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Autore: admin

Scuole e nuove tecnologie: L’Ausilioteca di Bologna

L’ausilio è uno strumento importante per l’integrazione scolastica di uno studente disabile?
Prima di rispondere a questa domanda è indispensabile chiarirsi sul concetto stesso di “ausilio” che non può essere inteso solo come strumento tecnico. L’ausilio è un insieme di fattori di carattere tecnico, metodologico e contestuale. Pensiamo ad un bambino con difficoltà di scrittura manuale; non è sufficiente individuare la tastiera idonea. Perché questa diventi lo strumento di lavoro che il bambino utilizza sul suo banco di scuola per scrivere ogni giorno, occorre un insieme di altri fattori, come un’adeguata postazione di lavoro, una particolare organizzazione dell’attività con la classe, una solida figura di riferimento. Inoltre, secondo la recente definizione dell’ICF (International Classification of Functioning, Disability and Health), la disabilità viene definita come la conseguenza o il risultato di una complessa relazione tra la condizioni di salute dell’individuo, i fattori personali, e i fattori ambientali che rappresentano il contesto in cui vive l’individuo. A causa di questa relazione ambienti diversi possono avere un impatto molto diverso sullo stesso individuo con una certa condizione di salute. All’interno dei fattori ambientali l’ICF include i prodotti tecnologici, visti come uno dei diversi tasselli che possono concorrere alla maggior partecipazione della persona disabile alla vita sociale. Se concordiamo con tutto questo sicuramente la tecnologia può fornire validi strumenti per favorire l’integrazione scolastica.

Dove trovare un ausilio e come sceglierlo?
Proprio per quanto detto sopra la scelta di un ausilio è un processo complesso, che non può essere affrontato sfogliando un catalogo o adottando soluzioni preconfezionate. Proprio per questo sono nati dei servizi specializzati di consulenza sugli ausili tecnologici. A Bologna per esempio esiste da venti anni il Centro Ausili Tecnologici, un servizio pubblico gestito dall’Azienda USL di Bologna che offre attività di consulenza, supporto, formazione e informazione sulle tematiche degli ausili tecnologici per persone con disabilità. L’equipe del servizio – composta da figure riabilitative, educative e tecniche – valutando le potenzialità della persona disabile e gli obiettivi, ipotizza soluzioni di ausilio che non si limitano all’indicazione di uno o più strumenti ma prevedono anche la costruzione di un percorso educativo e didattico. Facciamo un esempio. Spesso al nostro servizio arrivano richieste per migliorare la comunicazione di un bambino; di fatto la soluzione, il più delle volte, non è un computer anche se adattato, ma l’impiego di ausili più semplici spesso non basati sulle nuove tecnologie (a volte sono sufficienti delle tabelle cartacee per la comunicazione). Altre volte si danno semplicemente delle indicazioni di tipo educativo su come rapportarsi con il bambino per sviluppare in lui l’intenzionalità e l’iniziativa comunicativa. Anzi, in alcuni casi sarebbe un errore proporre soluzioni tecnologiche. All’interno del nostro servizio è possibile inoltre provare degli ausili di ogni genere provenienti da diverse fornitori che, in ambito locale, possono anche essere prestati.

L’organizzazione della scuola incide sull’efficacia nell’adozione di un ausilio?
L’organizzazione della scuola incide fortemente nell’integrazione scolastica di un bambino disabile e ciò ha una ricaduta anche nel caso dell’adozione di un ausilio. I problemi sono diversi, dal turn-over degli insegnanti agli orari, dalla mancanza di un’unica figura di riferimento agli spazi offerti dalla scuola: tutti problemi che derivano indirettamente da certe scelte politiche. Il problema che più frequentemente si riscontra è il turn-over degli insegnanti di sostegno: per esempio può capitare che al momento della consulenza per l’individuazione di un ausilio sia presente un insegnante che, al momento dell’arrivo dell’ausilio a scuola, sarà stato sostituito da un collega. Quest’ultimo, a volte, si ritroverà con uno strumento senza sapere i motivi e gli obiettivi per cui era stato richiesto e adottato. Di questa situazione sono gli insegnanti stessi a soffrirne per primi. Alcuni ausili inoltre necessitano di un momento formativo per rendere l’insegnante in grado di utilizzarli al meglio delle loro possibilità. Siamo noi stessi a fare questa formazione. Ma se ogni anno ci si ritrova a lavorare con insegnanti diversi si rischia di ricominciare ogni volta da capo. Anche la barriere architettoniche sono un ostacolo al nostro lavoro; può sembrare paradossale ma ci è capitato il caso di una bambina che, pur essendo in grado di utilizzare il computer con un ausilio, non poteva partecipare alle attività nell’aula informatica perché questa non era a lei accessibile.

L’ausilio non va vissuto come una risposta ma come un mezzo al problema dell’integrazione, capita a volte l’opposto?
A volte gli insegnanti vengono in Ausilioteca presentandoci come obiettivo l’individuazione di un ausilio senza avere avuto ancora l’opportunità di costruire dei solidi obiettivi didattici. A volte si ha quasi l’impressione che l’ausilio venga percepito come già dotato in sé di un contenuto educativo. In realtà in molti casi è necessario lavorare prima sugli obiettivi didattici, lavorando prima con materiali poveri e non tecnologici. In queste situazioni risulta molto importante che venga garantita un’adeguata formazione su questi temi.

Ausilioteca Via Giorgione 10 – 40133 Bologna Tel: 051/642.81.11 – fax: 051/38.59.84 http://www.ausilioteca.org E-Mail: info@ausilioteca.org

 

Elling o della leggera diversità

Elling, o della leggera diversità

È difficile vedere il mondo attraverso gli occhi di un altro, soprattutto se è diverso da te, se non vede le cose come tutti, o come la società ce le vuole far vedere. Elling ed il suo amico Kjell Bjarne devono reinserirsi in un mondo che non conoscono, dal quale sono stati esclusi, perché ora la società ha deciso di “recuperarli”, spostandoli di peso dalla clinica psichiatrica alla vita di tutti i giorni. Elling e Kjell Bjarne sono guariti, ma temono il mondo che c’è fuori. Elling e Kjell Bjarne sono i protagonisti di Elling, film norvegese uscito nel marzo 2001, ma distribuito in Italia solo nel novembre 2002, anche sulla scia della candidatura agli Oscar 2002 come miglior film straniero. E per chi se lo fosse perso nei cinema, è recentemente uscita la versione DVD per il noleggio. Per i nostri amici, trasferiti da un giorno all’altro in un appartamento di Oslo con il limitato sostegno di un assistente sociale, l’impresa di una vita “normale” sarà eroica. Il percorso è ricco di ostacoli: fare la spesa, organizzare la casa ed i propri spazi, sollevare la cornetta del telefono per rispondere, e soprattutto entrare in contatto con gli altri! E non è poi difficile riscontrare come le esitazioni, le sofferenze, i turbamenti di Elling e Kjell Bjarne siano molto simili a quelli che molti di noi provano nel cercare di allacciare relazioni con altre persone, in un contesto sociale che ci vorrebbe il più possibile autonomi e rinchiusi in comodi appartamenti urbani, o meglio, come direbbero i Radiohead, “impacchettati come sardine in una scatoletta affollata”.
La regia di Petter Næss ha il grande merito di non cercare l’effetto commovente ad ogni costo, mostrando però al contempo una sensibilità non comune per le persone. La fotografia ed i colori tenui potrebbero ricordare il Dogma (un collettivo di registi cinematografici fondato a Copenhagen nella primavera del 1995) se non altro per ragioni geografiche, ma paiono più legati ai mezzi limitati e all’origine teatrale del testo; tuttavia, come e più che nel Dogma, l’alternanza di momenti comici e di tensione costruisce una commedia che assomiglia terribilmente alla vita reale.
Elling è infatti un film su due persone comuni, che si arrabbiano e si esaltano a momenti alterni senza per questo declinare verso la schizofrenia, e che hanno difficoltà particolari come particolari abilità (chi di voi saprebbe riparare una Buick del ’58?). Più che disabili, dunque, diversabili, alla ricerca di un modo per esprimere la propria identità, con esiti anomali perché personali e non imposti da modelli altri. Come interpretare altrimenti la paternità tanto casualmente ricevuta quanto pienamente vissuta da Kjell Bjarne, o la “poesia dei crauti” che Elling affida alle scatole di cibo nei supermercati, portandolo al paradosso di una notorietà nascosta? E poi, in modo ancor più significativo, emerge come nessuno può essere se stesso se non in forme legate alla relazione con gli altri: per Elling e Kjell Bjarne prima la difficile convivenza tra loro, poi l’assistente sociale, infine il poeta e la ragazza madre, con cui si stabilisce un curioso menage à quatre. Inutile dire che i due “pazzi” ce la faranno, senza però diventare persone comuni, ma vivendo in modo libero, e per questo anche scandaloso, il proprio carattere. Insomma, Elling e Kjell Bjarne probabilmente restano “diversi”, ma non siamo diversi tutti forse?

Il sociale attraverso le canzoni

Il sociale attraverso le canzoni “Racconti di vita”, in onda su Rai Tre, suggerisce nuovi approcci all’informazione sociale.
"Dalle canzoni si possono ricavare stimoli importanti e momenti

 

di riflessione, soprattutto perché una canzone evoca in pochi minuti quello che avrebbe bisogno di essere comunicato in ore di dibattito”. Giovanni Anversa, conduttore e ideatore di “Racconti di vita”, la trasmissione di Rai Tre dedicata alle tematiche sociali, in onda tutte le domeniche alle ore 12.30, esordisce così nell’intervista che gli abbiamo rivolto. Protagonisti della nuova edizione settimanale del programma, partita a novembre 2002, sono infatti una canzone, il suo cantautore italiano e alcune storie di vita reale che si confrontano e si intrecciano con le suggestioni offerte dal testo. Ecco allora, ad esempio, che si può parlare di condizioni di vita in carcere partendo da Aria di Daniele Silvestri, o dei problemi dell’essere giovani oggi con Bene bene male male di Piero Pelù. "E’ un modo di procedere che ha trovato molti consensi – prosegue Anversa – sia nel pubblico, sia nei cantanti stessi, che hanno così la possibilità di uscire dal cliché dell’ospite musicale e mostrarsi sotto una luce diversa, farsi vedere come persone con proprie emozioni, sentimenti, rabbia". Un modo di procedere che permette di trattare l’informazione sociale sotto forma di racconto (il racconto delle canzoni e il racconto delle persone), e mantenersi un po’ più estranei ai rischi di stereotipizzazione e strumentalizzazione che questo tipo di informazione spesso comporta. "L’informazione sociale – spiega Anversa – è ormai fondamentale e a mio parere non è più un tipo di informazione marginale, che non trova spazio nei mass media tradizionali. Ormai è ‘uscita dal ghetto’ e, anzi, deve diventare l’asse portante del servizio pubblico. Bisogna capire però come farla. Io credo nella capacità e nell’utilità di raccontare esperienze che possono poi diventare esemplari. Si tratta, inoltre, di un tipo di informazione che non può e non deve provenire solo dagli operatori della comunicazione. Occorre un terreno condiviso coi protagonisti del vario associazionismo e una sinergia tra tutte le forze in causa che operano nel sociale”.

 

Raccontare la disabilità

Anche la disabilità viene portata sullo schermo televisivo attraverso le canzoni e i racconti di vita. Ma ciò che permette alla trasmissione di Giovanni Anversa di non cadere in stereotipi, o in fenomeni di pietismo e spettacolarizzazione, è il suo essere una trasmissione “normale” e non “dedicata a”. Non ci sono puntate sulle persone disabili, puntate apposta per loro. Le canzoni suggeriscono di volta in volta tematiche di vita quotidiana come il lavoro, l’amore, la famiglia, la guerra, ecc. E all’interno di queste tematiche possono essere inserite o meno anche le persone disabili, che raccontano le difficoltà o i successi negli stessi ambiti. Si tratta di un cambio di prospettiva molto importante, perché permette di uscire dalla logica dell’assistenzialismo. Per fare un esempio, non si tratta di porre il problema del lavoro solo come obbligo di inserire anche le persone disabili, di trovare ausili e contesti per permettere anche a loro di lavorare, ma si può dedicare una puntata al problema dei posti di lavoro o della sicurezza dei posti di lavoro in genere, come tema che attraversa la vita di tutti e quindi, perché no, anche quella delle persone disabili. La disabilità viene in questo modo inserita nella vita normale e non confinata in discorsi a parte. Inoltre "Quando si parla di disabilità – puntualizza il conduttore – non ci sono solo scale, carrozzine, assistenza. C’è anche la parte ludica e la voglia di divertirsi. Certo, questo non significa che è tutto normale, la disabilità c’è e ce ne sono tante diverse, e va spiegata, va raccontata. Credo che sia molto importante ascoltare e stare accanto a persone che la disabilità la vivono, e che sono riuscite a metabolizzarla non solo a livello personale ma anche culturale. Così come è importante avere sempre contatti con gli opinion leaders dell’associazionismo". Proprio con uno di essi, Franco Bomprezzi, e in collaborazione col Segretariato Sociale Rai, Giovanni Anversa ha scritto un codice etico su come fare informazione sulla disabilità senza cadere in stereotipi (il testo è consultabile sul sito internet del Segretariato Sociale www.segretariatosociale.rai.it, nella sezione codici). Tra le varie norme indicate, c’è la necessità culturale di rendere normale l’accesso: ciò significa che le persone disabili hanno diritto ad essere inserite in televisione, o come protagonisti, o come pubblico, non perché esiste una certa percentuale di quote riservate, ma semplicemente perché è del tutto normale che anche una persona disabile partecipi a quiz, show, spettacoli e a dibattiti in cui la disabilità può anche non essere il punto chiave. Non mostrare una persona disabile “in vetrina”, solo vittima o solo eroe, ma raccontare la disabilità attraverso percorsi del tutto normali, può essere molto utile per passare da una logica di tutela a una logica di vera integrazione, perché anche se è vero – come sostiene Anversa – «che un cittadino oggi, grazie alle tante fonti di informazione e alle nuove tecnologie, ha modo di costruirsi una propria cultura della diversità senza necessariamente passare dal servizio pubblico televisivo", è pur vero che la tv resta il mezzo di comunicazione di massa per eccellenza. E anche se esistono varie realtà impegnate quotidianamente nel processo di produzione di un cambiamento culturale, la televisione rimane per molti il mezzo principale per vedere l’altro da sé.

Viaggiare Imprudente

A Roma a sei anni

Mi alzai una mattina del lontano 1966 preso dalla voglia di andare a Roma, attratto non tanto dalla città eterna, dal fascino della capitale, ma soprattutto da Roma come sede del Papa e… dello zoo. Non so perché, ma erano queste le due cose di primaria importanza per me, quelle che mi invogliavano a intraprendere il primo grande viaggio della mia vita. Erano gli anni in cui il Papa andava a passeggio sulla sedia gestatoria per le vie del  Vaticano e faceva la sua entrata trionfale così in San Pietro. La sedia gestatoria è una sorta di trono retto sulle spalle da quattro portantini che, in tal modo, portano a spasso chi ci sta seduto sopra, in questo caso il Papa. Questa cosa mi piaceva da impazzire, volevo assolutamente vederlo… fantasticare come ci sarei stato bene io là sopra; immaginavo uno scambio, le mie quattro ruote per i quattro portantini a mia disposizione per i miei passeggi. Ma io non ero il Papa.
I miei genitori decisero di accontentare questo mio desiderio e prenotarono un albergo per tre giorni. Finalmente il mio sogno si stava avverando, stavamo partendo per Roma. Ero felice, già solo il pensiero di quelle tre giornate mi facevano sentire sorretto dai portantini, già in alto. Era la prima volta che andavo in albergo ed era tutto così nuovo e avvincente. Una cosa però mi sembrava strana e faticavo a capire: tutta la vita da albergo si consumava tra le quattro mura della nostra stanza. Lì si dormiva, ci si lavava, e si mangiava. Era questo un particolare che non mi convinceva affatto; chiedevo ai miei il perché, ma la risposta era sempre: “perché in albergo si fa così”. Solo qualche anno dopo mia madre mi spiegò il vero motivo. La sala da pranzo ci era stata vietata, perché la mia presenza turbava la quiete degli altri ospiti. Erano altri tempi.

Al mare

Per noi famiglia Imprudente l’appuntamento fisso di ogni estate era la vacanza al mare. Ogni anno si caricava la macchina e tutti sorridenti  si partiva per Misano Adriatico e lì si rimaneva per un mese. Ogni mattina, asciugamani sulle spalle, si andava in spiaggia. Non avevo neanche l’impiccio di portarmi paletta e secchiello come facevano tutti gli altri, perché già la spiaggia pullulava di bambini attrezzatissimi e presi dal costruire castelli delle più svariate forme. Ogni mattina, arrivati in spiaggia, l’occhio di mia mamma viaggiava veloce perlustrando la zona e, visto il primo nugolo di bambini che giocavano costruendo castelli, si avvicinava e mi metteva lì con loro. Ma dopo qualche minuto accadeva questo: “Marco, vieni qui che ho bisogno”, “Federico, vieni a fare merenda”, “Luca, andiamo a fare il bagno”, “ Andrea, vieni a giocare un po’ qui con tua sorella” e a uno a uno i bambini si dileguavano. Qualche richiamo era poi seguito dalla spiegazione sussurrata dei genitori: “ Vedi quel bambino? Lui non sta bene”, e li dirigevano verso altre mete, costringendoli ad abbandonare i loro castelli e me che rimanevo lì a guardare. Ogni mattina si ripeteva questa scena, mi stavo quasi specializzando nell’attività di fare da custode ai castelli di sabbia. Anche il bagnino divenne protagonista delle avventure tra me e i cari genitori della spiaggia, perché questi andarono da lui a lamentarsi della mia presenza. La sua risposta fu che io ero un bambino come gli altri, non ero ammalato, e che se ero motivo di paura e fastidio, allora bene, liberissimi di cambiare spiaggia, perché io lì ero e lì rimanevo.
E queste erano le nostre giornate in spiaggia. Ma il coraggio di mia madre (per quei tempi!) non si fermava lì: lo spettacolo cominciava sull’imbrunire quando ci si preparava per la serata. Abbastanza standard, ma sempre divertente: la passeggiata per il centro di Misano, piena di gente bene che aspetta un anno intero per infighettarsi e passeggiare su e giù per le strade del centro. Abbronzati, acconciati e pieni di sé erano costretti ogni sera ad abbassare lo sguardo, anche un po’ indignato, per una così indecente presenza come poteva essere la mia. Ma ogni sera gli Imprudenti stavano in agguato e, non contenti della sola passeggiata, chiudevamo la serata in gelateria mangiandoci un bel gelato. Primo passo per mangiare il gelato è, allora come adesso del resto, tappezzarmi la maglia sul petto con almeno una ventina di tovaglioli sui quali andrà a depositarsi un misto di bava e gelato… lo ammetto, un po’ disgustosa. Ma fino a quando questo miscuglio si ferma sulla mia maglia… niente di che, al massimo qualche sguardo schifato. L’apoteosi dello show accade invece quando, con la bocca piena di gelato, mi scappa uno starnuto o una risata… il gelato purtroppo zampilla intorno e chi c’è, c’è. Immaginatevi il sipario che chiude la scena e un fragoroso rutto finale che quasi fa uscire la gente dalla gelateria. E ogni sera mia mamma mi portava in gelateria a Misano, nei mitici anni Sessanta, non so se mi spiego! Un gesto rivoluzionario, che va insieme alla grande rivoluzione della seconda metà del secolo: il ’68.

Gioie e dolori delle trasferte
La prima volta che sono stato all’estero per un convegno è stata un’esperienza illuminante. È stato in Belgio, ma potevamo anche essere presso gli Yanomani dell’Amazzonia, o su Marte, che io e Luca, il collega che mi accompagnava, non ci saremmo accorti della differenza. Quando non si sa la lingua… allora sì che si è handicappati veramente! In fin dei conti questa esperienza mi ha confermato il fatto che per praticamente annullare l’handicap si tratta di trovare il codice linguistico che permetta a due persone di comunicare. Tra una pennichella e l’altra, ricordo solo lo sproloquiare dei relatori come un ammasso di suoni confusi del tipo: “endicappè, piripì piripè”, e via così per ore, che solo Dario Fo potrebbe con il suo gramelot rendere bene. Insomma sia io che Luca non ci capivamo una cippa: come risultato sono riuscito a recuperare ore di sonno che dai tempi della giovinezza mi portavo dietro. Una menzione da fare: l’albergo. Spaziale, con la musica negli ascensori: ma adesso che ci penso era un po’ soporifera pure quella.
Quest’anno sono andato in Francia, ma con Fabrizio, che il francese lo sa!

