gli ha dato prima di uscire, l’abitudine di ogni giorno per abituarlo a crescere. Oggi non trova le monete, non insiste a cercarle e invece corre dietro la bancarella: prende la mano della vecchia, la dondola, la stringe, la dondola ancora in un suo gioco.
Lei brontola fra sé e sé, l’età o qualcos’altro la fanno incapace di parole: si pulisce la mano sul grembiule, due volte, poi accarezza i capelli del bambino piano, quasi avesse paura di fargli male. O di vederlo scappare.
Con le due mani il bambino si aggrappa alla carezza, la fa muovere stretta sulla testa e sul viso: gli occhiali gli cadono, guarda verso il cielo con i brutti occhi dalle palpebre glabre, semicieco e sorridente.
Le due donne si chinano all’unisono per recuperare le lenti, malgrado gli impacci la vecchia è più rapida: mentre lo aiuta a sistemare dietro le orecchie le stanghette, le sue dita sono levigate e dolci.
Stretta dentro il cappotto, la madre fa per mettere mano al portafoglio:
– Grazie di tutto, – dice. – E scusi tanto.
– Di niente, – ribatte ferma la vecchia, ignorando il gesto e il denaro. Stringendosi nello scialle si allontana dal bambino, comincia a ordinare sul banco cavolfiori e cipolle.
Nudo di carezze il bambino resta come saldato sull’asfalto, la bocca aperta e le braccia abbandonate, desolato.
Sua madre ha gli occhi bassi, passa da un braccio all’altro le buste con la spesa, la mano libera le servirà per portarlo via.
Rischiarato da una decisione che ha preso il bambino la strattona con un’energia improvvisa che quasi la fa cadere, usando la testa e tutto il corpo la spinge dietro il banco.
Ferma a difesa del territorio che le appartiene la vecchia si aggrappa al legno e non si muove: le due donne arrivano a toccarsi, non sanno cosa fare perchè lui continua a spingere, determinato e violento in un modo per lui inconsueto.
Devono necessariamente guardarsi quando lui prende le loro mani, le unisce, dice:
– Ti voglio bene, piacere, buon giorno.
Le donne intuiscono. Perché smetta di spingere, solo per compiacerlo si danno la mano, dichiarano ciascuna il proprio nome e poi, nella stretta:
– Piacere.
– Piacere.
Ma lui non smette di premere, vuole vederle più vicine, la frenesia che lo agita sta per farlo piangere:
– Ti voglio bene, – ripete.
Per prima la vecchia allarga piano le braccia, fa le spallucce per sminuire: imbarazzata la madre si avvia all’ abbraccio.
Due marionette nel freddo e lui il burattinaio, una rappresentazione, uno spettacolo tanto per accontentarlo: un abbraccio da melodrammatici recitato con scarsa convinzione.
Però quando gli aliti si confondono in nuvolette bianche la recita diventa emozione, I’abbraccio si fa stretto ed efficace: si baciano sulle guance due volte, è una scelta.
Arrossate dall’imprevisto si separano, lui le riprende per mano, una da una parte e una dall’altra:
– Scuola: tutti, – dice.
Senza preoccuparsi del banco sguarnito la vecchia lo segue, sua madre è già pronta.
Per mano attraversano il mercato: le rughe della vecchia sorridono, il bambino saluta il vento, sua madre ha un portamento da regina.
Via via che avanzano la gente si scosta: piccole ali di folla per una marcia trionfale.

