Skip to main content

Autore: admin

Crescere nella legalità

Cos’è l’educazione alla legalità?
Negli ultimi anni, in particolare in seguito alle stragi mafiose del 1992 e a Tangentopoli, è maturata nella società italiana la consapevolezza della necessità di impegnarsi in processi di educazione alla cittadinanza e alla legalità. Se la lotta per la legalità non vuole essere un qualcosa di formale e astratto, deve essere condotta attraverso il coinvolgimento di tanti e basata sulla salvaguardia e sul rafforzamento della democrazia. All’attività della magistratura e delle forze dell’ordine bisogna allora affiancare un’azione sociale, educativa. Un’educazione alla legalità appare, dunque, fondamentale per combattere l’illegalità e la cultura mafiosa fatta di omertà, violenza, sopraffazione.
La scuola può svolgere un ruolo fondamentale: è la prima fondamentale istituzione, dopo la famiglia, con cui i bambini si confrontano e in cui sperimentano il rapporto tra le regole sociali e i comportamenti reali.
L’importanza del ruolo educativo della scuola nella lotta all’illegalità, e in particolare alla mafia, ha iniziato a farsi strada negli anni ’80, ma è nel 1993 con una Circolare del Ministero della Pubblica Istruzione (Circolare del Ministero della Pubblica Istruzione n. 302 del 25 Ottobre 1993) che la scuola è chiamata a svolgere un ruolo più continuativo e strutturato. Innanzitutto la scuola deve divenire promotrice di una riflessione e di un’azione “volta alla riaffermazione dei valori irrinunciabili della libertà, dei principi insostituibili della legalità”; “soltanto se l’azione di lotta sarà radicata saldamente nelle coscienze e nella cultura dei giovani, essa potrà acquisire caratteristiche di duratura efficienza”.
L’educazione alla legalità, secondo la concezione espressa dalla Circolare, consiste nella creazione e nella diffusione di una cultura dei valori civili “che intende il diritto come espressione del patto sociale, indispensabile per costruire relazioni consapevoli tra i cittadini e tra questi ultimi e le istituzioni”, che fa acquisire una nozione più profonda dei diritti alla cittadinanza, che aiuta a capire che la vita personale e sociale si fonda su un sistema di relazioni giuridiche.

Il Progetto Calamaio e l’educazione alla legalità
Il Progetto Calamaio pratica e diffonde da sempre una cultura che valorizza l’altro e la diversità. Proprio come vent’anni fa quando il Progetto Calamaio nacque con lo scopo specifico di diffondere una nuova cultura della disabilità, così oggi esso inizia a sperimentarsi più consapevolmente nell’ambito dell’educazione alla legalità attraverso un approccio di tipo culturale. In realtà il tema della legalità è strettamente collegato a quelli che da sempre sono i temi tipici del Progetto: il rispetto, l’aiuto, la solidarietà, la creatività, l’identità, il pregiudizio e la diversità.
La persona diversabile, in quanto soggetto attivo e promotore di cultura, si fa ora promotore della cultura della legalità e fa nuovamente della propria diversità occasione di arricchimento. Le modalità e gli strumenti utilizzati spesso sono i medesimi: l’incontro diretto, l’analisi dei pregiudizi, le fiabe, le drammatizzazioni, i giochi di ruolo, di associazione di idee e sulla comunicazione e sul conflitto. Trova, poi, il suo punto di forza nella discussione, strumento indispensabile per far entrare in contatto con le idee di un’altra persona. Infatti, anche i bambini più piccoli interagiscono e negoziano attraverso le discussioni.
La pratica pedagogica risulta allora un importante strumento preventivo; essa permette, infatti, di formare le nuove generazioni a una mentalità diversa attraverso l’uso di un pensiero che superi la realtà data e proponga differenti modalità d’interazione con i gruppi di riferimento. La diversità deve essere connotata positivamente, il conflitto utilizzato come risorsa per il cambiamento; la soggettività non deve dipendere da codici pre-formati, ma da autenticità, creatività. Per realizzare il passaggio dall’identicità all’autenticità, il Calamaio utilizza il gruppo come importante strumento di formazione, poiché favorisce l’abbattimento di stereotipi e l’apertura del pensiero; il gruppo, infatti, aiuta a porsi domande e a confrontarsi.
Il Progetto lavora, inoltre, sul pregiudizio; al riguardo la prima cosa da fare è verificare quali siano le idee ricorrenti, analizzare cioè l’immaginario collettivo. Gli stereotipi, infatti, sebbene abbiano la funzione di rassicurare e fornire una visione semplificata della realtà, demotivano i processi di conoscenza e, quindi, la problematizzazione delle idee e dei comportamenti usuali. Confermare il già noto, o presunto tale, non può che creare disinformazione, mentre l’informazione è il punto di partenza per la comprensione di ogni fenomeno e l’eventuale modifica di opinioni e atteggiamenti. Si tratta perciò di una pedagogia alternativa, ossia un’educazione alla critica, alla rottura dei dogmi, del già dato. L’educatore, individuati campi specifici di riflessione, stimola, infatti, altri modi di fare e pensare, in particolare rispetto a quei comportamenti di complicità e sudditanza ritenuti “normali”, o comunque non modificabili, dalla maggioranza della popolazione.
A partire da alcuni aspetti tipici della cultura mafiosa è possibile individuare delle altre possibili direzioni educative. Ad esempio, le gerarchie tipiche della struttura dell’associazione criminale, basate su un potere carismatico e sull’ineguaglianza nei rapporti interpersonali, sono un primo punto da cui partire per far acquisire una logica dei rapporti sociali in cui diritti e doveri dei cittadini sono previsti da regole oggettive, al di là delle sudditanze clientelari e dei favoritismi. Così l’educatore del Calamaio cerca di cogliere ogni occasione per sottolineare l’uguale dignità di ogni persona, a partire dalla persona con deficit, e per avviare un percorso di formazione etico-politica nei giovani.
Un altro aspetto tipico della cultura mafiosa è il maschilismo: la donna è inferiore all’uomo, essenzialmente legata al ruolo di moglie e madre. Si tratta di sovvertire questo maschilismo attraverso una pedagogia che favorisca l’incontro e il confronto e un’educazione alla differenza, alla relazione femminile-maschile che valorizzi ogni forma di alterità, ma anche le uguaglianze.
Per quanto riguarda gli atteggiamenti tipici dell’omertà, innanzitutto ci si deve chiedere a quali bisogni essa risponde. Sicuramente tra questi vi è la protezione, diversamente conseguibile attraverso la solidarietà e, quindi, attraverso la concretizzazione in spazi effettivi di una cultura solidale in cui il giovane possa sentirsi riconosciuto e confermato.
Alla svalutazione del lavoro propria della mafia e ai guadagni facili delle attività illegali, il Calamaio, senza negare le esigenze di gioco e convivialità, che anzi sono strumenti indispensabili per il lavoro dell’équipe, evidenzia l’insostituibilità dell’attività pratica ai fini dell’autorealizzazione personale.
Infine, alla violenza il Progetto contrappone, in un’ottica preventiva, modelli alternativi che esprimono chiaramente come l’aggressività non sia sinonimo di forza; è possibile raggiungere i propri obiettivi attraverso il confronto dialogico, che arricchisce, e il ricorso alla legge. Naturalmente le attività proposte tengono in conto la differenza di età dei ragazzi cui ci si rivolge, per cui ad esempio con i più piccoli il discorso parte da sé, dall’importanza del rispetto reciproco, fatto maturare attraverso il gioco cooperativo.
Il Calamaio, quindi, si pone, tra gli altri, l’obiettivo di fornire ai più giovani gli strumenti per interpretare correttamente la realtà, per distinguere legalità e illegalità, onestà e corruzione e gestire la propria esistenza come cittadini liberi e consapevoli. Non si tratta di “insegnare” qualcosa, ma di “condividere” stili di vita, valori e sentimenti, aiutando le nuove generazioni a crescere attraverso esempi positivi.

