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Autore: admin

Europa Europa

Devo confessare che ho sempre avuto una forte diffidenza per i “motivatori psicologici”. Forse perché li ho sempre associati inconsciamente (ma non troppo, se lo scrivo) con il contesto sociale delle conventions di venditori multilevel, quelle in cui un capo carismatico cerca di convincere con strepiti e grida una massa di persone che vendere è bellissimo e che loro possono diventare i più bravi a farlo – con ovvi retroscena truffaldini. O forse, a livello più profondo, perché nella società in cui viviamo molti “cercan di insegnarti che a soffrire si migliora”, e tanto è facile interiorizzare questa visione che si tende a guardare ogni forma di “pensiero positivo” o di sforzo di automiglioramento con forte sospetto. Tutto questo per dire che l’intervista a Bengt Elmén, ma meglio ancora la sua esperienza di vita, mi hanno posto un po’ in difficoltà. Elmén è un uomo colpito da paralisi cerebrale infantile, che ha avuto una carriera imprenditoriale fulminante (nella Stockholm Cooperative for Independent Living, che oggi assiste circa 9.000 disabili), e che oggi è un consulente richiestissimo per seminari, per l’appunto, di motivazione psicologica. Lui si definisce piuttosto un “mentore”, che aiuta le persone a raggiungere i propri obiettivi superando le difficoltà psicologiche che spesso si frappongono tra il desiderio e l’azione, come appunto Mentore ricevette in affidamento da Ulisse il figlio Telemaco perché gli facesse da guida per le sue scelte, senza sostituirsi a lui. Le sue parole, come leggerete, sono spesso molto semplici, e lasciano capire che anche da situazioni personali difficili si può uscire con consigli non accademici, ma legati alla saggezza della vita quotidiana. Ora, è vero che il Regno di Dio viene svelato ai piccoli e non ai sapienti, ma, e qui sta il punto (al di là delle mie idiosincrasie personali), forse molti tenderebbero a derubricare questi consigli come troppo ingenui, se non venissero da una persona che da una posizione di debolezza fisica ha saputo costruire una grande solidità e apertura psicologica. Il che chiama poi in causa un legame, che si nasconde tra i nostri occhi “disincantati”, tra disabilità e sofferenza, legame che Elmén non combatte come pregiudizio ma sa estendere e generalizzare a tutte le persone, per invitarle ad “andare oltre”. Sicuramente, Bengt Elmén ha saputo trasformare la propria “sfiga” in “sfida” e vincerla. Benché la mia diffidenza per chi fa dello psychological training la propria professione non sia scomparsa, anche grazie a lui il pregiudizio è divenuto dubbio.

Come si presenterebbe in breve?
Sono uno svedese di 42 anni, che si interessa dell’aiutare altri a scoprire nuovi modi di valutare la vita e se stessi.
Che cos’è un “raggiungitore” (achiever) nella sua concezione? E un “mentore” (mentorer)?
A mio avviso, un raggiungitore è qualcuno che vuole ottenere qualcosa. Lui o lei vogliono lasciare il segno. Vogliono che questo mondo sia in una forma migliore quando se ne andranno di quanto fosse quando sono arrivati. Un mentore è qualcuno che vuole aiutare gli altri a crescere. Il mentoring non dovrebbe mai essere reso più complicato di quanto non sia. In un modo o nell’altro, tutti noi siamo mentori di quando in quando. Come genitori, siamo mentori per i nostri figli. Come nonni e nonne, siamo mentori per i nostri nipoti. Siamo mentori a volte per i figli di altri e per i giovani. Forse avete lavorato con i giovani in un’associazione o in un’altra organizzazione. Forse prendete di tanto in tanto un caffè con un amico d’infanzia e fate una bella chiacchierata sulla vita. Anche se questo tipo di incontro è spontaneo, può essere una forma di mentoring.
Ci può raccontare qualche aneddoto o episodio significativo sulla sua esperienza?
Nel mio “kit per raggiungitori” ho citato un episodio che mi ha insegnato l’importanza della flessibilità, quando ho dovuto passare una notte senza dormire a Seattle. Era la prima volta che facevo un viaggio all’estero con assistenti personali. Il viaggio era fino alla California. Era grandioso poter finalmente fare un viaggio simile senza i miei genitori. Avevo circa 30 anni. Ma feci anche molti errori. E probabilmente il più grande fu che presi con me troppo pochi assistenti. Avevo deciso di stare via sei settimane e avevo diviso il mio tempo in due periodi di tre settimane, con due assistenti per ogni periodo. Per le prime tre settimane avevo due uomini che lavoravano da soli un giorno sì e uno no. Quando loro tornarono a casa, furono sostituiti da due donne. Ci rendemmo velocemente conto che era piuttosto stressante per loro lavorare un giorno sì e uno no. Io ho bisogno di assistenza durante tutte le mie ore di veglia, che sono circa 12-15 al giorno. Così al momento in cui i ragazzi stavano per partire eravamo piuttosto stanchi l’uno degli altri, e quando le ragazze e io stavamo per partire per casa, eravamo, se possibile, ancora più stanchi. Probabilmente tutti noi abbiamo sperimentato viaggi in cui, verso la fine, non pensiamo ad altro che tornare a casa. Questo viaggio fu peggio. La minima differenza di opinione causava irritazione tra di noi. Così stavano le cose quando ci imbarcammo per il volo di ritorno. Dopo uno scalo a Portland, stavamo per dirigerci a Seattle, dove avremmo dovuto prendere il volo per la nostra amata Svezia. Ma qualcosa andò storto dopo l’atterraggio a Portland: il volo fu ritardato e poi annullato per problemi all’aereo, e dovemmo prendere un altro volo. Ce l’avremmo fatta in tempo per la nostra coincidenza a Seattle? Dopo un lungo periodo, gli assistenti di volo ci dissero che non ce l’avremmo fatta, ma che c’era comunque la possibilità di fare in tempo per un altro volo. Quando però atterrammo a Seattle, finimmo a sedere in attesa. Nessuno tra il personale della compagnia sembrava poterci aiutare, e ognuno ci rinviava ad altri. Non eravamo minimamente nello spirito per questo tipo di caos; volevamo andare a casa, e non volevamo continuare a correre qua e là per l’aeroporto con il nostro bagaglio a rimorchio, parlando con un operatore della compagnia aerea dopo l’altro senza venire aiutati. Finalmente, una persona gentile ci informò che non c’erano più voli per l’Europa del Nord quel giorno. Ci avrebbero invece offerto sistemazioni per la notte così che avremmo potuto prendere regolarmente il volo il giorno dopo. Fummo prenotati allo Sheraton e trasportati là. Potemmo fare una doccia, mangiare un pasto eccellente e infine riposarci un po’. Nel mezzo della notte fui però svegliato da un rumore di sgocciolio. Dal momento che non riuscivo a riaddormentarmi, dovetti arrampicarmi nella mia carrozzina per provare a scoprire da dove venisse il rumore. Nel bagno, scoprii che il gabinetto non stava funzionando bene: l’acqua sembrava scorrerci dentro. Provai a tirare l’acqua alcune volte, ma senza esito. Chiusi la porta del bagno, ma presto scoprii che questo non mi impediva di sentire lo sgocciolio. Cosa fare? Non sarebbe stato giusto svegliare una delle mie assistenti solo per questo nel cuore della notte. Decisi allora che per dormire quella notte dovevo prendere cura di me stesso. La cosa più ovvia sarebbe stata chiamare la reception e lasciare che se ne preoccupassero loro. Ma questo non sarebbe stato così facile per me. Dal momento che non posso tenere una cornetta del telefono al mio orecchio, avrei dovuto in qualche modo sganciare la cornetta dalla base del telefono, digitare il numero con il naso e quindi posizionare la cornetta in modo da poter parlare nel microfono. Feci tutto questo sul mio letto. Salii sulle ginocchia al bordo del letto e misi il telefono sul letto in modo da poter digitare il numero con il naso. Ma cosa avrei detto? E mi avrebbero capito? La maggioranza delle persone probabilmente esiterebbe a chiamare una reception di un hotel nel bel mezzo della notte, in un paese straniero, solo per dire che il gabinetto non funziona a dovere. Oltre a questo, ho una difficoltà di linguaggio che rende difficile per persone che non mi conoscono il comprendermi al telefono. Ma non mi diedi il tempo di pensare a questo. Semplicemente chiamai e dissi “il mio gabinetto è fuori servizio”. Come se fosse la cosa più naturale al mondo, l’addetto alla reception disse “manderò su qualcuno”. Quindici minuti dopo, un idraulico stava alla mia porta, cassetta degli attrezzi in mano. Riparò il gabinetto in due minuti e se ne era andato prima che potessi conoscerlo. La mattina dopo, al mio risveglio, mi chiesi se avevo sognato il tutto. Era troppo surreale incontrare un idraulico nel mezzo della notte allo Sheraton solo perché non riuscivo a dormire a Seattle.
Come ha inciso la sua disabilità sulla sua vita e carriera (se ha inciso)?
Io penso che la mia disabilità ha contribuito a una esperienza di vita unica per me. Tra le altre cose, la mia disabilità mi ha insegnato a definire obiettivi per il futuro, cercare sempre opportunità piuttosto che indugiare sulle sofferenze, e cercare di trovare la pace nelle nostre vite. Questo è il tipo di saggezza che tento di comunicare.
La Svezia, e i paesi nordici in generale, sono abitualmente associati con una grande attenzione alle persone con disabilità, dal lato sia del welfare che dell’integrazione nella società. Lei confermerebbe o smentirebbe questo “mito”?
Sì e no. Come ho scritto in una presentazione della STIL, la cooperativa di assistenza che ho diretto per cinque anni, per decenni la Svezia è stata guardata come il numero uno al mondo per il welfare state sociale. Tuttavia, fino a poco tempo fa i servizi sociali sono stati disegnati esclusivamente da professionisti ed esperti. Gli individui che sono stati sostenuti dai sistemi avevano ben poco da dire quanto al disegno dei servizi. Nel caso delle persone disabili questa mancanza di controllo significa anche una mancanza di opportunità di dare forma alla propria vita. La STIL ha trovato il suo obiettivo, a metà degli anni ’80, proprio nel lanciare una nuova maniera di organizzare l’assistenza personale ai disabili a partire dalle loro necessità.
I nostri lettori spesso devono fronteggiare difficoltà collegate alla disabilità. Ha consigli su come possono assumere un approccio psicologico migliore alla loro situazione?
Tutti gli esseri umani incontrano allorquando la sofferenza nelle loro vite. È una parte naturale della vita. Nessuno può evitarla. Il tipo di sofferenza differisce da persona a persona. Alcuni di noi sono disabili. Altri possono perdere un parente stretto, e altri ancora possono subire un incidente d’auto. Quando qualcosa di difficile avviene nelle nostre vite, penso sia importante lasciare uscire tutti i sentimenti. In generale, gli italiani sono più esperti in quest’area di quanto siamo noi svedesi. Potete essere tristi o arrabbiati. Questo è OK. Ma dopo un po’ è tempo di decidere come andare oltre. È tempo di cercare nuove opportunità, perché avete la responsabilità di cercare di tirar fuori il meglio dal resto della vostra vita. Nessun altro ve la riparerà per voi. A quel punto, dovete dare un’occhiata a quanto potete e quanto non potete fare. Quali sono le vostre priorità? Quali sono le attività che vi piacciono e con quali persone vi piace andare in giro? In altri termini, come volete spendere il resto della vostra vita su questo pianeta? Quali sono i vostri doni speciali che volete nutrire? Mario Ruppolo [il personaggio interpretato da Massimo Troisi, ndr], ad esempio, nel meraviglioso film Il Postino, superava le proprie difficoltà imparando a scrivere poesie.
Memore forse del turbolento viaggio sulla West Coast americana (in cui però ha sperimentato l’esperienza paranormale di un idraulico in 15 minuti!!), Bengt Elmén non ha al momento progetti di viaggio in Europa e in Italia. Se comunque volete contattarlo o saperne di più sulla sua attività, eccovi tutti i recapiti:

Bengt Elmén Sothönsgränd 5 12349 Farsta, Sweden Tel. +46-8-949871, Fax +46-8-6040723 mail@bengtelmen.com / www.bengtelmen.com

TirocinIO, un cd rom per rielaborare l’esperienza

“Intraprendere un percorso formativo significa far incontrare le proprie aspettative con la realtà scolastica e formativa che si va a frequentare. Significa, ancora, mettere in gioco

 

le competenze e conoscenze possedute in un contesto nuovo, fatto di persone e regole da conoscere e con cui confrontarsi. E’ un’esperienza intensa che mobilita capacità ed emozioni; esperienza che si fa ancora più forte nel momento in cui la scuola ci porta ad entrare in contatto, attraverso la realizzazione di stage o tirocini, con il mondo delle professioni verso cui ci si sta preparando. Il significato dello strumento ‘TirocinIO’ che stai per utilizzare è proprio quello di aiutarti a riflettere sul percorso formativo che stai seguendo, attraverso proposte attive che utilizzano prevalentemente la scrittura.
In particolare sono quattro le aree di lavoro proposte.
La persona: presentazione, competenze, valutazione di sé.
La scuola: percorso formativo precedente, il proprio stile di studio.
Il tirocinio: significato, aspettative, caratteristiche.
L’immaginario del lavoro: immagini, desideri, stereotipi.
L’obiettivo è quello di fornirti uno spazio personale attraverso cui tenere il filo di ciò che conosci e vivi, producendo in tal mondo una memoria consapevole e duratura.”

 