Tratto da "Manicomio primavera" di Clara Sereni

Il cavaliere inesistente

La notte, per gli eserciti in campo, è regolata come il cielo stellato: turni di guardia, l’ufficiale di scorta, le pattuglie. Tutto il resto, la perpetua confusione dell’armata in guerra, il brulichio diurno dal quale l’imprevisto può saltar fuori come l’imbizzarrirsi di un cavallo, ora tace, poiché il sonno ha vinto tutti i guerrieri ed i quadrupedi della Cristianità, questi in fila e in piedi, a tratti sfregando uno zoccolo in terra o dando un breve nitrito o raglio, quelli finalmente sciolti dagli elmi e dalle corazze, e, soddisfatti a ritrovarsi persone umane distinte ed inconfondibili, eccoli già lì tutti che russano.
Dall’altra parte, al campo degli Infedeli, tutto uguale: gli stessi passi avanti e indietro delle sentinelle, il capoposto che vede scorrere l’ultima sabbia nella clessidra e va a destare gli uomini del cambio, l’ufficiale che approfitta della notte di veglia per scrivere alla sposa. E pattuglie cristiana ed infedele s’inoltrano entrambe mezzo miglio, arrivano fin quasi al bosco ma poi svoltano, una di qua l’altra in là senza incontrarsi mai, fanno ritorno al campo a riferire che tutto è calmo, e vanno a letto. Le stelle e la luna scorrono silenziose sui due campi avversi. In nessun posto si dorme bene come nell’esercito.
Solo ad Agilulfo questo sollievo non era dato. Nell’armatura bianca imbardata di tutto punto, sotto la sua tenda, una delle più ordinate e confortevoli del campo cristiano, provava a tenersi supino, e continuava a pensare: non i pensieri oziosi e divaganti di chi sta per prender sonno, ma sempre ragionamenti determinati e esatti. Dopo poco si sollevava su di un gomito: sentiva il bisogno d’applicarsi a una qualsiasi occupazione manuale, come il lucidare la spada, che era ben splendente, o l’ungere di grasso i giunti dell’armatura, Non durava a lungo: ecco che già s’alzava, ecco che usciva dalla tenda imbracciando lancia e scudo, e la sua ombra biancheggiante tra—— per l’accampamento. Dalle tende a cono si levava il concerto dei pesanti respiri degli addormentati. Cosa fosse questo poter chiudere gli occhi, perdere coscienza di sé, affondare in un vuoto delle proprie ore, e poi svegliandosi ritrovarsi eguale a prima, a riannodare i fili della propria vita, Agilulfo non lo poteva sapere, e la sua invidia per la facoltà di dormire propria delle persone esistenti era un’invidia vaga, come di qualcosa che non si sa nemmeno percepire. Lo colpiva e inquietava di più la vista dei piedi ignudi che spuntavano qua e là dall’orlo delle tende, gli alluci verso l’alto: l’accampamento nel sonno era il regno dei corpi, una distesa di vecchia carme d’ Adamo, esalante il vino bevuto e il sudore della giornata guerresca; mentre sulla soglia dei padiglioni giacevano scomposte le vuote armature, che gli scudieri e i famigli avrebbero al mattino lustrato e messo a punto. Agilulfo passava, attento, nervoso, altero: il corpo della gente che aveva un corpo gli dava sì un disagio somigliante all’invidia, ma anche una stretta che era d’orgoglio, di superiorità sdegnosa. Ecco i colleghi tanto nominati, i gloriosi paladini, che cos’erano? L’armatura, testimonianza del loro grado e nome, delle imprese compiute, della potenza e del valore, eccola ridotta a un involucro, a una vuota ferraglia; e le persone lì a russare, la faccia schiacciata nel guanciale, un filo di bava giù dalle labbra aperte. Lui no, non era possibile scomporlo in pezzi, smembrarlo: era e restava in ogni momento del giorno e della notte Agilulfo Emo Bertrandino dei Guidiverni degli Altri di Corbentraz e Sura, armato cavaliere di Selimpia Citeriore e Fez il giorno tale, avente per la gloria delle armi cristiane compiuto le azioni tale e tale e tale, e assunto nell’esercito dell’imperatore Carlomagno il comando delle truppe tali e talaltre. E possessore della più bella e candida armatura di tutto il campo, inseparabile da lui. E ufficiale migliore di molti che pur menano vanti così illustri; anzi, il migliore di tutti gli ufficiali. Eppure passeggiava infelice nella notte.
Udì una voce:- Sor ufficiale, chiedo scusa, ma quand’è che arriva il cambio? M’hanno piantato qui già da tre ore! – Era la sentinella che s’appoggiava alla lancia come avesse il torcibudello.
Agilulfo non si voltò neppure; disse:- Ti sbagli, non sono io l’ufficiale di scolta, – e passò avanti.
– Perdonatemi, sor ufficiale. Vedendovi girare per di qui, mi credevo…
La più piccola manchevolezza nel servizio dava ad Agilulfo la smania di controllar tutto, di trovare altri errori e negligenze nell’operato altrui, la sofferenza acuta per ciò che è fatto male, fuori posto… Ma non essendo nei suoi compiti eseguire un’ispezione del genere a quell’ora, anche il suo contegno sarebbe stato da considerare fuori posto, addirittura indisciplinato.

Tratto da "Il cavaliere inesistente" di I. Calvino