Con un peso del 9%: la disabilità in Spagna nell’era di Zapatero

Uno degli eventi politici più importanti del 2004 è stata la vittoria, nelle elezioni nazionali spagnole del 14 marzo, del PSOE di José Luis Zapatero, subito dopo i tragici attentati di Madrid. Al di là del cambio di maggioranza in una importante nazione dell’Unione Europea, si è trattato di un terremoto nella riflessione politica: dopo anni di rincorse alla “terza via”, un programma di recupero della tradizione di sinistra si è rivelato moderno e soprattutto vincente, tanto da far parlare di un “effetto Zapatero” su tutta la sinistra europea. Appare lecito chiedersi, a circa un anno dall’insediamento dell’esecutivo socialista, se anche sulla disabilità siano state attuate politiche di rottura, oppure si sia mantenuta una continuità con i governi (popolari) degli anni precedenti.

Percentuali di inclusione sociale e politiche di genere
Uno dei punti più qualificanti e interessanti del programma elettorale di Zapatero era il “contratto di inclusione al 9%”. Secondo quanto dichiarato in una tribuna elettorale dall’allora referente per le politiche sociali del partito, Consuelo Rumì, esso consiste nella “rappresentazione della collettività delle persone con disabilità in tutti gli ambiti, in funzione del peso demografico che ha nella nostra società”. Obiettivo decisamente ambizioso, perché proietterebbe trasversalmente la questione disabilità, con un peso misurabile, in tutti i settori dell’attività politica. Obiettivo che però partiva già un po’ zoppo: nella stessa occasione la signora Rumì ricordava come l’unica proposta del PSOE approvata dal precedente governo Aznar fosse stata l’aumento al 5% della quota di riserva a persone disabili per nuove assunzioni entro il pubblico impiego – e noterete come 5 non equivalga a 9.
Va detto che al momento, in tutta la pubblica amministrazione spagnola, la quota di persone con disabilità non supera lo 0,7%, e l’obiettivo realistico è di portarla al 2% nei prossimi anni. Nel dicembre 2004, inoltre, un decreto ha rafforzato l’impegno al rispetto della riserva del 5%, rendendola obbligatoria per i concorsi interni e garantendo una prelazione nella scelta della sede di lavoro ai lavoratori con disabilità. Il premier ha adottato in primissima persona questo impegno, attraverso il progetto “Moncloa 5%”, con cui la Presidenza del Consiglio si è impegnata nel luglio 2004 ad avere nell’organico dei propri diretti dipendenti un 5% di persone con disabilità a fine legislatura (90 su 1800). Tuttavia il percorso è ancora lungo: i sindacati denunciano come sia poco rispettata (e controllata) anche la non impressionante quota del 2% di lavoratori disabili imposta alle imprese private con oltre 50 dipendenti.
Altra innovativa misura promessa dal PSOE era un Piano di Azione per la Donna con Disabilità, che coordinasse tutte le azioni a favore di questa categoria soggetta a doppia discriminazione. La condizione femminile in Spagna appare più arretrata che nella media dell’Unione Europea, come dimostrano il forte differenziale con i maschi nel tasso di occupazione e il lavoro di cura lasciato quasi esclusivamente alle donne in presenza di familiari non autosufficienti. Va ricordato che proprio la Spagna, e in particolare Valencia, ha ospitato tra febbraio e marzo 2003 il I° Congresso Internazionale su Donna e Disabilità, di cui si è già parlato su questa rivista. Il piano che dovrebbe aiutare la donna con disabilità nell’inserimento lavorativo e nella conciliazione dei tempi di lavoro e di vita, però, non è ancora pronto, e nel gennaio 2005 la specifica commissione del CERMI, il comitato che riunisce quasi 3.000 associazioni del settore, ha iniziato un lavoro di redazione, sollecitando al contempo il governo ad attivarsi per reperire le necessarie risorse – rivendicazione confermata con qualche accento di protesta in occasione dello scorso 8 marzo.