Struttura del cd rom
Lo sfondo
Lo sfondo è una situazione pedagogico-didattica, uno strumento mediatore fra l’allievo e il suo apprendimento; è uno degli strumenti che un’agenzia educativa mette a disposizione degli allievi perché giungano facilmente ad un apprendimento il più possibile autonomo e cooperativo. La scelta di sfondo si è orientata verso una immagine semplice, quotidiana e nello stesso tempo emotivamente connotata: la camera da letto di una ragazza. Questo alfine di dare un riferimento che permettesse di ritrovare accenni alla propria situazione personale ma anche utile a mettere in rilievo il collegamento fra l’atmosfera intima e privata di uno spazio così personale e la prospettiva esterna, rappresentata dalla finestra che si apre verso il mondo. La stanza è un luogo in cui tornare per riposare e ripensare ma anche un luogo da cui partire verso ciò che è ancora nuovo e non conosciuto.
Le aree di lavoro
La struttura del cd rom è articolata in quattro aree di lavoro che sono state così identificate.
Area della persona: presentazione, competenze, valutazione di sé nel rapporto al percorso formativo intrapreso.
Area della scuola: percorso formativo precedente, esplorazione di strategie e stile di studio personale.
Area del tirocinio: aspettative e monitoraggio/valutazione dell’esperienza.
Area dell’immaginario del lavoro: gli stereotipi e le immagini presenti nel bagaglio personale rispetto al profilo professionale verso cui ci si sta formando.
Ad ogni area si accede da uno o più oggetti attivi presenti nello sfondo che hanno un significato simbolico immediato.
Area della persona: l’album di foto che si apre, sfogliando le pagine, nel momento in cui diventa attivo. Area della scuola: il libro che esce dallo scaffale quando si attiva la sezione. Area del tirocinio: il monitor del computer che si accende, attivandosi, dando il benvenuto allo studente. Area dell’immaginario del lavoro: la finestra che da chiusa si apre quando si entra nell’area di lavoro.
Strumenti presenti per ogni area
Area della persona
In questa area, che presenta il numero più alto di proposte di lavoro, gli strumenti presentati fanno riferimento a tre parole chiave che ne sottolineano, al di là delle caratteristiche specifiche, il tratto formativo principale.
Presentazione di sé: sono strumenti pensati per favorire l’espressione di sé in funzione di un momento importante e delicato ad un tempo legato all’inizio del percorso formativo, momento in cui la ragazza o il ragazzo sono chiamati a presentare alcuni tratti del proprio modo di percepire e raccontare l’identità e di condividerla con altri. Carta di identità Mi piace…..non mi piace. Io mi vedo così… “Chi sei?” il gioco del WAY. Gli altri dicono di me. “Per conoscermi”.
Competenze: raggiungere una più alta consapevolezza rispetto alle proprie competenze e, quindi, in modo complementare ai propri punti deboli è uno degli obiettivi più alti di qualunque percorso formativo. Le tre proposte di lavoro qui inserite hanno proprio lo scopo di favorire una riflessione contestualizzata sul tema delle competenze possedute e sulle modalità di metterle in gioco. Il Testamento di Marc’Aurelio Casi di successo personale Le motivazioni professionali
Valutazione:le ultime tre proposte si i inseriscono nell’ambito della valutazione predisponendo situazioni in cui poter raccontare sia il modo di studiare adottato che il bagaglio di elementi significativi da portare oltre le mura della scuola. Per questo si consiglia l’accesso a questi esercizi nella parte finale del percorso. Come ho studiato Scegli il tuo aggettivo In valigia
Area della scuola
L’area della scuola presenta tre proposte di lavoro con l’obiettivo di permettere un’autoanalisi e una esplicitazione dell’esperienza scolastica e formativa.
Ripensando al tuo percorso scolastico e formativo.
Scheda di esplorazione delle strategie.
Il tuo stile di studio.
Area del tirocinio/stage
Le esercitazioni proposte in questa sessione di lavoro hanno lo scopo di favorire una riflessione critica, in termini personali, del momento dedicato al tirocinio o allo stage. Questa riflessione è percorsa lungo tutto l’itinerario praticato, da una prima fase legata alle aspettative, alla rilettura della quotidianità in tirocinio/stage, alla valutazione di quanto emerso e conosciuto attraverso queste specifiche modalità di strutturazione dell’offerta formativa. Lo stage… come lo immagino. Una giornata in stage. A conti fatti. Il tutor. Autovalutazione dello stage. Caro amico… ti scrivo. Il primo incontro.
Area dell’immaginario del mondo del lavoro Affrontare un percorso formativo teso anche a preparare a un profilo professionalizzante implica la prefigurazione di ciò che solitamente viene indicato come “immaginario del mondo del lavoro” ad esso collegato. Questa sezione diventa l’occasione per esplorare l’immaginario personale sia in termini di stereotipi che di collegamenti concreti con la vita quotidiana. E’ infatti possibile che pezzi di alcune professioni, in particolare quelle che hanno a che fare con la cura e il sostegno, si siano già conosciute e “provate” nella dimensione personale. Gli stereotipi Le immagini Scene di vita quotidiana Il profilo professionale “Dopo un anno”
Vediamo ora in specifico alcune di queste proposte
Mi piace non mi piace Scrivi un elenco delle cose che ti piacciono e non ti piacciono iniziando con l’enunciazione "mi piace" e ripetendola nel corso del testo. Se sei in difficoltà, riparti dalla enunciazione "mi piace" "non mi piace"… Puoi indicare tutto ciò che vuoi: persone, oggetti, libri, azioni… Se vuoi, in un secondo tempo, puoi ripetere questa attività ritornando nei panni di te bambino/a, ma scrivendo sempre al presente "mi piace", "non mi piace"… Esempio Mi piace lavorare all’uncinetto, la montagna, il bosco, preparare i dolci, fare il bucato, dormire, leggere seduta sul divano, guardare la televisione, il cioccolato Non mi piace spolverare i mobili, i carciofi, scrivere, litigare, il disordine.
Gli altri dicono di me
Come ci vedono gli altri, che immagini hanno di noi? Come ci descrivono? Non sempre siamo consapevoli della percezione che le persone che ci stanno accanto hanno del nostro modo di essere e di pensare. Cercare di recuperare queste informazioni può essere un modo utile per avere un quadro più preciso della nostra personalità e forse anche scoprire cose che non avevamo previsto.
Hai a disposizione alcune caselle all’interno delle quali puoi inserire definizioni, aggettivi, modi di dire che gli altri usano per descriverti. Con l’aiuto della tua memoria prova ad indicare quelli che vengono usati più spesso.
Per aiutarti nel lavoro puoi scegliere, se lo ritieni utile, tra la lista di aggettivi che trovi di seguito.
Simpatico/a, Ordinato/a, Socievole, Pigro/a, Attivo/a, Goloso/a, Aggressivo/a, Lento/a, Intollerante Ostinato/a, Spiritoso/a, Intelligente, Sognatore/trice, Determinato/a, Scontroso/a, Puntuale.
I miei genitori dicono di me.
Mio fratello / mia sorella dice di me.
Il mio migliore amico/ la mia migliore amica dice di me.
Il testamento di Marc’Aurelio
Seguendo lo schema proposto prova anche tu a stendere un’analoga lista di maestri “inconsapevoli”. Ricordati che puoi prendere in considerazione non solo persone ma anche situazioni, libri, film… che a, tuo parere, sono stati significativi per qualche aspetto per la tua crescita personale e per il tuo apprendimento.
“ Da Nonno Vero ricevetti bontà e pacatezza d’animo. Da mia madre: semplicità di vita. Dal bisnonno: il non aver frequentato le scuole pubbliche, ma avere in casa buoni insegnanti. Da Diogene: aver scritto dei dialoghi quand’ero fanciullo. Da Rustico: lo scrivere lettere con semplicità…il leggere con cura le cose. Da Apollonio: l’essere libero nelle decisioni e il non ricorrere ai dadi per troncare le incertezze. Dal mio istitutore: la resistenza alla fatica, il saper fare da sé, il non ingerirsi nei fatti altrui.
Scegli il tuo aggettivo
Scegli fra i seguenti aggettivi i tre che esprimono meglio la tua valutazione sul percorso di formazione:
Approfondito
Limitato
Semplice
Impegnativo
Teorico
Divertente
Ripetitivo
Stimolante
Faticoso
Istruttivo
Piacevole
Utile.
In valigia
Prova a ripensare al percorso formativo svolto e scegli cosa portare con te. Per aiutarti ti indichiamo alcune aree su cui fare la scelta. Oltre a quelle proposte puoi indicare altro.
Fra tutte le letture scelgo…
Fra tutti i film scelgo…
Fra tutti gli strumenti didattici utilizzati dagli insegnanti scelgo…
Fra tutte le attività a cui ho partecipato scelgo…
Fra tutti gli spazi di lavoro scelgo…
Inoltre metterei nella valigia…
Ripensando al tuo percorso scolastico e formativo
Quando qualcuno ti parla del tuo percorso scolastico e formativo quale è il primo ricordo che ti viene in mente.
Quali sono gli oggetti, odori, azioni, gesti, sensazioni che ti ricordano di più i contesti scolastici/formativi.
Pensa ad una o più occasioni scolastiche o di formazione ed indica che cosa ti ha suscitato: noia, ammirazione, ribellione, disagio, voglia di partecipare.
Scheda d’esplorazione delle strategie di scrittura I percorsi formativi e professionali sono pieni di occasioni in cui utilizzare lo strumento della scrittura come mezzo di espressione e comunicazione. Non è sempre facile comprendere come utilizzarla al meglio. La scheda di seguito riportata è uno strumento di auto-osservazione delle strategie personali che si attivano prima, durante e dopo l’attività di scrittura. Ti chiediamo di compilarla e di confrontare quanto fissato con i tuoi colleghi e con il tutor di riferimento. Scheda d’esplorazione delle strategie di scrittura Molto tempo prima Prima Durante Subito dopo
Molto tempo dopo
Il profilo professionale: “Dopo un anno”
Da un anno ormai svolgete l’attività per cui vi siete formati. Scrivete ad un/a amico/a e descrivetegli una delle vostre giornate, precisando il quadro di vita, ciò che amate, ciò che è cambiato in voi, con gli altri, i possibili problemi. Raccontategli poi come ci siete arrivati… Siate concreti.
 

Cd rom TirocinIO Presentazione e guida a cura di Giovanna Di Pasquale e Marina Maselli, Context s.a.s Bologna

Il progetto per la produzione del cd rom TirocinIO nasce all’interno del corso Formazione Integrata con la scuola per Animatori di gruppo-Indirizzo pedagogico Promosso da FORMAFUTURO
– Consorzio per la formazione professionale dei comuni di Parma, Fidenza, Fornivo CESVIP
– Centro sviluppo piccola e media impresa Parma Provincia di Parma Istituto Giordani
– Parma
 

Coordinamento: Nicola Rabbi Disegni: Alessandro Bertocchi Produzione: Tecmatica srl.

Lavorare in classe

Lavorare in classe: proposte operative
Presentiamo in queste pagine delle schede relative ad alcuni strumenti di gestione del gruppo classe, spunti di lavoro da utilizzare,

 

adattare, integrare rispetto alle specifiche realtà scolastiche e educative. Questi strumenti hanno alcuni obiettivi comuni: essi sono stati pensati per consentire l’organizzazione del lavoro di gruppo e facilitare lo scambio o la messa in comune di informazioni/conoscenze e l’accesso al sapere attraverso modalità sempre più complesse. Le schede sono tratte da: C.R. Baptista, S. Bianchini. A.M.R. Gomes e V. Secchioni, Identikit di un insegnante. L’utilizzo del tutor e dei metodi attivi in un’esperienza con gruppi di allievi adolescenti, Bologna, Provincia di Bologna, Assessorato formazione professionale e lavoro, 1996.

 

Griglia e traccia degli eventi emergenti
Cos’è
E’ uno schema che utilizza parole-chiave o brevissime frasi per strutturare la produzione o l’analisi di un testo o di qualunque altro dato informativo. La traccia degli eventi emergenti, in particolare, tiene distinti il momento della espressione da quello della comunicazione.

Come si usa
La traccia degli eventi emergenti si costruisce intorno ad una formula verbale molto semplice che costituisce l’avvio per l’espressione di pensieri, opinioni, ricordi… (es. Mi è piaciuto…Non mi è piaciuto…Mi ricordo. Come ero/come sono. Vorrei…) La traccia degli eventi emergenti solitamente viene scritta individualmente su fogli e solo in seguito si socializza su cartellone a prescindere da chi ha scritto una cosa o l’altra. Più in generale la griglia è costituita da tutte o alcune delle categorie di analisi che possono essere prese in considerazione in relazione ad un argomento trattato o da trattare. Si può collocare quindi in vari momenti del lavoro. La griglia si costituisce più spesso come lavoro di gruppo e quindi viene scritta direttamente su cartellone.

A cosa serve
Facilita i processi di raccolta, scomposizione, analisi, strutturazione, ordinazione di esperienze e/o dati di informazione Facilita la scrittura e l’organizzazione del pensiero.

Cartellone
Cos’è
E’ un grande foglio di carta su cui vengono riportate parole o frasi o schemi (o comunque elaborati di gruppo) in modo che siano visibili a tutti. E’ uno strumento che raccoglie il lavoro nel suo farsi e quindi è poco comprensibile all’esterno del gruppo che lo ha prodotto. E’ una traccia concreta del lavoro di un gruppo, più simile ad un’immagine che a una pagina scritta.

Come si usa
E’ sempre finalizzato ad un uso collettivo anche se può essere elaborato secondo due modalità: in gruppo, per sintetizzare durante il lavoro la discussione e/o la lettura comune da un singolo in vista di un’esposizione al gruppo di alcune tematiche affrontate o da affrontare.
Scrivere il più possibile a grandi lettere, con pennarelli grossi in modo che sia leggibile a tutti. Viene appeso in un punto della stanza visibile a tutti. Viene compilato senza preoccupazioni estetiche e di rifinitura. Non è legato alle regole sintattiche della scrittura, ma si compone di parole chiave eventualmente collegate fra loro da simboli vari: colori, posizione spaziale delle parole, frecce che mettano in evidenza la successione logica o temporale…

A cosa serve
A regolare gli interventi. A trarre conclusioni e arrivare ad un’elaborazione di gruppo. A strutturare le discussioni. A creare un linguaggio comune (necessità di sintetizzare gli interventi o i concetti). A formare una memoria di gruppo sia relativamente al percorso del lavoro (tappe, contenuti affrontati, ecc.), sia relativamente alle scelte fatte dal gruppo. A mantenere la concentrazione sull’argomento che si sta discutendo. A visualizzare i contenuti che vengono espressi verbalmente. A cogliere con un colpo d’occhio la complessità della situazione e a soffermarsi sul particolare che interessa. A mantenere ogni particolare in collegamento con il resto dell’immagine. A cogliere in maniera immediata i collegamenti e le fratture fra i diversi elementi che compongono il cartellone.

Gioco delle carte
Cos’è
Attività di gioco in gruppo che permette di trasferire i concetti, i pensieri del linguaggio verbale astratto, su un oggetto concreto (carte).

Come si usa
Dalla lettura di un brano o dal brainstorming su un problema, si possono estrapolare le parole chiave o sporgenti. Trascrivere ogni parola su una carta (cartoncino) sufficientemente grande e con un pennarello a punta grossa. Il gruppo che gioca non deve essere troppo numeroso (max 10). Ognuno dovrebbe avere almeno due o tre carte. Mescolare le carte e distribuirle. Seguendo un ordine circolare, le carte vengono messe sul tavolo cercando di dare ad ogni collegamento una motivazione logica o concettuale ben circostanziata (come nel domino). Le motivazioni vanno trascritte da un verbalizzatore su fogli. A volte si può scegliere di partire da una carta centrale decisa dal gruppo o dal conduttore, altrimenti l’avvio è casuale.

A cosa serve
A elaborare un programma o un progetto. A strutturare un gruppo intorno alla realizzazione di un’attività. A facilitare lo scambio, la partecipazione, le scelte di un’attività. A verificare gli apprendimenti. Al termine di un lavoro permette di rielaborare i contenuti affrontati coniugandoli con il vissuto e l’esperienza personali e di gruppo.

Gruppi casuali
Cos’è
Gruppi di lavoro formati a caso senza tener conto degli interessi, delle preferenze e delle capacità dei partecipanti.

Come si usa
Vanno utilizzati a fianco di altri: gruppi di interesse, di livello, “affettivi”. I gruppi si possono sorteggiare, oppure si possono aggiungere elementi di gioco, aspettativa, scoperta: si possono raggruppare i partecipanti sulla base di caratteristiche del loro corpo o della loro vita (mese di nascita, colore dei capelli…).

A cosa serve
A facilitare la comunicazione fra persone diverse (arricchisce le esperienze, fa nascere nuove amicizie, rompe i meccanismi di dipendenza). Facilita l’integrazione di persone con problemi. Favorisce la cooperazione.

Verbale
Cos’è
E’ un quaderno che sta dentro l’aula, a portata di mano, e giorno per giorno raccoglie la storia del gruppo. Raccoglie materiale grezzo da interpretare, rileggere, collegare.

Come si usa
Non hanno importanza lo stile, la grammatica, la forma. Le conversazioni e le discussioni si scrivono con il discorso diretto. Non si può essere troppo sintetici. E’ meglio confrontarsi sui criteri di scrittura dopo aver fatto alcune prove scritte da diverse persone.

A cosa serve
A tracciare una memoria della vita e delle attività del gruppo. A fare confronti e collegamenti fra le attività svolte. A capire cose di cui non era possibile rendersi conto durante lo svolgimento delle attività. A comunicare con gli assenti. Aiuta a cambiare metodo e atteggiamenti.

Drammatizzazione
Cos’è
E’ un modo per esprimere e controllare sentimenti, paure, problemi attraverso la mediazione della finzione. E’ espressione di sé (soprattutto attraverso il linguaggio dei gesti e dello spazio) che si integra con le diverse espressioni del linguaggio verbale.

Come si usa
Organizzazione in gruppi composti da 5-8 persone. Il docente dà uno stimolo poco vincolante (es.: titolo di una storia che non è mai stata letta, illustrazione, parole sporgenti, concetti…). Lo stimolo si può appoggiare ad un oggetto (immagine, carte, lavagna). I ruoli vengono scelti dai partecipanti all’interno di ogni gruppo. La preparazione va fatta in pochi minuti (da 15 a 40). La scenografia può essere improvvisata con gli oggetti immediatamente reperibili. Il docente è presente come osservatore e facilitatore. La drammatizzazione deve reggersi da sola senza essere raccontata o spiegata. La drammatizzazione va presentata al grande gruppo.

A cosa serve
A far nascere interesse e motivazione. A formulare ipotesi rispetto ad un argomento o spazio o oggetto sconosciuto/nuovo. A rivivere situazioni, fatti, ambienti per ricordarli e capirli. A facilitare la comunicazione e l’apprendimento attraverso l’elaborazione dei concetti sia nel linguaggio digitale che in quello analogico e attraverso l’utilizzo di oggetti che organizzano l’azione.

Brainstorming
Cos’è
E’ una modalità di discussione e di ricerca che scinde il momento della produzione di idee dalla loro valutazione in ordine ad un obiettivo. E’ uno strumento che permette di vagliare tra diverse soluzioni possibili quelle più idonee al conseguimento dell’obiettivo.

Come si usa
Gruppo in semicerchio. Definire il problema o l’argomento. Chi conduce non interviene se non come facilitatore. Successione rapida e sintetica (una parola sola o due-tre) degli interventi in un senso predefinito. Può essere espressa qualunque idea, associazione o ricordo attinente al tema trattato anche se sembrano realistici o “pazzi”. Trascrivere sinteticamente tutti gli interventi su cartellone. Divieto di critica e di freno alle idee degli altri. Si possono fare diversi giri: più idee vengono fuori meglio è. Chi non ha niente da dire “passa”. Può essere fatto anche scrivendo ognuno su un foglio. Analisi, approfondimento e selezione degli interventi fino ad arrivare alla soluzione ritenuta più idonea. Sintesi condivisa da tutti.

A cosa serve
Ad analizzare insieme un problema per poi cercarne le possibili soluzioni. A coinvolgere tutti i partecipanti, anche quelli con più difficoltà. Contribuisce a creare un clima di fiducia reciproca e di collaborazione. Impedisce commenti negativi. Impone limiti a chi parla troppo. Stimola la creatività. Mantiene la concentrazione. Contribuisce alla produzione di materiale vario in qualunque disciplina.