Claudio Imprudente, Una vita Imprudente, Edizioni Erickson, Trento, 2003

I “diversi” di Lars von Trier

Gli artisti devono soffrire, il risultato è migliore!

Lars von Trier, Il cinema come dogma, 2001

Lars von Trier racconta gravi malattie e disperate cure. Dolori, infezioni, veleni, medicine e antidoti, ospedali e autopsie, traumi repentini e miracolose guarigioni, sono gli ingredienti di tutto il suo cinema. Non è dunque un caso se già la prima inquadratura del primo lungometraggio, L’elemento del crimine (Forbrydelsens Element, 1984), sia ambientata nello studio di un medico – uno psichiatra – che tenta di ipnotizzare l’ispettore di polizia Fisher per fargli rievocare le circostanze della sua ultima tragica missione. L’intero film diviene così la traduzione in immagini di un disperato flusso di coscienza. C’è un medico anche nel film successivo, Epidemic (1987). Qui il dottor Mesmer (palese richiamo al padre dell’ipnotismo), giovane idealista in una terra del futuro sconvolta da una terribile peste, si batte da solo e contro tutti per salvare i malati, senza accorgersi che è lui stesso, a causa dei suoi spostamenti, a propagare il morbo.
Medea (1988) (da una sceneggiatura postuma che Carl Theodor Dreyer aveva tratto dalla tragedia di Euripide) segue il lento sprofondare nella follia della mitica regina la quale, tradita dall’amante Giasone, si abbandonerà ad un delirio omicida che non risparmierà neppure i suoi figli. Europa (1991) esordisce invece come una seduta di psicanalisi, rivolta però direttamente allo spettatore: una lunghissima carrellata in avanti scorre, con forte effetto ipnotico, lungo i binari di una ferrovia, mentre un’inesorabile voce narrante (appartenente, nell’originale, a Max von Sydow) ci intima di contare lentamente fino a dieci e di abbandonarci alla trama che sta per partire. In questi primi quattro film, di certo i meno conosciuti dal grande pubblico, Lars von Trier elabora una scrittura innovativa e complessa, basata su una cura maniacale dell’immagine, su esuberanti virtuosismi formali e stranianti commistioni. Una firma inconfondibile che tuttavia viene improvvisamente abbandonata nel 1994, quando, quasi a voler provocatoriamente “degradare” il suo raggiunto status di Autore, Trier gira uno sceneggiato in quattro puntate per la televisione danese intitolato Riget (Il Regno, distribuito in tutto il mondo come The Kingdom). É precisamente a partire da quest’opera che la figura del “diverso” in tutte le sue accezioni (fisiche e mentali) diviene il centro di gravità della sua drammaturgia cinematografica. Stupendo carnevale nero dei generi di un secolo di cinema, tra orrore, commedia, satira politica e bizzarro esercizio di stile, Riget è ambientato nell’Ospedale Reale di Copenaghen (soprannominato “Il Regno” anche nella realtà), che diviene il teatro di una serie di eventi assurdi e infernali. In un ritmo febbrile che si agita lungo corridoi, camere, obitori, sotterranei, ambulanze, almeno cinque diverse trame intrecciano tra loro più di cinquanta personaggi tra dottori, infermieri, studenti, ispettori ministeriali, avvocati, pazienti veri o presunti, fantasmi, diavoli ed ectoplasmi ostili… Ma in questa claustrofobia scacchiera, dove qualsiasi pedina può entrare in ogni momento a contatto e in contrasto con qualsiasi altra, spicca una delicata eccezione. Per tutta la durata dello sceneggiato, due giovani down (un ragazzo e una ragazza) occupano invariabilmente lo stesso luogo: un immenso stanzone dalle luci giallastre, dove i due (in un’evidente richiamo alle coppie eccentriche e solitarie del teatro di Samuel Beckett) lavano senza posa pile sterminate di piatti e bicchieri. Come se si trattasse di un universo parallelo isolato dal resto dell’ospedale, questo lavatoio non è mai attraversato da nessun altro personaggio, nessuno vi entra e nessuno ne esce. Eppure, inspiegabilmente, i due ragazzi sanno alla perfezione tutto ciò che nell’ospedale è accaduto, tutto ciò che sta per accadere. “Ci sono macchie che non si tolgono” si lamenta lui. “Vuoi dire… sangue?” chiede lei. E l’altro: “Dipende. C’è sangue che si toglie. E c’è sangue che invece non si può togliere.” Riget inserisce queste brevi, fulminanti battute come enigmatiche “sospensioni” tra un blocco di sequenze e l’altro. I due umili lavapiatti consumano la loro esistenza tra chiacchiere e stoviglie, esclusi da una società (le premurose socialdemocrazie scandinave) che si preoccupa soltanto di renderli “socialmente utili”.
Tutta la violenza e l’odio che ribolle nell’edificio, svanisce nella quiete ovattata di una monotona occupazione. Ma Trier riscatta questa marginalità regalandole un potere sovrumano, uno sguardo di superiore e quasi “involontaria” onniscienza. Una medesima onniscienza sembra possedere Mona, la bambina che il tronfio chirurgo svedese dell’ospedale, Stig Helmer, ha reso cerebrolesa per una pesante negligenza (la mancata somministrazione di ossigeno) durante un’operazione al cervello. Apparentemente catatonica, Mona giace quasi immobile nel letto, mentre le sue mani, come in preda a un riflesso condizionato, rimescolano instancabilmente tra le lenzuola dei dadi che hanno lettere al posto dei numeri e che spesso finiscono per rivelare frasi compiute che denunciano il misfatto di Helmer. In modo ancor più manifesto che nel caso dei due lavapiatti, il sapere di Mona ha risvolti apertamente “ultraterreni”, che peraltro lo stesso Trier conferma citando il celebre filosofo e pedagogo austriaco Rudolf Steiner (1861-1925), fondatore dell’antroposofia, secondo il quale “i mongoloidi sono inviati celesti” (1). Tale esaltazione spirituale della diversità si fa ancor più chiara nel successivo Riget 2, nuova serie in cinque puntate realizzata nel 1997. “Fratellino” (Lillebror), il neonato dal volto precocemente adulto che l’infermiera Judith partorisce nell’ultima inquadratura di Riget 1, si rivela affetto da un incredibile morbo: una fortissima accelerazione del suo ritmo di crescita. Figlio del demoniaco Aage Krüger, un fantasma che riaffiora dal sanguinoso passato del Regno (uccise un’altra figlia sottoponendola ad inquietanti esperimenti), Fratellino nasce per divenire l’esatto contrario del suo procreatore: un essere dotato di infinita bontà, di un torrenziale desiderio di amore, di farsi contenitore e carico di tutto il male dell’universo, ciò che obbliga il suo corpo a dilatarsi oltre ogni limite. Dopo poche settimane è già grande come la stanza che lo ospita; le sue membra, incapaci di sorreggerlo, devono essere assicurate a una complessa struttura che lo mantiene perennemente in piedi e immobile. Sulla carta, sembrerebbe una trama da fumetto underground.
Al contrario, il brillante sarcasmo che Trier sparge in ogni angolo del Regno si dissolve appena entriamo nella camera di Fratellino; e superba è la capacità del regista nel cogliere – all’interno di una situazione che parrebbe fatalmente destinata al ridicolo – momenti di altissima commozione e bozzetti familiari di sconvolgente intensità. Ma i tre disabili di Riget costituiscono ancora delle pedine secondarie della trama. Sarà a partire da Le onde del destino (Breaking the Waves, 1996) che il diverso uscirà dall’angolo per conquistare il centro della scena, in un melodramma intellettuale che esplora tutti i tipi immaginabili di sentimento e desiderio eccessivo. Siamo negli anni Settanta: in un villaggio della Scozia pesantemente dominato dal puritanesimo, la giovane e ingenua Bess McNeill sposa l’inglese Jan (per la comunità, uno “straniero”), un uomo molto più anziano che lavora in una piattaforma petrolifera in mezzo all’oceano. Nei momenti di turbamento, Bess è abituata a parlare con Dio e a rispondersi da sola, assumendo il tono burbero e sanzionatorio che la sua religione le ha insegnato ad attribuire al divino. Terminato un breve periodo di idillio, per Jan giunge l’ora di tornare al lavoro. Bess è disperata e prega Dio di riportargli il suo uomo con qualsiasi mezzo: subito dopo, un terribile incidente sulla piattaforma procura a Jan una lesione cerebrale che ne determina la paralisi. Tornato a casa, Jan si rende conto che non potrà mai più fare l’amore e chiede a Bess di prendersi un amante. Dopo una timida ritrosia, Bess obbedisce e si trasforma in una prostituta, confessando poi ogni singolo episodio all’immobile e divertito Jan. Rinfrancata dai benefici che i suoi racconti procurano al marito, Bess si abbandona a prove sempre più umilianti. Viene condannata violentemente dalla famiglia e dalla Chiesa. Alla fine, accetterà la morte per mano di un gruppo di sadici marinai, rendendosi così degna del miracolo: la guarigione di Jan. Le onde del destino illustra il mistero della sofferenza umana in una duplice connotazione di “condanna” e di “dono”, di grazia e disgrazia. Maschile e femminile, disturbo mentale (l’ossessione erotico-mistica di Bess) e disturbo fisico (la paralisi di Jan) divengono elementi speculari di uno scambio simbolico fortemente intriso di sentimento cristiano. Anche qui, come in Riget, l’individuo menomato è un essere superiore. Il corpo muto di Jan è l’ideale complemento del Dio di Bess, incorporeo e dotato di sola voce. Benché prigioniero in un letto, Jan è reso “onnisciente” dai racconti di Bess: al pari dei lavapiatti di Riget, conosce tutto ciò che accade al di là delle mura tra cui è rinchiuso e smaschera all’istante ogni falsità nelle parole della moglie. E ancor più elevato è l’indistruttibile potere di Bess, che per dimostrarsi degna di Jan e pienamente partecipe delle sue sofferenze, diventerà una prostituta come Maddalena, garantendo con il suo sacrificio la resurrezione del suo dio. Di fronte allo spiritualismo straripante de Le onde del destino, il successivo Idioti (Idioterne, 1998) costituisce un irriverente e materialistico controcanto. Normali che si fingono anormali, in segno di ribellione contro il principale valore borghese: la Rispettabilità, un gruppo di giovani danesi decide di sottrarsi al mondo per ricercare il proprio “idiota interiore”. Intromettendosi nelle più austere situazioni pubbliche, gli “idioti” fingono di essere affetti da imbarazzanti menomazioni psicofisiche fino a mettere a dura prova la tolleranza dei conformisti, ma anche a sfidare i limiti del proprio stesso coraggio. In questa compagnia sempre in bilico tra eccitazione e perdita di sé fa il suo ingresso Karen, una donna che ha perduto da pochissimo il suo bambino ed è realmente affetta da turbe depressive. Ennesima “mutante volontaria” del cinema di Trier, Karen accetterà d’impulso questa doppia maschera di folle che finge di essere folle, di malata che tenta di dominare i propri disturbi esagerandone gli effetti. Nel soggetto di Idioti si scorge, sublimato, il ricordo di un “trauma” infantile del regista, provocato dal padre: “Era divertente e gli piaceva scherzare, al punto che mi vergognavo spesso quando passeggiavamo insieme. Gli capitava di zoppicare o di trascinare la gamba fingendosi un handicappato. Ogni tanto si metteva persino nelle vetrine di un negozio, con un braccio su e uno giù come i manichini: quel genere di idee bislacche che i bambini detestano nei loro genitori. E questo ogni volta, era orribile!” (2) Ma la figura paterna è soprattutto legata a uno choc ben più grave: la confessione della madre, che in punto di morte rivela al giovane Lars di averlo concepito con un altro uomo.
Ora, non è possibile sapere fino a che livello di consapevolezza il regista mescoli cinema e autobiografia. Ma senza dubbio questi episodi sono illuminanti, poiché in Trier l’immagine della persona disabile è spesso indissolubilmente legata al rapporto genitori-figli. La sotto-trama che si sviluppa intorno al personaggio di Fratellino in Riget 2, ad esempio, è tutta incentrata sul complesso rapporto a quattro che si instaura tra un figlio problematico, una madre tenerissima e indomita, un padre naturale diabolicamente ostile, un padre putativo sempre più disinteressato alla situazione. È questo uno dei modelli ricorrenti del cinema di Trier: madri pronte al sacrificio e padri invisibili, proprio come fantasmi, o figure divine. Come il Dio de Le onde del destino, che indirizza Bess verso la morte senza mai concedersi in carne e ossa. O come la voce maschile incorporea che apre Europa e ci ordina di arrenderci al suo volere (e la scelta dell’attore è acuta: Max von Sydow è stato Gesù in un film di Nicholas Ray ed emissario di Dio ne L’Esorcista di Friedkin). Quest’idea della “visione negata” torna anche nel penultimo film di Trier Dancer in the Dark (2000). Ambientato negli anni Sessanta, in una piccola città dello stato di Washington, il film racconta la storia di Selma, un’immigrata cecoslovacca colpita da una malattia che le causa una progressiva diminuzione della vista. Selma lavora come operaia in una fabbrica e vive con un figlio di dodici anni affetto dallo stesso problema. Per evadere dalla sua realtà, di tanto in tanto la donna sogna di essere la protagonista di un musical, la cui colonna sonora scaturisce dai rumori che incontra attorno a sé. In Trier, la diversità/inferiorità fisica va di pari passo con la diversità geografica: il protagonista di Europa è un improbabile statunitense “immigrato” in Germania; in Medea dilaga l’odio tra la Grecia e la Còlchide, in Riget tra svedesi e danesi, in Le onde del destino tra scozzesi e inglesi… Ma è sicuramente con quest’ultimo film che Dancer in the Dark rivela il maggior numero di simmetrie. Come Bess, Selma è in diretto contatto con un universo parallelo e privato. Anche qui abbiamo un padre invisibile e mai nominato. Anche qui c’è uno scollamento tra immagine e suono, tra vista e udito: musica e canto suscitano un mondo teatrale e quasi “edenico” (in cui tutti i personaggi diventano attori di una commedia palesemente fittizia), mentre la visione si fa progressivamente oscura negli occhi sempre più offuscati di Selma. E anche qui la malattia è l’oggetto di un drammatico scambio, che questa volta tuttavia non è più basato su una certezza spirituale, bensì su un triviale calcolo economico: accusata ingiustamente di omicidio, Selma rinuncia a spendere i suoi risparmi per un avvocato, per poter pagare l’operazione agli occhi del figlio. Rifiutando di difendersi, si autocondanna all’impiccagione: chiude gli occhi per sempre per poter riaprire gli occhi di un altro. La patologia è dunque il fulcro dell’opera di Lars von Trier. E il sacrificio del diverso, incolpevole e inconsapevole straniero a ogni normalità altrui, è il suo approdo inevitabile. Vi sono macchie che per il mondo è necessario togliere. E in fondo lo stesso Trier è un diverso: involontariamente (ha sempre creduto di essere ebreo come il padre) e volontariamente (il “von” del suo nome è inventato).
Non è un caso, comunque, che la presenza del disabile risalti così nettamente solo da Riget in poi: la realizzazione di quest’opera coincide infatti con un punto di cesura nella poetica dell’autore, che segna una svolta inaspettata e drastica. Nel marzo 1995 (anche sull’onda delle esperienze maturate sul set di Riget), Trier e il suo collega Thomas Vinterberg pubblicano un singolare manifesto intitolato “Dogma 95”, nel quale pronunciano un bizzarro e affascinante “voto di castità” che sottoporrà i loro film a una severa disciplina sintetizzata in una serie di regole: obbligo della macchina da presa a mano, divieto di produrre suoni separati dalle immagini, proibizione di filtri e trucchi ottici, di scenografie costruite in studio, di storie ambientate nel passato. Sembrerebbe quasi un tentativo di convertire il cinema di finzione alle tecniche del documentario; in realtà è soprattutto l’utopia di un ritorno alla povertà che – ironicamente – ricorda il cristianesimo primitivo. Gli stessi termini impiegati nel manifesto (“castità”, “dogma”…) confermano questa lettura: è la scelta di uno stile monacale che intende contrastare e criticare lo sfarzo dei mercanti del tempio di Hollywood e dintorni con le armi di un ascetismo estremista. Così, dopo aver attraversato tutte le abbaglianti tentazioni del formalismo, le vertigini di una perfezione quasi perversa, dal 1994 Trier si lancia alla ricerca di un cinema “disabile”, deviato verso la bellezza dell’irregolare, di una calcolata ruvidità. E questa asprezza della forma si sposa quasi inevitabilmente a un’asprezza di contenuti: l’immagine si fa più “umile”, e allo stesso tempo rende più umili anche i suoi personaggi. Meno levigato e forse più vero, meno algido e forse più istintivo, il secondo Trier si apre così alla figura del diverso con una partecipazione che nella storia del cinema trova rarissimi equivalenti. Più di ogni altro autore contemporaneo, la sua poetica è letteralmente dominata dall’ossessione dell’infermità, di un corpo che la rinnega, di una società che la fugge, ma che allo stesso tempo non può non arrestarsi a contemplarla, tra paura e desiderio, quasi soggiogata dal suo mistero. “Esseri deboli pieni di malattie” (3) è l’espressione (scherzosa?) che Trier utilizza per definire i registi. Se questa auto-diagnosi fosse esatta, i suoi film dovrebbero allora essere letti come lo sguardo di un malato che contempla altri malati. Ecco perché, prima di ogni storia e di ogni inquadratura da costruire, il cinema di Lars von Trier è soprattutto un mirabile desiderio di empatia, tanto cerebrale quanto ingenuo, tanto sofferto quanto esibizionistico: raccontare individui imperfetti attraverso immagini imperfette.

(*) Dante Albanesi è autore di documentari e collaboratore di varie riviste, tra cui Cineforum. Segnocinema, reVision. Ha pubblicato Da Cibaria a Moulin Rouge! – Cento anni di musica per il cinema (San Benedetto del Tronto, Cineforum, 2002).

NOTE 1Lars von Trier, Il cinema come Dogma – Conversazioni con Stig Björkman, Mondadori, Milano 2001, p. 209. 2Ivi, p. 15. 3Ivi., p. 16.

C’era una volta un paese lontano…Cinema, sordità e identità

Premessa
In un brano di Platone si parla di sordi che si esprimono muovendo le mani, ma le prime notizie storiche sull’uso dei segni nell’educazione dei bambini sordi

risalgono al Cinquecento, quando Girolamo Cardano si pone il problema dell’istruzione dei sordomuti e Pedro Ponce de León viene chiamato da un nobile castigliano a educare i suoi tre figli non udenti. Il suo metodo, più tardi ripreso da Juan Pablo Bonet e basato sull’imitazione della posizione dei diversi organi atti ad emettere i suoni e sulla lettura labiale, è all’origine dell’oralismo, che domina i metodi europei ininterrottamente fino alla metà del XVIII secolo. Nel 1760 l’abate L’Epée fonda a Parigi l’Institut National des Sourds-muets, creando un metodo basato sulla gestualità. A guidarlo è l’idea – rivoluzionaria – del gesto come lingua naturale o materna. L’Epée forma degli insegnanti e il suo sistema si diffonde anche nel resto d’Europa.
Nel 1817, R.A. Bébian, responsabile pedagogico della scuola, propone una tesi altrettanto innovativa: la considerazione che la lingua dei gesti è insostituibile, concezione che legittimerà l’esistenza di cattedre occupate da docenti sordi. Nell’Ottocento tra i sostenitori della scuola oralista e quelli della lingua dei segni le polemiche si inaspriscono e nei paesi dove nasce la scuola dell’obbligo prevale l’uniformazione dei metodi. L’Italia non è esclusa da questo processo, soprattutto a causa della recente unificazione del Regno e della necessità di una lingua unica. Con il Congresso di Milano del 1880, gestito per lo più da educatori francesi e italiani, il linguaggio dei segni viene infine proscritto. A questa data, tuttavia, il linguaggio dei segni già stato importato negli Stati Uniti e, dalla collaborazione tra Laurent Clerc, uomo di cultura sordo di nascita e Thomas Hopkins Gallaudet, nascono nel nuovo continente diverse scuole, finché il figlio di Gallaudet, Edward, fonda nel 1864 il primo College per sordi, divenuto in seguito Gallaudet University (Washington), tuttora attivo .