Il Sistema Nazionale della Dipendenza
Tra i numerosi altri punti del programma con cui il PSOE si è presentato alle elezioni, spicca la costituzione di un Sistema Nazionale della Dipendenza, inteso come un quadro preciso di diritti per i circa 2,7 milioni di spagnoli non autosufficienti. Il costo di questo sistema, definito anche “quarto pilastro dello Stato sociale” in aggiunta a politiche del lavoro, educazione e sanità, è stato stimato in 9 miliardi di Euro all’anno, pari all’1,3% del PIL, con una ricaduta occupazionale di circa 330.000 posti di lavoro, prevalentemente femminili (ritorna così la connessione tra donne e lavoro di cura, anche come opportunità e non rinuncia professionale). Finora l’iniziativa politica si è limitata a un confronto con le parti sociali, da cui è scaturito un Libro Bianco a cura della Segreteria del Ministero delle Politiche Sociali, presentato in Parlamento nel gennaio 2005 come base per una “Legge per l’Autonomia delle Persone” in via di definizione.
È evidente che la realizzazione di questo progetto comporterà una rivoluzione del Welfare State, che storicamente presenta in Spagna risorse in calo, in rapporto tanto alla media europea quanto al PIL. Di qui i dubbi che una riforma così ambiziosa possa essere davvero portata a termine in tempi brevi, senza comportare un pesante aggravio fiscale. L’opposizione di centro-destra avanza inoltre il sospetto che una carta elettorale così pesante verrà “surgelata” dal governo con anni di studi e ricerche, per giungere ad approvare il sistema della dipendenza solo in vista delle prossime consultazioni, previste per il 2008 (Zapatero, comunque, ha ricordato esplicitamente questo impegno nel discorso che celebrava il primo anniversario della vittoria elettorale).
Nel frattempo, il Libro Bianco delinea un quadro in cui la famiglia è l’unica istituzione a occuparsi dei non autosufficienti: solo il 6,5% delle persone con necessità di cure di lunga durata dichiara di riceverle dai servizi sociali. Che avvenga entro un “quarto pilastro” organico o con misure più circoscritte, un serio intervento di cura da parte dei servizi pubblici pare dunque ineludibile per migliorare la condizione delle persone con disabilità in Spagna.

Associazionismo in luna di miele
C’è forse solo una promessa elettorale palesemente disattesa da Zapatero: la “Segreteria di Stato per la disabilità”, proposta dal partito socialista alle dipendenze dirette della Presidenza del Governo, è divenuta una più vasta “Segreteria di Stato per Servizi Sociali, Famiglie e Disabili” sottoposta al Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, mostrando minore attenzione per lo specifico della disabilità.
Malgrado questo “sgarbo”, non sembra essersi incrinato il buon rapporto tra il governo in carica e le associazioni rappresentative del mondo disabile spagnolo. Già in campagna elettorale il COCEMFE, che raggruppa 900 associazioni di disabili fisici, aveva lodato l’atteggiamento disinvolto con cui Zapatero si era rivolto agli astanti in un dibattito elettorale di fronte a persone con disabilità, in lampante contrasto con l’impaccio dello sfidante del PP, Mariano Rajoy. Il clima tra esecutivo e associazionismo è rimasto complessivamente positivo e collaborativo anche nei primi mesi di attività, come dimostra l’apprezzamento espresso dal presidente del CERMI, Mario Garcìa, per il metodo di redazione del Libro Bianco sulla Dipendenza.
È essenziale rilevare che l’associazionismo handicap spagnolo ha un peso politico sconosciuto agli omologhi italiani: per citare il caso più rilevante, l’associazione dei ciechi ONCE, attraverso la vendita dei biglietti di una lotteria a estrazioni giornaliere, dà stabilmente lavoro a ben 23.000 persone non vedenti e ne assiste oltre 63.000 (oltre a controllare l’omonima squadra ciclistica, nota anche in Italia agli appassionati). Il buon rapporto mantenuto con le associazioni del mondo della disabilità può dunque essere considerato il maggior successo del governo Zapatero nel suo primo anno di vita. Solo il tempo, e il lavoro dei prossimi anni, dirà se il seguito di questa luna di miele assomiglierà più a Mr. & Mrs. Smith o a La guerra dei Roses.