Consegna
Cos’è
Si tratta di capire insieme al gruppo il lavoro da fare e come farlo coinvolgendo tutti. Avendo chiaro l’obiettivo, il docente dà la possibilità di acquisirlo con modalità diverse.

Come si usa
La consegna può essere formulata dal docente o scaturire da particolari situazioni spaziali o da oggetti. Va discussa con i partecipanti per avvicinare il lavoro alle loro esigenze e ai loro desideri. Prima di dare l’avvio al lavoro, bisogna riassumerla in un linguaggio breve e semplice. Appoggiarla su oggetti che la chiariscano e scriverla sulla lavagna o su cartellone. Verificare il livello di consapevolezza dei partecipanti con più difficoltà e mettere in atto strategie di sostegno che permettano loro di orientarsi e padroneggiare il lavoro.

A cosa serve
A coinvolgere il gruppo nell’organizzazione del lavoro. A verificare la comprensione e gli interessi. A ritrovare competenze sommerse o imprevedibili.

Incidente critico
Cos’è
E’ una fetta di attività umana professionale osservabile che forma un tutto isolabile dal punto di vista del racconto o del resoconto che se ne può fare. Gli incidenti devono essere casi estremi di comportamenti, sia rimarcabilmente efficaci, sia rimarcabilmente inefficaci, in rapporto agli obiettivi generali dell’attività considerata Non è il resoconto di un incidente o la semplice annotazione di un conflitto personale; si dovrebbe parlare di “casi significativi” perché il racconto scelto o l’osservazione considerata devono presentare un aspetto tipico positivo o negativo dell’attività professionale studiata.

Come si usa
La situazione non deve essere confusa né presentare dubbi, essa deve manifestare o esprimere degli obiettivi o delle intenzioni che siano chiari. Definire bene gli obiettivi generali dell’attività professionale che si vuole così studiare. Gli incidenti critici devono essere significativi rispetto a ciò che è l’essenziale del posto, la finalità che gli è propria. Specificare le osservazioni da fare (comportamenti riferiti al ruolo appena definito). Le situazioni descritte dovranno essere congruenti rispetto all’obiettivo generale dell’attività professionale studiata, vale a dire a quelli strettamente concernenti questo obiettivo. Saranno evitate o scartate quelle osservazioni che riportano dei fatti senza rapporto immediato con a funzione definita e quindi non significativi del posto di lavoro. Raccolta delle osservazioni: è importante prevedere chi farà le osservazioni (persona competente, che conosce il metodo, che è capace di fare un’osservazione. Le osservazioni devono essere recenti, complete, esatte); chi sarà osservato Analisi e utilizzo dei dati.

A cosa serve
A studiare cause e effetti, origini e conseguenze rispetto ad una situazione definita. A comprendere l’attività studiata. A determinare obiettivamente i comportamenti caratteristici di una professionalità. A valutare esperienze, situazioni, oggetti.

Parole chiave, oscure e sporgenti
Cos’è
Parole chiave sono i concetti espressi dall’autore di un brano o da chi ha svolto una relazione verbale che vengono ritenuti significativi per coglierne in maniera oggettiva l’impostazione e la teoria. Parole oscure sono i concetti che non vengono capiti e devono essere chiariti attraverso un approfondimento. Parole sporgenti sono quelle che emergono da un testo (che può essere ancora estraneo) perché si associano a ricordi piacevoli o spiacevoli risvegliando un’emozione (ci sono anche oggetti o avvenimenti o personaggi sporgenti).

Come si usa
Durante o subito dopo la lettura di un testo o l’ascolto di una lezione chiedere di sottolineare o di riportare alla memoria le parole (chiave, oscure o sporgenti a seconda degli obiettivi che si pongono). Le parole vanno trascritte su cartellone. Dopo una prima fase di raccolta segue sempre una rielaborazione all’interno di percorsi di ricerca: la rilevazione delle parole chiave può dar luogo alla costruzione di un dominio, la rilevazione delle parole oscure può dar luogo alla ricerca dei significati attraverso diverse modalità di informazione, la rilevazione delle parole sporgenti può dar luogo ad una ricerca sulle motivazioni profonde che collegano il lavoro attuale con l’esperienza personale di ognuno.

A cosa serve
Parole chiave:
– a sintetizzare
– a facilitare ed organizzare il confronto fra chi ha letto lo stesso testo o testi diversi che devono essere messi in comune
– allena a prendere un punto di vista oggettivo rispetto ad un contenuto espresso da altri
– ad avviare l’analisi dei contenuti di un testo
– a verificare la comprensione del testo
Parole oscure:
– a non subire passivamente nell’apprendimento di contenuti nuovi
– a non dare niente per scontato
– ad avviare percorsi di ricerca e approfondimento
Parole sporgenti:
– a ricercare e rendere evidente il collegamento fra se stessi e un contenuto inizialmente estraneo (motivare)
– a considerare l’aspetto affettivo(e quindi la globalità del soggetto) come facente parte del percorso di apprendimento.

Una comunità di parole

Pensare e praticare l’acquisizione del sapere come atto di una responsabilità congiunta fra allievi e insegnanti, implica costruire un contesto di lavoro che intende potenziare la

 

responsabilità ed accrescere la consapevolezza negli allievi della “serietà” del loro lavoro. E’ un contesto aperto alle potenzialità di accrescimento del sapere create da insegnanti e allievi che seminano idee e conoscenze di cui tutti possano disporre in base al proprio livello di competenza. E’ una realtà che intesse trame di relazioni e di parole. Attraverso il racconto, l’accoglimento di ciò che viene posto tra gli interlocutori, l’interpretazione personale si dà vita ad una comunità di discorsi. Come ogni comunità viva, trova la sua linfa nella capacità di mettere in comune emozioni e conoscenze, dando ad esse una forma narrativa che permetta un riconoscimento di senso e di identità. Raccontare, raccontarsi è uno dei modi più radicali per rintracciare nelle storie il sentimento ad un tempo di essere unico e di appartenenza.

 

La narrazione come forma di rielaborazione
Le pratiche “narrative” sostengono la rielaborazione personale. Rielaborare significa, infatti, digerire con fatica, fare proprio passando attraverso se stessi. E’ nel narrare che si aumenta la consapevolezza della propria conoscenza e del modo in cui il sapere si è organizzato in forme proprie e personali. I contesti dialoganti sono facilitatori di percorsi di consapevolezza e di riappropriazione di quanto prodotto come le parole di T. Sturgeon ben esemplificano “Non sappiamo noi stessi quello che pensiamo fino a quando non parliamo con un altro”. Se il sapere è costruzione sociale, le pratiche narrative promuovono l’idea che il ritmo ascolto/parola è il ritmo attraverso cui diamo il nostro significato, “rinominiamo” ciò che succede, ciò che apprendiamo. Questo ritmo trova posto nella scuola che è, prima di tutto, un contesto comunicativo. “La scuola è prima di tutto un posto dove insegnanti e studenti comunicano fra loro.

Comunicazione, termine così sintetizzabile:
1. scambio di pensieri e di idee;
2. metter in comune, far conoscere, diffondere.

Secondo la prima definizione, quando comunichiamo ci scambiamo dei pensieri, delle idee. Tu mi dai una idea, io ti do la mia; io me torno a casa con la tua idea, tu con la mia. La seconda definizione deriva da “comunicare” nel senso di “mettere in comune”, mettere a disposizione, diffondere. C’ è qui una idea dell’offerta, dell’offrire e anche del seminare. E’ un processo aperto; spargo un seme i cui frutti dipenderanno dal terreno, dal clima eccetera: presento un mio pensiero, lo pubblico, lo comunico e sto a vedere cosa ne nasce. Cosa fanno insegnanti e studenti a scuola: si scambiano delle idee o se le offrono? Sono due processi molto diversi”. Da Heinz von Foester Inventare per apprendere, apprendere per inventare in: P.Perticari, M.Sclavi (a cura), Il senso dell’imparare, Milano, Anabasi, 1994

“Per chi apprende ogni conoscenza è nuova, viene conosciuta per la prima volta. Diventa un evento per chi la sperimenta come vera e propria esperienza cognitiva. “L’evento è un atto di cambiamento, che marca un prima e un dopo, che segna una spaccatura tra un ‘essere’ e un ‘essere diverso’”.
D. Fabbri, Narrare il conoscere in: C. Kaneklin, G. Scaratti, Formazione e narrazione, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1998

E’ un evento vissuto in prima persona in un luogo fisico ed ideale insieme (la scuola, la formazione) in cui il saper/i prendono l’impulso e l’energia (e anche il suo contrario, la demotivazione, la difficoltà) di chi partecipa all’azione formativa. “Il mio sapere assomiglia a me. Il mio sapere assomiglia anche agli altri in quanto di partecipativo io condivido con loro: emozioni e conoscenze” D. Fabbri, Narrare il conoscere in: C. Kaneklin,G. Scaratti, Formazione e narrazione, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1998

E’ nel tenere aperto il collegamento fra queste due istanze del conoscere che va rintracciata la necessità di avere durante il tempo della vita a scuola spazi di dialogo, momenti di vera e proria conversazione fra adulti e ragazzi e fra coetanei. Durante la conversazione ognuno dei partecipanti ha un insegnamento di ritorno. Sia lo studente che l’insegnante acquisiscono conoscenze nuove che li arricchiscono sia sull’argomento in questione, sia su come apprenderlo o insegnarlo. Per le strette connessioni che si verificano durante la conversazione, si può affermare che non esiste un insegnamento separato o separabile dall’apprendimento a questo collegato.

Stili che facilitano
La competenza del bambino non è una sua prerogativa o un dono innato ma è frutto delle relazioni con i contesti che sostengono o indeboliscono tale competenza. Nei primi anni di vita le relazioni positive con gli adulti, all’interno della famiglia o con altre figure che offrono cure a attenzioni, favoriscono il formarsi di una modalità di essere che permetterà al bambino di confrontarsi con le richieste che la scuola poi porrà: instaurare relazioni con gli altri, mantenere la motivazione, comunicare ed essere curioso di esplorare il mondo. Esistono, quindi, degli stili relazionali dell’adulto, dei modi di essere e di immaginare il bambino che hanno un peso determinante nel permettere ai più piccoli di strutturare un identità fiduciosa di sé e degli altri. Questi stili sono costituiti dalla combinazione di molti elementi che hanno origini diverse ed attingono, a loro volta alle attitudini e alla storia personale dell’adulto: espressione emotive (calmo, agitato, teso, tranquillo…), attenzione/sensibilità ai bisogni emotivi del bambino, percezione/credenze relative ai comportamenti sociali e alle emozioni proprie e del bambino, ritenute importanti oppure no. Fondamentale per il docente, consapevole di essere uno strumento prioritario di questa interazione con l’ambiente/conoscenza, è allora riflettere sul complesso rapporto tra l’aspetto affettivo, emotivo e cognitivo insito in ogni apprendimento e interrogarsi sul modo di proporre il sapere e di relazionarsi ad ogni allievo. Lasciare spazio all’altro, per conoscerlo e capirlo meglio implica organizzare uno spazio/tempo scolastico più centrato sulle domande e sulla ricerca comune di risposte, esplorando le ipotesi che via via il gruppo è in grado di produrre. Due sono in genere le funzioni di base attivabili dal conduttore per facilitare la discussione: la riformulazione delle opinioni personali e i procedimenti di “animazione”. La prima funzione dimostra la buona accoglienza delle idee da parte del coordinatore, stimola l’attenzione verso ciò che viene espresso e facilita la comunicazione reciproca. La seconda si avvale della domanda per rilanciare verso il gruppo, la domanda diventa strumento principale per chiarire il significato di un concetto o di un contenuto. In particolare si può invitare in modo diretto alla partecipazione, rinviare la domanda al singolo partecipante o all’intero gruppo, riprendere una domanda fatta in precedenza alla quale il gruppo non aveva voluto/saputo rispondere

Il dialogo pedagogico
All’interno del contributo teorico e di individuazione di metodologie di lavoro nelle classi che in questi anni la scuola di pensiero della gestione mentale ha prodotto, si trova un approfondimento specifico dedicato alla messa in pratica di una conversazione mirata ad aiutare gli allievi nel conoscere i propri modi di procedere: il dialogo pedagogico. La riflessione sulla gestione mentale collega la parole chiave del dialogo ai concetti di consapevolezza e progetto. Si tratta, è vero, di parole che corrono il rischio di essere logorate dall’uso tanto è il richiamo continuo che si fa ad esse e nonostante ciò, anche grazie alla gestione mentale, possono aprirsi a risvolti inattesi. Parole dunque da riprendere, approfondire, sperimentare, mettendole alla prova ed ipotizzandone un impiego rinnovato nei contesti educativi e formativi. Sul tema della consapevolezza molto si è detto e scritto, è opinione diffusa che la consapevolezza rappresenti un presupposto indispensabile per una reale individualizzazione dell’insegnamento, nonostante ciò, ad una analisi più approfondita è apparso evidente come proprio alla scarsa consapevolezza vada attribuita la responsabilità di un poco proficuo stare a scuola. Il “ chi sono”, “come imparo”, “come insegno” rappresenta un’area di indagine che chiama in causa alunni ed insegnanti e richiede un atto di disponibilità dei soggetti, tempi ed occasioni all’interno delle quali sia possibile esplicitare i passaggi che rendono possibile il comprendere e sperimentare diverse proposte. Solo a questa condizione la scelta e quindi l’assunzione di responsabilità può dirsi veramente consapevole ed è possibile assumere il controllo delle proprie manovre cognitive. Ma la consapevolezza non si acquisisce una volta per tutte, siamo continuamente chiamati a fronteggiare situazioni nuove: un compito, l’apprendimento di un concetto, un bambino il cui modo di procedere ci trova impreparati. Le proposte di lavoro possibili hanno intenzione di porre l’accento sulla storia globale del soggetto, successi, insuccessi, percezione di sé rispetto ai compiti. A titolo esemplificativo ne ricordiamo alcune:
– ricostruzione dei passaggi più significativi del proprio percorso scolastico,
– l’analisi del processo che accompagna la preparazione di una lezione, – pratiche di conversazione sui gesti mentali: attenzione, memorizzazione, comprensione…
– il richiamo a strumenti concreti come l’aiuto reciproco.

Progetto ha il significato di “ balzo in avanti”, porre se stessi in un futuro. Progetto e futuro nella gestione mentale sono strettamente intrecciati. La stessa affermazione che “non si padroneggia la propria vita mentale se non è animata da progetti” al di là dell’accordo formale, ha richiesto ad insegnanti ed educatori di operare dei distinguo tutt’altro che scontati nella pratica pedagogica:
– differenza tra progetto e progetto di vita;
– differenza tra progetto ed obiettivo;
– richiamo al progetto di senso con la conseguente apertura ai gesti mentali.

Il riconoscimento della specificità pedagogica del dialogo, tutta centrata sulle procedure utilizzate ed utilizzabili, ha comportato ancora una volta la necessità di promuovere un confronto sugli spazi reali che questo trova nella pratica quotidiana. Tra coloro che affermano genericamente di dialogare sempre” a scuola si parla di tante cose ”A quelli che sostengono che “Il dialogo è tempo rubato alla spiegazione ed interrogazione” sta la schiera di quelli che cercano a fatica di rintracciare ogni giorno spunti per avviare una riflessione non improvvisata sulla peculiarità dei modi di apprendere. Precisare la natura del dialogo pedagogico ha richiesto più volte di compiere una distinzione tra “stile di studio” (volto a definire gli aspetti che rendono possibile l’auto-organizzazione dello studio, spazi, tempi, gruppi di lavoro, condizioni fisiche) e “ stile di apprendimento” indagando quella realtà mentale che va sotto il nome di pedagogia implicita. Le voci di ragazzi e bambini si intrecciano rinforzando l’idea delle potenzialità insite nel dialogo collettivo. A ben guardare il lavoro del laboratorio ha contribuito maggiormente a sensibilizzare sulla gestione mentale, attraverso la condivisione-negoziazione dei significati di parole come dialogo, progetto, attenzione, evocazione, dando vita a circoscritti tentativi di dialogo pedagogico, piuttosto che non a diffondere una costante pratica di gestione mentale le cui potenzialità vanno ulteriormente esplorate.