Dal precinema al cinema
La questione della sordità (delle sordità) ha da subito riguardato il cinema, anche prima della sua nascita. Una figura centrale in questo senso è quella di Georges Demeny (1850-1917), che sperimenta con successo il suo fonoscopio presso l’Institut National des Sourds-muets nel 1891. Si trattava, in pratica, di realizzare dei “ritratti viventi”. Con l’aiuto del prof. Marichelle, i giovani sordi dell’istituto decifravano così il movimento delle labbra e si esercitavano a ripetere le parole pronunciate, secondo i principi della scuola oralista che il Congresso di Milano aveva rigidamente sancito. Questo sistema è risultato utile, in anni recenti, per il recupero di alcuni film, la cui colonna sonora si era deteriorata.
Uno dei casi più noti è quello di Lawrence d’Arabia (David Lean, GB, 1962), il cui restauro, curato da Robert Harris alla fine degli anni ’80 si è avvalso del contributo di una coppia di sordi per la decifrazione di alcuni dialoghi. Lo stesso è avvenuto per La dame de Malacca (M. Allégret, 1937), ma spesso questi speciali collaboratori non hanno avuto la soddisfazione di godere del risultato del loro lavoro. Il problema è peraltro di portata molto più ampia e riguarda l’accessibilità dei sordi al cinema in generale, compresi paradossalmente i film interpretati da attori non udenti come il notissimo Figli di un dio minore (R. Haines, 1986) con Marlee Matlin, premio Oscar per la recitazione, o i “classici” di Truffaut L’uomo che amava le donne (1977), con Roseline Puyo, e La camera verde (1978), con Patrick Maléon, o ancora, per citare un titolo italiano, La lunga vita di Marianna Ucria (R. Faenza, 1996) con Emmanuelle Laborit . Da quanto detto fin qui emergono allora gli elementi per una riflessione sulla sordità come “cittadinanza”; la disabilità si trasforma cioè in un problema di identità culturale e linguistica. In rapporto al cinema questo fenomeno è lampante: i sordi possono fruire soltanto (e parzialmente) il cinema straniero in lingua originale sottotitolato, dato che sono ancora molto rari i casi di pellicole con sottotitoli specifici per non udenti.

Cinema, sordità e identità
Sin dalle “vedute” Lumière, il cinema ha avuto tra le sue funzioni quella di aprire delle “finestre” su aspetti del mondo che ci resterebbero sconosciuti. Allo stesso modo, più di ogni altro mezzo di comunicazione è riuscito ad aprire un varco ai non addetti ai lavori verso il mondo della sordità. Tuttavia, se il grande schermo ha presto ospitato personaggi deformi, colpiti da amnesia, da autismo o da cecità, i sordi sono stati a lungo delle presenze quasi invisibili. Spesso si è trattato di personaggi prettamente funzionali alla narrazione (Uomo bianco tu vivrai, J. Mankiewicz, 1950; L’ora del delitto, I. Lupino, 1956) o di caratteri comici (Un cappello di paglia di Firenze, R. Clair, 1927; Il romanzo di un baro, 1936, S. Guitry; Straziami, ma di baci saziami, D. Risi, 1968), che non approfondiscono la questione della diversità . Diversità che è già insita nella parola “sordo”, non adeguata ad indicare le varie tipologie di questa forma di disabilità, che vanno dai sordi di nascita, quindi “gestuali”, ai mal udenti con o senza apparecchio e ai sordi acquisiti, spesso, quindi, oralisti. È invece proprio la comprensione della differenza l’elemento più interessante di quei film che, trattando di sordità, permettono realmente di penetrarne il mondo e di scoprirlo. In questo senso, sembra che nel tempo il cinema abbia percorso un lungo cammino prima di giungere a lavori che pongono la questione nei termini del riconoscimento di una minoranza, introducendoci contemporaneamente alla conoscenza di quest’ultima e mostrando quanto, nel confronto tra udenti e non udenti, tra le loro lingue e le loro culture, la disabilità sia in fondo reciproca.

Oltre la metafora
La questione dell’identità culturale è stata messa in evidenza in termini metaforici, ad esempio, in un film come Le cercle parfait (A. Kenovic, Bosnia/Francia, 1996), in cui due orfani, di cui uno sordo, si sono persi in una Sarajevo in pieno disfacimento, un luogo “senza più voce né lingua” . Se la figura del sordo a volte funziona come metafora dell’incomunicabilità o della perdita di identità, film come Le pays des sourds (N. Philibert, 1992) o Sourds à l’image (B. Lemaine, 1996) penetrano nel mondo complesso della sordità grazie alla collaborazione di interpreti non udenti, i quali rivendicano la loro specificità e il diritto di non adeguare la propria lingua (e la propria cultura) a quella degli udenti. Con questi film sembra che il cinema sia finalmente giunto negli anni Novanta a sviluppare un discorso maturo sulla questione. Ripercorrendo infatti brevemente la storia del cinema , si osserva che all’epoca del muto, benché in modo limitato, personaggi e attori sordi sono presenti in vari film. A cavallo tra gli anni Venti e Trenta, con l’avvento del cinema sonoro, dominato all’inizio per lo più dalla canzone, il personaggio sordo viene eliminato o ridotto a ruoli secondari (per esempio in Number 17, 1932, di A. Hitchcock, o in Chéri Bibi, 1937, di L. Mathot) e si devono attendere gli anni Quaranta per vedergli assumere un ruolo centrale. Tuttavia, esso rimane più che altro una figura dell’estraneità ed è assimilato al mondo dei deboli che devono difendere la propria integrità (Johnny Belinda, 1948, di J. Negulesco), oppure, in altri casi, la sordità è vista – soprattutto nel melodramma e fino a tempi recenti – come pura infermità (Mandy, la piccola sordomuta, 1952, di A. Mackendrick; Höenfeuer/L’âme soeur, 1985, di F.M. Murer; Addio Mister Holland, 1995, di S. Herek). A questi film si possono inoltre aggiungere quelli appartenenti al genere biografico. Oltre alla Helen Keller di Anna dei miracoli, altre grandi figure cinematografiche di sordi sono comparse nei film su Beethoven e Goya, ma anche su Edison (colpito da sordità parziale), sull’attore “dai mille volti” Lon Chaney (figlio di genitori sordomuti) e perfino sull’inventore del telefono Bell (sposato con una giovane non udente, ma accanito avversario della lingua dei segni). I titoli più significativi del genere sono però forse L’abbé L’Epée (1982/89) girato dal regista sordo M. Rouvière con una troupe di non udenti , e i due film televisivi sul fotografo giapponese Koji Inoue (1918-1993), Regardez-moi, je vous regarde: Koji Inoue, photographe sourd (1996) e Koji Inoue, phographe au-delà des signes (1999), entrambi di Brigitte Lemaine. Con risultati alterni, si può constatare che il cinema si è aperto al tema della sordità e alla partecipazione di attori sordi soprattutto a partire dagli anni Ottanta, nel quadro di un’evoluzione generale delle mentalità in relazione al riconoscimento delle minoranze, anche se moltissimo resta ancora da fare in questo senso .
In particolare, un varco verso il mondo della sordità e del linguaggio gestuale (è da notare che i principi del Congresso di Milano vengono a decadere verso la metà degli anni Settanta) si apre con Figli di un dio minore, a cui seguono altri film anche molto diversi tra loro, come Quattro matrimoni e un funerale (M. Newell, 1993), Ridicule (P. Leconte, 1995), Le cercle parfait o La lunga vita di Marianna Ucria. Sembra tuttavia che il luogo privilegiato in cui questo mondo si dispiega in tutta la sua portata sia quello del documentario. In particolare, il già citato film di N. Philibert Le pays des sourds (1992) , che ha circolato in molti festival internazionali (Belfort, Locarno, Firenze), segna una tappa fondamentale, preceduta da altri documentari meno noti, quali Les gestes du silence di H. Storck (1962), Les enfants du silence di M. Brault (1962) o De Nieuw Ijstitjd (1974) di J. Van Der Keuken, e seguita dagli importanti Sourds à l’image, che riprende le testimonianze di artisti colpiti da sordità e Tanz der Hände (1997), dei due cineasti non udenti Ph. Danzer e P. Hemmi, che si concentra sull’importanza della lingua dei segni. Le pays des sourds pone subito (come è evidente fin dal titolo) la questione della sordità come “nazionalità”. L’idea di una comunità che combatte per salvaguardare la propria diversità attraverso la lingua dei segni è il tema portante del film, articolato come un viaggio attraverso un’ampia casistica di testimonianze. Ma è importante sottolineare che il documentarista francese pone continuamente udenti e non udenti sullo stesso piano, spesso scambiandone le posizioni: vediamo non udenti che apprendono il metodo oralista e udenti che apprendono, con enorme difficoltà, la lingua dei segni. Il tema della rivendicazione dell’identità non abbandona mai il percorso del film, che insiste sulla fierezza di alcuni sordi e mostra la sofferenza ingiusta di altri (per esempio quella derivata dal periodo di reclusione forzata di una donna), le difficoltà nell’insegnamento, l’importanza del senso della vista (“per ascoltare, guardo”, afferma il piccolo Florent), i problemi della vita quotidiana (la ricerca di un alloggio da parte di una coppia di sordi), le situazioni quasi comiche che talvolta si possono creare nell’interazione (il matrimonio di due sordi celebrato da un prete udente). Parafrasando Jean-Claude Poulain, l’insegnante protagonista, che conclude il film dicendo che un segno è come un passaporto, si può certamente pensare che con Le pays des sourds la sordità ha trovato il proprio passaporto (e la propria identità) nel mondo del cinema, tanto più che il documentario è stato distribuito con sottotitoli sia per il pubblico sordo che per il pubblico udente (molte scene sono nella lingua francese dei segni), agendo in questo modo concretamente sulla ricezione e sul processo di riconoscimento della lingua gestuale, attualmente ancora in atto.

(*) Laura Vichi svolge attività di ricerca presso l’Università di Bologna. Socia fondatrice dell’Associazione Home Movies, ha pubblicato i saggi Jean Epstien (Milano, Il Castoro, 2003) e Henri Storck. De l’avant-garde au documentaire social (Crisnée, Yellow Now, 2002).

Poesie del corpo sperimentale

La fantascienza e la reinvenzione biologica

Il cinema è un grande laboratorio dedicato all’immagine del corpo. Molto spesso, il corpo rappresentato non possiede le caratteristiche di integrità, completezza e normalità che l’uomo presume di avere quando pensa a se stesso. Così come il comico diventa a volte vera poesia di un corpo diverso, la fantascienza sembra il genere privilegiato ad accogliere quella che potremmo chiamare una lirica del corpo sperimentale. La fantascienza sembra non prendere in considerazione il corpo umano se non nel momento in cui esso muta o subisce delle conseguenze. Non c’è fantascienza cinematografica senza diversità, e anche quando il genere si occupa di copie degli umani – si pensi in particolare a Blade Runner – questa imitazione si scontra con altri limiti, meno visibili, come la durata della vita o l’autenticità dell’esperienza umana. I temi della deformità, della limitazione e del superamento imposto di un corpo normale sono l’esperienza quotidiana della narrazione science fiction.
Che l’immaginario fantascientifico tragga origine dal più vasto alveo del fantastico è dato su cui gli studiosi per solito si trovano d’accordo. In fondo, se il fantastico dà vita a tutte le tensioni tra ordinario e straordinario che i vari teorici hanno cercato di sistematizzare, la fantascienza fa lo stesso delegando all’immaginario scientifico la giurisdizione su questo passaggio.
Ecco perché la metamorfosi fantastica diventa, nella fantascienza, un processo scatenato dalle macchine: mutazioni causate da raggi atomici, invisibilità indotta dalle invenzioni di uno scienziato folle, sdoppiamenti e moltiplicazioni dell’io ottenute con teletrasporti di materia, e persino, nell’epoca del ciberpunk, combinazioni e contaminazioni tra biologico e meccanico. Naturalmente la fantascienza non è solo questo: i luoghi comuni narrativi del genere riguardano il tempo (viaggi nel tempo, distorsioni cronologiche, crisi nella percezione della durata); lo spazio (lo spazio esterno, quello dei viaggi interplanetari, e lo spazio interno, quello del drive di un computer o, perché no, del corpo umano attraversato come un universo sconosciuto); l’ignoto e la possibilità di altre forme di vita (tutto il cinema degli alieni). In questa sede ci interessa però ragionare sul valore che la fantascienza attribuisce al corpo. E’ possibile, in altri termini, considerare la fantascienza un genere nel quale il corpo “si libera” dei suoi limiti, esce da se stesso, affronta un processo di disgregazione positiva? A ben vedere, la fantascienza preferisce mettere in scena paesaggi disastrosi e situazioni catastrofiche, altrimenti la rappresentazione non conflittuale della scienza e del progresso rischierebbe di non interessare alcuno. L’idea degli storici della fantascienza, letteraria e cinematografica, è che questo genere sia attraversato da un paradosso: ovvero che esso si addensi, con un atteggiamento in alcuni casi retrogrado e misoneista, intorno a forme di fobia per le accelerazioni della scienza e della tecnica, e che al tempo stesso costituisca un luogo privilegiato della sperimentazione cinematografica, o almeno di quel tipo di sperimentazione che è l’avanguardia tecnologica applicata alla realizzazione filmica. Questo registro intrecciato di terrore e ammonimento verso la hybris del nuovo, e di euforia nei confronti di soluzioni tecnologiche e paradisi artificiali, fa sì che non sia facile indagare le “poetiche biologiche” dentro la vasta filmografia di genere. Si può però tentare di indovinare alcune tendenze principali e qualche film essenziale. Pensiamo, ad esempio, a un capolavoro come Radiazioni BX distruzione uomo, diretto nel 1957 da Jack Arnold e tratto dal romanzo Tre millimetri al giorno di Richard Matheson. In questo caso, sotto l’apparenza di un film paranoico nei confronti dei pericoli della guerra fredda e della corsa agli armamenti atomici, si nasconde in realtà una complessa elegia delle esperienze fisiche imprevedibili. Il protagonista, costretto a rimpicciolire progressivamente per aver attraversato una nebbia radioattiva, deve non solo rapportarsi a un mondo improvvisamente gigantesco e a lui sconosciuto, ma rivedere continuamente le proprie conoscenze (percezioni) del sé e dell’altro. Lo straziante passaggio da uomo e microbo, da essere normale a insetto microscopico rappresenta senza ombra di dubbio il principale motivo dell’angoscia prodotta dal film. L’abilità di Jack Arnold sta nel non enfatizzare l’aspetto sensazionalistico della vicenda e nel caricare di sincero patetismo la figura del protagonista, strappato alla sua normalità e gettato dentro un’esperienza solitaria e sconfortante.
Alcuni sostengono che Radiazioni BX distruzione uomo sia in verità un grande melodramma, uno di quei “film di malattia” che talvolta si mascherano dentro altri generi. Se questo è vero, il finale in cui il protagonista Scott Carey sente di essersi ormai fuso con la natura, in un luogo 0 tra immateriale e infinitesimale, abbandonato nel cosmo da una lirica, crudele carrellata a retrocedere, appartiene alle vette del cinema americano degli anni Cinquanta. Agli scienziati è invece delegato un ruolo meno innocente. L’accrescimento delle proprie doti fisiche (e, nel remake di Cronenberg, sessuali) non è un motivo sufficiente perché l’etica della scienza possa permettere al Dottor K – in verità André Delambre – di diventare tutt’uno con una mosca. Parliamo evidentemente di L’esperimento del Dottor K (1958), di Kurt Neumann, in cui l’ibridazione del corpo umano con quello dell’insetto dà vita a un incubo dalle ascendenze surrealiste e il cui motivo centrale è appunto il progressivo svelamento del corpo mutante dell’uomo-mosca. Lentamente, lontano dagli occhi della moglie che lo assiste inorridita, il nuovo corpo mostruoso si spoglia e lascia intravedere l’inedita metamorfosi, all’interno di un gioco con lo spettatore che suggerisce l’esperienza dello strip-tease. Il film non è certo un inno alle trasformazioni del corpo umano e tuttavia – come spesso accade nella fantascienza – lascia trapelare la stanchezza dei limiti tradizionali e il desiderio di vivere nuove esperienze, anche le più spiacevoli, pur di trasformare il proprio modo di vivere e partecipare alla realtà. In questa direzione, un vero gioiello è il film di Roger Corman L’uomo dagli occhi a raggi X (1963), perfetto incrocio (almeno nell’ultima parte, in cui il protagonista è vittima di una serie di insopportabili visioni psichedeliche) tra exploitation e cinema sperimentale. Qui l’esperimento del dr. Xavier, che riesce a potenziare la propria vista fino ad arrivare a penetrare la materia con lo sguardo, è destinato al fallimento. Ciò che Xavier ottiene è solo la riprovazione della comunità scientifica, dopo di che si ritrova a fare il fenomeno da baraccone in un circo (scienza e circo, in effetti, si specchiano spesso e volentieri: basti pensare a Il gabinetto del Dr. Caligari di Wiene o a Freaks di Tod Browning). Ormai assediato dal senso che era riuscito a trasformare, il protagonista non può più guardare e, in un impeto dalle chiare ascendenze tragiche, finisce col cavarsi gli occhi. Il mito del superuomo (o davvero del Superman, pensando al fumetto) viene così abbandonato, dato che Xavier preferisce consegnarsi alla cecità, dunque all’handicap visivo, piuttosto che rimanere condannato a vita all’eccesso di immagini (ciò che accade anche nel recente, melodrammatico A prima vista di Irwin Winkler). A questo punto, visti i chiari legami con il film di Corman, vale la pena aprire una brevissima digressione sui supereroi del fumetto di fantascienza.
Nella recente fioritura di adattamenti cinematografici da albi famosi, bisogna ricordare almeno X-Men e X-Men 2, in cui Bryan Singer ha cercato, non senza difficoltà, di trasferire sul grande schermo la complessa saga di Stan Lee (e tuttavia, quasi meglio riuscita è l’imitazione vampiresca di Blade e Blade 2). Qui, a parte il fatto che lo scienziato progressista, contrapposto al feroce Magneto, si chiama Xavier, bisogna notare che vi è una chiara interpretazione del mito dei mutanti protagonisti della saga, appunto gli X-Men, come diversi isolati dalla società. Il superpotere è perciò una debolezza che i nostri eroi scontano in termini di razzismo, tanto è vero che Singer apre il primo dei due episodi in un campo di concentramento, cosa che gli è costata (con qualche ragione) un serio imbarazzo da parte della comunità ebraica. Tuttavia, la nobiltà delle intenzioni è fuori di dubbio. Questa particolare lettura dei supereroi come disabili è presente anche nel recente Daredevil: qui il supereroe cieco non solo si dimostra in grado di potenziare tutti gli altri sensi, ma anche e soprattutto di condurre, durante il giorno, una vita assolutamente integrata, e persino di fare smaccatamente il playboy grazie a un temperamento impertinente e coraggioso. Tornando alla fantascienza classicamente intesa, dovremmo proseguire il cammino citando altri due filoni importanti: il post-atomico e il cyberpunk. Nel primo caso, ci troviamo di fronte a una variante futuribile del genere western: lande senza più padroni, cacciatori e freaks che giocano a fare i cowboys e gli indiani, corpi semidistrutti da un orrido conflitto. Il post-atomico – si pensi in primo luogo alla trilogia di Mad Max, ma anche a Giochi di morte di David W. Peoples e a L’uomo del giorno dopo di Kevin Costner – prevede che il mondo sia stato azzerato da una nuova guerra mondiale, da una catastrofe ambientale o da una tragedia atomica. In tutti i casi, è l’uomo ad aver fatto fuori se stesso. L’umanità che sopravvive e si rigenera è dunque una comunità di reduci, di ciechi, di orbi, di feriti dentro e fuori. Nel caso del ciberpunk, invcece, potremmo dire che alla poetica del corpo riprodotto (nella doppia tradizione Frankenstein-Metropolis) si sostituisce ora un più urgente fenomeno di penetrazione della tecnologia all’interno del corpo umano. Intuita a livello epistemologico in quasi tutti i suoi film da David Cronenberg – che non a caso ha retrodatato l’insorgenza di questo fenomeno al rapporto uomo/automobile, di cui ha messo in scena il fondamentale carattere di promiscuità in Crash – e da un capolavoro figurativo come Tetsuo di Shin’ya Tsukamoto, il personaggio del cyborg, o dell’essere compromesso dalla tecnologia, è diventato il riconoscibile protagonista di molte opere. Negli anni Ottanta il Robocop e il Terminator hanno modellizzato a livello embrionale il binomio carne/macchina, rinunciando a ulteriori approfondimenti e accontentandosi – si fa per dire – di agire semplicemente “in quanto” supereroi di nuova generazione. A Cameron e Verhoeven, in altri termini, interessa non tanto la meccanizzazione dell’umano, quanto piuttosto la compromissione della sua carne. Con lo svilupparsi della poetica cyberpunk – mirabilmente rivelata da scrittori come William Gibson, Bruce Sterling, Pat Cadigan, Paul Di Filippo -, la raffigurazione della crisi antropomorfica di fronte ai nuovi scenari della tecnologia hardware e software raggiunge invece limiti inesplorati. Negli anni Novanta anche il cinema ne assume quindi dati e suggestioni, dopo aver già preconizzato l’avvento romanzesco di un futuro postmoderno e megaindustriale nelle visioni di Blade Runner. Film come Johnny Mnemonico o come il nostro Nirvana, offrono un buon numero di suggestioni riprese dalla letteratura cyberpunk, dagli spinotti attaccati alla scatola cranica ai viaggi nel mondo virtuale, a tutta una serie di strambi scontri all’interno del net.
Tutti questi film hanno però in comune la mancanza di un progetto cinematografico consapevole: la difficoltà di superare la barriera dello schermo nello schermo, ovvero il paradosso estetico per cui il cinema si scontra con una impasse nel rappresentare alcuni media “fuori di sé”, appare in queste opere del tutto palese. Mentre quindi già Cronenberg e Tsukamoto radicalizzavano l’impatto tra biologico e meccanico, imponendo le proprie ossessioni anche attraverso il ricorso all’orrore e alla repulsione, il cinema di fantascienza commerciale ha dovuto attendere Matrix (che comunque non è un capolavoro) per avere almeno un’occasione coerente di sviluppare il genere verso nuove direzioni. Intuendo che la prassi figurativa sino a quel momento perseguita si era rivelata un mezzo disastro, i furbi fratelli Wachowski hanno attrezzato il proprio film come un’avventura postmoderna in grado di convogliare con destrezza gli aspetti più alla moda del cinema di Hong Kong, del noir metropolitano, del videoclip in stile Tarsem (Prodigy, Nirvana), del videogame di ultima generazione. Solo all’interno di questo humus, dunque, il cyberpunk al cinema riesce a funzionare. Solo come ultimo action movie possibile, la tecno-fantascienza può legittimamente trionfare. La matrice, del resto, è un “altromondo” distopico, che ricorda le vecchie fobie della fantascienza sociologica anni Settanta e le nuove manie del paganesimo new age. Quest’ultimo, al di là di facili schematizzazioni, si presenta frequentemente nella fantascienza contemporanea proprio in quanto scopre nelle nuove tecnologie un interessante attracco per verificare esteticamente la propria tendenza alla smaterializzazione del reale, nella ritualità sciamanica del dio computer. La traiettoria che porta dal Terminator di metallo ricoperto di pelle ai terroristi zen di Matrix – che necessitano di iniezioni nel collo per trasportare informazioni alla corteccia cerebrale -, indica un viaggio dall’uomo alla macchina che non implica più una relazione di contrasto, anche violento, tra i due elementi, ma un processo di fusione che del resto la scienza medica ha da tempo cominciato a costruire: dal primo uomo con pace-maker agli ultimi esperimenti di impianti microtecnologici sotto pelle. In verità, la coesistenza di horror e fantascienza non è un primato del cyberpunk, dato che il corpo è stato di fatto il campo di battaglia di tutto il violento rinnovamento che il genere ha conosciuto tra anni Settanta e Ottanta. Valga per tutti il caso della saga di Alien. Uno dei motivi di maggior suggestione dei film dell’intera serie è, infatti, il rapporto carnale che si instaura tra Ripley e il mostro. Se pensiamo alla serie nella sua evoluzione cronologica, vediamo che i rapporti tra Ripley e gli alieni si fanno via via più stretti fino a giungere a una vera e propria compenetrazione dei rispettivi organismi. Nel primo film l’alieno utilizza come “ospiti” i corpi degli astronauti uomini e Ripley riesce a liberarsi dalla minaccio teratomorfa espellendola fuori dall’astronave. Nel secondo, la sfida è già con un’intera razza proliferante e la distruzione avviene “dentro” alla spaventosa materia vulvare che funge da grande contenitore per le mostruose entità. Nel terzo capitolo, che funziona probabilmente da spartiacque all’interno della serie, Ripley introietta il male e lo riconosce come parte integrante della propria esperienza esistenziale: l’alieno le entra dentro, sfondandole letteralmente il ventre, proprio nel momento in cui la donna ha deciso di sacrificare se stessa e la sua creatura per il bene dell’umanità. Nell’ultimo episodio, invece, Ripley rinasce insieme all’alieno che ha dentro di sé e di cui è madre e figlia al tempo stesso, consustanziale al punto di rigirarsi tra le fetide carni del mostro e figliare con lui. Possiamo perciò pensare allo scontro Ripley/alieno come a un processo di progressivo avvicinamento, che giunge fino a mettere in scena una parossistica coincidentia oppositorum dei due termini. Se la figura dell’alieno proviene senza dubbio dalla tradizione fantascientifica, tuttavia in questo caso essa viene equiparata a un mostro dell’inconscio: senza scomodare Freud – peraltro saccheggiato a piene mani sia da Scott che dai suoi successori -, si può semplicemente notare come gli alieni non solo non invadano la Terra, ma non abbiano nemmeno altri scopi da raggiungere se non quello dell’uccisione degli umani. L’idea di puntare su un’eroe di sesso femminile, che si aggira – specie nel primo episodio – in una nave infestata come un castello gotico, e in seguito di trasformarla in un’amazzone in lotta contro i draghi, evidenzia come minimo un certo sincretismo culturale. Ciò che più colpisce in tutto il percorso della serie è però la capacità – sia pure in condizioni produttive diverse e con registi sempre differenti – di mantenere questa linea progressiva di fusione tra protagonista e antagonista. Il vero orrore, dunque, è prima fantasmatico, poi carnale, infine squisitamente biologico, in un’immagine di vera e propria “fusione”: il che, sia chiaro, non impedisce che si faccia strada un tripudio di simboli psicanalitici e di metafore della condizione femminile. Come si è visto, il genere fantascientifico fornisce dunque una vera e propria “poesia del corpo” che sperimenta tutte le possibili estensioni e trasformazioni che del corpo e con il corpo si possono immaginare. Il vero artista di questa materia espressiva è allora forse David Cronenberg, che, nel suo cinema spesso giudicato scioccante e inaccettabile dalla critica ufficiale, sembra essere l’unico davvero in grado di superare le dimensioni più conservatrici della fantascienza. In film come Videodrome, Crash, eXistenZ, l’orrore non è direttamente suscitato dall’ampliamento delle possibilità corporee, bensì un segnale della inevitabilità di tale processo. In Cronenberg, l’uomo non ammette i propri limiti fisici e mostra una tensione parossistica verso la fusione con altri corpi e, persino, altra materia. I suoi film funzionano infatti come melodrammi e, al di sotto dell’aspetto ripugnante o macchinico, ci fanno percepire un cuore di poeta – un poeta del corpo sperimentale.