Lettere al direttore

Risponde Claudio Imprudente
claudio@accaparlante.it

La primavera del 2005 vedrà fiorire un geranio in meno. Il geranio Terri è morto, l’hanno lasciata morire, ma vivrà nei cuori degli uomini di buona volontà, quelli per cui Lui è morto e risorto. La passione e l’agonia di Terri e Gesù ci diano la forza di combattere, di innaffiare con un sorriso e tanta tenerezza tutti i gerani del mondo. Il pensiero va alle persone cui, materialmente o metaforicamente, ogni giorno viene staccata la spina.
Un abbraccio
M. Alessandra Congiatu
Porto Torres
Alla fine Terri Schiavo è morta. Dopo tante parole e dopo tanta spiacevole propaganda, il triste finale preannunciato è stato portato a compimento. La toccante lettera di Alessandra è spunto per affrontare nuovamente le problematiche sollevate dal dramma che, negli Stati uniti come nel resto del mondo, ha scatenato molti dibattiti. Non è la prima volta, quindi, che mi confronto con questo problema, e le mie perplessità sono sempre le stesse. Per la nostra scienza una persona è da definirsi “cerebralmente morta” quando un macchinario sintonizzato su una determinata frequenza cerebrale non riceve più segnale. Un riverbero che si ferma, un suono che si annulla. La vita diventa un’intonazione che finisce di esistere quando non risuona più. Ma come stabilire quale sia il suono della vita? Come fare a scegliere tra il riverbero di un’onda cerebrale e i suoni caldi e ritmati del nostro cuore? Se la vita è un suono, quale di questi due è il suo “la”? La mia posizione è scontata, io pendo dalla parte del cuore. Mi rifiuto di credere che il cervello sia tutto, che il corpo e la corporeità abbiano un ruolo secondario, strumentale e accessorio nell’essere umano. Il nostro suono vitale è il cuore, muscolo involontario che ci tiene in vita. Come far dipendere tutto dal riverbero del cervello? Il “caso Terri” è stato caso emblematico di uno sbilanciamento eccessivo verso una concezione “cerebrocentrica” della vita umana.
Ma il “caso Terri” è stato anche lo scontro tra suo marito, deciso a farla morire, e i suoi genitori, disposti a lottare fino alla fine per tenerla in vita. Un giudice ha deciso per loro di porre fine a una faccenda dai contorni troppo sfumati, troppo complessi per farla scivolare in una scelta così netta e ineluttabile. Un cavillo legale ha stabilito che era ora di morire, di non fornire più l’innaffiamento necessario per un geranio come lei. E, come spesso accade, la stampa non ha perso tempo per approfittare della situazione, trasformando Terri Schiavo in oggetto mediatico, nuovo accattivante show da prima serata disponibile per il popolo americano. Vita e morte diventano ospiti di un tribunale televisivo, ma anche facile strumento per una indegna campagna elettorale a reti unificate. Il presidente Bush ha deciso di assumere un ruolo da protagonista, trovando forse un’occasione troppo ghiotta per consolidare il suo elettorato, ma continuando a palesare la confusione che attraversa i suoi pensieri quando si parla di temi fondamentali come la dialettica vita-morte. Come può un presidente fautore di guerre, primo difensore della pena di morte, dichiararsi con questa semplicità appartenente al “partito della vita”? Questa è la vera violenza, un insulso ballo di potere, una squallida partita tra due facce della stessa medaglia. Il potere politico e quello giuridico che si affrontano in un campo che non gli appartiene.
Tutto questo non era necessario e Terri non lo meritava. Se per lei, nonostante l’opposizione dei genitori, era stata scelta la morte, forse sarebbe stato meglio allora lasciarla spegnere in silenzio, permettendole di ascoltare, solo per quegli ultimi giorni che le restavano, l’unica musica vitale che le era rimasta: quella del cuore.
Ciao Claudio Mi chiamo Patricia Pompa sono dall Mexico, faccio la professoresa di sostegno. Ha arrivato a me un libro belissimo “Il principe del lago” adesso ho cominciato a leggere e mi ha colpito. Penso di leggeró ai miei ragazzini a scuola. Sono Molto interesata in il “Progetto Calamaio”. Qui a Messico lavoramo con la “intrgrazione educativa” del ragazzi “discapacitado”. Mi piacerebbe essere in contato con voi e fare scambio di esperienza, conoscere come si lavora la in Italia. Scusa per che no so tanto italiano! Arrivederci!
Patricia
Arriba arriba arriba arriba! Quando mi è arrivata questa e-mail, era proprio un brutto periodo. Da tempo mi scervellavo, senza venirne però a capo, su un atroce dubbio: ma i topi possono sgattaiolare? Ora che però mi ha scritto Spidey Gonzales, ho risolto il mio problema, posso chiedere direttamente a lui. Scherzi a parte, non ho scelto a caso di inserire proprio questa e-mail nella mia rubrica. Fa sempre piacere avere dei fan anche all’estero, e non per una semplice questione di autogratificazione (che comunque non guasta mai). Una lettera come questa è segnale delle potenzialità di un lavoro come quello del Progetto Calamaio. L’educazione alla diversità è punto fondamentale per ogni società civile e per una corretta cultura dell’integrazione. Ma la lettera di Patricia mi serve anche per sottolineare la necessità di volgere il proprio sguardo oltre i nostri confini, non solo per ampliare i nostri orizzonti culturali, ma anche per capire veramente come la diversità sia un bene da difendere con tutte le forze. Quindi, ringrazio Patricia per l’interesse dimostrato verso il mio lavoro, nella speranza di poter presto apprendere molto anche dagli amici messicani.

Una mozione per le donne disabili

Carla Castagna è una donna con disabilità che a livello locale, ma anche nazionale, cerca di far emergere i problemi relativi alla vita della donna in situazione di deficit. Per questo ha presentato al Comune di Torino, dove vive, una mozione per richiamare l’interesse sulla situazione di emarginazione della donna disabile. L’abbiamo intervistata

Da chi è partito questo progetto?
In occasione della festa della donna del 2003, celebrata l’8 marzo, sono stata contattata dal Comitato delle Donne del Quartiere Mirafiori Sud di Torino: costoro volevano dedicare quella giornata alle donne disabili. Io ho dato la mia disponibilità a collaborare e così ha avuto inizio un lungo lavoro. Inizialmente nel Comitato c’era una donna con disabilità sensoriale, la madre di una donna disabile e anche donne con disabilità psico-fisiche. In occasione del primo incontro ognuna parlò di se stessa e di ciò che la colpiva di più nell’ambito di tale tematica. Personalmente ho presentato una relazione politica sul come io interpreto la disabilità, ovviamente prendendo in considerazione le discriminazioni perpetuate nei confronti delle donne disabili. Lo stesso giorno il Presidente della Commissione per le Pari Opportunità  del Comune di Torino mi chiese di presentare una mozione sulla base dei temi da me presentati. Col tempo tale mozione è andata avanti ed è riuscita a superare l’intero iter burocratico: è stata presentata sia alla Commissione per le Pari Opportunità sia alla Commissione per l’Assistenza del Comune di Torino; inoltre è stata introdotta anche all’Inter-Assessorile sulla disabilità, ovvero agli Assessorati alla Casa, alla Viabilità, all’Istruzione e al Lavoro.

Qual è l’intento di questa mozione?
L’obiettivo principale è quello di dare visibilità alle donne disabili e impegnare le amministrazioni e le istituzioni nell’affrontare il tema della disabilità relativa alla donna in modo diverso e nuovo. È fondamentale denunciare la doppia discriminazione cui la donna con deficit è sottoposta e contemporaneamente contribuire alle politiche di inclusione delle persone disabili in generale, e delle donne in particolare.

Quali sono i punti principali della mozione che hai presentato?
La cosa secondo me più eclatante è la richiesta che, a partire dai diritti umani, le Amministrazioni si impegnino ad attuare una legislazione non discriminatoria della disabilità: è importante che queste si impegnino nel far sì che la disabilità non sia considerata solo dal punto di vista assistenziale, ma anche e soprattutto considerando gli aspetti scolastici, lavorativi, sociali. Vorrei porre la questione della disabilità tra i diritti umani.

Nel presentare la tua mozione, hai considerato anche la legislazione pre-esistente?
Certo, innanzitutto sono partita dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani dell’ONU, per poi considerare l’art. 3 della Costituzione Italiana, ma anche le Regole Standard per l’Uguaglianza di Opportunità delle Persone Disabili approvate dall’Assemblea Generale dell’ONU nel ’93. Inoltre ho considerato la Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea, la Convenzione sull’Eliminazione di Ogni Forma di Discriminazione nei Confronti della Donna, la Risoluzione della I° Conferenza Europea sulla Vita Autodeterminata per le Donne Disabili, il Manifesto delle Donne Disabili d’Europa – Gruppo di Lavoro sulle Donne e la Disabilità, la Dichiarazione e Programma di Azione adottati dalla Quarta Conferenza Mondiale sulle Donne e la Dichiarazione di Madrid del 2002.