Il dialogo pedagogico poggia su alcuni principi:
la specificità pedagogica di questo tipo di dialogo
il riconoscimento di risorse pedagogiche precise di cui dispone l’allievo
il diritto dell’allievo alla responsabilità pedagogica.
Il dialogo pedagogico non è:
un dialogo psicologico
uno scambio extrascolastico
una ripetizione del corso
un monologo
Il dialogo pedagogico è un dialogo sulle procedure.
Il dialogo pedagogico esige:
un controllo di sé
un atteggiamento empatico
una ricerca sulla logica dei processi utilizzati
un atteggiamento di apertura
un ascolto “incondizionatamente positivo”

L’esperienza del Relas Etudiants Lycéens (Paris)

L’istituto di Parigi si occupa di ragazzi che hanno difficoltà di relazione e di apprendimento nel contesto scolastico. Ci troviamo di fronte al paradosso degli “adolescenti sofferenti”: difficoltà di esprimere in modo esplicito la richiesta di aiuto, difficoltà nel rapporto con il mondo adulto. Dietro c’è spesso una famiglia in sofferenza che si può dire in termine generali o accettano tutto o rifiutano tutto dell’adolescente. Per gli interventi di dialogo pedagogico che si sono andati realizzando in questi anni, si è predisposta la costituzione dell’équipe multidisciplinare. “E’ la situazione problema che accogliamo non l’adolescente con il suo problema”. Le segnalazioni vengono fatte dagli adulti ma non si va avanti se il ragazzo stesso non fa la domanda. Ecco come i protagonisti raccontano la modalità di lavoro: “Durante il primo incontro avviene la presentazione dell’équipe. Presentazione del ragazzo: come vive la situazione in quel momento. Il medico gestisce prevalentemente questo incontro. Dopo ¾ d’ora ci si ferma. Discutiamo tra noi e poi restituiamo al ragazzo. Non si forza, “si accoglie ciò che viene fuori”. Le difficoltà scolastiche sono il filo dei nostri incontri. E’ su questo terreno che si può proporre un dialogo pedagogico:
• per tentare di valutare il più sistematicamente possibile le sue capacità
• insistere sui punti forti scolastici ma anche extrascolastici.

Spesso i ragazzi non sanno mescolare la gioia con l’attività scolastica. Si può essere felice “solo in vacanza”. In questi incontri vogliamo far provare ai ragazzi che si può venir accolti in altro modo. Un insegnante che si occupa della sua persona, della sua globalità. Un insegnante che aiuta a sviluppare legami. Dopo il primo incontro alla metà dei ragazzi viene proposto il percorso legato al dialogo pedagogico propriamente definito. Vengono analizzati gli atti di attenzione, memorizzazione, comprensione, immaginazione, riflessione. In due sedute di 1 e 30 ciascuna vengono poste delle domande ma soprattutto si pone il ragazzo davanti ad un compito che è legato dapprima all’evocazione di una situazione concreta, ad esempio “Come fai a ricordare un paesaggio, un gesto, una parola? ”Poi si passa all’evocazione di significati codificati, “Come fai a ricordare un numero di telefono, un testo, uno schema, una definizione?”. Ancora, si lavora sulle evocazioni di azioni: “Come fai ad applicare una regola, a risolvere un problema?”. Infine si prende in esame l’evocazione creativa, “Come fai a creare, trasformare un oggetto?”. Il fatto importante è che ci sia una presa di coscienza per l’allievo. Dopo queste due sedute si propongono degli atelier di approfondimento con l’obiettivo di riutilizzare nelle discipline quello che hanno imparato. Gli atelier durano due incontri di 1 ora e 30 ciascuno alla presenza di un insegnante. Il dialogo pedagogico va ripreso nella consultazione con gli insegnanti. Non rimane isolato ma viene ripreso nel rapporto con gli insegnanti a scuola.

Climi di classe e accoglienza

Le ragioni storiche dell’attenzione alla tematica dell’accoglienza
L’accoglienza è una delle componenti del clima che si sviluppa in classe e nella scuola nel suo complesso.

 

Non solo, l’accoglienza è un’area di qualità possibile, elemento di analisi complessiva della capacità di costruire relazioni rispettose fra tutti i protagonisti della vita a scuola. E’ un tema che ci tocca in prima persona, ciascuno di noi ha sperimentato nel corso della propria esperienza situazioni in cui l’essere accolto o l’accogliere l’altro hanno avuto una forte rilevanza. Dal punto di vista educativo l’accoglienza rappresenta un tema largamente affrontato; scopo di questo contributo non è, allora, quello di dire cose nuove, piuttosto quello di recuperare le varie dimensioni che entrano in gioco nell’incontro con gli altri, siano essi adulti o bambini, sottolineandone le connessioni con la vita di classe. L’accoglienza diventa elemento chiave nel momento in cui ci si pone il problema della dispersione scolastica e, prima ancora della dispersione, del cosiddetto disagio. Una problematica che ha forti connotazioni come dato trasversale a tutte le classi sociali. La radice profonda va rintracciata nel tentativo di trovare soluzioni al “ mal di scuola”. L’accoglienza nella storia dell’umanità sta ad indicare l’uscita dell’uomo dall’isolamento e dall’individualismo. Nasce nel momento dell’incontro con l’altro, un altro che, se non è più solo un nemico da combattere, può diventare persona da conoscere. Quando l’incontro con l’altro si sottrae all’occasionalità ed entra nella sfera del previsto e voluto allora inizia la ricerca delle condizioni di agio. Nasce in quel momento il concetto di ospitalità da rivolgere all’altro anche se diverso. L’incontro con l’altro reca sempre con sé preoccupazioni e tensione emotiva per questo si dice spesso che l’accoglienza deve in qualche modo ridurre le tensioni. Se si riduce, però, solo a questo, si finisce con l’impoverirne il significato più profondo.

 

Perché l’accoglienza a scuola?
Nei contesti scolastici ed educativi l’accoglienza nasce con l’intento di presidiare alcune aree:

• rimuovere o ridurre il disorientamento iniziale che accompagna l’ingresso in situazioni nuove (persone, luoghi, strutture), favorendo un dominio sull’ambiente inteso in senso lato
• dare la percezione all’altro di essere atteso, che qualcuno si occupi di noi
• facilitare il passaggio, mettere il soggetto in condizione di ambientarsi e di orientarsi, di entrare in relazione
• soddisfare il bisogno di appartenenza. Il senso di appartenenza è fattore di gratificazione e di produttività, come afferma G. Chiari, nei primi giorni di scuola nasce o si rafforza il senso di identità scolastica che ha una forte incidenza sul clima di classe
• sviluppare competenze, tentare delle piste. Competenza vuole dire mettere la persona in grado di potere affrontare consapevolmente e responsabilmente la nuova esperienza, in altri termini significa accompagnare la transizione facilitando l’esperienza di cambiamento.

Arrivare e partire tra speranze e paure
La dimensione emotiva sottostante all’accoglienza accomuna sia gli insegnanti che gli allievi. Nel groviglio emozionale è possibile aggregare tre diverse tipologie di speranza e paure:
• la sensazione di smarrimento e confusione. E’ il disorientamento che si prova in un ambiente nuovo ma anche il desiderio di tracciare confini ristretti per sentirsi meno esposti; arrivare a poter distinguere in termini spaziali le aree del territorio conosciuto da quello sconosciuto
• le speranze e paure nei confronti dell’autorità…Qualsiasi nuovo rapporto tende a fare sorgere speranze e paure e tali sentimenti coesistono nella nostra mente; meno sappiamo riguardo ad una persona più siamo liberi di investirla di qualità eccessivamente positive o negative. Tali fenomeni sono prevalenti soprattutto all’inizio, prima di avere potuto confrontare tali immagini con la realtà e riguardano soprattutto chi in un determinato ambiente riveste un ruolo di autorità
• le speranze e paure in relazione agli altri membri del gruppo. Spesso i membri di un gruppo cercano la vicinanza, ma perché questa si possa realizzare, è necessario che ci si senta fiduciosi di incontrare una reazione altrettanto positiva.

L’essere accolti è sempre un momento più o meno ritualizzato, per marcare l’aggregazione, il congiungimento ad un gruppo o ad una comunità. L’esperienza maturata nei vari ordini di scuola, accompagnata dallo sviluppo delle conoscenze sulla prima socialità nei bambini, hanno introdotto metodiche e stili di intervento mirati a fare dell’inserimento una fase il più possibile rispettosa delle caratteristiche e delle storie dei bambini. Una buona accoglienza può avere modi e stili diversi, che rispecchiano le caratteristiche del servizio; è comunque indispensabile che sia “pensata” cioè oggetto di una attenta e puntuale progettazione da parte del gruppo degli insegnanti. Per questo si dice che, dopo i momenti iniziali, in cui si dà spazio alla scoperta e conoscenza degli spazi, persone e possibilità, è opportuno che quello che in molti casi si presenta come un pacchetto standard possa diventare un progetto personalizzato, collegandosi con le attività quotidiane ed introducendo alcuni strumenti che permettono agli insegnanti di monitorare il processo. Il tema dell’accoglienza porta con sé anche un altro tema che spesso rimane in ombra ma che in realtà ha molte ripercussioni: il congedo. Quando finisce un ciclo inevitabilmente si ripresentano tutta una serie di problematiche legate più o meno esplicitamente alla separazione: istanze di valutazione, sentimento di abbandono, pienezza per ciò che si è vissuto e realizzato. Nel momento del congedo entrano in gioco tutta la costellazione delle relazioni: del bambino con le maestre, delle maestre con il bambino, degli insegnanti con la famiglia, è una di quelle situazioni in cui si sovrappongono i sistemi relazionali. Per questo la presenza di riti di passaggio appare fondamentale. I riti di passaggio possono essere ad un livello più ampio che si connette con le pratiche di continuità nelle diverse possibili articolazioni (momenti di raccordo/continuità nei metodi e nei progetti/evidenziazione dei punti di contatto e delle rispettive specificità/ costruzione di un lessico comune) o situarsi al livello della quotidianità (momenti di gruppo in cui si fa il punto di quanto fatto, di cosa si farà domani, come ci si prepara a casa per il giorno dopo…). E’ un modo per allenarsi a prefigurare l’immaginario dell’avvenire di cui l’esperienza di insegnamento ed apprendimento ha bisogno.

Dalla conoscenza reciproca alle competenze
Uno dei maggiori rischi che si corre ogni volta che si parla di accoglienza e climi di classe è quello di operare una contrapposizione tra la dimensione socio-affettiva quella organizzativo-gestionale e quella metodologico-didattica, oppure nei casi migliori, di privilegiarne una a scapito delle altre. Si tratta di ambiti che se vengono isolati gli uni dagli altri finiscono par darci una visione parziale della realtà scolastica. Tenerli insieme, d’altro canto, richiede un accurato lavoro preliminare di chiarificazione sugli obiettivi di ogni attività. La socializzazione con una organizzazione complessa come è la scuola, richiede l’assunzione di un ruolo, di responsabilità specifiche che non si acquisiscono una volta per tutte e che è importante non contrapporre alle competenze informali con cui ogni bambino o bambina, ragazzo o ragazza porta con sé nelle aule scolastiche. L’identità competente richiama l’idea di riconoscere e fornire titolarità alla conoscenza individuale nel lavoro scolastico. Il lavoro sull’identità prevede che si realizzi un contesto ricevente. Nel gruppo classe questo si traduce in una ricerca di conoscenza e valorizzazione reciproca. Le diverse età degli allievi vedono poi articolarsi attività che vanno dalla ricognizione dei “so fare”, “non so fare”, “so fare se”, al “come imparo” e “imparo se”, alla individuazione degli hobby e specialità, ricerca sui punti forti e deboli, per delineare strategie di apprendimento efficaci.

Strumenti e attività pensati per valorizzare l’identità personale: – giochi cooperativi (mi piace, so fare, come faccio a…, cartellone/diario della propria storia/zaino ( fotografie, immagini, oggetti…) – materiali mediatori – attenzione alla comunicazione non verbale – giochi per favorire l’ampliamento del lessico (facciamo la spesa, dove sei?, dov’è l’oggetto, cosa c’è nel sacco).

Strumenti che hanno l’obiettivo di favorire un avvicinamento delle famiglie: – visite al servizio – materiali informativi – assemblee generali – iniziative particolari (feste, serate a tema, momenti di confronto con esperti…) – coinvolgimento nel racconto di riti e comportamenti particolari – colloqui.

Strumenti di documentazione – raccolta dati – osservazione, diario di bordo, incidenti critici per registrare comportamenti comunicativi, interessi, abilità, relazioni privilegiate.

Strumenti pensati per favorire la continuità: – scambi di alunni – visite alla scuola – conoscenza delle norme della comunità (socializzazione di regole)

Riferimenti bibliografici
P. Boscolo, Psicologia dell’apprendimento scolastico,Torino, UTET, 1997 I. Salzberger-Wittenberg, G. Williams Polacco, E. Osborne, L’esperienza emotiva nei processi di insegnamento e di apprendimento, Liguori editore, 1987 G. Chiari, Climi di classe e apprendimento, Milano, Franco Angeli, 1994 L. Lumbelli, Psicologia dell’educazione. Comunicare a scuola, Bologna, Il mulino, 1982 C. Petracca, Valutazione della scuola, Brescia, Editrice La Scuola, 1996 M. Maselli, P. Sandri ( a cura), Progredisco, Bologna, Provveditorato agli studi di Bologna, Dipartimento di Scienze dell’Educazione S. Mantovani, S. Andreoli, I. Cambi, G. Di Pasquale, M. Maselli, T. Monini (a cura di), Bambini e adulti insieme un itinerario di formazione, Bergamo, Edizioni Junior, 1999 V. Severi, Insegnamento e apprendimento in difficoltà, Torino, UTET,1995

Registro di classe
Se lo sviluppo dell’intelligenza in tenera età ha assoluto bisogno dell’affetto, in età adolescenziale ha fame morbosa di complicità. Poter contare su una figura che incoraggi l’espressione di sé senza remore e senza moralismi, proprio nel momento di passaggio fondamentale della vita, quando un ragazzo o una ragazza prendono coscienza della loro peculiarità, e spesso delle diversità, regala un’energia e un’armonia con l’esistenza che agevola qualsiasi processo di comprensione dell’ambiente circostante. Non è un caso che, nella storia di ognuno, c’è sempre uno zio un po’ eccentrico, o un professore atipico che ha segnato il nostro modo di pensare, ha saputo riconoscere il nostro bisogno di esprimerci, e ha incoraggiato le nostre passioni, le uniche vere spinte a conoscere. (S. Onofri, Registro di classe,Torino, Einaudi, 2000)

Solo se interrogato
Un giovane docente entra per la prima volta in una classe con la memoria svuotata dalla paura. Chiude la porta ed è solo. E’ abbastanza giovane per ricordare nitidamente tutto quello che sta passando per le teste dei ragazzi che ha davanti, e prova fastidio. E’ abbastanza giovane per avere un solo pensiero ansioso: non commettere errori che azzerino le distanze sottolineando la sua gioventù, la sua ignoranza. E’ abbastanza sprovveduto da preoccuparsi soprattutto dei riti burocratici: firmare il registro di classe, scrivere l’argomento delle lezioni sul diario di classe, annotare gli assenti, chiedere le giustificazioni, non commettere errori di ortografia per l’angoscia, non fare cancellature; e intanto evitare che la classe rumoreggi al punto da segnalare al corridoio, al bidello, ai colleghi, al preside, che lui è esattamente come in quel momento si sente: un buono a nulla.
(D. Starnone, Solo se interrogato, Milano, Feltrinelli,1998)

Introduzione

Nel 1996 avevamo già intervistato alcuni genitori di bambini nati con la sindrome di Down o con altra patologia neurologica, per capire con quali modalità avevano ricevuto la prima informazione in ospedale, come l’avevano vissuta e come ancora a distanza di anni la ricordavano.
Quest’anno abbiamo ripetuto le interviste a 20 genitori di bambini con trisomia 21 o con diversa patologia: dalle risposte dei genitori risulta che essi sono stati informati sui problemi del loro bambino generalmente nelle prime ore dopo il parto, il più delle volte il padre da solo per primo, quasi sempre in un ambiente tranquillo e riservato.
Il messaggio che i genitori hanno ricevuto è stato piuttosto ottimista e tranquillizzante, oppure è stato giudicato neutro, asettico, realistico, solo in 5 casi rispecchiava invece una visione pessimista del problema da parte del medico che comunicava la diagnosi. Le informazioni ricevute vengono definite dai genitori esaurienti nella maggioranza dei casi (ma date in modo crudo e freddo in due casi), vaghe in un caso.
L’aspetto che colpisce maggiormente è che la comunicazione è stata giudicata soddisfacente soprattutto nei casi in cui per il bambino si era reso necessario il ricovero nel reparto di neonatologia. Questo perchè la madre durante il ricovero ha molte occasioni per parlare con il personale medico e paramedico e chiarire così i propri dubbi e curiosità mano mano che si presentano ed ha il tempo per elaborare il proprio dolore.
Al contrario le esperienze più negative quali la sensazione di abbandono e di scarso sostegno o di poca partecipazione umana, sono state vissute dai genitori che tornano a casa pochi giorni dopo la nascita del loro bambino; il ricordo peggiore è quello di famiglie i cui bambini sono stati trasferiti d’urgenza da un ospedale della provincia alla neonatologia senza fornire subito alcuna chiara spiegazione dei motivi. A casa essi sentono la propria solitudine e si pongono le molte domande che non riuscivano ancora a formulare al momento della prima comunicazione che , comunque sia data, è sempre traumatizzante.
Alcuni fanno ricerche su internet, altri hanno modo di conoscere altre famiglie con lo stesso problema e possono farsi un’idea realistica di una situazione simile alla loro e in genere ne sono rincuorati ed incoraggiati. La gran parte delle famiglie è stata però indirizzata verso Associazioni che si occupano delle persone affette dalla patologia del loro bambino e verso le ASL, per la futura presa in carico.
Volendo dare la parola ai genitori che hanno vissuto in tempi recenti questa esperienza e come, se potessero, vorrebbero modificarla, essi chiedono che l’informazione sia data ad entrambi insieme e che poi non siano lasciati soli ( una mamma chiede anche un sostegno psicologico). Chiedono che il problema sia trattato con chiarezza e con informazioni scientifiche corrette, usando con cautela le parole giuste, perché ciò che si dice in questi momenti si incide nella mente e nell’animo, e infine che tali comunicazioni non devono essere date “a sangue freddo” per telefono.