Roy Menarini insegna Storia del Cinema Italiano presso il Dams di Bologna. E’ autore di numerosi saggi, tra cui Il cinema degli alieni (Alessandria, Falsopiano,1999), Visibilità e catastrofi. Saggi di teoria, storia e critica della fantascienza (Palermo, Edizioni della Battaglia, 2001) e La parodia del cinema italiano (Bologna, Hybris, 2001).

Questione di stile. Difesa del film comico da disabile

Riso e derisione
La disabilità è il grande tema che attraversa tutto il cinema comico. Perché l’effetto comico possa prodursi c’è sempre bisogno di personaggi caratterizzati

da un certo grado di inadeguatezza fisica o psichica, da un’incapacità manifesta a conformare i propri comportamenti a quelli socialmente ritenuti corretti o normali. Per questo qualcuno ha potuto scrivere che “l’eroe comico è per tradizione un handicappato”,i un disabile che ci appare impedito fin nello svolgimento dei compiti e delle prestazioni più elementari.
I molti nomignoli con cui, già nel periodo muto, vengono indicati gli attori comici rivelano fino a che punto il comico sia imperniato sulla condizione di minorazione dei suoi personaggi. Dal Tontolini di Ferdinand Guillaume al Cretinetti di André Deed, giù giù fino al Picchiatello di Jerry Lewis, il cinema comico si è sempre alimentato dei guai madornali, quando non delle catastrofi, inavvertitamente provocati da una schiera di disabili di vario tipo. Ad esempio: come non pensare a un down di fronte alla sfericità e alla serenità lunare del volto e del corpo di Fatty Arbuckle, comico dalla vita tragica oggi ingiustamente dimenticato? E certi strani contorcimenti di Jerry Lewis non potrebbero ricordare, come è stato osservato, le movenze di un corpo spasticoii? Più in generale, non è forse una forma di anomalia mentale quella per cui tanti eroi comici finiscono regolarmente per cacciarsi nelle situazioni più inverosimili? Stanlio e Ollio assediati dai beduini in un fortino nel deserto (I due legionari, 1931), Buster Keaton alla deriva su un transatlantico in mezzo all’oceano (Il navigatore, 1924), Harold Lloyd sospeso nel vuoto in cima a un grattacielo (Preferisco l’ascensore, 1923)… e gli esempi potrebbero continuare all’infinito. Quanto a Totò, sempre così loquace e iperattivo e capace di trascinare qualsiasi interlocutore nei suoi stralunati ragionamenti, uno psichiatra proverebbe forse a prescrivergli del litio… Indubbiamente gli elementi e le circostanze spesso si accaniscono contro i nostri eroi, accumulando di fronte a loro ostacoli sempre più insormontabili. Ma appunto per questo il cinema comico ci offre una rappresentazione della disabilità particolarmente sfaccettata, che include anche una visione dell’handicap come scompenso o squilibrio originario nella relazione tra l’individuo e il mondo. Ora, molte teorie del comico concordano sul fatto che il fenomeno del riso nasca essenzialmente come derisione, ovvero come umiliazione di un altro, che uno spettatore affettivamente distaccato si trova a giudicare da una posiizione superiore. Ridere, insomma, vorrebbe sempre dire ridere di qualcuno, qualcuno verso il quale non si prova affetto e che non ispira alcuna commozione; una specie di punizione rivolta verso i difetti altrui (Propp),iii o addirittura un “castigo sociale” (Bergson).iv Perciò una certa cautela è d’obbligo quando si parla di cinema comico in relazione all’handicap, perché è sicuramente vero che il riso può essere qualcosa di molto crudele e che lo stereotipo ad usum dell’handicappato inetto e ritardato può risultare fastidioso per molti disabili. Ma respingere il genere comico in blocco sulla base di un suo supposto razzismo nei confronti dei diversi sarebbe un errore. Anche in questo come in tutti i generi del cinema vale la solita vecchia distinzione tra buoni e cattivi film: i buoni film fanno pensare, gli altri non fanno che confermare l’esistente.

L’Idiota
Appare comunque evidente che una riabilitazione del comico da un punto di vista disabile dovrà partire da un’analisi più accurata del funzionamento della derisione. Infatti, se è vero che il riso è scatenato in primo luogo dalle azioni inadeguate di caratteri variamente disadattati, siamo però sicuri che si rida solo di questo? In effetti, una delle proprietà più interessanti del personaggio comico consiste nella sua capacità di irradiarsi e propagarsi, nel senso che sembra proprio riflettersi sui personaggi che lo circondano, disseminare il suo aspetto anomalo e la sua stranezza nello spazio e tra le persone attorno a lui.
Pensiamo per esempio a Stanlio e Ollio: le loro continue infrazioni alle regole della vita borghese portano il mondo esterno a irrigidire sempre di più la sua forma disciplinare, a richiedere prestazioni sempre più complesse, a moltiplicare le regole, le scadenze, le formalità: in una parola a trasformarsi in caricatura. Perciò non ridiamo solo di Stanlio e Ollio ma anche delle loro mogli e delle amiche delle loro mogli, con le loro insensate pretese di rispettabilità borghese e di bon ton, dei loro superiori, le cui richieste finiscono poco a poco per diventare ossessive, e in generale di tutti quelli che entrano in contatto con loro. Il mondo si deforma e si fissa in una parodia insostenibile di normalità e ragionevolezza fino all’inevitabile catastrofe: che poi in un certo senso è una sorta di castigo al contrario, dato che all’apice di tutte le punizioni, cioè di tutte le risate, c’è qualcosa che somiglia alla fine del mondo, al caos universale, da cui i due eroi escono sì un po’ malconci, ma in fin dei conti illesi… All’origine della spirale catastrofica che trascina il mondo fuori da ogni apparenza di normalità e misura c’è il carattere irradiante e chiaramente contagioso del personaggio comico. E a trasmettere il contagio, generando doppi solo leggermente più integrati di lui nella vita sociale, è sempre il più disabile. Stanlio, che non ha alcuna idea di come vada il mondo, si sdoppia in Ollio, che una qualche nozione di come possa funzionare invece la possiede e dunque tenta senza tregua di richiamare il compagno al rispetto delle regole. Ma in quanto emanazione dell’idiozia primaria di Stanlio, anche Ollio conserva un nocciolo di ottusità che non cessa di propagarsi, facendo germinare l’idiozia latente che si nasconde dietro l’ordine apparente del mondo. Harpo, che non parla mai ed è chiuso nel suo mondo autistico di “affetti celesti” (Deleuze),v addirittura si triplica o si quadruplica, generando la serie virale dei Fratelli Marx (i quali, dotati di parola, non fanno che tradurre l’impedimento primario di Harpo nell’ordine simbolico del linguaggio). Jerry Lewis opta per un’altra soluzione e si sdoppia ripetutamente in una serie di repliche da lui stesso interpretate. La più celebre è quella di Le folli notti del dottor Jerryl (1963) dove l’intelligentissimo, ma disperatamente goffo professor Kelp (di cui, in un rapido flashback, ci viene pure tratteggiata un’orribile infanzia senza affetto) inventa una pozione miracolosa che lo trasforma in un giovane bellissimo, permettendogli di conquistare l’allieva di cui è innamorato. Ma inevitabilmente la disabilità di Kelp si riverbera anche sul suo doppio, che nonostante la brillantina e i modi affettati continua francamente a sembrarci anormale: e infatti il suo effetto sugli altri è scioccante, come l’improbabile rosa shocking della sua giacca; più che sedurli, si potrebbe dire che li impressiona. In maniera anche più evidente che nel caso di Stanlio e Ollio, l’anomalia di Jerry è una malattia che si trasmette a catena di corpo in corpo, arrivando a deformare tutto l’esistente. La ragazzina delle Folli notti – in piena sindrome Lolita, convinta con i suoi codini biondo platino di essere alla moda – è già una caricatura, ma nel Ciarlatano (1967) la disabilità del protagonista non si estende solo a tutte le figure successive che incarna (tra cui un incredibile pagliaccio che tenta di farsi passare per un attore del teatro No), ma si trasmette ineluttabilmente a chiunque capiti di posare gli occhi su di lui. Come Medusa, l’immagine di Jerry è fatale, è così terrificante da lasciare letteralmente inebetiti. Tutti quelli che lo vedono finiscono pazzi: uno ridotto a credersi un cane, un altro a monologare in cinese, un terzo in preda ad accessi violenti di balbuzie… Quindi la punizione comica colpisce anche quelli che in un primo tempo sembrerebbero i più normali, i più integrati in un mondo (cinico) di occupazioni sensate. Certamente ridiamo di Jerry, ma ridiamo anche, e a maggior ragione, di chi lo tormenta e lo vuole escludere solo perché crede di sapere come va il mondo. Tutto lascia pensare che ciò di cui veramente ridiamo, grazie all’esibizione del comico e delle sue minorazioni, sia l’ottusità della società che non sa accettare il diverso. Che l’idiota sia un carattere essenzialmente irradiante e contagioso è un’idea che si deve a Dostoevskij. Il suo fondamentale romanzo, laconicamente intitolato proprio così, L’idiota (1868) è costruito come un prisma di personaggi, le cui facce riflettono tutte, ma in modo deformato, l’immagine di un unico e solitario personaggio, un giovane affetto da epilessia che Dostoevskij affermava di aver modellato sulla figura di Gesù. Tutti gli altri personaggi non sono che rifrazioni imperfette di questa immagine centrale, che in realtà, come indica la metafora dell’epilessia, è un vero e proprio punto cieco, il luogo di una mancanza, di un difetto. Da questo punto cieco si diparte una catena decrescente di disabilità, che passando attraverso la serie dei personaggi si diluisce progressivamente, fin quasi a dissolversi nella normalità. Ma come in fotografia, l’effetto finale del prisma è quello di generare un’inversione: quel che all’inizio sembrava quasi normale (il solito vecchio, sano cinismo) finisce per sembrare mostruoso, mentre quel che sembrava anomalo (la generosità, l’ingenuità, la fiducia assoluta che l’Idiota dimostra nei confronti degli altri) resta l’unica prospettiva di salute. Così l’Idiota, costretto per natura a non poter nascondere la propria disabilità, col fatto stesso di mostrarla, la rivela negli altri.