A chi hai presentato la mozione? Solo al Comune di Torino o anche ad altre istituzioni?
Personalmente ho pensato di coinvolgere il maggior numero possibile di donne con disabilità, ma anche le Associazioni di disabili e le Associazioni di donne locali. Inoltre, a livello nazionale, la mozione ha visto coinvolti anche la FAIP (Federazione Associazioni Italiane Para-tetraplegici) che comprende ventisei Associazioni, la FISH (Federazione Italiana Superamento Handicap) che rappresenta ventinove Associazioni Nazionali e undici Federazioni locali, il DPI (Disabled People Italia) che appartiene a DPInternational con centotrentadue federazioni di Associazioni e che rappresenta diciassette Associazioni nazionali e tre Comitati territoriali e il CND (Consiglio Nazionale sulla Disabilità) cui aderiscono trentacinque Associazioni nazionali.

A che punto sono i lavori? Cosa avete ottenuto sinora?
Grazie a questa mozione parteciperò al convegno di Paestum sul tema della disabilità al femminile organizzato proprio dal DPI: per questa occasione il Comune di Torino ha concesso il suo patrocinio. Inoltre ho incontrato anche la referente delle Biblioteche comunali di Torino e insieme abbiamo deciso di organizzare degli incontri sul tema della disabilità all’interno delle diverse Biblioteche del Comune. La FAIP di Perugia ha accolto la mozione e l’ha presentata al suo Comune. Inoltre la Regione Piemonte ha presentato un progetto culturale sul tema della disabilità femminile.

Progetti per il futuro?
L’obiettivo è quello di lavorare per cercare di migliorare sempre più la qualità della vita delle donne con disabilità, orientandosi verso il rispetto dei diritti umani e verso l’empowerment della donna disabile. Sinora, soprattutto negli ultimi anni, molte cose sono cambiate ma ancora molto rimane da fare. Speriamo che il vento cambi e che le donne con disabilità non siano più ignorate dalla politica delle donne e da quella delle disabilità.

Quale sarebbe, secondo te, il primo passo da fare per iniziare a migliorare le condizioni di vita della donna disabile?
Si potrebbe partire dal riconoscere che c’è una duplice discriminazione, sia dal punto di vista sessuale che da quello fisico legato alla disabilità; inoltre è indispensabile cercare di rafforzare le donne con deficit: ovvero bisognerebbe attivare delle strategie per dare alle donne con disabilità una maggior autostima, è necessario rafforzare il loro ambiente personale e il loro ambiente circostante. È importante lavorare il più possibile sulla persona stessa.

Qual è, secondo te, la discriminazione maggiore attuata nei confronti della donna disabile?
Purtroppo sono molte, questo anche perché da sempre la donna ha subito molti condizionamenti: si pensi che ancora oggi tante donne con disabilità non escono di casa, non sono state istruite, non hanno un lavoro.

Cosa ti ha portato a interessarti di questo argomento? In generale, di cosa ti occupi nella vita?
Io ho una formazione sociale: sono laureata in Scienze Politiche, indirizzo sociologico, e prima dell’incidente facevo l’assistente sociale presso l’Assessorato per l’Assistenza del Comune di Torino. Pertanto nella mia vita ho visto e ho vissuto entrambi i punti di vista: questo mi ha portato a interessarmi a tale tematica, proprio perché penso che vivendo certe esperienze, le si capisce di più e vi si può agire maggiormente, piuttosto che coloro che fanno questo lavoro ma non ne hanno un’esperienza diretta. Attualmente mi occupo di tutti i progetti prima citati: la collaborazione col Comune di Torino, quella con la Regione Piemonte, quella con le Biblioteche e quella con le Associazioni di donne e di disabili.

Il ritmo della solidarietà

Un gruppo di africani balla in cerchio. Il ritmo dei tamburi è incalzante. Niente di strano, se non fosse che sullo schermo del mio computer, dal quale sto seguendo il video delle danze su un cd, compare improvvisamente una scritta che lascia sbalorditi: “Più della metà dei danzatori è sorda”. Sembrerebbe paradossale: come si può danzare seguendo la musica se non la si può ascoltare? Eppure l’esperienza e l’abilità di questi danzatori è tale che non si nota alcuna differenza o incertezza nell’esecuzione rispetto ai loro colleghi udenti. Del resto l’impegno principale di African Footprints è proprio quello di rendere evidente che la disabilità non vuol dire inabilità e che è necessario riconoscere e valorizzare il talento artistico e le capacità di tante persone svantaggiate e senza prospettiva.
African Footprints International è un’organizzazione del Ghana, senza scopo di lucro, che attraverso la musica, la danza, il racconto, la formazione alle tecnologie e la consapevolezza ambientale, intende aiutare le persone con disabilità ad acquisire cultura, consapevolezza di sé, creatività e le competenze necessarie per inserirsi nella vita del mondo moderno. Le persone affette da sordità costituiscono quindi un punto di partenza e un modello per tutte le altre persone svantaggiate che attendono di essere riconosciute nelle loro abilità.
Negli ultimi anni il gruppo di African Footprints ha collaborato con molti gruppi di musica, teatro, danza e percussioni e si è esibito in molteplici occasioni in Africa, Olanda, Danimarca e Francia riscuotendo un vasto successo di pubblico e di critica. In questo contesto si è realizzata la tournée “Orme d’Africa”, organizzata dall’AIFO (Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau) in occasione delle celebrazioni della 52a Giornata Mondiale dei malati di lebbra, l’appuntamento di solidarietà che si rinnova dal 1954, anno in cui l’AIFO ha cominciato ad impegnarsi contro la lebbra in Africa e a realizzare progetti nei Paesi in via di sviluppo per garantire l’accesso alla salute alle popolazioni più svantaggiate.