Editoriale

A distanza di sette anni riproponiamo il tema della prima informazione: con questo termine si indica la comunicazione che avviene tra il medico e i genitori al momento della nascita di un neonato “che ha dei problemi”. Questo è un momento delicato dove bastano poche parole dette male (o parole semplicemente non dette) per creare una situazione di partenza difficile. Intendiamoci certe notizie sono semplicemente “brutte”, difficili da accettare, ma c’è modo e modo per dirlo e questa apparentemente piccola differenza di comunicazione può portare i genitori a percorsi molto diversi. Per questo è importante che anche il personale sanitario sia attrezzato a comunicare. Questa volta abbiamo raccolto la testimonianza di due genitori e intervistato diversi altri per cercare di capire se qualcosa era cambiato (sempre nell’ambito bolognese). In particolare abbiamo contrapposto l’esperienza di una giovane donna inglese che aveva abortito il proprio figlio (cui era stata diagnosticata la sindrome di Down), con l’esperienza di due donne che questa scelta non l’hanno fatta, consapevolmente. Da questo confronto emerge chiaramente come sia importante l’informazione, il quadro e le prospettive che si danno al genitore. La monografia prosegue con la presentazione di due buone prassi di comunicazione all’interno dell’ospedale S. Orsola di Bologna (il gruppo Prima informazione e handicap) e delle Aziende sanitarie di Ferrara. “La comunicazione delle cattive notizie” è invece il titolo del corso di formazione rivolto a operatori sanitari che si svolge sempre a Bologna. Infine il tema viene trattato, come è consuetudine della nostra rivista, utilizzando il genere letterario, in particolare attraverso due libri rivolti ai ragazzi. Come noterete, è aumentato lo spazio dedicato alle rubriche. Oltre a quelle che già conoscete fanno il loro debutto il Magico Alvermann, che attraverso la letteratura parlerà di integrazione scolastica (questa volta tocca a Anna Karenina). Donne con le gonne è invece il titolo della rubrica dedicata alle donne disabili, che si occuperà del loro diritto alla maternità. Le altre novità sono lo spazio dedicato allo sport (Sport agevoli) e Lo sguardo del Sud che vi parlerà di disabilità nei paesi in via di sviluppo. In quanto a Il bambino sullo scaffale, non preoccupatevi, non è un nostro refuso, ma un percorso bibliografico dedicato alla letteratura per l’infanzia. (N.R.)

Quando della disabilità si può anche sorridere

Siamo abituati ad associare le vignette satiriche e umoristiche di noti disegnatori come Altan, Staino, Bozzetto, Silver…, alle situazioni della politica o del costume. Dalle pagine dei quotidiani e dei periodici, le vignette deridono i nostri politici e fanno battute sarcastiche sui nuovi fenomeni culturali e societari: sono lì, a descrivere l’attualità, sempre a passo coi tempi. Non sempre fanno ridere, non sempre vogliono fare ridere. Di solito ci soffermiamo a guardarle perché attraverso pochi tocchi di matita riusciamo comunque a farci un’idea delle novità del mondo, e spesso sappiamo, guardandole, che sotto all’invenzione umoristica c’è una realtà fin troppo vera. Di solito disegnano anche il livello dei nostri successi o insuccessi culturali, i nostri stereotipi e pregiudizi. E’ un modo di fare informazione, se ci pensiamo bene. Cosa succede allora se le vignette incontrano la disabilità? Succede che si crea un tipo di informazione sociale del tutto originale, dimostrando come sia possibile coniugare temi seri con il sorriso. E’ quanto ha fatto “DM”, la rivista edita dalla UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), nel corso di questi ultimi nove anni. Dal 1995 ad oggi, infatti, molti numeri della rivista hanno dedicato la quarta di copertina a vignette realizzate appositamente per DM dai maggiori disegnatori umoristici, affrontando di volta in volta, con l’arma dell’ironia, i pregiudizi, la disinformazione e l’indifferenza nei confronti della disabilità. Non solo: in alcune vignette è il personaggio disabile che autoironizza su se stesso. Nata quasi per caso da un’intervista con Bruno Bozzetto, la rubrica delle “Grandi vignette di DM” è diventata via via un fenomeno sempre più interessante. E l’attenzione verso questa iniziativa è stata sempre più calorosa da parte delle persone disabili, dei loro parenti e amici, di chi lavora con e per la disabilità, ma anche dei tanti “non addetti ai lavori”. Circa una trentina le vignette realizzate fino ad oggi (ma l’iniziativa continua e ci aspettiamo ancora tante occasioni per sorridere): ad esempio c’è il Bobo di Sergio Staino, nei panni di un pirata, senza una gamba e senza una mano, con un occhio bendato, e sulla spalla un pappagallo, che dice a una bambina “Io portatore di handicap?!? Ma che cavolo dici?!? Non vedi che è un pappagallo?”; c’è il personaggio tipico di Altan, seduto questa volta su una carrozzina elettrica equipaggiata della più moderna tecnologia, che dice “Maledetta tecnologia: adesso mi tocca di andare da qualche parte”; c’è un vigile di Zap&Ida che multa un signore in carrozzina perché si trova a transitare in una zona pedonale; c’è il mitico Signor Linea, il personaggio che ha animato tanti “caroselli” televisivi in passato, che grazie alla penna di Osvaldo Cavandoli mostra un uomo in carrozzina che comincia a spingere le ruote sempre più velocemente distanziando e costringendo alla corsa il suo accompagnatore. Nessuno dei disegnatori contattati da DM, salvo rarissime eccezioni, si era mai confrontato con il tema della disabilità: “Abbiamo visto l’imbarazzo di personaggi navigati – racconta Stefano Borgato, responsabile dell’ufficio stampa della UILDM – nell’affrontare temi mai trattati prima, timorosi, come degli scolari, di offendere la sensibilità di qualcuno. Ma poi abbiamo anche raccolto la soddisfazione di avere sperimentato e di esserci riusciti. Quello che ci ha stupito è stato vedere come la maggior parte di questi disegnatori andasse a toccare temi centrali del nostro lavoro quotidiano, veri ‘tic’ e luoghi comuni del mondo della disabilità, senza alcuna ‘imbeccata’ da parte nostra”. Le vignette oggi sono tutte disponibili in Internet, nel sito della UILDM, al seguente indirizzo: www.uildm.org/dossier/vignette/index.htm. Ma sono anche “in tour” per l’Italia. Dopo essere state, infatti, protagoniste anche di magliette di successo e di calendari, a settembre le vignette sono apparse per la prima volta in mostra a Sovizzo, in provincia di Vicenza, all’interno di “Diversamente arte”, una galleria di pittori disabili. La sezione dedicata a DM era intitolata “Handic-Up: sorriderne si può”, con un evidente gioco di parola dove la “a” di handicap è stata sostituita con una “u” affinché si formasse il termine “up” che in inglese significa “su, sopra”, per indicare la positività al posto dello svantaggio intrinseco nella parola handicap. Stefano Andreoli, redattore di DM e curatore dello spazio espositivo, ha così spiegato il significato dell’iniziativa: “Si tratta di vignette che con ironia e satira affrontano il tema della disabilità in tutte le sue sfumature, dalle barriere architettoniche ai pregiudizi culturali, dallo sport alla vita indipendente, agli eccessi di zelo della burocrazia. Disegni umoristici che, con la loro immediatezza, ricreano e deformano la realtà, contenendo molta più forza comunicativa di decine di editoriali e sono in grado, nello spazio di un istante, di restituire alle persone disabili un’immagine di dignità, proprio grazie all’ironia. Sorriderne si può, dunque, anzi si deve, anche per smantellare il vecchio pregiudizio di chi pensa che dietro l’ironia si nasconda la derisione; al contrario, invece, l’intelligenza del sorriso, proprio grazie alla levità e al fatto di passare prima per il cervello che per il cuore, riesce a comunicare l’idea della disabilità in modo più incisivo, soprattutto in chi non è direttamente coinvolto su questioni così delicate e a volte drammatiche”. Erano già stati in molti, negli anni, a chiedere alla redazione di DM di poter utilizzare le vignette, e dopo il successo della mostra di Sovizzo, si è scatenata una vera e propria “bufera di richieste”, come dice Stefano Borgato. Perciò le vignette saranno ospiti anche a Quarto d’Altino (Venezia), a Parma, a Torino, a Prato e in altri comuni dell’Emilia Romagna, per promuovere manifestazioni ancora tutte da costruire. Un’informazione sociale veicolata con la satira va fatta però con particolare attenzione: potrebbe rischiare, infatti, di diventare “pericolosa” e di far riaffiorare quella “cattiveria” che di solito è il sottofondo alle vignette umoristiche tradizionali. E’ successo questa estate – in maniera decisamente involontaria e inconsapevole – proprio a Bruno Bozzetto, uno dei più “antichi” amici di DM, e uno dei disegnatori e cartoonist italiani più noti. Nel libretto “Vacanze coi fiocchi 2003”, un opuscolo realizzato per la campagna di comunicazione sulla sicurezza nelle strade, e distribuito ai caselli autostradali, è comparsa una sua vignetta con il signor Rossi al volante mentre dice “Chi corre in auto non lo fa perché è in ritardo, ma perché è un ritardato”. Subito l’Anffas (Associazione nazionale famiglie di disabili intellettivi e relazionali) ha mandato agli organi di informazione un acceso comunicato stampa di protesta e di censura. Seguita a ruota dalla Fish (Federazione italiana per il superamento dell’handicap), nel cui comunicato si auspica che i criteri di valutazione e controllo dei testi e delle immagini attinenti a campagne di comunicazione sociale vengano stabiliti in consultazione con le associazioni di categoria. La situazione, ovviamente, è molto diversa rispetto alla storia delle vignette di DM: nel caso di “Vacanze coi fiocchi” non si voleva far sorridere, né sdrammatizzare; l’obiettivo era far riflettere seriamente sulla guida pericolosa, non sulla disabilità, e il fatto che si sia usata una parola della disabilità è un caso. Anche se “ritardato” ormai non si usa quasi più come denigratorio verso persone con deficit mentali, ma è diventata una parola per definire qualsiasi normodotato che si comporti in maniera sciocca. “Certo la battuta è sicuramente infelice – ha commentato la redazione di DM – ma non siamo d’accordo con gli atteggiamenti censori”. Neppure noi siamo d’accordo, ad ogni modo, censura o no, il punto è che è stato dimostrato quanto sia facile per chi fa informazione sociale oltrepassare, anche senza volere, una sorta di confine etico non scritto. Per fortuna alle vignette di DM non è mai successo di oltrepassare il limite, permettendoci di continuare a sorridere con “leggerezza” su situazioni molto serie, senza sentirci in colpa!

Per informazioni: Redazione di DM Via Vergerio, 19/3 35126 Padova Tel. 049/802.10.02 – Fax 049/802.25.09 Sito: www.uildm.org E-mail: redazionedm@uildm.it

La donna disabile e il suo diritto alla maternità

Con questo numero di “HP-Accaparlante” si apre una nuova rubrica dedicata alle donne in situazione di deficit. Questo tema merita degli approfondimenti in quanto generalmente non viene molto curato, tralasciando così un aspetto piuttosto importante sia in riferimento al mondo delle donne sia a quello delle persone disabili in generale; in realtà le donne con deficit, proprio per questa loro “doppia appartenenza” possono subire una doppia emarginazione: sia in quanto donna sia in quanto persona disabile. Negli anni ’60 si è verificata una rivoluzione culturale che ha cambiato l’immagine della donna e, grazie a questa, sono stati fatti grossi passi in avanti utili al miglioramento della condizione femminile. Purtroppo però, ancor oggi, pur essendo già entrati nel XXI secolo, la donna subisce ancora delle discriminazioni: all’interno della famiglia, in ambito lavorativo, all’interno della società… Tutto ciò diventa ulteriormente più complicato nel caso in cui la donna sia colpita da deficit: solo negli ultimi anni infatti, si sta parlando di rivoluzione culturale riguardante le persone disabili, ma ancora si dovranno fare enormi passi in avanti! Se le donne oggi possono avere un lavoro, nel quale però possono incorrere in discriminazioni e abusi, le persone con deficit difficilmente trovano un lavoro, soprattutto se di sesso femminile; se le donne riescono a costruirsi una famiglia, anche se poi all’interno di questa possono subire violenze oppure si trovano ad affrontare un divorzio, le donne con deficit difficilmente riescono a costruirsene una perché esse e, in particolare, il loro corpo, sono diversi dalle altre donne, e si sa che l’immagine fisica è solitamente il mezzo principale per instaurare una relazione amorosa! Purtroppo la legislazione italiana non facilita l’inserimento sociale e il raggiungimento della parità da parte della donna disabile. Una testimonianza di ciò è rappresentata dalla recente legge sulla fecondazione assistita, la quale interessa direttamente anche le donne con deficit: essa, purtroppo, complica loro la possibilità di avere un figlio. Tale legge, approvata in prima istanza l’11 dicembre 2003 dalla Camera e il cui voto finale verrà effettuato in febbraio, vieta innanzitutto la terapia alle coppie con malattie genetiche; impedisce eventuali ripensamenti da parte della donna una volta fecondato l’ovulo, essendo anche vietata la diagnosi pre-impianto; essa inoltre prevede solo la fecondazione omologa, per cui se una persona all’interno della coppia è sterile, ai due coniugi o conviventi è preclusa la possibilità di avere figli. Da ricordare, inoltre, che proprio le cellule degli embrioni utilizzate poi per la fecondazione assistita, vengono anche sfruttate per fare importanti ricerche scientifiche, utili ovviamente anche a coloro che sono colpiti da una qualche malattia. Attualmente sono ammesse la ricerca clinica e la sperimentazione sull’embrione, ma solo con finalità terapeutiche e diagnostiche. Spesso, ovviamente per motivi fisici – legati ad esempio alla difficoltà di avere un rapporto sessuale – la donna disabile non può avere un figlio in modo naturale, per cui decide, assieme al proprio compagno, di ricorrere alla fecondazione assistita. Oppure la persona disabile colpita da una malattia genetica o portatrice di questa, pur essendo in grado di concepire un figlio naturalmente, preferisce o meglio preferiva, ricorrere comunque alla fecondazione assistita in quanto le permetteva di conoscere anticipatamente le tare genetiche dell’ovulo fecondato nascoste nel codice genetico dei genitori, e poi eventualmente decidere di procedere all’impianto nell’utero. Ora tutto ciò non è più possibile: la coppia, nel caso di anomalie del feto – purtroppo non sempre riscontrabili – può solamente ricorrere all’aborto terapeutico, e cioè dopo che il feto è già presente nell’utero materno, oppure far nascere un figlio colpito da una malattia genetica! È giusto, a mio avviso, che in questa società capitalista non si permetta di commercializzare anche gli embrioni, però è anche giusto permettere a una donna, colpita o no da una malattia genetica, di sapere se l’ovulo che le verrà impiantato sarà affetto o meno da una malformazione. È giusto che la coppia possa scegliere: ovviamente la donna disabile è libera di continuare la gravidanza, pur sapendo che suo figlio sarà colpito da una malattia; contemporaneamente dovrebbe essere libera di scegliere di non avere quel figlio cercando però di evitare ulteriori traumi che potrebbero essere causati da un aborto terapeutico. Da evidenziare il fatto che, come già enunciato precedentemente, la donna con deficit ha delle difficoltà nel trovare un compagno che scelga di dividere con lei la propria vita, accettando pertanto i limiti di questa donna. Se però la donna riesce a superare tale ostacolo e magari decide di costruirsi una famiglia con la persona che le sta a fianco e insieme decidono di avere un figlio, tale desiderio viene sicuramente ostacolato attraverso tale legge. Da non dimenticare anche altri aspetti susseguenti a questa legge: l’aumento dei tempi di attesa per accedere alla procreazione assistita (da tre-sei mesi si passerà a sei-dodici mesi); i costi che si debbono sostenere (da 3.000 a 10.000 euro attualmente) visto che l’infecondità non è considerata una malattia, per cui il Servizio Sanitario Nazionale non prevede alcun sussidio. Una via d’uscita c’è: andare all’estero; alcuni Paesi si sono già offerti per accogliere gli embrioni già congelati che d’ora in poi non potranno più essere utilizzati in Italia. Questo però non fa che complicare ulteriormente la vita alle persone con deficit facendo intraprendere loro i cosiddetti “viaggi della speranza”, viaggi che magari loro debbono già compiere per altri motivi… Questa legge, quindi, a mio avviso, viola uno dei diritti fondamentali ma anche una delle cose più belle per la realizzazione di una persona: quella di avere un figlio, ovvero di dare alla luce un essere umano!