Il mondo come ostacolo
Nei film comici (ma forse dovremmo aggiungere nei buoni film comici) le cose vanno in modo molto simile. Il protagonista scatena un’epidemia che si propaga in tutte le direzioni e presto il mondo appare popolato di disabili di vario tipo e intensità. In effetti, molti film comici non fanno che ingigantire fino all’esagerazione difficoltà che noi tutti prima o poi abbiamo esperito: nel rapporto con gli altri, con l’architettura, con le macchine che dovrebbero rendere la vita più facile e che invece, spesso, la complicano. Qui il caso esemplare è senza dubbio quello di Jacques Tati. In Mon Oncle (1958), il nipotino di Hulot vive con i suoi ricchi genitori in una casa che è un gioiello di tecnologia, con porte telecomandate e un’infinità di elettrodomestici completamente automatici. Quando Hulot entra in cucina per compiere il gesto più semplice, versarsi un bicchiere d’acqua, ogni suo movimento innesca reazioni incontrollabili nell’ambiente ultramoderno che lo circonda: gli armadetti cominciano ad aprirsi e chiudersi da soli, il rubinetto emette getti d’acqua impazziti, tutte le macchine si mettono in moto con ronzii e vibrazioni infernali… In Trafic (1971) l’impedimento è dato dalla proliferazione delle automobili e dal traffico cittadino, mentre in Playtime (1967) a risultare grotteschi sono gli spazi creati dall’architettura moderna, gli edifici gigenteschi suddivisi come formicai, gli uffici, le sale d’attesa, i non-luoghi della vita moderna in cui tutto è organizzato per garantire la massima efficienza, ma dove si vive fra estranei. Certo che ridiamo di Hulot, ma se si trattasse solo di questo non varrebbe la pena di spendere una parola. Il fatto è che ridiamo di noi, del mondo in cui viviamo, di tutte le volte in cui, di fronte alla complessità crescente delle macchine e dello spazio urbano, ci siamo scoperti handicappati. Ridiamo del modo insensato in cui, con tutta la nostra scienza e la nostra tecnologia, riusciamo ancora a renderci la vita impossibile.
Nei film di Stanlio e Ollio, “il ritmo caratteristico della recitazione di Laurel e Hardy, il loro modo di enfatizzare la dignità offesa, la fiducia tradita e di esprimere la frustrazione” sono, secondo Eileen Bowser,vi “i preziosi tratti distintivi” di un particolare stile comico. I protagonisti di questi film “dividono con il pubblico la soddisfazione compensatoria delle orge di distruzione con cui si consolano in qualche modo delle frustrazioni di cui tutti rimaniamo vittime quotidianamente, e in particolare di quelle inflitte dalle tecnologie moderne. La notevole quantità di treni, telegrafo, tramwai, automobili e simili nelle comiche mute testimonia come il XX secolo sia ossessionato dalla tecnologia che ci frastorna in continuazione”.vii La tecnica vista come qualcosa che invece di aiutare ostacola è un tema classico per il cinema comico. In Tempi moderni (1936) il ritmo sempre più accelerato della catena di montaggio è insostenibile per il povero Charlot, che alla fine ne esce stravolto e colpito da una specie di tic da avvitamento, con movimenti automatici che ripete nell’aria con le chiavi inglesi in mano. Più avanti, costretto a fare da cavia al prototipo di una macchina per l’alimentazione automatica degli operai, si vede immobilizzato su una sedia, mentre l’apparecchio, simile a uno strumento di tortura, lo infarcisce di cibo a ritmi inverosimili. I ritrovati della modernità, l’organizzazione scientifica del lavoro, l’accelerazione delle macchine che i corpi devono eguagliare finiscono per escludere chi non corrisponde agli standard previsti di produttività: e infatti Charlot viene licenziato e finisce dritto dritto in manicomio…
Ma la rappresentazione più radicale del mondo come ostacolo si trova senza alcun dubbio nel cinema di Buster Keaton. Qui l’eroe è perfettamente abile (o lo è almeno fisicamente, dato che il fatto di non a sorridere mai costituisce un’anomalia evidentemente non trascurabile). Ma Buster corre, salta, rotola, trova sempre soluzioni ingegnose per cavarsi d’impaccio, si muove con la velocità di un razzo, “con il corpo che è diventato una serie di pistoni, con la testa gettata all’indietro per rendere aerodinamica la macchina in fuga in cui si è trasformato”,viii e tutto questo mentre il mondo intorno a lui non smette di cadere a pezzi e frantumarsi. Che il destino si abbatta su di lui sotto forma di un enorme poliziotto o di una frana incombente, di un treno impazzito o delle violente correnti di una rapida, nel mondo di Buster niente va come dovrebbe andare e l’universo sembra in preda a un processo di disgregazione permanente. Gli oggetti cambiano funzione, si comportano in modo anomalo e acquisiscono un’autonomia che intralcia quella del protagonista. La serietà patologica di Buster Keaton è quella della vittima predestinata, di colui che fa del suo meglio per sopravvivere alle continue disgrazie che gli piovono addosso da tutti i lati. E infatti, uno dei grandi talenti di Keaton come regista consiste, non a caso, nel controllo sull’architettura, nella capacità di governare scenografie complesse e ampi spazi comunque destinati, prima o poi, a venire travolti dal caos.

Ancora una volta
Dunque il cinema comico ci presenta un universo in cui l’handicap e la disabilità sono ovunque. Si esprimono nel protagonista – l’idiota o disabile primario – , nei vari personaggi in cui si irradia – suoi doppi o repliche imperfette – , e infine nel mondo, che si rifiuta di funzionare a dovere. Gli eroi comici sono degli sfortunati per definizione, di cui noi ridiamo perché le loro difficoltà ci appaiono talmente ingigantite che possiamo ridere delle nostre. Ma il senso di leggerezza che ne ricaviamo, la gioia che ci trasmettono con le loro impossibili imprese e i loro mancamenti, nascono probabilmente da qualcosa di diverso dal riso – visto che, se seguiamo Bergson, dove si ride non può mai esserci affetto. La gioia però è la forma suprema dell’affezione, l’unica che può assumere una forma attiva, e si direbbe che il suo modo di espressione sia piuttosto il sorriso. (O forse nemmeno il sorriso, forse, come in Buster Keaton, appena una luce negli occhi…).
Ma per che cosa sorridiamo, allora, mentre guardiamo, o piuttosto mentre ricordiamo, un film comico? Il motivo è che, malgrado tutti gli intralci, le frustrazioni e gli impacci di cui sono vittime, questi eroi davvero strani finiscono ogni volta per cavarsela in grande stile. Buster Keaton e Jerry Lewis s’involano con le loro fidanzate, Charlot riesce a evitare ciò che teme più della peste, e cioè d’esser messo al lavoro, Stanlio e Ollio rimbalzano illesi da tutte le innumerevoli catastrofi che mettono in moto, Hulot continua a girovagare col naso per aria, incredulo e beffardo spettatore dell’assurdità che lo circonda. Insomma, come si suol dire, tutto finisce bene in questi mondi alla rovescia, anche se Stanlio sa già che dovrà subire le rimostranze di quell’irascibile di Ollio, se Charlot rimarrà sicuramente senza un soldo e se Hulot continuerà a meravigliarsi del moto assurdo e inarrestabile del progresso. Per quanto male possano essersi ridotti nel precedente tentativo di sopravvivere ai loro stessi disastri, tornano ogni volta alla carica pieni di speranze e di fiducia: ancora un altro film, pronti ancora una volta ad affrontare la sfida impari della vita; oppure nemmeno pronti, ma semplicemente ancora là a ricominciare, a ripartire esattamente dallo stesso punto, e sempre – da quello stesso punto – ricominciare a cadere. Come a dirci che, se anche li abbiamo puniti con le nostre risate, ancora non hanno imparato la lezione e continueranno ostinatamente a farsi vedere in giro: anche a costo di farsi prendere in giro. Sempre con quella faccia ridicola, quei modi inappropriati, quella flebile tenacia di fronte agli ostacoli. A ricordarci che la vita, in fondo, è una questione di stile: basta sapersi risollevare, ogni volta, con la propria faccia.

Una rassegna [im]possibile

Il mini vince il super perde

Basso, così / fesso, così / il giorno che è nato per poco non l’hanno buttato / ma poi con l’andare degli anni non è migliorato

/ il …miniVip / tre volte al giorno cadeva dal suo carrozzino / (…) / ma questo tappo di uno, ci aveva un fratello / che quanto era brutto quest’uno, quell’altro era bello / alto, così / bello così / il giorno che è nato la madre felice ha gridato / venite, venite a vedere che super neonato / il superVip / Avete presento i fumetti di quello che vola? / Il mini era un tappo, il super un fusto / ma chi dei due era il migliore?

Così inizia la canzone “Vip” di Herbert Pagani che accompagna i titoli di testa del film Vip mio fratello superuomo (1968) di Bruno Bozzetto. In questa canzone è riassunto quasi tutto il film, un bellissimo esempio di cinema d’animazione, di genere comico, sulla condizione umana nella società (spietata) dei consumi, che narra la storia di due fratelli: MiniVip, piccolo, piuttosto bruttino, debole e imbranato, e (Super)Vip (nel film viene chiamato alternativamente Vip o SuperVip), alto, bello, forte, allo stesso tempo caricatura di Superman e del mito del supereroe, alle prese con una terrificante maliarda mediatica, Happy Betty, che vorrebbe trasformare il mondo in un supermercato e gli esseri umani in simulacri pilotati dalla pubblicità aventi come unico scopo della loro vita quello di consumare i prodotti “Happy Betty”. Uno degli aspetti più belli, divertenti e dissacratori del film è che il diabolico piano di Happy Betty sarà sventato dall’antieroe MiniVip o meglio grazie alla sua umanità piena di difetti, al suo relazionarsi in modo terribilmente impacciato con il mondo (motivo tipico delle comiche); caratteristiche psicofisiche e atteggiamenti che si trasformeranno (in un’operazione di rovesciamento degli stereotipi) in una forza “involontaria”, una forza che riuscirà a salvare anche la vita del fratello superuomo.

La disabilità: un’immagine latente?

Vip mio fratello superuomo non è un film sulla disabilità, ma fa pensare ad alcuni aspetti della disabilità in quanto distrugge sia il mito del supereroe (come incarnazione dell’estremizzazione delle qualità normali, socialmente apprezzate e riconosciute, degli esseri umani) sia il mito del brutto e debole incapace di azioni positive; ma, soprattutto, in quanto è un film che prende posizione a favore del “piccolo, brutto, debole e imbranato”.
Questo film sembra suggerirci l’idea che il rapporto tra cinema e disabilità non vada ricercato in maniera esclusiva in quel cinema che se ne è occupato in maniera esplicita e, conseguentemente, sembra suggerirci l’ipotesi, paradossale e provocatoria, che la disabilità percorra l’intero cinema attraversando indifferentemente generi e autori. Certamente ci sono film che hanno trattato direttamente della disabilità attraverso storie di persone disabili, film anche popolari e famosi (1) Tuttavia il rapporto tra cinema ed handicap non è scontato e non si coglie in modo immediato (e vedremo che il modo sarà letteralmente “mediato”).
L’immagine della disabilità nel cinema sembrerebbe avere assunto “trasparenze” che non consentono di coglierla in maniera chiara e nitida, ma che le permettono di sovrapporsi (o nascondersi) ad altre impressionandosi su un gran numero di pellicole. Utilizzando una metafora, l’immagine della disabilità sembrerebbe un’immagine latente (2): un’immagine cioè presente nell’emulsione di tantissime pellicole non completamente sviluppata – perciò invisibile ad una visione cosciente – ma in grado di giungere, nel momento della proiezione, al (sub)cosciente dello spettatore, nel quale si va a sedimentare come dato dell’esperienza entrando a far parte della sua immaginazione (intesa come facoltà di pensare e associare liberamente e senza regole fisse i dati dell’esperienza). Al rapporto cinema e disabilità si potrebbe dare una “forma” indagando sulla relazione esistente tra l’immaginario della disabilità che ha origine nel cinema e l’immaginario della disabilità come si è formata nella società, cercando di cogliere i meccanismi di scambio di immagini e significati tra l’uno e l’altro, intendendo per immaginario la produzione (da parte del singolo individuo o di gruppi di individui) di simboli, miti, archetipi, narrazioni e forme narrative che ha origine nell’immaginazione mediata sul piano sociale, culturale e storico.
Più semplicemente tale rapporto prenderebbe forma come possibile risposta alla domanda: “In che modo il cinema, in generale, ha contribuito a creare immagini che poi avrebbero influenzato la percezione della persona disabile e della disabilità? E viceversa?”.

Una rassegna (im)possibile

Da alcuni anni faccio parte di un gruppo di persone che hanno costituito un cineclub, la cui attività principale è realizzare rassegne cinematografiche a tema. A partire da questa esperienza credo che, per dare forma concreta al rapporto cinema e disabilità, possa risultare utile immaginare di dover realizzare una rassegna cinematografica avente per tema la disabilità.
La realizzazione di una rassegna a tema passa sostanzialmente attraverso tre fasi: definizione del tema, ricerca dei titoli dei film, selezione dei film tra quelli trovati. Descrivendo queste fasi si possono evidenziare quelle procedure e modalità che mettono in moto alcuni meccanismi di “involontaria” e libera associazione di idee e significati, e che si ritrovano anche nel momento della discussione collettiva, all’interno del cineclub, per la definizione dei contenuti tematici, ma che, soprattutto, si manifestano nella fase della ricerca (collettiva o individuale) dei titoli; meccanismi che portano alla luce, in maniera “imprevedibile”, anche attraverso il “rincorrersi” di ricordi personali, elementi significativi dell’immaginario al quale ciascuno attinge.

La definizione del tema: contenuti e significati (im)possibili

La definizione del tema di ogni rassegna comprende un’operazione di attribuzione di significati ai film. Organizzare una rassegna, ovvero raggruppare un certo numero di film secondo un tema specifico, si basa sulla possibilità di attribuire a tali film un significato comune, anche se va al di la delle intenzioni degli autori. Questo perché quando le emozioni evocate da un film si sedimentano e si trasformano in ricordi, la memoria attribuisce loro dei significati “veri”, o meglio, plausibili quanto quelli che il regista o lo sceneggiatore hanno attribuito al film, significati soggettivamente veri in quanto si concretizzano entrando a fare parte dell’esperienza delle persone e andando a costituire gli elementi a partire dai quali prende forma l’immaginazione.
Questa “arbitraria” attribuzione di significati rappresenta un procedimento non ortodosso dal punto di vista della critica cinematografica e molto discutibile su un piano strettamente filologico, ma risponde, in realtà, ad un’esigenza sinceramente sentita: condividere con altre persone un’interpretazione, un punto di vista, uscire da una specie di isolamento emozionale in cui ci abbandona (nonostante la dimensione collettiva della visione cinematografica) il film.
In questo senso ogni rassegna diviene plausibile e possibile, in quanto trova una coerenza, un fondamento e una ragione d’essere, non tanto e “semplicemente” nel cinema, quanto, più genericamente, nell’immaginario di chi la realizza (magari, in parte, già determinato dalla visione cinematografica). Ma, se per questo motivo ogni rassegna è possibile, per lo stesso motivo ogni rassegna è anche un’operazione discutibile. Analogamente si potrebbe affermare che il rapporto cinema e disabilità è sempre possibile pur essendo – non sempre, ma spesso – discutibile.

La ricerca dei film: “CINEMA+HANDICAP”

Nella ricerca dei film talvolta si ricorre all’aiuto di strumenti informatici che spesso producono risultati “casuali” e inaspettati. Utilizzare la rete (Internet) e immettere in uno dei tanti motori di ricerca come criterio “cinema+handicap” significa cercare tutto ciò che riguarda il cinema, tutto ciò che riguarda l’handicap e tutte le possibili relazioni tra i termini “cinema” e “handicap” (immettere “cinema+disabilità” restituisce meno informazioni in quanto il termine “disabilità”, in maniera significativa, ricorre molto meno rispetto al termine “handicap”). Una simile ricerca (che andrebbe del resto “affinata”) restituisce un numero esagerato di informazioni dal contenuto estremamente eterogeneo: siti Web dedicati a singoli film, siti di riviste di cinema on line con recensioni di film, siti di festival dedicati al “cinema e handicap”, concorsi cinematografici per disabili, archivi di materiale cinematografico (film in 35 e 16 mm, VHS, Betacam, DVD) sempre dedicati al “cinema e handicap” (3).
La stessa ricerca ripetuta attraverso un dizionario di cinema in formato digitale (su cd-rom), restituisce un numero molto più piccolo di titoli di film, ma è interessante constatare come la parola handicap compaia nelle recensioni di film molto diversi tra loro e riconducibili a generi diversi, dal comico alla fantascienza, dal noir all’horror, al thriller. La vastità delle informazioni trovate in questo modo generalmente getta nello sconforto, ma leggerle con pazienza può risvegliare ricordi – sempre secondo i meccanismi dell’associazione libera e involontaria di idee e di significati – che ci rivelano qualcosa sia riguardo al cinema sia riguardo alla nostra personale esperienza della disabilità. Ad esempio, durante una di queste ricerche sono rimasto colpito da un articolo che parlava di film di guerra, facendoli rientrare nella categoria del “cinema e handicap acquisito” (4), perché, pur non citandolo, mi ha ricordato un film, (che ho visto da bambino e che ho rivisto in seguito) che mi procurò, a suo tempo, una grande impressione: I Migliori anni della nostra vita (1946), di William Wyler, un film bellissimo che racconta le storie di tre reduci di guerra, accomunate dal tema del difficile rientro nella vita civile. La storia che mi colpì maggiormente da un punto di vista emotivo (e che mi ha lasciato molto turbato) è quella del marinaio rimasto privo di entrambe le mani, sostituite con uncini meccanici. Il ricordo di questo film, a sua volta mi ricordava che la mia prima esperienza della disabilità (parlo dell’infanzia) fu legata essenzialmente a immagini di corpi amputati (fatto che mi ha procurato una condizione emotiva fortemente perturbata) (5). Nello stesso periodo in cui ho fatto quella ricerca su Internet stavo leggendo un saggio di storiografia, La guerra come sofferenza e perdita (6), e fui portato ad associare le due cose. Il ricordo del film e la lettura del saggio mi portarono a pensare alla disabilità come ad una delle possibili condizioni umane, che può sopraggiungere improvvisamente, che può peggiorare o migliorare, e che può essere determinata anche dalla relazione tra la persona e l’ambiente. Poi ho incominciato a pensare al modo in cui percepiamo le deformità del corpo, alle modalità con cui spesso le vengono associate una deformità morale e psichica, e quindi al corpo come luogo dove prende forma l’identità. A questo punto l’associazione con vari film horror o di fantascienza (o il cinema di David Cronenberg) sarebbe risultata “logica e scontata” (7). Invece mi è venuto in mente il disneyano Biancaneve e i sette nani (1937) (8) (che in quel periodo il mio bambino guardava assiduamente), dove la regina, al culmine della malvagità, si trasforma, da donna giovane, bella e fatale, in una vecchia strega, gobba, dal naso adunco; mi sono venuti in mente anche certi film western dove gli indiani d’America vengono ritratti come ritardati mentali, affetti da balbuzie, grotteschi nei movimenti, elementari nei ragionamenti (8). Film d’animazione e disabilità? Film western e disabilita? Farsi condurre da questo meccanismo di “libera e involontaria” associazione delle idee, stimolata dall’uso di strumenti informatici, forse stava portando fuori strada? Forse no. Forse veniva confermando l’ipotesi di partenza e cioè che un pò tutta la produzione cinematografica ci possa svelare qualcosa sulla disabilità, anche se non la racconta direttamente attraverso le storie esemplari di persone disabili. In quanto un pò in tutta la produzione cinematografica si trovano tracce di un immaginario che si riferisce alla disabilità, un immaginario in cui si rinvengono visioni del corpo (diverso/mutato/mutante) come luogo dell’identità e come rappresentazione simbolica di qualità psichiche e morali, un immaginario che contiene storie di disagi mentali sospinti al limite della follia, e storie di destini rovinosi, segnati da un corso perverso, originate nel difficile rapporto delle persone con l’ambiente in cui vivono (o sono costrette a vivere) (10).
A questo punto alla domanda: “Una rassegna di cinema e handicap è allora possibile?” verrebbe da rispondere in modo affermativo.

La selezione dei film: una scelta (im)possibile

Nella selezione finale dei film intervengono diverse criteri di valutazione: criteri che potremmo definire “logici” (l’affinità del significato generale attribuito al “messaggio” del film con il tema generale della rassegna); criteri estetici (riguardanti la bellezza delle storie narrate oppure la valutazione di valori estetici strettamente cinematografici, quali la qualità della regia, del montaggio, della fotografia); e ultimi, ma non meno importanti, criteri che potremmo definire “tecnici” (come la reperibilità delle pellicole presso le cineteche o i distributori privati). Fatta questa premessa, di fronte al problema della selezione dei film per una rassegna di “cinema e disabilità”, ci troveremo di fronte a tre diverse prospettive.
Due di queste si pongono al di fuori di quanto sviluppato fino ad ora sul rapporto tra cinema e disabilità, ma vanno comunque ricordate. Una scelta rigorosa e filologicamente corretta si dovrebbe limitare a quei film che trattano direttamente di handicap (vedi anche la filmografia in appendice), che non sono pochi come numero assoluto, ma, relativamente al panorama dei film prodotti, costituiscono una ridottissima minoranza. Una scelta altrettanto rigorosa, ma “estrema” dovrebbe forse selezionare solo i film girati da registi disabili, o con attori disabili, che raccontano storie di disabilità, come viene fatto in alcuni concorsi cinematografici o festival (12), anche con l’intenzione di dare risalto in questo modo al lavoro delle persone disabili in campo cinematografico. Nella prospettiva messa in luce dalla “nostra” ipotetica rassegna, ci troveremo a scegliere nell’ambito del cinema che non ha trattato direttamente la disabilità, a scegliere quindi tra tutti i film che (loro malgrado) hanno comunque contribuito all’elaborazione di un immaginario della disabilità.
Ma per quanto detto fino ad ora la scelta dei film dovrebbe essere operata sulla base di un grandissimo numero di titoli, tanto grande da gettarci nello sconforto. Un possibile criterio di selezione potrebbe basarsi sulla distinzione tra film prodotti da un’immaginazione riproduttiva e quelli prodotti da un’immaginazione creativa (12), ovvero quelli che si sono limitati a mostrare qualcosa già presente nella società e nell’immagine che la società ha prodotto di sé, al fine di costruire e mantenere la propria identità, e quelli che hanno contribuito a creare immagini nuove della disabilità. In realtà i criteri di selezione potrebbero essere molti, talmente tanti da lasciarci anch’essi smarriti e nell’indecisione, perché sarebbe molto faticoso scegliere quello migliore. Ma questo potrebbe essere un falso problema. Il criterio migliore potrebbe semplicemente essere quello che ci permetterebbe di scegliere i film in grado di fornire una (im)possibile risposta alle nostre (im)possibili domande sulla disabilità, o meglio sul rapporto tra cinema e disabilità. Domande come: “Quanto l’abitudine a vedere nel cinema immagini di zoppi, deformi, sfigurati nel ruolo del “malvagio”, può avere influenzato le persone nell’attribuire a individui zoppi, deformi, sentimenti moralmente negativi o ad averne paura e timore?”.(13) Oppure: “Quanto la “riabilitazione” cinematografica , dell’immagine delle persone disabili ha contribuito a creare nella società un percezione nuova della disabilità, meno pregiudiziale, meno stereotipata?”. E numerose altre ancora… O no?