L’esperienza dal vivo: tra ammirazione, spensieratezza e riflessione

Incuriosita dalla particolarità dell’iniziativa, ho deciso di assistere dal vivo a uno degli spettacoli della tournéé di African Footprints in un teatro bolognese.
Il pubblico in sala era sorprendentemente numeroso ed entusiasta: giovani e anziani, disabili e “normodotati”; c’era anche un gruppo di non udenti che agitava in aria le mani per applaudire. Tutti in attesa di assistere a un evento che subito gli organizzatori hanno definito irripetibile.
E infatti, ancora una volta la realtà ha superato ogni aspettativa e immaginazione. La prima esibizione è stata strumentale, solo tamburi e altre percussioni. Mi ha colpito subito l’energia con cui quei giovani africani battevano ritmicamente i loro tamburi, sicuri e perfettamente coordinati tra loro, con i palmi aperti delle mani o bacchette di legno. Poi le danze. La presentatrice ha annunciato che sarebbero state eseguite solo da danzatori non udenti e ha spiegato che erano tratte da cerimonie popolari che rivestono grande importanza nella vita sociale delle popolazioni del Ghana. Infatti, alcune di esse si riallacciano alla storia e rappresentano il momento della liberazione dalla prigionia del popolo dei Volta, altre rappresentano scene di vita sociale e hanno un valore educativo negli ambiti del rispetto dei diritti delle donne e delle persone con disabilità, del rispetto dell’ambiente, dell’educazione sanitaria. Alcune di esse, infine, sono tratte dai riti di passaggio che caratterizzano il “cerchio della vita” di ogni persona nella comunità, dalla nascita all’ingresso nella vita adulta, al matrimonio, fino alla morte. I ballerini, uomini e donne, si sono presentati sul palco avvolti in tessuti sgargianti e si sono lasciati trascinare dalla musica, facendo tintinnare i braccialetti ai polsi e alle caviglie. Sembravano completamente pervasi dal ritmo, sorridevano mentre il loro corpo si scuoteva a ogni tocco di tamburo. Eppure non sentivano. Ecco l’incredibile. Quei danzatori stavano dimostrando che la musica non è privilegio solo di chi può ascoltarla con le orecchie ma anche di chi riesce a coglierne le vibrazioni nel proprio corpo e nell’aria, nel terreno, seguendo il movimento delle mani che battono sul tamburo e sentendo il tocco risuonare profondamente dentro la mente. Il pubblico era come ipnotizzato, ma alla prima pausa c’è stata un’esplosione di applausi: la loro abilità era stata apprezzata e così hanno continuato a sorprenderci con la danza dell’energia giovanile e del corteggiamento. La scena era dominata da due coppie di giovani che si incontravano, si avvivicinavano, si respingevano… Prima le donne allontanavano gli uomini con finta superiorità e civetteria, poi erano i ragazzi a rifiutare le avances delle loro compagne. È stato divertente, anche perché oltre alla danza si sono esibiti in una vera e propria pantomima: i gesti e le espressioni facciali erano estremizzati, le labbra suggerivano le parole del corteggiamento e noi potevamo immaginare le loro discussioni, le voci che si cercavano. L’atmosfera era totalmente coinvolgente e loro non sembravano avvertire alcuna fatica, nonostante i movimenti sfrenati, i salti e le circonvoluzioni dei corpi. L’ultima danza si chiamava Green Hill, la danza del risveglio dei sensi. E ancora una volta siamo stati pervasi dalla loro energia, dal loro entusiasmo, dal loro abbandono alla musica, finché la musica si è spenta ed è arrivato il momento dei saluti. Sono saliti sul palco gli organizzatori, il presidente dell’AIFO e altre persone, missionari e laici, che hanno dedicato la propria vita agli “ultimi” del mondo, a tutte le popolazioni svantaggiate. Hanno spiegato che nei paesi poveri il problema non è solo aiutare fisicamente i bisognosi ma intraprendere un percorso che conduca a una maggiore consapevolezza, perché ogni essere umano ha dei diritti che devono essere riconosciuti e rispettati da tutti, soprattutto se si tratta di diritti vitali come quello a bere acqua che non sia piovana e il diritto all’assistenza sanitaria. Tutti gli operatori dell’AIFO in ogni parte del mondo condividono questo obiettivo. Ha parlato anche il coordinatore del gruppo, che ha presentato uno a uno i ballerini: erano tutti non udenti e prima di entrare a far parte di African Footprints il loro handicap era ulteriormente aggravato dalla situazione di marginalità sociale in cui si trovavano. Li abbiamo salutati agitando in aria le mani, anziché applaudire. Il coordinatore ha ripetuto più volte la parola bridge, per spiegare che questi giovani africani sono un ponte tra quella che noi chiamiamo diversità e la più rassicurante normalità. Perché smettiamo di pensare che chi ha un deficit fisico non possa avere comunque talento o capacità artistiche. Perché, in fondo, handicap è anche quello che noi etichettiamo come tale. Si è conclusa così una serata che sicuramente ha lasciato un segno, un’impronta (footprint…), associando la spensieratezza della musica e della danza alla riflessione seria su una realtà spesso dimenticata o sottovalutata. Non so se e quando il gruppo dell’African Footprints tornerà in Italia ma se lo farà consiglio a tutti di dedicargli una serata.
Ricordo, per concludere, che il ricavato dello spettacolo è stato devoluto alla cura dei malati di lebbra in Africa dove l’AIFO sta attualmente portando avanti 31 progetti di lotta alla malattia e di riabilitazione.

AIFO – Associazione Italiana Amici di Raoul Follereau, via Borselli 4-6, 40135 Bologna, tel. 051/43.34.02, fax  051/43.40.46, sito web: www.aifo.it.