Essere disabili nei paesi in via di sviluppo

Che idea hanno in India della disabilità? C’è una differenza tra decifit e handicap in Mozambico o in Mali? E se c’è, per esempio da un punto di vista socio-sanitario, come è vissuta culturalmente e socialmente tra la gente in contesti così diversi, ma non troppo distanti dal nostro? E poi, quali interventi, esperienze, strutture, esigenze compongono l’universo dell’handicap nel Sud del mondo? Interrogativi affascinanti e stimolanti che sollecitano una ricerca che va ben oltre la mera documentazione o informazione, e che saranno oggetto di questa nuova rubrica della nostra rivista. Può essere una ricerca che superi i canoni e i criteri d’interpretazione in cui affoga la nostra cultura, magari cercando di metterli in discussione, nella misura in cui possiamo arricchirli, trasformarli con la bussola di una cultura umana della diversità. L’approccio che cerchiamo, e l’esigenza di questa stessa rubrica, non è semplicemente riportare le esperienze d’impegno, più che di lavoro, con la disabilità in altri paesi, ma è teso ad uno scambio, o meglio, ad un incontro nuovo tra le culture su un terreno assai peculiare come quello delle relazioni con i “diversi”. Perfino questa categoria dei “diversi” forse va un po’ ripensata a partire da un dato fornito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che parla di una stima di 600 milioni di persone in tutto il mondo affette da disabilità. Di fronte a queste cifre parlare di minoranze o di una categoria di persone sembra contraddittorio: è un dato, però, che tra i poveri spesso i disabili sono fra i più poveri, quelli con meno mezzi e possibilità di organizzare un cambiamento, di diventarne protagonisti. Ecco perché la voglia di conoscere e d’imparare, come d’insegnare, che è un patrimonio solido di questa rivista, non si ferma ad uno sguardo verso il Sud del mondo, ma cerca lo sguardo del Sud del mondo, con tutte le differenze del caso, ma che la realtà dei nostri giorni ci sollecita con una forza inedita, che a nostro avviso va colta se vogliamo tendere a migliorare la nostra vita. La manifestazione più evidente è la crescente presenza delle genti del mondo nel nostro paese destinata a aumentare esponenzialmente nei prossimi anni, che è tutt’altro che motivo di preoccupazione, bensì motiva la ricerca di un nuovo incontro nelle diversità, e nel nostro caso di una diversità nelle diversità. Per questo è preziosissimo cercare anche all’origine, nelle culture di provenienza, una possibile strada di comprensione comune e di trasformazione della socialità. Se ci pensiamo bene questa angolazione può risultare molto interessante e stimolante perché apre nuovi orizzonti d’incontro, di studio, di confronto, di scambio, mettendoci nelle condizioni reciprocamente di superare luoghi comuni assai radicati verso quei mondi così vasti, che normalmente percepiamo o con velato disprezzo e conflittualità, o con un occhio assistenziale e terzomondista, cioè entrambi postulando la presunta inferiorità del Sud del mondo. Se questo è vero in generale, figuriamoci per quanto riguarda l’handicap, la diversabilità (anche se crediamo non sia un concetto assunto in altri paesi al momento). In realtà molti progetti ed esperienze “sul campo”, come la riabilitazione su base comunitaria di cui accenneremo più avanti, ci insegnano molto sul terreno socio-educativo, proprio perché alla base si sperimenta la complessità dei rapporti umani in tutta la loro dimensione, che di questi tempi risulta comunque innovativo. La difficoltà di questa ricerca, quindi, non sta solo nel conquistarci una certa umiltà, ma anche nel conoscere ex novo queste esperienze all’interno del loro contesto sociale e culturale, e al tempo stesso provando a generalizzare sulla base del nostro bagaglio d’impegno. Una questione che si presenta immediatamente interessante è capire come si trasforma l’idea, e il vissuto, del deficit e dell’handicap nei paesi in cui esiste in varie forme la guerra. La distruzione per antonomasia crea inesorabilmente handicap in situazioni strutturali già difficilissime, ma soprattutto amplia le forme dei deficit come conseguenza diretta delle bombe, democratiche o terroristiche che siano, fino allo stillicidio delle mine antiuomo, per fare solo un esempio, di cui i Paesi occidentali sono tra i principali produttori e quindi anche responsabili. La presenza delle Ong, ma soprattutto l’impegno di coraggiosissimi personaggi e di realtà associate, spesso fuori da ambiti ufficiali, sono risorse vitali tutte da scoprire e sostenere nell’esordio di una ricerca così complicata, ma necessaria. Per redarre questa rubrica ci faremo aiutare ad esempio dagli esperti dell’AIFO (Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau), una Ong con la quale negli anni si è creato un rapporto di amicizia e collaborazione. A loro ci lega la medesima visione “culturale” della realtà dell’handicap, che in particolare si traduce nell’adesione al programma dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che si chiama Riabilitazione su Base Comunitaria (RBC). Ce lo spiega meglio Sunil Deepak, medico dell’ AIFO: “La filosofia della RBC si può riassumere nel vedere la persona nella sua globalità. Non si può separare ad esempio l’educazione dalla riabilitazione, non dobbiamo occuparci solamente di singoli ‘pezzi’ della persona, come fanno gli specialisti. Dal lavoro, all’aspetto sanitario, dalla partecipazione alla vita quotidiana, allo sport, alla cultura: lo sforzo è di vedere tutte le cose insieme. Lo sviluppo della medicina occidentale ha influenzato la cultura dei paesi più poveri nel senso di dire: basta avere la tecnologia e gli esperti e si può fare tutto. Questo atteggiamento si basa su istituzioni e strutture costose. In realtà c’è poca attenzione alla continuità dei progetti, e l’ultima fase rischia di essere quella dell’arrangiarsi. Quando andiamo nei paesi più poveri siamo abituati a guardare gli ospedali, quanti sono i medici e terapisti, e quando non li vediamo diciamo che non esiste niente. La RBC invece dice che ci sono tantissime risorse: i genitori, gli amici, la comunità che vogliono fare qualcosa, fanno quello che possono, ad esempio vanno dallo sciamano e fanno sacrifici. Se tu dai loro la possibilità di acquisire qualche strumento in più, qualche conoscenza, loro sono pronti a fare qualcosa in più. Non puoi sostituire il ruolo dei professionisti ma ci sono tanti aspetti cui i professionisti non possono dedicarsi: è, diciamo, una riabilitazione complementare.” Ci vengono in mente le parole di Marco Espa, presidente dell’Associazione Bambini Cerebrolesi di Cagliari, che sostiene che la riabilitazione su base comunitaria va sviluppata anche qui nel primo mondo e che abbiamo tantissimo da imparare proprio da alcune esperienze realizzate nei paesi cosiddetti in via di sviluppo.

Séreza, il figlio di Anna

Le meditazioni del bambino si riferivano agli argomenti più vari e complessi. Egli si immaginava ora che suo padre sarebbe forse stato decorato con gli ordini di Vladimir e di S. Andréj e che, per conseguenza, sarebbe stato più indulgente per quanto si riferiva alla lezione del giorno; poi si diceva che lui stesso, quando fosse stato grande, si sarebbe guadagnate tutte le decorazioni esistenti e anche quelle che sarebbero state inventate al di sopra del S. Andréj. Intanto il tempo passava; quando giunse l’insegnante, la lezione di grammatica sui complementi di tempo, di stato e di luogo non era preparata e il professore si dimostrò non solo scontento, ma addolorato. E questa afflizione del maestro commosse Seréza. Tuttavia non si sentiva colpevole: la lezione, per quanto si sforzasse, non riusciva a impararla; mentre il maestro spiegava, egli credeva di capire, ma non appena restava solo, gli era impossibile capire e neppure ricordare perché mai, per esempio, una frasetta così breve e così facile come: ‘tutt’a un tratto’ dovesse diventare un complemento di modo. Gli rincresceva, comunque, di aver dato un dispiacere al suo insegnante e voleva consolarlo. Approfittando di un momento in cui questi cercava qualcosa nel libro, gli disse: “Michaíl Ivanyc, quando è il vostro onomastico?” “Sarebbe meglio che pensaste al compito; che importanza ha per un essere ragionevole una festa di onomastico? È un giorno come tutti gli altri, nel quale si deve lavorare.” Seréza guardò attentamente il professore, ne esaminò la barba rada, gli occhiali che si erano abbassati sul naso e si immerse in riflessioni tanto profonde che non sentì più nulla di quanto gli si stava spiegando. Sentiva che il professore non pensava quello che diceva, lo sentiva dal tono della voce. " Ma perché sono tutti d’accordo nel dirmi, allo stesso modo, tutte le cose più inutili e più noiose? Perché questo qui mi allontana da sé e non mi vuole bene?" si domandava il fanciullo con tristezza, e non sapeva trovare la risposta. (Tratto dal romanzo Anna Karenina di Lev Tolstoj)

Seréza è il figlio di Anna Karenina, non la vede da parecchio tempo, dato che ha abbandonato il marito per il principe Vronskij. È un ragazzino sensibile senza madre, con un padre piuttosto rigido da cui non riesce a ricevere la tenerezza e l’affetto di cui ha bisogno. Viene educato in casa, come normalmente accadeva per i rampolli delle famiglie benestanti nella Russia zarista; ma “non va bene a scuola”, non riesce ad apprendere. Il suo tutore e il padre gli spiegano le materie ma di tutto questo lui percepisce solo delle parole vuote, parole senza “affetto”, quindi da scartare. Che cosa mai gli potranno dare? Ecco invece Seréza ricorda bene gli insegnamenti del suo maggiordomo, che gli racconta piccoli aneddoti con parole affettuose. Ma il padre rimane deluso degli scarsi progressi del figlio, mentre il maestro ne è addirittura afflitto. Ma come è possibile imparare senza affetto? Questa domanda naturalmente Seréza non riesce a farsela, dato che è ancora troppo giovane, se la immagina vagamente. D’altronde, non vale così anche per tutti noi? Qual è l’insegnante da cui abbiamo imparato di più? Forse da quello che ci faceva più paura o da quello di cui percepivamo, magari sotto sotto, una simpatia, un accenno di affettuosità o di partecipazione diretta a quanto noi stavamo facendo?

I disabili devono “Vincere” e avere “No limits”?

Sul finire del 2003, l’Anno Europeo delle persone disabili, sono uscite nelle edicole, quasi in contemporanea, due nuove riviste che trattano tematiche riguardanti la disabilità. Una si intitola “No Limits”, e viene venduta come supplemento al quotidiano “l’Unità”, ogni terzo sabato del mese, al costo di 2,20 euro (cui si aggiunge un euro per il quotidiano). L’altra si intitola “Vincere”, viene stampata grazie ai contributi della Fondazione di Marcello Dell’Utri, noto esponente del Partito “Forza Italia”, e venduta in edicola ogni mese al costo di 3 euro. Se si tratta di una manovra politica, o di una specie di comportamento politically correct per dimostrare che durante l’Anno Europeo delle persone disabili si è fatto qualcosa da entrambe le parti, cioè dalla Destra e dalla Sinistra, non possiamo saperlo. La redazione di “No Limits”, ad esempio, durante la conferenza stampa di presentazione della rivista, ha dichiarato che si tratta di un’operazione editoriale pensata quando ancora non si parlava di Anno Europeo delle persone disabili. Ad ogni modo, le due riviste sono uscite proprio nel 2003. Entrambe mensili, con un prezzo di copertina simile, e con un titolo che richiama in entrambi i casi all’agonismo, esse destano curiosità e qualche considerazione. “No Limits” si presenta con 64 pagine a colori e 40.000 copie di tiratura a diffusione parziale sul territorio (nel senso che non tutte le edicole ne sono in possesso). Il direttore è Ileana Argentin, delegato del sindaco di Roma per i problemi riguardanti la disabilità, nonché, ella stessa, donna disabile. “Vincere” (che ha anche un sito Internet: www.vinceremese.it) si assesta sulle 130-140 pagine a numero, a colori, con una tiratura di 150.000 copie. Il direttore è Massimo Balletti, giornalista di lunga data che è stato per anni alla guida di diverse testate, tra cui anche “Playboy Italia”, nonché papà di un figlio disabile. In entrambi i casi, quindi, i direttori delle due testate hanno esperienze di vita personale a stretto contatto con il mondo della disabilità. Si tratta, allora, di riviste esclusivamente sulla disabilità e destinate a un pubblico solo disabile (o eventualmente a famigliari di disabili)? Per chi sono state pensate, cosa vogliono trasmettere? E soprattutto: che tipo di informazione sociale veicolano? Sfogliandole e leggendole emergono alcuni dubbi. Partiamo da “Vincere”: a prima vista non è tanto diversa da qualsiasi altro periodico in commercio. Anche la disposizione dei testi e delle immagini è accattivante e intrigante, al contrario di molte riviste di “settore handicap” che di solito sono più spente, opache, e forse troppo specifiche su una sola patologia o su un solo argomento (ad esempio la legislazione, o l’integrazione scolastica di alunni con deficit). Di solito, tra l’altro, le riviste in questo settore sono tutte su abbonamento e, dunque, bisogna avere quel determinato interesse per acquistarle; mentre “Vincere” è in edicola come qualunque altro giornale, e quindi è potenzialmente acquistabile da chiunque. Anche le copertine di entrambi i numeri per ora usciti di “Vincere” si inseriscono perfettamente nella logica delle copertine dei settimanali e dei mensili più noti: “metti una bella donna in prima pagina e venderai più copie”. Nel primo numero c’è Emanuela Folliero, la bella di Retequattro, ritratta seminuda in braccio a un suo caro amico in carrozzina, anch’egli seminudo e fisicamente prestante. Nel secondo numero c’è Sharon Stone in piena forma e bellezza, dopo essersi ripresa da un ictus. All’interno, neanche una (l’abbiamo cercata e non c’era!) pubblicità dedicata alle persone disabili. Di solito le riviste che trattano di disabilità hanno pubblicità di carrozzine, di ausili per la vita indipendente, di adattamenti per auto… Qua nulla di tutto ciò, solo le classiche pagine patinate di qualsiasi altra rivista “normale”. E proprio questo aspetto di normalità gioca a favore di “Vincere”: anche se è una rivista con argomenti “diversi”, vuole essere del tutto “normale” e cerca di non essere ghettizzante. Eppure, come si diceva, gli argomenti sono “diversi” e viene naturale domandarsi se un cittadino normodotato, che non è interessato al mondo della disabilità, comprerà mai questa rivista. E una persona disabile cosa può ricavarne? All’interno di “Vincere” sono predominanti le storie di vita, le storie di persone disabili ritratte sorridenti e vincenti, integrate nel lavoro, negli affetti, nella scuola, nella politica… E anche storie di ospedali che funzionano, di aziende che hanno assunto persone disabili, di centri di riabilitazione efficienti, di case-famiglia per il “dopo di noi”… Certo, alcune informazioni, come sapere che esiste il tal centro di riabilitazione, sono sicuramente utili per un pubblico disabile, ma molte delle informazioni di “Vincere” restano superficiali, poco approfondite, e per trovare davvero le informazioni, se si è disabili, sono più utili le altre riviste di settore. Le storie di vita personale, invece, a parte il tono retorico con cui sono raccontate, possono forse servire a non lasciarsi andare, perché “Vincere” racconta la disabilità in positivo, cioè quello che appunto funziona e quello che si può fare “nonostante il deficit”. Ma anche queste storie, come le informazioni di servizio, sono poco approfondite, restano nella superficialità e nella banalità, e allora ci si chiede cosa resta dopo avere letto “Vincere”, su cosa si è più informati o che cosa ha permesso di riflette su una più giusta cultura della disabilità. “No Limits” si presenta con meno pretese di essere una rivista “per tutti”. Lo sa in partenza, e lo dichiara nel sottotitolo, che è una rivista per chi è disabile. Alcune rubriche, come “L’avvocato risponde” o “L’architetto risponde” trattano di accessibilità o di pensioni di invalidità civile, argomenti sicuramente di categoria. Ma anche in questo caso le notizie sono poco precise. E anche “No Limits” si concentra su storie di vita reale, di persone che sono riuscite a fare mestieri magari insoliti per una persona disabile (o meglio: mestieri che i normodotati giudicano insoliti!) o di persone che sono emerse in una qualche attività sportiva paraolimpica “nonostante il deficit”. Vengono anche descritti casi pratici di vita quotidiana, come il fare la spesa se si è in carrozzina, o come si può rendere una cucina adattata anche a chi ha difficoltà motorie. Una rivista per chi è disabile, insomma, e d’altra parte, essendo venduta come supplemento non obbligatorio, sicuramente verrà richiesta solo da chi è davvero interessato all’argomento della disabilità per qualche motivo personale. Anche “No Limits”, rispetto a altre riviste già esistenti su queste tematiche, non è particolarmente esaustiva, o forse è solo troppo simile a qualcosa che esiste già e ci aspettavamo invece delle novità capaci di farci maggiormente riflettere. Come mai, però, la cultura sulla disabilità deve per forza passare attraverso riviste che probabilmente verranno sfogliate solo da chi disabile lo è già? Se si vuole cambiare questa “famigerata” cultura sulla disabilità non sarebbe meglio parlarne attraverso giornali letti veramente da tutti? Perché, ad esempio, la storia di un uomo tetraplegico che è riuscito a diventare uno stilista di alta moda deve comparire solo su un giornale che tratta di disabilità? Perché non potrebbe parlarne una rivista di moda? Immaginiamo che una rivista di moda, se anche ne parlasse, userebbe toni da eroe. La persona disabile – ormai è una stigmatizzazione di uno scorretto modo di fare informazione sociale – o è solo vittima o è solo eroe. Non dovrebbe, invece, essere così eccezionale il fatto che si parli di uno stilista di moda (anche se disabile) su una rivista di moda. Dovrebbe essere naturale, anzi normale, anzi: la norma. Sarebbe l’occasione per veicolare la diversità attraverso la normalità, senza il bisogno di riviste ad hoc sulla diversità. Leggendo “Vincere” e “No Limits” si ha, invece, l’impressione di rimanere nel “ghetto”, anche se siamo solo all’inizio della loro avventura editoriale, e non sappiamo ancora se un giorno verremo smentiti dai risultati ottenuti da queste due nuove riviste, o se un giorno si riveleranno un flop. Un’ultima considerazione, però, va fatta sui loro titoli: titoli agonistici, come si è detto all’inizio. Perché la persona disabile, per accettarsi e per essere accettata, deve per forza dimostrare di essere vincente, di non avere limiti “nonostante il deficit”? Il problema – è sempre quello da anni e anni di tradizioni culturali – è che la disabilità viene associata allo svantaggio, a una situazione negativa che richiede assistenza più che vera integrazione. Quindi, per cambiare questo atteggiamento mentale, appare indispensabile puntare su ciò che può essere positivo, sulle diverse capacità e abilità che comunque una persona disabile possiede e può esprimere. Il concetto di “diverse abilità”, di disabile come “diversabile”, ha il vantaggio di mettere tutti, normodotati e non, sullo stesso livello: nel senso che qualunque persona umana ha delle abilità in cui eccelle e altre in cui ha bisogno di aiuto, e ognuno di noi ha capacità diverse da quelle degli altri. Non si pensa quasi mai, però, che anche il concetto di “limite” ha la proprietà di unire tutti nello stesso livello: perché ognuno di noi ha dei limiti e siamo tutti imperfetti. Soprattutto, non si pensa quasi mai che dietro al termine diversabile, che ormai piace a molti, c’è inevitabilmente quello di limite: sono le due parti della stessa medaglia, il Giano bifronte della disabilità. E anche se si punta solo su uno dei due aspetti, l’altro è potenzialmente lì, anzi: l’uno non potrebbe esistere senza l’altro. Il vero successo culturale sarebbe veicolare il concetto che si è tutti diversamente abili senza per forza essere o dover dimostrare di essere dei supereroi, e si è tutti pieni di limiti senza per questo essere delle persone solo sfortunate. Quando si racconta, invece, la storia di una persona disabile, se si spiegano i suoi limiti si rischia di diventare patetici e in cerca di compassione, se si raccontano i suoi successi si rischia di mostrare solo la scena esteriore, le luci della ribalta, i sorrisi della vittoria. Bisognerebbe partire dai limiti, accettarli e farli accettare, come una cosa normale, perché è assolutamente normale avere dei propri limiti coi quali fare i conti, scontrarsi, magari anche arrabbiarsi e correre pure il rischio di non riuscire a superarli. E poi, solo poi, passare a lavorare sulle abilità diverse, mostrando che anche in situazioni non facili e drammatiche si può vivere bene, con degli affetti, un lavoro, degli amici, una vita sociale… Se si riuscisse a concepire l’idea che i limiti di una persona disabile sono una cosa del tutto normale e non molto diversa dal fatto che ciascuno di noi ha dei limiti, non ci sarebbe questo bisogno sfrenato di mostrare una vita di vittorie e di successi “nonostante il deficit”. Anche queste vittorie e successi sarebbero normali come nella vita di qualunque altra persona che, anche se non disabile, deve comunque affrontare piccoli problemi quotidiani. E allora saremmo tutti in pareggio, senza vincitori né sconfitti. Ma siamo nell’epoca in cui gli esseri umani vogliono mettersi continuamente alla prova e superare i limiti della propria fisicità (si pensi ad esempio agli sport estremi). Perciò risulta vincente solo l’informazione di chi ha, a sua volta, vinto sui limiti. Accettare un pareggio? Mai! Che tipo di cultura ne emergerà? Paradossalmente, una cultura di lotta, anziché di solidarietà e di piena integrazione e accettazione delle persone disabili. “Vincere” e “No Limits”, allora, sembrano interpretare pienamente lo spirito del tempo, la necessità culturale di mostrarsi superiori ai propri limiti. E pensare che sono due riviste nate con grossi limiti strutturali. La famosa ironia della sorte…

