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Paula

Abbiamo concordato con il neurologo di staccarti dal respiratore per un minuto, Paula, ma non l’abbiamo detto al resto della famiglia perché non si sono ancora ripresi da quel fatidico lunedì in cui sei stata sul punto di andare in un altro mondo. Mia madre non riesce a parlarne senza scoppiare a piangere, si sveglia di notte con la visione della morte china sul tuo letto. Credo che come Ernesto lei ormai non preghi più perché tu guarisca ma perché non soffra ancora, ma io non ho perso la volontà di continuare a lottare per te. Il dottore è un uomo gentile, con gli occhiali appoggiati sulla punta del naso e un camice spiegazzato che gli danno un’aria vulnerabile, come se si fosse appena alzato dalla siesta. È l’unico medico in questo posto che non sembra insensibile all’angoscia di noi che passiamo la giornata nel corridoio dei passi perduti. Invece lo specialista in porfiria, più interessato alle provette del suo laboratorio dove ogni giorno ti analizza il sangue, ti visita poco. Stamattina ti abbiamo staccata per la prima volta. Il neurologo ha esaminato i tuoi segni vitali e ha letto il rapporto della notte, mentre io invocavo mia nonna e la tua quella Granny incantevole che se ne andò quattordici anni fa, affinché venissero in nostro aiuto. Pronta? mi ha chiesto, dandomi da sopra le lenti, e ho risposto con un cenno del capo perché non mi usciva la voce. Ha mosso un interruttore e subito è cessato il ronzio liquido dell’aria nel tubo trasparente nel tuo collo. Anch’io ho smesso di respirare, mentre orologio alla mano contavo i secondi supplicandoti, imponendoti di respirare, Paula, per favore- Ogni istante si scandiva come una frustata, trenta, quaranta secondi, niente, altri cinque secondi e sembrava che il tuo petto si fosse mosso un poco, ma così leggermente che poteva essere un’illusione, cinquanta secondi… e non si poteva aspettare oltre, eri esangue e io stessa stavo soffocando. La macchina tornò a funzionare e presto un po’ di colore ti tornò in volto. Misi via l’orologio tremando, mi bruciava la pelle, ero madida di sudore. Il medico mi porse una garza.
"Si pulisca, ha del sangue sulle labbra," disse. "Oggi pomeriggio tenteremo di nuovo, e anche domani, e così via, a poco a poco, finché respirerà da sola, " ho deciso appena ebbi ripreso l’uso della parola. "Forse Paula non ci riuscirà…"
"Sì che ce la farà, dottore. La porterò via di qui, ed è meglio che mia figlia collabori. "
"Suppongo che le madri ne sappiano sempre di più. Abbasseremo a poco a poco l’intensità del respiratore per costringerla a esercitare i muscoli. Non si preoccupi, non le mancherà ossigeno," sorrise dandomi un affettuoso buffetto sulla spalla.
Uscii con gli occhi bagnati di lacrime per raggiungere mia madre, credo che la Memé e la Granny siano rimaste con te.