 

Autonomia=rispetto=fiducia

Uno spazio, questo, dedicato al “progetto di vita”, a tutto quanto ha a che fare, o può avere a che fare, con la creazione di un integrato progetto di crescita e costruzione della vita di una persona. Molti sono i punti di vista dai quali guardare questo tema, oggi così in voga. Tante prospettive e tanti pareri si offrono alla discussione, talvolta anche contrastanti e in disaccordo tra loro; qui intendiamo guardare, attraverso l’esperienza dell’Associazione Abc Liguria (Associazione bambini cerebrolesi) e dell’Associazione Dopodomani Onlus, alla delicata questione dell’autonomia.
Così scrive Giorgio Genta, presidente dell’Associazione Abc Liguria:
Genta: Dopo aver amato, seguito e accudito per tanti anni i loro figli disabili gravi fin dalla nascita, molte delle nostre famiglie si interrogano su quale significato abbia il termine “autonomia” per i loro ragazzi. Vista dall’esterno la questione parrebbe superflua, irreale, una domanda priva di senso. Ma non è così.
Cosa significa per le persone “senza disabilità” il termine autonomia? Fare “da soli”, fare più o meno quello che si desidera, scegliere liberamente, poter disporre di sé? Probabilmente tutte queste cose. Per una persona, per un ragazzo con disabilità grave, talmente disabile da non riuscire talvolta neppure a respirare “da solo”, il termine cambia un po’ di significato ma non perde di importanza.
Crediamo, e soprattutto lo credono i nostri ragazzi, che senza autonomia sia molto meno bello vivere, che si possa avere lo stesso delle forme di autonomia anche se non si riesce a parlare, a muoversi, a nutrirsi da soli. Autonomia per loro significa poter scegliere in libertà con chi comunicare (non importa se con gli occhi, con le mani, con qualsiasi ausilio), con quali indumenti essere vestiti, quale programma televisivo guardare o quale musica ascoltare, dove voler essere portati (in un bel centro commerciale in un’ora di massima affluenza per gli acquisti di Natale!), magari provare l’ebbrezza di un week-end senza i genitori, e anche se l’assistenza sarà un po’ meno puntuale ci sarà una ventata di novità!
Riflessione pubblicata in formula più estesa su diversi periodici e siti web, tra cui Superabile.it e Disabili.com, che ha trovato un’immediata risposta, a sua volta pubblicata su Superabile.it, di Claudio Imprudente che ha ulteriormente allargato il concetto dell’autonomia della persona, per metterla in relazione alla comunità all’interno della quale questa è inserita.
Imprudente: Anche a me, visto dai più come una persona per nulla autonoma, viene chiesto spesso cosa significhi l’autonomia. Rispondo un po’ tutte quelle piccole cose che acquistano grandissimo significato, sottolineate da Genta, ma dico anche che per me l’autonomia è vivere nella collettività. Il mio essere integrato in una società per me significa sviluppare, e mettere al servizio di tutti, le mie potenzialità e le mie abilità… Convivere in questo modo, in un mondo nel quale le risorse di tutti sono a disposizione di tutti, significa anche porsi gli uni di fronte gli altri come persone autonome, seppur non lo si è in molte funzioni vitali e quotidiane.
Imprudente, sulla scia dei ragionamenti portati avanti da Genta, va oltre e allarga la riflessione al tema tanto nominato e tanto urgente del “dopo di noi”. Così prosegue il breve carteggio:
Genta: Piccole cose dal grande significato. In una proiezione extrafamigliare, pensando a quando i genitori non ci saranno più o non saranno più in grado di fornire da soli l’assistenza necessaria, per i nostri ragazzi cresciuti e ormai adulti a tutti gli effetti, la migliore prospettiva possibile è l’integrazione in un dopo-di-noi a dimensione umana o in una casa-famiglia: in questa situazione il concetto di autonomia si evolve ulteriormente e assume particolare importanza la fase di preparazione.
In questa fase, che può e dovrebbe durare molti mesi o anche in certi casi qualche anno, sarà fondamentale il formarsi di un consolidato rapporto tra operatori e ospiti, al fine di permettere ai primi di recepire e comprendere pienamente pensieri e desideri dei secondi, in qualsiasi modo vengano espressi; questo non significa, come per ogni altra persona, che i pensieri vengano sempre condivisi e i desideri sempre esauditi, significa semplicemente che lo saranno per quanto possibile.
Non quindi un disabile grave in una carrozzina spostato come un pacco, parcheggiato come un’automobile, accudito come un animale domestico, ma una persona nella pienezza di dignità, diritti e aspirazioni. Con la fantasia che ha permesso alle nostre famiglie di sognare un domani migliore per i loro figli “senza domani” e qualche volta di realizzarlo, potremmo pensare che scrivendo la costituzione americana il lontano legislatore abbia pensato a loro, prevedendo tra i diritti costituzionali quello alla felicità.
Imprudente: Genta va ancora oltre perché pensa al “dopo di noi”, tema ormai importante e sempre più messo alla nostra attenzione. Dalle parole del presidente Abc Liguria emerge la preoccupazione dei molti genitori che arrivano a un momento della loro vita in cui si chiedono quale sia il futuro dei loro figli: situazioni talmente dipendenti dalle cure e dall’assistenza delle famiglie devono trovare una “sistemazione” per quando la famiglia non possa più essere in grado di essere così fattivamente presente. In quel momento, dove sta l’autonomia del figlio diventato adulto a tutti gli effetti? Ma soprattutto, quale il ruolo fondamentale della famiglia che prepara nel ragazzo questa autonomia? Mi permetto di trovare una risposta io: fondamentale! E qui acquista un significato diverso e ulteriore quell’autonomia di gesti e scelte piccolissime. Diventa un’autonomia che la famiglia stessa, giorno dopo giorno, insegna e prepara per il ragazzo che da loro dipende così strettamente; diventa un tagliare quel cordone ombelicale, così vitale, per inserire il figlio in quella collettività che lo accoglie e nella quale deve prepararsi a vivere. Questa è quella diversa sfumatura e accezione di autonomia che chiama in causa il disabile in primis, ma anche quella rete di relazioni, composta da persone, che lo circonda e lo sostiene.
Chiediamo a Genta di approfondire questa esperienza di “dopo di noi”, per guardarla nei fatti, nel concreto di un progetto che si sta realizzando, sta prendendo forma, entrando a far parte della vita di molti ragazzi e di molte delle loro famiglie.  
Genta: Sull’autonomia fuori della famiglia, anche per i gravissimi, abbiamo costruito la “nostra idea” di un dopo-di-noi particolarmente dedicato ai disabili motori gravi, una struttura residenziale aperta sul territorio, integrata in un centro studi per le esigenze e le aspirazioni delle persone con disabilità; abbiamo collocato il tutto in una grande villa con attorno un bellissimo parco, in un contesto sociale dinamico e partecipe.
Un sogno? Certo, anche un sogno, ma oggi vicino alla realtà: c’è la villa, c’è il parco, c’è la volontà. Il resto verrà. E verrà presto se sapremo coinvolgere la comunità che è intorno a noi.
In questo dopo-di-noi gli ospiti saranno dunque “autonomi” nel senso che abbiamo detto, ma questa “autonomia”, della quale conosciamo così bene il fascino, è un qualcosa di magico che scende dal cielo o è il frutto di una lunga fatica terrena? E soprattutto su cosa si basa e come la si costruisce? Secondo le nostre famiglie si basa e si costruisce sul rispetto.
Rispetto della persona umana, delle sue decisioni, piccole o grandi che siano.
Rispetto che va “usato” fin dalla più tenera età, e che cresce con l’età anagrafica, ed è materia prima per formare la fiducia in se stessi.
Molte di queste nostre famiglie hanno seguito per anni una metodica riabilitativa precoce, intensiva e domiciliare: questa metodica aveva, come tutte, difetti e pregi: il più grande dei pregi era il fatto di essere costruita sul rispetto e sulla fiducia nei nostri ragazzi e questi ragazzi (almeno alcuni di loro) facevano cose incredibili. Oggi le metodiche riabilitative godono scarsa considerazione tra gli addetti ai lavori: speriamo ne goda di più il rispetto per l’autonomia della persona disabile e della sua famiglia, anche quando questa autonomia porta a scelte divergenti da quelle dei professionisti.