NOTE
1) Citare i film famosi di cinema che si è occupato direttamente di cinema e handicap
2) Riportare definizione di immagine latente
3) Menzionare alcuni siti e loro indirizzi
4) Citare l’articolo di cinema e handicap
5) Nota sul perturbante secondo Freud, se possibile
6) Autore, rivista, del saggio
7) Citare alcuni film
8) …regia di David Hand, produzione e supervisione di Walt Disney
9) In questo caso l’immaginario della disabilità diventa funzionale ad un caratterizzazione negativa di un razza che viene considerata inferiore. Altre esempi di un uso “strumentale” della disabilità, in questo caso al di fuori del cinema, si possono anche rintracciare nella storia contemporanea italiana come quando, all’indomani dell’approvazione delle leggi razziali (1938), su la rivista “scientifica”, fascista, La Difesa della razza comparvero le atroci caricature di ebrei e dell’ebraismo, basate sullo stereotipo europeo dell’ebreo gobbo e dal naso adunco, simboli di malignità, di persona che vive di inganni…)
10) Nota … riferirsi alla definizione dell’OMS)
11) Nota: definizione di moralità)
12) Citare i festival etc… e gli archivi della LEDHA etc…
13) Definire la distinzione dei due tipi di immaginazione
14) Citare film come la Maschera di Cera, oppure alcuni Vincent Price etc, La Iena etc…

Sportivamente

Il Centro Documentazione Handicap di Bologna in collaborazione con la Fondazione Exodus di don Mazzi ha organizzato una manifestazione dedicata alla cultura sportiva e integrazione sociale: Sportivamente. Questa manifestazione si è svolta a Bologna dal 15 al 17 maggio di quest’anno e ha visto succedersi una serie di eventi: una partita di calcio fra la squadra del consiglio comunale di Bologna e le “All Star CDH” (a dare il calcio d’inizio è stato nientemeno che il portiere del Bologna Gianluca Pagliuca), un convegno dal titolo La creatività sportiva come strumento di educazione ed integrazione sociale, la premiazione del concorso per le scuole Inventa e racconta un gioco, vari eventi sportivi che hanno visto circa duecento atleti confrontarsi nelle discipline dell’hockey in carrozzina, del calcio a 6, del beach volley e della lotta-danza, una serata di presentazione del libro di Claudio Imprudente Una vita Imprudente, con la partecipazione di Don Mazzi, allietata dalla musica rock di tre gruppi giovanili emergenti, per non parlare delle classiche crescentinate gastronomiche innaffiate con del buon lambrusco. Uno degli eventi che più hanno espresso lo spirito della manifestazione è stata la partita del campionato mondiale segreto di pallastrada che si è svolta in alcune strade del quartiere bolognese di Borgo Panigale, con l’intervento dello scrittore Stefano Benni, l’inventore della disciplina nel suo libro La compagnia dei celestini. La pallastrada è un calcio dove non ci sono delle regole statiche ma in una continua evoluzione guidata dal Grande Bastardo, ovvero il giudice supremo che di volta in volta a seconda della ispirazione decide le regole. Per l’occasione il Grande Bastardo è stato proprio Claudio Imprudente (che se l’è cavata molto bene nel ruolo, non c’è che dire), presidente del CDH; ad aiutarlo c’era Benni come suggeritore. I momenti più divertenti si sono avuti quando il Grande Bastardo ha deciso che potevano giocare solo giocatori scalzi, o quando chi segnava il goal veniva eletto sindaco per un minuto di Bologna o ancora il momento del rigore, con tutta la squadra in porta… Cresce in questi ultimi anni l’esigenza sia nel mondo prettamente sportivo (società, federazioni, eccetera), sia nell’ambito sociale (associazioni, sevizi, scuola, mondo della formazione) di sfruttare tutte le opportunità che la connessione sport – integrazione sociale produce.
La manifestazione Sportivamente ha cercato di essere attenta a ciò che funziona, all’esempio da seguire, facendo emergere esperienze che vengono da vari ambiti (handicap, scuola, psichiatria, devianza, tossicodipendenza, sud del mondo, anziani, bambini) tutte accomunate dalla creatività. Ha cercato di offrire uno spazio di dibattito tra i diversi protagonisti su temi diversi, raccogliendo idee e formulando soluzioni, cercando di occuparsi non solo degli emarginati o svantaggiati sociali: in questi casi si rischia sempre l’autoghettizzazione e quindi è importante illuminare con una luce nuova sia il sociale partendo dalla prospettiva sportiva, ma anche lo sport partendo dalla prospettiva sociale. Bisogna ricucire lo strappo che si è creato tra mondi considerati a torto diversi: il mondo dello sport da un lato, quello del sociale dall’altro, recuperando una dimensione culturale che li abbraccia entrambi.

Sport ed handicap
Partendo dall’etimologia delle parole si fanno delle scoperte interessanti, che, se non sono magari pienamente giustificate sul piano logico, lo sono su quello del fascino. La parola sport risale al francese antico desport, che significa diporto, diletto, svago, spasso, piacere. La parola handicap invece pare sia d’origine irlandese: i mercanti di cavalli usavano mettere il loro denaro nel berretto, il che significava mercato concluso. Questa mano nel berretto è divenuto in seguito un gioco d’azzardo: sui campi da corsa, durante i momenti vuoti, tre giocatori mettevano in un berretto una stessa quantità di denaro, si tirava a sorte e chi vinceva si portava via tutto. Un terzo significato riguarda le corse dei cavalli e si passa dal secondo al terzo per il fatto di avere le stesse probabilità di vittoria: l’handicap ha come finalità quella di pareggiare le probabilità dei concorrenti, equilibrando i pesi in modo che il cavallo peggiore abbia tante probabilità di vincere la corsa quanto il migliore. Pare cioè che il fantino più bravo, per dare la stessa possibilità di vincere agli altri concorrenti, corresse con la mano sul cappello, con l’hand, appunto, in cap, indirizzando chiaramente il significato della parola verso l’accezione di svantaggio che è quella ora più in uso. Da sempre dunque l’handicap è nello sport, è quella difficoltà che ne è il sale. La manifestazione Sportivamente si iscrive nello sforzo culturale che dobbiamo fare tutti per provare a ripensare al collegamento tra handicap e deficit in relazione al gioco e allo sport, premettendo che ci sono molti tipi di giochi (noi abbiamo preso in considerazione in questo caso soprattutto quelli con regole) e, come dice Wittgenstein, non esiste un’unica logica sottesa a tutti i giochi linguistici, non esiste il Gioco dei giochi, che racchiude in sé il significato di tutti gli altri. In altri termini non possiamo pretendere (per fortuna!) di dire la verità ultima sul gioco perché equivarrebbe a svelare il mistero della natura umana, ma possiamo cercare di esplicitare alcuni meccanismi di funzionamento, alcune connessioni tra handicap e gioco. Come sappiamo esistono due accezioni della parola handicap: una sicuramente negativa, tradotta con i termini svantaggio e ostacolo. In quest’accezione l’handicap va per quanto possibile ridotto, va combattuto con tutta la creatività di cui siamo capaci. Ma un’altra accezione della parola ha caratteristiche di positività e la traduciamo con difficoltà. Positiva perché se noi riusciamo a connettere l’handicap-difficoltà ad un gioco allora scopriamo il valore dell’handicap, valore che non esiste in sé ma esiste in quanto inscritto in un sistema di regole, in un sistema di gioco. L’handicap è come il sale, elemento non affrontabile in sé ma fondamentale se si riesce a connettere ad altro, ai cibi: da ciò trae il suo valore. Estremizzando potremmo dire che dell’handicap in quanto tale non c’importa nulla semplicemente perché, in sé, l’handicap non ha senso.
L’indifferenza, tanto combattuta e stigmatizzata, verso il cosiddetto “mondo dell’handicap” è per molti versi giustificata, anche solo per il fatto che questo mondo non ha senso di esistere, o per meglio dire è disabitato. Qualche volta la sensazione che si prova ad entrare in un centro residenziale per soli diversabili, chiuso al mondo esterno, equivale a quella che si proverebbe addentrandosi in una salina, in una landa desolata senza vita. Tutto questo “sale” potrebbe essere invece un inestimabile presenza, potrebbe dare il giusto gusto alla realtà quotidiana in una famiglia, in un contesto sociale integrato, in una comunità che abbia gli strumenti per valorizzare la persona con diversabilità e per dare la possibilità a questa persona di partecipare con il suo apporto alla vita collettiva.

Sport adattati, speciali, integrati
Se la presenza di un deficit impedisce di giocare abitudinariamente un gioco, ci sono alcune strade possibili. La prima è una non-strada, cioè si smette di giocare: l’handicap in questo caso inteso come svantaggio causato dal deficit, è talmente aumentato che conviene non giocare. È una specie di suicidio del gioco stesso. Ciò avviene perché si assolutizza il gioco, ovvero si ritiene che non sia tanto importante chi gioca e la sua ricerca di piacere e di senso, ma sia importante il gioco stesso. Se non ci sai giocare, amen…torna un’altra volta, torna in un’altra vita, sono problemi tuoi. L’altra strada è il gioco adattato, ovvero giochiamo lo stesso gioco ma cambiando le regole, introducendo degli ausili che permettono comunque di giocare nel modo più simile al gioco originario. Un’ulteriore strada è il gioco speciale, ovvero si inventa un gioco che una persona con deficit riesce a fare, un gioco completamente nuovo e originale. Sto riproponendo la classificazione delle discipline sportive per disabili: le specialità degli sport adattati (il basket in carrozzina eccetera); gli sport speciali (il torball, ad esempio, giocato solo dai ciechi). Esiste una terza distinzione: gli sport integrati, giocati sia da atleti normodotati che diversabili (ad esempio il calcio in carrozzina e il calcio a sei). Ciò che alla fine è essenziale è il giocare, non l’insieme dei giochi storicamente esistenti. Giocare ovvero sperimentare la bellezza nel gioco, chiamiamolo il piacere del gioco.

Handicap, deficit e piacere
Nei giochi con regole il piacere è dato da un’equilibrata interazione tra handicap e regole e l’handicap è determinato dalla connessione tra le abilità-potenzialità del giocatore e le regole (il limite). Come si è detto prima, se l’handicap aumenta troppo o diminuisce troppo non ci si diverte. Esempio: tra due giocatori di scacchi ci si diverte quando i giocatori hanno le stesse abilità visto che le potenzialità, nel senso dei pezzi in campo, sono uguali. Il divertimento nasce da un confronto possibile tra due giocatori, tra due abilità. Se un maestro di scacchi gioca con un dilettante può trarre piacere per molti motivi, ma da un punto di vista strettamente scacchistico non si può più di tanto divertire perché vince facilmente. Per lo stesso motivo il dilettante si sente schiacciato dalla superiorità del maestro, e va incontro ad un risultato scontato della partita. È interessante notare che se in questo caso affibbiamo un deficit al maestro, togliendogli una regina e privandolo così di forze “materiali”, allora forse questo riequilibra le sorti della partita, aumentando l’handicap-difficoltà del maestro e diminuendo l’handicap del dilettante. Paradossalmente, in questo caso, al deficit non corrisponde in realtà un handicap come svantaggio, ma un handicap più gestibile, meglio distribuito tra i giocatori.
L’handicap aumenta il piacere della partita, perché il risultato non è più scontato. Un altro caso in cui si può tentare di equilibrare l’handicap in presenza di un deficit si verifica quando, in una partita tra due giocatori equivalenti in abilità, togliamo una torre ad uno ma la togliamo anche all’altro. La somma di due deficit tra due avversari ricrea una situazione di equilibrio. Possiamo dire che il significato del deficit dipende dalla qualità dell’handicap-difficoltà del gioco, dalla gestibilità di questo handicap. Arriviamo al caso limite in cui il deficit del maestro (che gioca senza la regina contro un dilettante) aumenta il piacere del gioco, equilibra le sorti della lotta tra Bianco e Nero, rende l’handicap-difficoltà gestibile. In conclusione possiamo dire che dal punto di vista del gioco e dello sport sia il deficit che l’handicap acquistano nuovi significati o potremmo dire vengono visti nel loro giusto significato, che cambia a seconda della nostra creatività nel trovare il sistema di regole che valorizzi entrambi. Dall’altro lato anche lo sport, così spesso mercificato e degradato al più bieco agonismo, ha bisogno di essere ripensato e rivissuto secondo quelli che sono i suoi più profondi valori. Sicuramente anche il prossimo anno organizzeremo Sportivamente e il concorso per le scuole Inventa e racconta un gioco e quindi…lunga vita al Grande Bastardo!

I freak di Tod Browning

La carriera di Tod Browning – nato a in Kentucky nel 1882, morto a Hollywood nel 1962 – coincide sostanzialmente col periodo di affermazione del cinema classico: il suo primo film