Willie arrivò appena saputo della nuova crisi, e stavolta potè lasciare l’ufficio per cinque giorni, cinque giorni interi con lui… come ne avevo bisogno! Queste lunghe separazioni sono pericolose, l’amore incespica su sabbie incerte. Temo di perderti, mi dice, sento che ti allontani sempre più e non so come trattenerti, ricordati che sei la mia donna, la mia anima. Non l’ho dimenticato; ma è vero che mi vado allontanando, il dolore è un cammino solitario. Quest’uomo mi porta una ventata d’aria fresca, le avversità gli hanno temprato il carattere, niente lo sconvolge, possiede una forza inesauribile per le battaglie quotidiane, è inquieto e frettoloso, ma lo invade una calma buddhista quando si tratta di sopportare sventure, perciò è un buon compagno nelle difficoltà. Occupa completamente il piccolo territorio del nostro appartamento in albergo, alterando le delicate abitudini che abbiamo stabilito io e mia madre, muovendoci come due ballerine in un’angusta coreografìa. Una persona delle dimensioni e delle caratteristiche di Willie non passa inosservata, quando viene lui c’è disordine e rumore e il cucinino non riposa, l’intero edificio odora dei suoi sughi saporiti. Prendiamo un altra stanza e facciamo i turni con mia madre per andare all’ospedale, così posso rimanere qualche ora sola con lui. Al mattino prepara la colazione e poi chiama la suocera, che si presenta in camicia da notte, con le calze di lana, avvolta nei suoi scialli e col segno del cuscino sulle guance, come una nonnina da favola, si installa nella nostra stanza e cominciamo la giornata con pane tostato e tazze di caffè aromatico portato da San Francisco. Willie non ha saputo cosa fosse una famiglia fino a cinquant’anni, ma si è abituato rapidamente a condividere il suo spazio con la mia e non gli sembra strano svegliarsi in tre nel letto. Ieri sera siamo andati a cena in un ristorante di Plaza Mayor, dove ci siamo lasciati tentare da chiassosi camerieri travestiti da contrabbandieri da melodramma, che ci hanno serviti in una sala di pietra dal soffitto a volta. Tutti quanti fumavano e non c’era una sola finestra aperta, eravamo lontanissimi dall’ossessione nordamericana per la salute. Ci siamo intossicati con cibi micidiali: calamari fritti e funghi al peperoncino, agnello arrostito in un tegame di terracotta, dorato, croccante, trasudante grasso, fragrante di erbe aromatiche, e con una brocca di sangrìa, quel capolavoro di vino alla frutta che si beve come acqua, ma poi, quando si cerca di alzarsi in piedi, si sente come una mazzata alla nuca. Non avevo mangiato così da settimane, con mia madre spesso ci nutrivamo con una tazza di cioccolata in un’intera giornata. Ho passato una notte tremenda con paurose visioni di maiali spellati che piangevano la propria sorte e calamari vivi che si arrampicavano sulle gambe, e stamattina ho giurato di diventare vegetariana come mio fratello Juan. Non più peccati di gola. Queste giornate con Willie mi rinnovano, sento di nuovo il mio corpo dimenticato da settimane, mi palpo i seni, le costole, che ora mi segnano la pelle, la vita, le cosce grosse, riconoscendomi. Questa sono io, sono una donna, ho un nome, mi chiamo Isabel, non sto trasformandomi in fumo, non sono scomparsa. Mi osservo nello specchio d’argento di mia nonna: questa persona dagli occhi desolati sono io, ho vissuto quasi mezzo secolo, mia figlia sta morendo, eppure voglio ancora far l’amore. Penso alla solida presenza di Willie, sento che mi si accappona la pelle e non posso fare a meno di sorridere di fronte all’abissale potenza del desiderio, che mi fa trasalire nonostante la tristezza, ed è capace di far retrocedere la morte. Chiudo per un istante gli occhi e ricordo nitidamente la prima volta che abbiamo dormito insieme, il primo bacio, il primo abbraccio, la scoperta sorprendente di un amore sorto quando meno ce lo aspettavamo, della tenerezza che
ci prese d’assalto quando ci credevamo salvi con l’avventura di una sola notte, della profonda intimità creatasi fin dall’inizio, come se durante tutta la nostra vita ci fossimo preparati per quell’incontro, della facilità, della calma e della fiducia con cui ci siamo amati, come quelle di una vecchia coppia che ha condiviso mille e una notte. E ogni volta dopo la passione soddisfatta e l’amore rinnovato ci addormentiamo vicini vicini senza che ci importi dove inizia l’uno e finisce l’altro, né di chi sono queste mani o questi piedi, in una complicità così perfetta che ci incontriamo nei sogni e il giorno dopo non sappiamo chi ha sognato chi, e quando uno si muove fra le lenzuola l’altro si accomoda negli angoli e nelle curve, e quando uno sospira sospira l’altro, e quando uno si sveglia si sveglia anche l’altro. Vieni, mi chiama Willie, e mi avvicino a quell’uomo che mi aspetta nel letto, e rabbrividendo per il freddo dell’ospedale e della strada e dei singhiozzi soffocati, che diventano brina nelle vene, mi tolgo la camicia e aderisco al suo grande corpo, avvolta dal suo abbraccio finché entro in calore. A poco a poco entrambi prendiamo coscienza del respiro ansimante dell’altro, e le carezze si fanno sempre più intense e lente man mano che ci arrendiamo al piacere. Mi bacia e torna a sorprendermi, come ogni volta in questi quattro anni, la morbidezza e freschezza della sua bocca; mi aggrappo alle sue spalle e al suo collo saldi, accarezzo la sua schiena, bacio l’incavo delle sue orecchie, l’orribile teschio tatuato sul suo braccio destro, la linea di peluria del suo ventre, e aspiro il suo odore sano, quell’odore che sempre mi eccita, abbandonata all’amore e grata, mentre sulle guance mi scorre un fiotto di lacrime inevitabili, che cade sul suo petto. Piango di pena per te, figlia mia, ma credo di piangere anche di felicità per questo amore tardivo che è venuto a trasformarmi la vita.

(Tratto da Paula, Isabel Allende, Feltrinelli)




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