Olimpiadi di tutti i giorni

Con questo numero di “HP-Accaparlante” nasce una nuova rubrica su sport e disabilità, dal titolo provocatorio “Sport agevoli”. Perché ho scelto questo titolo? Sapete, oggi si esaltano quelli che vengono chiamati sport estremi, molte volte vengono evidenziate prove di atleti che superano record incredibili, anche di atleti diversamente abili che superano limiti impossibili! Per curiosità sono andato a vedere sul vocabolario i sinonimi della parola estremo, trovando: difficoltoso, malagevole, faticoso, pesante, gravoso, laborioso, irto di ostacoli, problematico, arduo, complicato, oscuro, complesso, pericoloso, ecc. Tutte parole che spaventerebbero chiunque e che, di sicuro, non funzionerebbero come slogan per promuovere una qualsiasi attività. A questo punto, preso da una smania “dizionariesca”, non mi restava che vedere quali fossero i contrari della tanto temuta parola estremo e eccovi serviti: facile, semplice, leggero, lieve, risolvibile, comodo, agevole, calmo, piacevole, mite, abbordabile, benevolo, alla mano, possibile, realizzabile, ecc. Il più simpatico mi è sembrato agevole ed eccomi qui! Forse non tutti sanno che il 2004 è una data importante per lo sport: infatti il Parlamento Europeo e il consiglio dell’Unione Europea hanno stabilito, visto i valori educativi dello sport – come ad esempio il valore a forgiare l’identità delle persone – che le attività sportive hanno un valore pedagogico che contribuisce al rafforzamento della società civile. Perciò il 2004 è stato decretato come l’Anno Europeo dell’educazione attraverso lo sport, e non a caso è stato scelto quest’anno, perché si disputeranno anche le Olimpiadi in Europa, in Grecia. Per molti atleti il 2004 è il traguardo che li porterà a affrontare la venticinquesima edizione delle Olimpiadi Moderne ad Atene, a più di 1500 anni da quel 393 d.C. quando l’imperatore Teodosio, su esplicita richiesta del vescovo di Milano, decise di sopprimerle, per tornare poi a risorgere proprio ad Atene nel 1896 grazie a Pierre Fredi de Coubertin. A agosto, ormai in una moderna e trasformata Atene, si affronterà la massima espressione di quello che da tutti è universalmente riconosciuto con la parola sport. Di tutto ciò molto è già stato scritto e molto si scriverà, ma mi piacerebbe farvi pensare invece a qualcun altro. Sapete, mentre voi siete comodamente seduti a leggere il vostro “HP-Accaparlante” fresco di stampa, in questo preciso momento migliaia di persone, forse anche di più, delle quali mai nessuno sentirà parlare e che nessuno vedrà mai in TV, stanno praticando dello sport: ci avevate mai pensato? Persone basse, persone di colore, donne grasse, atleti acciaccati, vecchietti, bambini non udenti, ragazzi in carrozzina, il vostro commercialista, quel “rompiscatole” del terzo piano, vostra zia… stanno affrontando la loro piccola olimpiade di tutti i giorni, vincendo la loro battaglia, parlando l’unico linguaggio che non ha confini, restrizioni, limiti, che tutti possono comprendere, anche se molto diversi, difendendo quella bandiera a cinque anelli che è uguale per tutti. Ora, che mia zia seduta sulla sua cyclette da camera abbia qualcosa in comune con Shaquille O’Neal, stella strapagata e idolo del basket USA, e futuro protagonista del Dream Team a Atene, è proprio quello che rende unico il linguaggio dello sport. Che persone alle quali i medici abbiano detto “Guardi lei non potrà mai più camminare” possano addirittura difendere i colori della propria nazione alla maratona che si svolgerà durante i giochi Paraolimpici di Atene, tutto questo è incredibile, ma incredibile è anche solo pensare che Matteo finalmente è riuscito a fare quel canestro che per lui così piccolino sembrava impossibile, che Margherita è riuscita a salire in groppa a Stella quel cavallo che tanto la spaventava, che finalmente Andrea è riuscito a entrare in acqua e non solo a bagnarsi i piedi… ma anche che Sara non ce l’ha fatta a finire quel giro di pista ma domani ci riproverà e forse alla fine riuscirà anche lei a vincere la sua piccola olimpiade. Oggi bambini e adulti si ritrovano all’interno delle palestre, nelle piscine, nelle scuole a affrontare le loro grandi sfide ricordandoci che il mondo, almeno in qualche luogo, va nel verso giusto.

La parola ai genitori

Avevamo già trattato di prima informazione nelle pagine di "HP-Accaparlante nel 1996; già allora avevamo intervistato alcuni genitori di bambini nati con la sindrome di Down o con altra patologia neurologica, per capire con quali modalità avevano ricevuto la prima informazione in ospedale, come l’avevano vissuta e come ancora, a distanza di anni, la ricordavano. Il 50% dei genitori diceva che, se fosse stato possibile, avrebbe cambiato totalmente le modalità con cui era stato informato della natura dei problemi del suo bimbo appena nato (una volta definito “un calvario”), e solo 3 su 14 riferivano di aver ricevuto un messaggio piuttosto ottimista, anche se aderente alla realtà. Nel 2003 ho ripetuto le interviste a 20 genitori di bambini con trisomia 21 o con diversa patologia: risulta che essi sono stati informati sui problemi del loro bambino generalmente nelle prime ore dopo il parto, quasi sempre in un ambiente tranquillo e riservato, in 12 casi il padre è stato informato per primo, solo una volta i due genitori insieme. La situazione appare migliorata nel complesso rispetto alla precedente indagine. Il messaggio che i genitori hanno ricevuto è stato piuttosto ottimista e tranquillizzante nel 60% dei casi, mentre in 5 casi rispecchiava invece una visione pessimista del problema da parte del medico che comunicava la diagnosi. Le informazioni ricevute vengono definite dai genitori esaurienti nella maggioranza dei casi (ma date in modo crudo e freddo in due casi), vaghe in un caso, in cui il medico non guardava neppure negli occhi la madre. L’aspetto che colpisce maggiormente è che la comunicazione è stata giudicata soddisfacente soprattutto nei casi in cui per il bambino si era reso necessario il ricovero nel reparto di neonatologia. Questo perchè la madre, durante il ricovero, ha molte occasioni per parlare con il personale medico e paramedico e chiarire così i propri dubbi e curiosità man mano che si presentano e ha il tempo per elaborare il proprio dolore. Al contrario le esperienze più negative quali la sensazione di abbandono e di scarso sostegno o di poca partecipazione umana sono state vissute dai genitori che tornano a casa pochi giorni dopo la nascita del loro bambino; il ricordo peggiore è quello di due famiglie i cui bambini sono stati trasferiti d’urgenza da un ospedale della provincia alla neonatologia senza fornire subito alcuna chiara spiegazione dei motivi. A casa essi sentono la propria solitudine e si pongono le molte domande che non riuscivano ancora a formulare al momento della prima comunicazione che , comunque sia data, è sempre traumatizzante. Alcuni fanno ricerche su Internet, altri hanno modo di conoscere altre famiglie con lo stesso problema e possono farsi un’idea realistica di una situazione simile alla loro e in genere ne sono rincuorati ed incoraggiati. La gran parte delle famiglie è stata però indirizzata verso associazioni che si occupano delle persone affette dalla patologia del loro bambino e verso le ASL, per la futura presa in carico. Volendo dare la parola ai genitori che hanno vissuto in tempi recenti questa esperienza e come, se potessero, vorrebbero modificarla, essi chiedono che l’informazione sia data ad entrambi insieme e che poi non siano lasciati soli (una mamma chiede anche un sostegno psicologico). Desiderano che il problema sia trattato con chiarezza e con informazioni scientifiche corrette, usando con cautela le parole giuste, perchè ciò che si dice in questi momenti si incide nella mente e nell’animo. Infine tali comunicazioni non devono essere date ‘a sangue freddo’ per telefono”. Uno studio finlandese sugli effetti della comunicazione di una condizione di handicap del neonato ha evidenziato che i genitori che avevano ricevuto informazioni scarse e poche nozioni pratiche su come accudire e aiutare il proprio figlio nella sua crescita, avevano provato maggiore insicurezza e poca fiducia 5 volte di più di quelli che invece avevano avuto informazioni e consigli soddisfacenti. La storia de “La Repubblica” Nel numero del 6 settembre 2003 la rivista D de “La Repubblica” ha pubblicato il racconto di una giovane donna inglese che, dopo aver saputo di aspettare un bambino con la sindrome di Down, aveva deciso di abortire. Il racconto di questa esperienza è molto coinvolgente: la donna continua a provare per la drammatica scelta fatta enormi sensi di colpa e quasi il bisogno di giustificarsi quando incontra un bambino down. “Il nostro incubo è iniziato quando mi sono sottoposta alla classica ecografia, alla ventesima settimana di gravidanza…Le precedenti ecografie erano state delle semplici formalità: un modo divertente per vedere il piccino che si agitava nella mia pancia, e magari scoprirne il sesso…Sembrava tutto a posto; non riuscivo a capire perché ci mettessero così tanto e davo la colpa al medico, giovane e probabilmente inesperto. Evidentemente c’era qualcosa che non andava. Finalmente il medico ha terminato l’esame e mi ha spiegato che alcune misure del bambino erano inferiori alla media e poi c’erano due puntini sul cuore, due ‘deboli segnali’ della sindrome di Down. Mi hanno dato un opuscolo e consigliato di ripresentarmi dopo quattro giorni per un consulto. Sono uscita dall’ospedale sotto choc. Elliot, il mio compagno, si è rifiutato di credere che qualcosa non andasse ed era sicuro che, durante l’incontro successivo con il medico, le misure del piccolo sarebbero risultate assolutamente normali. Dovevo smettere di essere così tragica e pessimista. Ma il mio cervello era pervaso da una serie di pensieri che non riuscivo a controllare. Mio figlio poteva avere la sindrome di Down, o perlomeno un disturbo cardiaco. La successiva ecografia confermava le misure di pochi giorni prima e rilevava altri punti sul cuoricino. Il medico ci ha consigliato subito una amniocentesi. Non avevo mai pensato di sottopormi a questo esame. Ero giovane, non credevo mi sarebbe servita. Se me l’avessero proposta prima, ero sicura che ne avrei discusso per ore, prima di prendere una decisione. Invece nel giro di dieci minuti mi sono ritrovata distesa sul lettino, in attesa”. Dalla sua esperienza emergono alcune considerazioni amare: le informazioni che le vengono fornite , dopo l’esame della mappa cromosomica, sulle future condizioni del figlio e sull’impatto negativo che avrebbe sul fratello ( e più in generale sulla famiglia) più che pessimistiche sono catastrofiche e comunque poco realistiche. Così la donna ricorda quel momento: “Appena arrivati ci hanno mostrato una stanzetta. Ho subito notato la scatola di fazzoletti sul tavolo: non era un buon segno. Il medico ci ha mostrato la lettera con l’esito degli esami. C’era scritto davvero: Sindrome di Down. Era tutto vero. Il medico ci ha spiegato che era solo una questione di sfortuna perché, per quanto ne sapevano, non c’era nulla di genetico. Poi ci ha detto che cosa avrebbe significato per il bambino. Aspettativa di vita 30-40 anni. Non sarebbe mai stato in grado di badare a se stesso. Molto probabilmente avrebbe sempre avuto seri problemi di salute. Poi è passato a spiegarci che cosa avrebbe significato per il nostro primo figlio, che fino a quel momento era stato un bambino sano e felice, con un fratellino così la sua infanzia sarebbe stata completamente stravolta. Anch’io e mio marito avremmo avuto una vita molto diversa rispetto a quella che ci eravamo sempre immaginati”. I tempi purtroppo stretti per prendere una decisione dopo tali pessimistici discorsi hanno spinto i due futuri genitori verso una scelta affrettata e che forse, se fossero stati informati meglio, avrebbe potuto essere diversa; la reazione della donna è immediata e drastica: “Ho capito subito qual era la decisione giusta da prendere. E davo per scontato che Elliot sarebbe stato d’accordo con me. Dovevamo interrompere la gravidanza. Ma lui non era tanto sicuro, voleva parlarne. Io no: non volevo doverlo convincere della mia idea. Non volevo assumermi la responsabilità di avergli fatto cambiare parere. Doveva decidere da solo. Così è andato a fare una passeggiata Quando è tornato, era d’accordo sull’aborto. Ho provato un terribile sollievo. Odiavo il mio corpo e tutte le sensazioni. Mi sentivo male.” Le modalità in cui si è poi svolto l’aborto sono per la giovane madre veramente sconvolgenti. “Ma il peggio doveva ancora venire. Non avevo pensato ai meccanismi legati all’interruzione di una gravidanza già così avanzata, ma pensavo si trattasse di un intervento…Avrei dovuto prendere alcune pastiglie, poi, tre giorni dopo, avrei dovuto andare in sala parto, la stessa dove sarei dovuta entrare dopo due mesi e mezzo…Dovevo interrompere la gravidanza con le mie stesse mani…. E così è iniziato il giorno più assurdo della mia vita. Le contrazioni sono cominciate quasi subito. Speravamo che tutto si risolvesse alla svelta ma di fatto ho dovuto aspettare altre 11 ore prima che il bambino nascesse… più tardi l’ho visto e stretto tra le braccia: mio marito ci teneva molto. Io non sapevo più cosa fosse giusto o sbagliato.” Molto diverse sono le testimonianze che abbiamo raccolto da due madri che hanno preso la strada opposta e che hanno imparato ad amare il proprio figlio durante una gravidanza consapevole, seguendo un percorso di preparazione e di accettazione, e che sono state ripagate dal veder crescere il proprio bambino “speciale” felice, in un ambiente familiare pieno d’amore e di fiducia. La nascita di Federica “Avevamo atteso questa bimba da più di 2 anni e scoprire di essere finalmente incinta,quando ormai temevamo che non accadesse più, fu per tutti una gioia indescrivibile. La mia gravidanza ci sembrava perciò molto preziosa ed eravamo spaventati all’idea che accadesse qualcosa che potesse in qualche modo comprometterla. Quando in seguito al tri-test andato male medici e amici ci hanno consigliato di fare l’amniocentesi, ci siamo sentiti morire perché il rischio dell’esame, se pur minimo, andava ad aggiungersi alla paura del responso. L’esito, comunicato al telefono,è stato inequivocabile: trisomia 21. In un attimo quella bambina che era stata per tutti motivo di gioia è diventata per tutti un ‘problema’ immenso, da risolvere al più presto. Erano tutti molto sicuri sul da farsi, persone a noi care che ci pronosticavano una vita difficile e di sofferenze, amici che non avrebbero mai accettato di avere un bambino così. E’ facile dare consigli, ma non era successo a loro, era successo a noi e solo noi potevamo capire quello che ci stava capitando, solo io sentivo da quasi un mese quell’esserino indifeso che cresceva e si muoveva dentro di me, come se capisse che più si fosse fatta sentire più forte sarebbe stato l’amore che già nutrivo per lei. Abbiamo passato dei momenti davvero terribili, momenti in cui ci domandavamo come fosse potuto accadere proprio a noi che siamo sani, facciamo una vita regolata e che siamo giovani. Non conoscevamo molto di questa anomalia cromosomica e anche le persone che ci consigliavano sul da farsi ci sembravano troppo superficiali. Ci siamo domandati cosa ne sarebbe stato della nostra vita, che bimba sarebbe stata, se sarebbe stata felice, se noi saremmo stati capaci di amarla e di crescerla nonostante le mille difficoltà che avremmo incontrato nel nostro e nel suo cammino. Nei pochissimi giorni che avevamo a disposizione per prendere una decisione ci siamo documentati, abbiamo consultati libri e abbiamo conosciuto delle persone competenti, compresi dei bambini down con le loro famiglie e le loro esperienze. Tutto questo ci ha aiutato a prendere la decisione che abbiamo preso, far nascere Federica. Federica venendo al mondo ha riempito la nostra casa di gioia e dolcezza, è amata e coccolata da tutti, comprese le persone che erano state così scettiche all’inizio! Aver saputo prima che era una bimba down ( noi la consideriamo la nostra bimba speciale!) è stato molto importante per tutti. Principalmente perché attraverso accertamenti ecografici durante la gravidanza abbiamo potuto scongiurare eventuali malformazioni fisiche e qualora ce ne fossero state curarle tempestivamente, inoltre arrivati preparati all’evento abbiamo potuto accogliere Federica dal primo istante in cui è venuta al mondo amandola e coccolandola come meritano tutti i bambini. Dobbiamo molto anche ai medici e alle ostetriche della maternità che, conoscendo la nostra storia, hanno seguito la gravidanza e il parto con grande affetto e professionalità, pronti ad incoraggiarci e ad accogliere con un sorriso la nostra bimba. Federica è stupenda, sempre allegra, dolce e per fortuna è una bimba sana, ma con un cromosoma in più che la rende “speciale”. Nostra figlia ha solo 17 mesi, forse i problemi arriveranno con il tempo, forse no, ma qual è quel bimbo che non ne dà? Siamo felici di averla messa al mondo e siamo sicuri che la gioia che ci regala ogni giorno, insieme alle persone che vorranno starci vicino, ci aiuterà a superare tutte le prove che la vita ha in serbo per noi, facendoci dimenticare quella brutta telefonata…”. Storia di Simona Ho saputo che Simona avrebbe avuto dei problemi al 5° mese di gravidanza, quando per la prima volta mi fu detto, ma senza particolari allarmismi, che cresceva poco. L’ecografia eseguita tre settimane dopo confermava la diagnosi di microcefalia e mi fu prescritta una terapia per migliorare la circolazione placentare. Il mese successivo fui ricoverata e il medico che praticò la risonanza magnetica mi disse che poteva trattarsi di una malattia genetica, lasciandomi piena di preoccupazione e di paura, ma senza avere le idee chiare. Il ginecologo del reparto mi spiegò che lo scarso accrescimento della sola testa, come era ormai chiaramente il caso di Simona, comporta in genere conseguenze patologiche ma che bisognava attendere la nascita per poterle valutare. Ormai io e mio marito eravamo pronti ad accettare qualunque cosa, e vivemmo fino al parto rassegnati e consapevoli che tutto si affronta comunque. A metà luglio, con taglio cesareo, è nata Simona. La tenevo con me in camera, la vedevo vivace , e intanto veniva sottoposta agli esami necessari. Mi fu detto che avrebbe potuto avere delle convulsioni ed io ero completamente all’oscuro di ciò che sarebbe potuto succedere. Pensai anche che se avesse avuto la sindrome di Down sarebbe stato meglio perchè la situazione sarebbe stata subito più chiara. Ora Simona ha un anno e mezzo, comincia a camminare e a dire le prime parole, è allegra e socievole, i controlli medici sono soddisfacenti e le paure di quei 4 mesi sono superate dalla gioia di vederla per ora crescere bene.