da regista risale al 1917, l’ultimo è del 1939. Tuttavia, la convenzionalità dello stile e della narrazione non trova riscontro, nel suo cinema, nel repertorio tematico, che si presenta invece alquanto problematico ed ambiguo, del tutto anomalo rispetto alla produzione hollywoodiana dell’epoca. Fuggito da casa a sedici anni per unirsi ad una fiera ambulante ed a una ballerina di cui si è innamorato, Browning trascorre diversi anni a stretto contatto col mondo dei circhi e degli spettacoli da baraccone, esercitando i mestieri più disparati e bizzarri – da imbonitore a equilibrista, da mangiatore di serpenti a contorsionista, da clown a prestigiatore. A questo tipo di intrattenimento appartiene inoltre lo spettacolo denominato freak show, ancora molto popolare nella prima parte del ventesimo secolo, e basato sull’esibizione a pagamento dei cosiddetti “scherzi di natura”: gemelli siamesi, nani, ventriloqui, individui afflitti da ogni sorta di menomazione. Si tratta evidentemente di un evento che fa appello alla curiosità morbosa del pubblico, che non risparmia commenti sarcastici e maligni sulle creature che vengono esibite. Queste esperienze giovanili condizionano in modo profondo Browning, nel cui cinema il mondo degli spettacoli ambulanti costituisce una presenza costante, non di rado punteggiata appunto dalla comparsa dei freak shows. Il che lo porta, dal punto vista prima biografico e poi artistico, a considerare la questione della diversità da una prospettiva radicalmente differente da quella a cui ci abituerà il cinema successivo, perlopiù incline a venare l’ argomento di sentimentalismo. In Browning, il rapporto tra i “diversi” e i normali non obbedisce mai al principio della comprensione, tantomeno a quello della solidarietà: al contrario, la differenza fisica viene ad essere amplificata dalla distanza emotiva, che spesso si traduce in un sentimento di aperta, reciproca ostilità. In apertura del film che lanciò la sua carriera hollywoodiana, I tre (1925), un circo presenta al pubblico le sue attrazioni, tra le quali figura un nano: quest’ultimo, sbeffeggiato in modo crudele da due ragazze del pubblico, reagisce in modo violento, scatenando una rissa tra gli spettatori. Si tratta di un inizio che racchiude in modo emblematico il pensiero di Browning sull’ argomento: le persone emarginate da una qualche menomazione fisica non possono sperare nella comprensione e nella tolleranza del mondo ordinario, le cui reazioni saranno prevedibilmente improntate all’aggressività e alla malevolenza. E’opportuno quindi che gli emarginati vivano la propria condizione nella consapevolezza che il loro destino è quello di essere esibiti, esposti alla curiosità morbosa della gente, dunque ad un’umanità che a sua volta mostra loro il suo volto più deteriore. Un aspetto verso il quale non si può reagire che con ostilità (durante l’esibizione, il nano colpisce a freddo con un calcio un bambino impertinente) e risentimento: quasi tutte le attrazioni da circo disseminate nel cinema di Browning impiegano il tempo libero in attività criminali, concepite come una forma di compensazione e di vendetta nei confronti di una società che nutre verso la marginalità fisica sentimenti di ribrezzo, disprezzo e scherno.
Quando arriva a realizzare Freaks, Browning ha già alle spalle un vasto numero di film nei quali ha affrontato l’argomento, e questo gli permette di polarizzare in modo estremo i termini della questione, radicalizzando le differenze tra i due mondi. Come sempre succede a Hollywood, un film rivoluzionario e trasgressivo può essere messo in cantiere solo a condizione che il regista abbia, con quello precedente, riscosso un notevole successo di pubblico, tale da convincere i produttori a concedergli carta bianca. Nel caso di Browning, il film di successo coincide con la prima trasposizione su grande schermo del romanzo di Bram Stoker Dracula, che incassa la ragguardevole, per l’epoca, cifra di settecentomila dollari. Il che permette al regista, al ritorno da un viaggio in Europa, di rifiutare la proposta della Metro Goldwyn Mayer (MGM), un adattamento per il grande schermo del romanzo francese Arsène Lupin, e di imporre la propria scelta, che cade invece invece su un racconto di Clarence Robbins (autore del soggetto de I tre) intitolato appunto Freaks. A favorire Browning, c’è inoltre il fatto che il successo di Dracula ha indotto i produttori hollywoodiani a mettere in cantiere film dell’orrore, categoria alla quale gli uomini della MGM erroneamente credono di poter ricondurre quello che hanno appena messo in cantiere. Tuttavia, quando gli studi della casa di produzione cominciano, nell’autunno del 1931, ad essere popolati da personaggi a dir poco stravaganti – donne barbute, ermafroditi, gemelli siamesi, uomini privi di gambe e braccia, ragazze dalla testa a punta – il gran capo della MGM, Louis Mayer, infastidito dalla scelta di non ricorrere, come era abitudine, ad attori travestiti per l’occasione, ha un ripensamento che potrebbe stroncare il film sul nascere. A salvare la situazione ci pensa Irving Thalberg, produttore di spicco, nonché mentore e protettore di Browning sin dalla fine degli anni dieci. Il racconto di Robbins è ambientato in un circo francese, e racconta del matrimonio fra un nano e un’avvenente cavallerizza, che lo sposa per interesse, puntando alla sua eredità. Il giorno delle nozze la donna, infierendo sulla menomazione del partner, gli dice che sarebbe in grado di condurlo in spalle da un capo all’altro della Francia. Per vendetta il nano allora la fa chiudere in un luogo segregato, sorvegliato da un feroce cane da guardia, e la obbliga tutti i giorni a portarlo in spalla dall’alba al tramonto, lungo solitari viottoli di campagna. Browning conserva questa prospettiva, che del resto caratterizzava anche i suoi precedenti film sull’argomento: tra le persone normali e quelle fisicamente menomate può esistere soltanto un rapporto basato sull’ostilità reciproca, sull’opportunismo delle prime e sul sentimento di rivalsa che anima le seconde, decise a vendicarsi degli oltraggi di cui sono stati vittime. Il regista però opera, in sede di sceneggiatura, una sottile ma fondamentale variazione: ad essere tratteggiati in modo negativo non sono più entrambi i protagonisti, ma solo la donna (diventata, in fase di adattamento, una trapezista di nome Cleopatra), di cui vengono messi in rilievo gli sforzi per sfruttare in modo cinico l’amore del nano, infatuatosi di lei al punto da non accorgersi delle sue reali intenzioni. Il film si apre con una visita guidata a diversi quanto bizzarri fenomeni della natura, uno dei quali, conservato dentro ad una scatola, viene definito dall’ imbonitore come “la più incredibile, stupefacente mostruosità che sia mai vissuta sul nostro pianeta”. Alla vista del contenuto della scatola due signore svengono, mentre l’imbonitore racconta che un tempo quella creatura mostruosa era una splendida ragazza, Cleopatra; a questo punto la scena si sposta sotto il tendone di un circo, dove vediamo Cleopatra volteggiare sul trapezio, sotto lo sguardo ammirato di Hans, un nano. Egli corteggia la trapezista, che ricambia le sue attenzioni, inizialmente solo per divertirsi alle sue spalle, poi, quando apprende dalla fidanzata – Frida, una nana che lavora nel circo come cavallerizza – che Hans ha ereditato una fortuna, per interesse. Decide quindi, con la complicità del forzuto del circo, Hercules, che è anche il suo amante, di farsi sposare dal nano, per poi avvelenarlo. All’intreccio principale fa da corredo la descrizione della vita del circo e dei suoi personaggi: nascono amori (tra Phroso il clown e Venere, la ragazza che è stata piantata da Hercules) e bambini (la neonata è figlia della donna barbuta e dell’ uomo scheletro), si svolgono piccole scaramucce (Hercules sorprende Joseph-Josephine, l’ ermafrodito, a spiarlo mentre bacia Cleopatra, e lo prende a pugni) e scene di ordinaria quotidianità, che hanno per protagonisti Koo-Koo la donna uccello, le ragazze dalla testa punta e la loro tutrice, Madame Tetrallini, Johnny Eck, privo della parte inferiore del corpo, il principe Randian, cui mancano braccia e gambe, le gemelle siamesi Daisy e Violet, un clown balbuziente, un mangiatore di spade ed uno di fuoco. Insieme, questi personaggi decidono di organizzare un banchetto nuziale in onore di Hans e Cleopatra, nel corso del quale si mettono a cantare in coro che la sposa è ormai “una di loro”. In preda ai fumi dell’alcool, Cleopatra non gradisce tante attenzioni e, disgustata all’ idea di essere equiparata ad Hans e ai suoi amici, li apostrofa con l’appellativo di “mostri”; poi, per umiliare pubblicamente il marito, se lo carica in spalla e gira per la sala. Il giorno seguente Hans è a letto, ammalato: il medico, dopo averlo visitato, dichiara che il paziente è stato avvelenato. La notizia si diffonde rapidamente per il circo, e l’imbarazzo con cui reagisce Cleopatra fa sì che gli amici di Hans intuiscano il suo piano criminale. Essi decidono allora di vendicarsi, in ottemperanza al loro codice, secondo il quale “se ne offendi uno, è come se li avessi offesi tutti”. In una notte squarciata dai lampi e dai tuoni di un violento temporale, quando i carrozzoni del circo si inoltrano per un sentiero in mezzo al bosco, alcuni freaks aggrediscono Cleopatra dopo averla trovata con la boccetta del veleno in mano, mentre altri neutralizzano Hercules, intento a sbarazzarsi di Venere, che aveva minacciato di denunciarlo alla polizia. Non assistiamo tuttavia alle diverse fasi dell’ aggressione, poiché in scena tornano improvvisamente l’imbonitore e il suo pubblico. A questo punto ci è consentito di vedere il contenuto della scatola: una donna senza gambe né braccia, col petto ricoperto di piume, il volto sfigurato, anche se ugualmente riconoscibile: è quello di Cleopatra. Nella versione originale del film, a questa immagine faceva seguito quella di un uomo che cantava in falsetto, riconoscibile come Hercules, che i freaks, in segno di vendetta, avevano evidentemente castrato. Si tratta solo di uno dei vari episodi che Thalberg, dopo un’anteprima dall’ esito poco meno che disastroso, decise di tagliare dal film. Tra questi, alcune scenette comiche, altre che hanno per argomento la vita quotidiana nel circo, e soprattutto l’episodio in cui gli amici di Hans, strisciando nel fango col coltello fra i denti, deturpano la trapezista e si accingono ad evirare Hercules. Nello stesso tempo, il produttore impose di girare due scene aggiuntive: la prima riguarda il prologo dell’imbonitore, che Browning dunque non aveva previsto, la seconda un finale in cui Hans e Frida si riconciliano e tornano insieme.
Come si può capire, Freaks è ben lontano dall’essere un film dell’orrore. Non lo è dal punto di vista tematico, poiché non contiene alcun elemento riconducibile alla dimensione del fantastico o del soprannaturale. Quanto alla nozione di mostruosità, essa costituisce l’aspetto forse più originale del film, in quanto Browning ne ribalta la concezione tradizionale, che prevedeva che la deformazione esteriore e quella interiore andassero di pari passo, fossero l’una la conseguenza dell’altra. Così avviene, ad esempio, nei due horror movies che escono praticamente in contemporanea a Freaks, Frankenstein e Dr. Jekyll and Mr. Hyde, dove la deturpazione fisica è il sintomo visibile e spaventoso di una menomazione che riguarda innanzitutto la morale e i sentimenti. Nel suo film Browning invece inverte i termini della questione: come ha scritto un critico francese, “a mano a mano che il film procede, le posizioni si invertono: la mostruosità s’umanizza, l’umanità si animalizza”. Questo spiega l’insistenza e la cura con cui il regista racconta la vita quotidiana nel circo, sforzandosi di stemperare la diversità fisica dei suoi personaggi nella banale ordinarietà delle loro esistenze. I freaks amano, litigano, mangiano, si divertono, si riproducono, giocano, compiono insomma le stesse azioni e provano i medesimi sentimenti di tutte le persone “normali”. Non è un caso che, forse per la prima volta nel cinema di Browning, il film non conceda spazio ai momenti in cui essi vengono esibiti come fenomeni da baraccone, esposti alla morbosa e crudele curiosità degli spettatori, così che nulla possa intervenire a turbare l’impressione di una serena routine, di una vita scandita dalla placida successione di eventi tutt’altro che eccezionali. D’altronde, proprio qui risiede il valore straordinariamente eversivo del film: Freaks non concede agli spettatori nulla che possa autorizzarli a raccordare la deturpazione fisica a quella morale. Nel 1932 l’esibizione dei fenomeni da baraccone nei circhi è ancora una pratica corrente, ed è presumibile pensare che il pubblico affezionato a questo genere di “spettacolo” sia accorso a vedere il film, trovandosi poi sconcertato nel verificare come i personaggi del titolo risultino, in definitiva, banali, ordinari, e proprio per questo profondamente umani. La mostruosità, nel film, alberga altrove, si annida tra i muscoli possenti di Hercules il forzuto, nell’ avvenenza di Cleopatra la trapezista. Emerge qui chiaramente l’idea che l’armonia esteriore possa essere ingannevole, nascondere sia istinti animaleschi che depravazioni intollerabili. Hercules è un bestione che mangia in modo smodato e ride in maniera sguaiata, ma Cleopatra non sembra accorgersene, affascinata com’è dalla sua possente muscolatura. Ma soprattutto, entrambi sono personaggi del tutto privi di scrupoli, pronti a sfruttare con cinica e criminale freddezza l’ opportunità di arricchirsi a spese del nano. La sequenza cruciale al riguardo è quella del banchetto nuziale, nella quale il confronto fra i due universi si fa trasparente: da una parte i freaks, che vivono con dignità e serenità la propria malformazione, prodigandosi per festeggiare lo sposo, dall’altra coloro che mortificano la propria natura umana assumendo atteggiamenti di sopraffazione e disprezzo del prossimo. Irritandosi per il fatto di essere considerata dagli amici di Hans “una di loro”, Cleopatra rigetta di fatto con violenza la possibilità di barattare metaforicamente la bellezza con la sensibilità, la grazia dei lineamenti con quella dei sentimenti. La sua reazione sembra voler sancire con forza la propria appartenenza ad un mondo che ruota intorno all’esteriorità, alla superficie. L’avvelenamento del nano, da questo punto di vista, rappresenta un atto di soppressione della disarmonia dalla sua vita. Dato il suo contenuto profondamente trasgressivo rispetto ai parametri del cinema hollywoodiano, non desta sorpresa il fatto che il film sia stato, all’epoca, sommerso da un mare di critiche negative e persino rabbiose. C’è chi, nel suo articolo, trovava il modo di esortare gli esercenti a non proiettarlo, chi si chiedeva se non sarebbe stato il caso di programmarlo in un centro medico piuttosto che in una sala cinematografica, chi addirittura accusava il regista di opportunismo, affermando che il film era “stato fatto per soldi, la stessa ragione per la quale si producono gli alcolici”: un’affermazione che, in epoca di Proibizionismo, non poteva che suonare offensiva. Né gli uffici di censura si mostrarono più comprensivi: ad Atlanta il film, giudicato “nauseante e grottesco”, venne ritirato dalla circolazione, mentre a Washington la presidentessa della sezione affari cinematografici dell’Associazione Nazionale delle Donne scrisse una lettera a Will Hays, il rappresentante degli studi di produzione per le questioni relative alla censura, chiedendogli cosa intendesse fare in merito a un film “che ha procurato a tutte noi tanto imbarazzo”. Dopo qualche timido tentativo di difesa, che metteva in evidenza il coraggio evidenziato dalla MGM nel produrre un film sulla vita della “gente anormale”, Hays decise di ritirare il film dalla distribuzione. Nello stesso periodo, in Gran Bretagna le autorità decisero di bandire Freaks su tutto il territorio nazionale. Del capolavoro di Browning non si sentì più parlare fino al 1948, allorché un produttore di secondo piano ne acquistò i diritti di distribuzione, corredando le copie di una lunga didascalia introduttiva, che da una parte commiserava i freaks, ricordando i tempi in cui “uno di questi sfortunati veniva accolto a corte, ma solo per essere deriso e ridicolizzato dai nobili che si divertivano alle sue spalle”, e dall’altra li trattava alla stregua di un ostacolo alle magnifiche e progressive sorti della scienza (“una storia come questa non la si potrà filmare mai più, perché la scienza moderna e la teratologia stanno rapidamente cancellando dal mondo questi sbagli di natura”). Alla rivalutazione del film contribuì, come spesso è avvenuto per il cinema americano, la critica europea, che tuttavia ebbe occasione di vedere Freaks solo negli anni sessanta, al festival di Cannes prima e a quello di Venezia poi. Visto oggi, a più di settanta anni di distanza dalla sua prima uscita, il film di Browning continua ad avere un valore profondamente eversivo. Questo naturalmente non riguarda tanto la sua presunta oscenità, neutralizzata di fatto dal progressivo assottigliarsi dei limiti e dei tabù imposti al cinema, quanto l’importanza attribuita dal regista all’interiorità dei personaggi, a dispetto e a scapito della loro apparenza esteriore. Se negli anni trenta una prospettiva del genere faceva evidentemente da controcanto all’affermazione del divismo cinematografico e dei suoi canoni estetici, oggi il discorso riguarda, più in generale, una società ossessivamente protesa nella ricerca della bellezza del corpo. Browning con Freaks prova a dirci che ad essere importanti nell’individuo sono altre cose, che quasi mai coincidono con il suo aspetto esteriore. Se qualcuno lo ritiene un messaggio banale o superato, dia un’occhiata al fatturato annuo dei centri di cosmesi e di bellezza, o a quello delle riviste che parlano di fitness e benessere del corpo.

(*) Leonardo Gandini insegna Storia e Cinema presso l’Università di trento. E’ autore di numerosi saggi, tra cui Tod Browning (Milano, Il Castoro, 1996), La Regia cinematografica. Storia e profili critici (Roma, Carocci, 1998), Il film noir (Torino, Lindau, 2001).

Brutti, sporchi e cattivi

Mentre i poveri
(che, c’è stato assicurato da persona degna di fede,
saranno sempre con noi)
saranno gli unici mostri che ci resteranno.

Leslie

Mentre i poveri
(che, c’è stato assicurato da persona degna di fede,
saranno sempre con noi)
saranno gli unici mostri che ci resteranno.

LeslieFiedler, La tirannia del normale, data

Quando, intorno alla metà degli anni Ottanta, il fenomeno delle emittenti televisive locali si propagò in tutta Italia, pochi si accorsero che l’emittente TVM di Palermo aveva cominciato a ospitare una serie di sperimentazioni televisive alquanto originali. Accanto alle notizie della cronaca cittadina (orribilmente sanguinosa), agli spettacoli di intrattenimento vari e alle tante trasmissioni di improbabili maghi e fattucchiere che riempivano il palinsesto, venivano presentati brevi frammenti in bianco e nero in cui uomini seminudi e dalle espressioni piuttosto indolenti rispondevano alle domande di una misteriosa voce fuori campo. A volte, mentre la voce li intervistava rudemente, questi strani personaggi si limitavano a rimanere immobili, con l’unico contorno di una periferia degradata composta da discariche, case dirupate e macerie.
Questi “esperimenti”, che comprendevano già una dozzina di cortometraggi, andavano sotto il nome di Cinico TV e i loro autori erano Franco Maresco e Daniele Ciprì, che solo pochi anni dopo avrebbero scandalizzato il pubblico cinematografico italiano ed europeo con Lo zio di Brooklyn (1995) e Totò che visse due volte (1998), al punto di procurarsi una serie di denuncie per oscenità e il sequestro delle pellicole da parte della censura. Ciò che scandalizzava i benpensanti in quell’Italia tutta indaffarata nelle questioni che riguardavano i vari De Mita e Bettino Craxi, Andreotti e Martelli (oppure, più probabilmente, i mondiali di calcio che stavano per arrivare…) erano le immagini di un’umanità “invisibile”, collocata ai margini estremi della vita sociale, afflitta dall’ignoranza, dalla solitudine, e spesso anche da tutta una serie di menomazioni fisiche. Esibiti in mutande o completamente nudi, questi veri e propri rifiuti della società rispondevano alle provocazioni degli autori con sputi, imprecazioni, peti, rutti, o ingozzandosi avidamente come animali. Non si trattava semplicemente di curiosi e pittoreschi personaggi della strada, ma di un vero e proprio repertorio di disadattati, che offriva una visione scioccante della disabilità nei contesti sociali più degradati. Alla comoda ipocrisia del pietismo dominante si sostituiva una visione schietta, fastidiosamente realistica e sinceramente cinica, dominata da una sorta di poetica dello scatologico, da qualcosa come un lirismo della malformazione. Niente di più impudico per un pubblico abituato alla “allegria” da gerocomio di Mike Buongiorno e che, durante i suoi spassosi zapping (“sport nazionale”, secondo i dati Eurispes, almeno fino al 1998, quando venne sostituito con la navigazione in Internet), si vedeva costretto a intervallare la mascella scolpita dal chewing-gum del Ridge di Beautiful e i prodigi calcistici di Diego Armando con lo squallore dell’universo di Cinico TV. Dal 1990, infatti, l’universo-immondezzaio di Ciprì e Maresco veniva trasmesso sulla terza emittente RAI in prima serata, andando a cozzare con il perbenismo televisivo delle famiglie riunite attorno all’apparecchio come davanti a un focolare tecnologico e provocando così inevitabilmente una serie di polemiche e di incomprensioni (delle quali, peraltro, il programma stesso si alimentava). Frammenti cinematografici di pochi minuti e dai titoli spesso provocatori come L’invasione degli ultrastorpi, Il piacere di essere diversi, La famiglia Ciancimino, Più liberi con la mafia, Cani, Frammenti necropolitani, Sudnormali, Il deserto dei gobbi, Mafiaman1 hanno un impatto molto forte sullo spettatore, al quale, attraverso una buona dose di sarcasmo al vetriolo indirizzato in primo luogo ai disgraziati, viene proposta una visione decisamente caustica della società. Un’intera banda di freaks è la vittima del cinismo di Daniele Ciprì e Franco Maresco che ogni volta vanno programmaticamente a schernire l’inadeguatezza disarmante – al contempo fisica, sociale ed esistenziale – di veri emarginati, scoperti tra i quartieri popolari del capoluogo siciliano e improvvisati attori. Ciò che faceva gridare allo scandalo non era ovviamente la grossolana performance attoriale di questi personaggi, né tanto meno l’improvvisazione della messa in scena. Era, puntualmente, l’esibizione spicciola e brutale di corpi sgradevoli e per di più colti nelle più basse questioni di vita quotidiana (la defecazione, il ruttare), l’irruzione di un universo di rifiuti umani in un’Italia già tutta indaffarata a ripulire, con la forza igienica di Mastrolindo e altri sgrassanti, i suoi apparati istituzionali dall’onta della corruzione (e ben presto anche a riproporre, nella migliore tradizione del fustino Dixan e dell’orsetto Coccolino, l’ordine politico di sempre).
Di fatto, la scelta dei personaggi di Cinico TV è l’elemento centrale di un discorso critico verso la società nel suo complesso che assume un evidente valore polemico non solo nei confronti dell’arrivismo cinico che dominava quegli anni (ma sono davvero finiti?), ma soprattutto di ogni tentativo di falsificare la realtà e la sua durezza attraverso la gradevolezza di immagini preconfezionate, come quelle della pubblicità o dei talk-show, in cui il mondo appare solo come merce seriale adatta alla vendita. Questa dinamica ipocrita investe qualsiasi elemento della vita: facendo leva sui buoni sentimenti, per esempio, è facile vendere al pubblico addomesticato il divertimento procurato da un nano ballerino o la compassione nei confronti di un cieco o di un mutilato. In questo contesto i crudeli frammenti di Cinico TV non potevano non apparire almeno “sospetti”: e infatti, nel 1994, cioè all’alba della famosa Seconda Repubblica, l’esperienza di Ciprì e Maresco in RAI si concluse. Nonostante ciò, i due registi con il loro esercito di “brutti, sporchi e cattivi” avevano raggiunto una certa fama ed erano ormai pronti per il gran salto nel cinema. L’esordio nel lungometraggio avvenne, senza alcun cambiamento dal punto di vista tematico, con Lo zio di Brooklyn, uscito nel 1995. In realtà, Luigi e Aurelio De Laurentis che distribuivano il film per conto della Filmauro, pensavano che il groviglio di polemiche suscitate dagli autori siciliani potesse in qualche modo giovare al successo del film e – col tradizionale cinismo che contraddistingue le mentalità imprenditoriali – si affrettarono a diffondere la notizia che il film fosse un continuo susseguirsi di gag, esagerando a dismisura la sua attinenza con il genere comico. Prevedibilmente queste speranze vennero però deluse al botteghino, che premiò senza indugi l’umorismo meno azzardato di Pieraccioni. Ma per quante analogie i film di Ciprì e Maresco possano avere con il genere comico, il cinema cinico è pervaso di un immaginario grottesco che rimanda, più propriamente, a un sentimento tragico della vita.

L’invasione degli ultrastorpi

“Buonasera, buonasera!”.
“Buonasera”. “Siete soli? Cercate un’anima gemella? L’Agenzia Infame vi dà la possibilità di coronare il vostro sogno: questa sera abbiamo con noi il signor…? Come vi chiamate?”
“Pietro Giordano”
“Detto?”
“Il Gobbo di Palermo”
“Signor Giordano, perché si è rivolto alla nostra Agenzia?”
“Per avere un’anima gemella, possibilmente sicula, con la quale condividere la mia triste esistenza”.
“Lei è solo da quanto?”
“Da tutta la vita…”

Comicità grossolana, innesti surreali, sberleffo cinico e sentimento tragico sono i tratti che caratterizzano i lavori di Ciprì e Maresco, incentrati sempre su personaggi veramente “brutti, sporchi e cattivi”, i quali, più che vivere, sembrano subire il loro ambiente in maniera dissociata, passiva, assolutamente desolata. Pietro Giordano è di volta in volta topo di fogna, pezzo di merda, escremento di barbone, profilattico usato, bomba in attesa di magistrato, pallottola vagante, cane rognoso, Rifiutoman, ed appare come presidente della Associazione Falliti Italiani. Se vi capita di girare per Palermo, è facile incontrarlo davanti a qualche chiesa a mendicare qualche spicciolo per comprare qualcosa da mangiare e d’altra parte, in qualche frammento di Cinico TV, egli stesso ammette di preferire “essere pezzo di merda” piuttosto che essere costretto a fare il mendicante. Un altro Giordano, Carlo, è un uomo sdentato, quasi completamente cieco, che la voce di Franco Maresco interpella sulle tematiche più assurde, ma solo per interromperlo bruscamente di continuo. Appare anche come nazista nella serie “Karlo Giordanen! -Diken!” e soprattutto interpreta Fefè, omosessuale che mira all’eredità dell’amante, ma che invece, nel secondo episodio di Totò che visse due volte, finirà per essere scorticato dai topi. Giuseppe Paviglianiti, scomparso nel 2000, era il Buddha di Palermo: guercio, con una pancia ai limiti dell’inverosimile, viene tipicamente ripreso mentre scorreggia esclamando “certamente”, o cantando le più soavi melodie del repertorio della canzonetta italiana. In un’istallazione realizzata al museo Pecci la sua abbuffata in diretta durava un’ora e mezza. Marcello Miranda è una specie di alter ego dei due autori. Un totem che guarda dall’interno della scena. Personificazione della desolazione, le sue interpretazioni si limitano spesso al solo apparire nella più assoluta fissità (come ne Lo zio di Brooklyn). Quasi sempre in mutande, lo ricordiamo come tentato suicida che uno zio afono vuole salvare, poi come uomo in vendita, uomo-cesso, e ancora come Rocco Cane, maniaco sessuale che attraversa paesaggi desolati e che un occhio perfettamente distaccato osserva come in una specie di Quark. Una sorta di summa di tutti i suoi personaggi si trova in Totò che visse due volte: qui è Paletta, un’onanista che è l’espressione totale del “povero cristo”. Francesco Tirone è una delle prime figure che vediamo abitare la “terra desolata” di Cinico Tv. Sempre accompagnato dalla sua bicicletta e vestito di tutto punto come un perfetto ciclista, è efficace sia come figura fissa sia come monologante. Parla un italiano dialettale contorto e ostinatamente poetico, al limite della comprensibilità anche quando deve difendersi dalle accuse di chi, in un interrogatorio, lo insulta con termini come grossa baldracca, sodomita, pezzo di merda, con la data di nascita, l’identità completamente sbagliati. Tirone interpreta anche Mafiaman, il “supereroe” che aiuta i cattivi e che conclude tutte le sue avventure con la frase “Ah! Ah! Siamo davvero pietosi!”. Altri personaggi sono Francesco Arnao, il “San Polifemo” che apre i due lungometraggi togliendosi il suo occhio di vetro e lasciando intravedere l’orbita cava (mirabile metafora di una visione alquanto dolorosa, nonché evidente richiamo al Luis Buñuel di Un Chien andalou); Giuseppe Filingeri, trentenne miope e devastato dai tic; Fortunato Cirincione, dall’eloquio assolutamente incomprensibile a cominciare da quando deve pronunciare il proprio nome e, least but non least, i nani Bruno Di Benedetto, Giuseppe Di Sterno, Ernesto Gattuso e gli “angeli” gobbi Paolo Alaimo, Antonello Pensati. Un discorso a parte, però, merita la presenza invisibile che con questi strani personaggi dialoga attivamente durante le vicende. La Voce (che appartiene a Franco Maresco) propone situazioni inverosimili presentando i personaggi nelle vesti più improbabili e assurde. Nonostante sia spesso beffarda nell’incalzare i personaggi e nel suo “mettere il dito nella piaga” assumendo toni mordaci, intrattiene con i personaggi un paradossale rapporto di partecipazione. La Voce permette ai personaggi di esprimere il loro disagio e i loro problemi, li mette al centro della propria attenzione e di quella degli spettatori. Certo il senso della sua distanza non viene mai abolito, e tuttavia si tratta di una distanza “amorevole”, che definisce al contempo un serio interessamento emotivo, ironico e fraterno e la difficoltà di rapportarsi con un universo che appare inesorabilmente altro, diverso, non normalizzabile (“ma lei non è un pezzo di merda, non può capire!” afferma spesso Pietro Giordano dopo essersi sfogato con la voce che lo intervistava).
Queste sono dunque le figure che attraversano il cinema cinico di Ciprì e Maresco: visioni fastidiose, immagini e situazioni al limite della sopportabilità, che raramente il cinema è stato così radicale nel mostrare. Ma analizzando più attentamente i film dei due registi siciliani, ci si accorge che il vero protagonista di queste storie è il paesaggio in cui hanno luogo, un paesaggio disastrato, composto da ruderi, rifiuti, scheletri industriali, da una natura scarna e almeno altrettanto mostruosa e selvaggia dei personaggi che la abitano.2 La città di Palermo, la sua infinita periferia degradata è il non-luogo arcaico nel quale si svolge il dramma eterno dell’abiezione. Le persone umane appaiono più prossime all’irrazionalità impulsiva degli animali che non all’ illuminata saggezza di un’entità superiore.
La dimensione religiosa viene evocata solo nelle immagini dei santuari dedicati alla “Santuzza”, siti nella rete vorticosa dei vicoli del capoluogo di cui è patrona, allo stesso modo in cui i santuari rimandano all’occhio putrefatto di San Polifemo e i vicoli all’iride di quell’occhio, in una terra (vero corpo di questo cinema) che ha perso anche le sue ultime speranze. Un popolo e una terra definitivamente rassegnati a delegare sempre a qualcun altro (che si tratti di un ordine divino o un ordine mafioso) la possibilità di un eventuale piccolo beneficio. In questo modo il disadattamento e l’handicap viene rappresentato non solo nei singoli esseri umani, ma anche in tutto ciò che li circonda. In questa visione tragica, la malattia è presente in ogni elemento del reale e nasconderla sarebbe solo l’annuncio di un sentimento di paura, di falsità, di ipocrisia. Conoscendo il substrato culturale della società siciliana, la sua storia millenaria e tormentata, non è difficile comprendere come proprio qui sia potuto nascere un cinema così scontroso, in cui immagine dopo immagine si intessono le cellule disperate di un corpo sociale sofferente ed eternamente mutilato, proprio come quello dei suoi protagonisti. Il sentimento cinico degli autori dà dunque espressione a un forte disagio di natura sociale ed esistenziale, che ha le sue radici direttamente nella realtà (e più in generale nella natura e nella “civiltà” umana) e che trova la sua poetica e la sua diagnosi nella messa in scena del disadattamento e dell’handicap come espressione di una società malata. Il cinema di Ciprì e Maresco racconta forti contraddizioni ed è caratterizzato esso stesso da scelte formali estreme, in cui il bianco e nero della fotografia rimanda allo scontro frontale tra forze estreme e lucenti (Gesualdo Bufalino parlava della Sicilia come di una terra in cui “la vita si declina tra la luce e il lutto, tra il nero e l’abbaglio”). Sotto questa luce dura si stagliano i protagonisti, al centro di uno scontro che è anche l’equivoco o l’ambivalenza della nostra condizione spettatoriale: luce o lutto? Riso o pianto? Crudeltà o partecipazione? La risposta, per quanto autentica possa essere, sarà comunque spiazzante.

Anche la terra ha le sue bolle come l’acqua

Dopo Lo zio di Brooklyn era evidente che Ciprì e Maresco avrebbero avuto seri problemi a diffondere il loro materiale su larga scala. Totò che visse due volte, il loro secondo lungometraggio, inizialmente doveva essere distribuito dalla Filmauro, ma all’ultimo momento i De Laurentis rinunciarono all’impresa. Nonostante il buon riscontro di critica ottenuto alla Mostra di Berlino, arrivato il momento di uscire nelle sale italiane, il film fu sequestrato e proibito dalla censura. Il film “maledetto” veniva accusato di “offendere la dignità umana”, di essere “uno squallore. Peggio, un disonore”. Il quotidiano di Alleanza Nazionale sentenziò che “quel film attenta alla religione” e poco ci mancò che lo definisse opera di Satana in persona. Un coro di intellettuali si levò contro il provvedimento in difesa del film e clandestinamente vennero organizzate proiezioni a sorpresa in sei cinema italiani. Finalmente, dopo altri mesi di fosche polemiche, il nullaosta per la proiezione pubblica venne concesso (ma accompagnato dal divieto ai minori). Contemporaneamente, l’allora vicepresidente del Consiglio Walter Veltroni, propose un disegno di legge per eliminare la possibilità che un organo amministrativo (come la commissione per la censura cinematografica) impedisse definitivamente, con un suo semplice giudizio, la proiezione pubblica di un film. La soddisfazione di chi si era schierato contro la censura fu grande almeno quanto la rabbia di chi aveva fatto di tutto per boicottare l’uscita in sala del film: avevano vinto i mostri, e non quelli virtuali raccontati da Hollywood, ma quelli in carne e ossa che realmente abitano le nostre città. Tutto ciò creò non poco fastidio a chi faceva del politically correct un dogma di vita, acconsentendo bonariamente di partecipare a una società dell’immagine che, se in superficie si dimostra sensibile ai problemi del prossimo, in realtà fonda la propria caritatevole presenza sull’ipocrisia e sull’egoismo, rivelandosi, infine, semplicemente indifferente.
Il cinema di Ciprì e Maresco non è altro, infatti, se non lo specchio cinico del cinismo ben più pericoloso della società in cui viviamo, il quale, in ogni caso, è di diversa matrice e che nei loro film viene dunque come tale criticato3. In altri termini, Ciprì e Maresco sanno benissimo che la società a cui propongono le loro ciniche provocazioni è pervasa da un cinismo ben più subdolo e più profondo, che agisce soprattutto nel sistema mediatico e nell’uso delle immagini. Nel mondo-spettacolo in cui siamo immersi, la sofferenza e la brutalità del reale vengono continuamente edulcorate, sublimate, patinate, e infine rese digeribili a un pubblico addomesticato, sempre più imbottito di immagini cordiali, sorridenti, pulite e apparentemente innocue. O peggio ancora, la realtà viene fornita sotto forma di reality show, o data in pasto al pubblico come scoop giornalistico, dove il grado di verità è inversamente proporzionale al voyeurismo bigotto di cui la nostra cara Auditel (unica vera sovraentità della società-spettacolo in cui viviamo) si nutre. Nel momento in cui scriviamo, si attende l’uscita dell’ultimo, segretissimo lungometraggio dei registi palermitani. Dovrebbe intitolarsi Il ritorno di Cagliostro ma a causa della riservatezza dei registi (ma del resto, interessa davvero a qualcuno?), non se ne sa granché. Quel che si sa è che l’anno duemilatre dell’epoca cristiana ci ha offerto una nuova guerra, come del resto era già accaduto l’anno precedente e come probabilmente accadrà anche in quello a venire (sono le speranze le ultime a morire, o i guerrafondai?). Del resto, qualche emittente via cavo se ne sta forse già assicurando l’esclusiva e la condirà con una buona dose di provocanti curve sul calendario, qualche eccitante baruffa televisiva e una grattugiata domenicale di sane, utilissime polemiche sul rigore che forse c’era e forse non c’era. Non bisogna essere grandi intenditori di cinema o avere una sfera di cristallo per prevedere che, in questo clima, anche l’ultimo film di Ciprì e Maresco sarà un fiasco. Non è certo una novità: mostrare la sofferenza e le sventure reali non è mai di moda. E poi il cinismo con cui le televisioni sfruttano la guerra non sarà, a conti fatti, più gratificante?

(*) Nino Scaffidi Damianello è nato a Palermo nel 1977. E’ laureando presso il Dipartimento di Cinema del DAMS di Bologna, dove risiede. Oltre a scrivere di cinema è autore di canzoni, racconti brevi, soggetti e sceneggiature cinematografiche.

Dall’imbuto di Norimberga alla costruzione condivisa dell’apprendimento

Due convinzioni radicate

Il senso etimologico del termine educazione (ex-duco) riconduce al significato di guidare, condurre verso uno scopo. Questa forte valenza di indirizzo e guida esercitata da “chi sa” verso “chi non sa” ha formato il modello educativo prevalente per buona parte della storia europea ed è a tutt’oggi ben esemplificato da due convinzioni presenti, più o meno esplicitamente, nella più parte del modo comune di pensare e gestire il processo di apprendimento.
“La prima convinzione può essere illustrata dalla Metafora dell’imbuto di Norimberga che trae origine da un incisione su legno del diciassettesimo secolo dove si vede una sedia sulla quale è seduto un ragazzo che in testa ha un buco nel quale è infilato un imbuto. In piedi accanto al ragazzo c’è l’insegnante intento a riversare nell’imbuto A, B, C, 2+2=4 e tutto il resto della sapienza dell’epoca. Questo favoloso e ingegnoso dispositivo è stato chiamato ’imbuto di Norimberga’ perché è in quella città che per la prima volta fu immortalato in un’incisione.
Si tratta di un dispositivo certamente molto attraente, se è vero com’è vero che ancora nel nostro secolo tutte le nozioni sull’imparare e insegnare ruotano attorno a questa idea della conoscenza come qualcosa che alcuni possiedono e altri no e che i primi possono versare nelle menti dei secondi. La conoscenza è concepita come un’entità, come un insieme di oggetti. Purtroppo le cose non funzionano così, ma si assume che così sia, che l’apprendimento sia un processo di questo tipo.
La seconda convinzione nasce dalla necessità di renderci periodicamente conto di cosa lo studente sa, cosa ‘ha imparato’. E allora lo esaminiamo; gli facciamo delle domande e ascoltiamo e valutiamo le sue risposte.
Un mio collega, un compositore di nome Herbert Brun, tempo fa mi fece notare che esistono due tipi di domande: quelle che ha chiamato le ‘domande legittime’, cioè le domande per le quali non abbiamo ancora una risposta e le altre che ha chiamato ‘domande illegittime’, di cui già conosciamo la risposta. Se accettiamo questa distinzione, dobbiamo riconoscere che le domande che gli insegnanti rivolgono agli studenti, sono tutte domande illegittime, di cui già si conosce la risposta; il loro unico scopo è verificare se la sa anche lo studente.
Faccio un salto e arrivo al problema successivo: a scuola gli studenti dovrebbero essere stimolati a porsi e porre domande legittime; ma come fanno ad apprendere se non c’è esempio e occasione?
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chi apprende e chi insegna; anche Paulo Freire ci dice che “Ogni pratica educativa è complessa e contraddittoria, ha a che fare con me e con gli altri”.
Conoscere, possedere un sapere è quindi un processo che ci induce a fare i conti contemporaneamente con due posizioni. Una estremamente soggettiva, legata alla possibilità che il soggetto ha di riconoscere in ciò che gli viene proposto come contenuto di apprendimento qualche tratto (o molteplici tratti) da ricondurre a sé, alla propria storia, competenza, aspettativa.
L’altra che rimanda alla dimensione dialogica, di scambio e apertura verso l’altro. Si impara con e a partire dagli altri come è esemplarmente concretizzato dal fondamentale processo di acquisizione del linguaggio nel bambino piccolo.
In senso generale si può dire che siamo in possesso di una forma di conoscenza quando essa diventa parte della nostra esperienza, viene cioè rielaborata riconoscendone gli aspetti di vicinanza e di distanza.

La lettura

Genitori, figli, insegnanti
La scuola, sin dagli inizi, si è distinta come istituzione che, contrariamente ai rischi della vita sociale, organizza l’apprendimento in maniera sistematica, progressiva ed esaustiva. Finché la società riteneva del tutto normale che l’accesso al sapere fosse determinato dal retaggio familiare, non vi era necessità di avere una scuola. Ciascuno apprendeva ciò che i propri genitori e la propria cerchia di conoscenti sapevano. Si viveva in un ambiente dato, di cui si sforzava di apprendere progressivamente il linguaggio, i modi e le competenze; l’apprendimento funzionava in sostanza per osmosi. Risultato: si impiegava molto tempo e ciò che ogni persona sapeva si limitava a ciò che l’ambiente in cui viveva poteva insegnare.
Furono gli enciclopedisti settecenteschi (Diderot, d’Alambert, ecc.) i primi a immaginare uno strumento che mettesse a disposizione di tutti coloro che sapevano leggere il complesso dei saperi elaborati dagli uomini. L’obiettivo della loro impresa – che noi oggi proseguiamo mediante una molteplicità di strumenti e istituzioni quali libri, enciclopedie a stampa, sonore, visive o digitali, manuali e programmi scolastici, musei, conservatori, ecc. – era avvicinare gli uomini alla conoscenza e consentire loro di accedervi in maniera progressiva ed esaustiva. È un primo piano, notevole passo verso la democratizzazione dell’accesso al sapere. Ma i sociologi del ventesimo secolo ci hanno insegnato che “mettere a disposizione” non è sufficiente e che l’offerta, per quanto ben concepita, rinvia sempre all’ineguaglianza delle persone e dei gruppi nel trovare la propria strada nel labirinto dei saperi e nel comprendere ciò che viene proposto loro. In altre parole: i saperi, oggi, sono a portata di mano. Un tempo era sufficiente aprire un manuale o un’enciclopedia; ora basta ciccare su Internet… Ma con ciò, in realtà, si accede soltanto a una massa di informazioni. Occorre saperle cercare, comprenderle, vagliarle, confrontarle, metterle in relazione le une con le altre, identificare ciò che è necessario memorizzare… È nostro compito proseguire l’opera degli enciclopedisti. È compito degli insegnanti di oggi essere gli enciclopedisti di domani… veri professionisti, non solo della “distribuzione” delle conoscenze, ma anche dell’accesso ragionato e autonomo ai saperi. Si tratta del prolungamento naturale del tradizionale mestiere di insegnare; ma ciò richiede anche una nuova professionalità, caratterizzata da un’attenzione particolare a ciò che assai impropriamente viene definito “studio a casa”.

(P. Merieu, I compiti a casa. Genitori, figli, insegnanti: a ciascuno il suo ruolo, Milano, Feltrinelli, 2002)

Editoriale

Che cosa significa apprendere e come si apprende? Sono queste le domande alle quali la sezione monografica di questo numero cerca di dare una risposta. Un apprendere che riguarda tutti, lo studente come l’insegnante, dove lo studente non può certo essere visto come un vaso da riempire di conoscenze (come viene esemplificato dall’immagine di un imbuto infilato nella testa di un ragazzo). Un apprendimento che ha bisogno della comunità scolastica per realizzarsi efficacemente: si apprende con gli altri e da altri. Le due autrici sottolineano tre aspetti della questione:
1) la reciprocità fra insegnamento ed apprendimento
2) la complementarietà degli aspetti emotivi e cognitivi
3) la centralità nel processo di apprendimento della relazione fra chi “insegna” e chi “apprende”.
Il discorso si struttura passando attraverso l’analisi della classe e del clima di classe, della relazione tra individuo e gruppo, dell’accoglienza, della narrazione (la classe come comunità di parole).
Tra i vari articoli portanti sono inserite delle letture che, attraverso la voce di autori noti, ne approfondiscono alcuni aspetti. La seconda parte della monografia presenta invece dieci schede che servono come strumenti di gestione del gruppo classe.
Per quanto riguarda le rubriche, nello spazio Europa Europa, vi presentiamo l’intervista ad un disabile svedese moto singolare. Nello Spazio Calamaio invece, capirete, leggendo l’articolo, come il gioco degli scacchi possa dirci molto a proposito di handicap e di diverse abilità. Come si può sorridere della disabilità? Attraverso le vignette satiriche e umoristiche di noti disegnatori che la redazione di DM (la rivista della UILDM) raccoglie da diversi anni e che ha presentato in una mostra itinerante; è questo l’argomento trattato nella rubrica sull’informazione sociale. Infine potrete trovare L’occhio sullo scaffale, il solito e copioso spazio dedicato alle recensioni di libri.
Questo è il quarto e ultimo numero del 2003; speriamo che i nostri abbonati, soprattutto quelli nuovi, si siano fatti un’idea precisa del nostro lavoro e ancor più speriamo che gli articoli pubblicati (le monografie come le rubriche) vi siano serviti nel vostro lavoro quotidiano e nelle vostre relazioni con gli altri.
Il prossimo anno vi proporremo monografie altrettanto interessanti e un aumento dello spazio dedicato alle rubriche. Oltre alle solite faranno la loro comparsa “Il magico Alvermann” (che si occuperà di letteratura e diversità), uno spazio dedicato allo sport (trattato da punti di vista inediti) e infine una rubrica dedicata alla tema della disabilità nel sud del mondo.

Arrivederci al 2004 allora!(N. R.)