Scacco al re

L’equipe di animatori-educatori, diversabili e non, del Progetto Calamaio nel suo lavoro viaggia in tutta Italia per incontrare gli alunni delle scuole. Negli ultimi anni però abbiamo realizzato una ludoteca presso i locali del CDH a Bologna che abbiamo chiamato l’Officina del Mare. Bologna è una città bellissima: l’unica cosa che gli manca in effetti è il mare ed è per quello che abbiamo creato questo spazio di incontro per bambini ma anche per i loro genitori: per darci la possibilità di navigare insieme, di esplorare isole lontane e soprattutto di mettere in movimento la creatività. Quest’anno i laboratori a tema sono stati dedicati alla danza creativa, alla musica, al massaggio genitore-bambino e agli scacchi. Come sapete gli scacchi non sono un gioco qualsiasi ma per molti sono il Gioco per antonomasia: basti pensare alla complessità che scaturisce in fin dei conti da un elementare sistema di regole, da alcune semplici mosse di pezzi. Ci sono biblioteche dedicate allo studio di questo gioco, libri interi dedicati ad una piccola sfumatura di una variante di apertura… Eppure le mosse dei pezzi sono abbastanza semplici e direi qualsiasi bambino può impararle: certo alcuni fanno più fatica di altri, magari la mossa del cavallo (che salta ad “L” sulla scacchiera) non sempre è così immediata nella sua realizzazione ma prima o poi diventa un gesto naturale. Negli ultimi tre anni ho insegnato a giocare a scacchi ad un ragazzino affetto da sindrome di Down: anche chi ha un deficit intellettivo riesce prima o poi a mettere i pezzi in modo corretto sulla scacchiera, ad impararne i movimenti, le principali regole, fino addirittura ad acquisire elementi di strategia (ad esempio il concetto di sviluppare i pezzi nella apertura, portandoli fuori e lasciando aperte le linee). C’è qualcosa di affascinante negli scacchi che veramente ti cattura: questo ragazzino ha compensato alcuni deficit con un surplus di attenzione, con quel piacere di riuscire a dare scacco al re, di riuscire a mangiare anche un piccolo pedone e il piacere ancora più grande di meditare e di prevedere la futura mossa giusta. Certo in termini assoluti questo ragazzo non riuscirà probabilmente a diventare un forte giocatore, ma sicuramente già adesso sta riuscendo a giocare e a sperimentare al proprio livello il piacere degli scacchi. Gli scacchi sono una disciplina che ha molteplici aspetti ed approcci: innanzitutto è un gioco da tavolo che si gioca in due, come molti altri, divertente come molti altri, con una caratteristica che fa la differenza: vince sempre chi fa meno errori. La situazione di partenza infatti è uguale per entrambi, con un lieve vantaggio per i bianchi in apertura (dato che tocca al Bianco fare la prima mossa): la fortuna negli scacchi può anche esserci, quella che non fa vedere all’avversario la mossa del k.o., ad esempio; ma non è la fortuna della briscola, non è quella dea bendata che anche al giocatore più debole può mettere in mano tutte le carte valide per stravincere. Ecco perché gli scacchi a volte sono stati considerati una vera e propria scienza, dato che è indubbio il contenuto logico sotteso alla previsione delle mosse e più in generale all’impostazione dei principi strategici. Il fatto che il computer possa giocare a scacchi e battere il campione del mondo, da l’idea di quale forza logica ci sia sotto. In realtà il giocare a scacchi del computer e quello umano funzionano in modo molto diversi, si somigliano come si somigliano una volata con l’automobile ed una corsa a piedi. Il fatto che una macchina possa battere un essere umano non inficia il valore del giocare a scacchi, che in primo luogo è un confronto tra due giocatori, tra la forza della loro logica ma anche del loro carattere e in fin dei conti della loro fisicità. Ecco perché gli scacchi sono anche uno sport (con una forte componente agonistica), come ha scoperto negli anni ’50, uno dei suoi campioni del mondo, il sovietico Botvinnick, che si sottoponeva a dei veri allenamenti fisici per sopportare la tensione della sfida, riuscire a concentrarsi nella confusione…. Per ultimo, ma in realtà secondo me è la prima ragione per cui si gioca, gli scacchi emanano bellezza e stile, e per molti sono una vera e propria arte. In nessun altro gioco ci troviamo di fronte ad una tale bellezza di combinazioni, grazia ed eleganza nel movimento dei pezzi. Ogni campione ha uno stile, spesso riconoscibile: chi aggressivo, chi difensivo, chi posizionale, chi prettamente combinativo… Dalla somma di tutti questi aspetti, dalla completezza direi di questa disciplina, scaturisce una indubbia valenza educativa di questo gioco (non a caso in Russia viene insegnato nelle scuole, essendo sport nazionale, e non è ancora un caso che tutti i campioni del mondo, eccetto l’americano Fischer, siano stati proprio sovietici!).

Forza e debolezza

Quest’anno abbiamo iniziato il laboratorio d scacchi con una decina di bambini delle elementari (c’è però anche un fratellino di uno di essi che ha quattro anni…forse un po’ giovane, però vari campioni del mondo hanno iniziato a giocare proprio a quella età!). Per chi si occupa come noi di riduzione dell’handicap-svantaggio, valorizzazione dell’handicap-difficoltà, educazione alla diversità, i punti di contatto con l’insegnamento del gioco degli scacchi sono tantissimi: ci vengono offerti, direi naturalmente, una molteplicità di spunti interessanti. Innanzitutto l’abc, ovvero il movimento dei singoli pezzi: la considerazione di partenza è che ogni pezzo si muove in un modo suo peculiare, che lo rende unico. Nelle fiabe che proponiamo ai bambini delle materne e delle elementari, facciamo sempre una grande attenzione al concetto che ogni animale è diverso dall’altro ed è contento per com’è: la farfalla vola ma non come l’uccellino, ed entrambi si muovono molto diversamente dalla tartaruga o dalla rana. Non esiste un modo unico di muoversi, di parlare, di cantare: ognuna di queste modalità ha delle proprie caratteristiche anche in termini di bellezza. Ogni pezzo degli scacchi si muove in un proprio modo e per questo motivo ognuno ha una sua “forza” e una “debolezza”. Il pezzo in assoluto più debole è anche quello più importante: il Re ha paura di tutto, perfino un “pedoncino” che si fa impertinente e si avvicina senza paura (anche perché magari è appoggiato-difeso da un altro pezzo) lo obbliga a spostarsi. Diciamo che è il pezzo più sensibile, che vale la pena affrettarsi a difendere fin da subito con un arrocco, ovvero la disposizione di difesa per eccellenza. Mentre nello svolgimento della partita si può dire che il Re sia una preoccupazione, ed ogni pezzo è disposto per difenderlo ed attaccare quello avversario, nel corso del finale il Re, come si dice, diventa un pezzo, diventa una risorsa solo quando sulla scacchiera il grosso delle truppe ha lasciato il campo. Ciò introduce ad un altro principio di base degli scacchi: il valore dei pezzi non è mai dato in assoluto, ma deriva dalla posizione degli stessi sulla scacchiera, dalla loro particolare disposizione. Questo è un aspetto veramente fondamentale, perché ciò che distingue un bravo giocatore da uno mediocre è la bravura nel disporre e posizionare i pezzi sulla scacchiera in modo tale da renderli efficaci e forti. Il valore-forza dei pezzi convenzionalmente viene definito in base al valore del pedone, che è uguale ad 1: il cavallo e l’alfiere valgono 3, la torre 5 e la Regina 9. Ma negli scacchi sono anche vere le seguenti considerazioni: in genere un alfiere è molto più forte di un cavallo se siamo nella fase finale della partita, dove ha modo di dispiegare la sua capacità di correre in lungo e in largo sulla scacchiera; il cavallo invece in genere è molto forte nella fase centrale della partita, quando in un groviglio-rovo di pezzi incastrati l’uno nell’altro, ha la possibilità, saltando, di muoversi molto più liberamente di un alfiere o di una donna o torre; e così via. Questa ginnastica mentale, a cui tutti gli scacchisti sono abituati, di costantemente monitorare il valore dei loro pezzi facendo i conti con la loro posizione, è molto utile anche in situazioni di handicap, dove ciò che appare una debolezza può anche diventare forza, o parallelamente, soprattutto dove si presentino dei casi di normodotati gravi, c’è una forza che proprio perché tale si presenta anche come debolezza. Normodotati gravi sono quelli che non riescono ad andare oltre il naso della loro abitudine, che non sanno affrontare situazioni e sfide nuove, che non sanno trovare altre strade per raggiungere gli stessi obiettivi. Gli scacchi sono naturalmente una palestra in questa senso, perché costantemente il giocatore costruisce il suo gioco sulla base di principi strategici o nell’intento di disseminare di trappole e trabocchetti il territorio, per catturare anche solo un pedone dell’avversario. Solo il giocatore che sa “leggere” la situazione, andando oltre la constatazione puramente materiale e quantitativa dei pezzi, consapevole invece della qualità, che discende sempre da un vantaggio posizionale, riuscirà ad avere ragione dell’avversario. Solo il giocatore che sa valorizzare le proprie abilità diverse, non chiuso grettamente sul semplice dato materiale ma che sa concentrarsi sulle potenzialità della posizione, sa trovare la strada della vittoria: accade di sovente che un giocatore in svantaggio materiale, cioè che ha dei pezzi in meno, dei deficit, rispetto all’avversario, possa vincere la partita perché valorizza ciò che ha, piuttosto che concentrarsi su ciò che non ha più. L’attenzione al contesto, anche in questo caso, è fondamentale per dare significato e valore ai singoli componenti del gioco, che non vanno mai isolati e considerati in termini assoluti. Ad esempio in un contesto dominato dal paragone e dal confronto con la situazione di “normalità”, una carrozzina rischia di essere considerata una sedia elettrica: in un contesto sportivo, dove abbiamo cioè costruito un sistema di regole che valorizza la carrozzina come strumento di gioco, ecco che diventa un attrezzo-ausilio alla stessa stregua dell’asta nel salto con l’asta o degli sci nello slalom speciale. Il valore dei singoli pezzi, come il ”valore” dell’handicap, non è mai dato una volta per tutte ma è dato dal contesto. Un piccolo pedone, se valorizzato, risolve una partita, arrivando all’ultima traversa, alla promozione, trasformandosi da ranocchio in una Regina.