 

Giorgio Genta, presidente dell’Associazione Abc Liguria e dell’Associazione Dopodomani Onlus
Claudio Imprudente, presidente dell’Associazione Centro Documentazione Handicap Bologna

Una “questione” di tempo

“Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”. Questa frase di Kant riassume il pensiero illuminista e laico della filosofia moderna. Il pensatore tedesco invita a trattare ogni persona umana come fine in se stesso, come degna di attenzione e di cura. Kant è forse il più grande pensatore laico; egli costruisce la sua visione del mondo e la sua morale cercando di attingere alla forza della ragione umana pura, e lascia in secondo piano le questioni teologiche sull’esistenza di Dio e sull’immortalità dell’anima. L’uomo è fine in se stesso, non solo in quanto creatura di Dio, ma soprattutto in quanto persona che non può mai essere piegata agli scopi di altri esseri. Ma da quando si può parlare di “persona”? Da quando l’uomo comincia a essere tale? Tutti i medici iniziano a contare i giorni della gravidanza dal momento del concepimento; e questa non è una questione di fede, non vengono chiamate in causa le credenze del singolo ginecologo. L’embrione viene considerato un essere vivente in crescita, come mostra l’etimologia, dal greco èmbryon, participio del verbo èmbryo, che significa “crescere dentro”. Appunto: in crescita, ma già vivente. Vale la pena spendere qualche parola sulla questione sollevata dal filosofo Emanuele Severino, secondo cui l’embrione non è un uomo, perché non lo è in atto e non è corretto neppure definirlo tale in potenza, data la contraddittorietà di questo concetto aristotelico. Tuttavia, come osserva giustamente il filosofo Enrico Berti, l’embrione umano non può svilupparsi come gatto o locomotiva: diventerà necessariamente uomo. Severino ha ribattuto alla critica affermando che, nel suo articolo, intendeva dire non che un embrione umano può essere in potenza un non uomo, ma che come ogni potenza ha in sé gli opposti, in questo caso uomo vivo-uomo morto. È a tutti evidente che, posta la questione in questi termini, ogni uomo vivo è potenzialmente morto. Anzi, diverrà necessariamente, presto o tardi, uomo morto, proprio per la sua stessa natura umana: è soltanto una questione di tempo. La potenza è degli opposti, ma questo significa, come dice Aristotele stesso nella Metafisica, che i due opposti non si possono attualizzare contemporaneamente, ma nulla vieta che divengano in atto uno dopo l’altro, come è appunto il caso della vita e della morte nell’uomo. In conclusione, dal momento che l’embrione umano non può svilupparsi altrimenti che come uomo, vivo o morto che sia, e non come gatto o locomotiva, esso sarà necessariamente uomo. Questa sembra essere diventata una questione fra cattolici e laici, invece è semplicemente una questione logica, con riscontri oggettivi e non legati a un credo religioso. Anche i non credenti non possono togliere valore alla vita né dire quando essa comincia, anche perché gli stessi scienziati sono divisi sulla data fatidica: questo dimostra una certa arbitrarietà per coloro che vogliono trovare una data fittizia, stabilita in laboratorio, da un certo mese in poi. L’unico punto fermo è che la vita ha inizio nel momento del concepimento: questo è il solo dato certo. Se non si ammettesse ciò, la vita tornerebbe a essere vista, come nel Medioevo, alla stregua di una sorta di soffio vitale infuso dall’alto, in un momento non precisato. Fortunatamente la biologia e la medicina hanno fatto passi da gigante, giungendo a scoprire che la vita fa parte già di quelle minuscole cellule che formano l’embrione fin dal preciso istante del concepimento: esse contengono tutte le informazioni che il DNA umano fornisce sull’individuo cui appartiene. Come chiamare allora qualcosa che ha in sé tutte le informazioni, le coordinate necessarie per essere uomo, e che è già vivo? Quale criterio fittizio potrebbe stabilire il momento in cui la vita, che verrebbe a essere una sorta di magica illuminazione, entra in un embrione? Per quale via? E soprattutto, con quale autorità qualcuno potrebbe prendersi la responsabilità di pronunciarsi su questo? La scienza e i dati empirici di certo sono più affidabili di queste supposizioni astratte: è stato provato che, a differenza di quanto si pensava fino a qualche tempo fa, l’embrione è in grado di provare dolore e di rapportarsi con la madre, già nella prima settimana dal concepimento. Inoltre il concetto di uomo è spesso criticato, nella filosofia contemporanea, anche quando si tratta di individui adulti: alcuni filosofi sono arrivati a dire che un soggetto in coma, o privato degli arti o di alcune facoltà sensoriali o mentali non è (più) un uomo. A maggior ragione, l’arbitrarietà e il relativismo in materia di embrioni, che hanno le loro caratteristiche umane meno in evidenza, sarà portato all’estremo. Proprio per questo è necessario stabilire dove stia la verità. Nel nostro caso siamo fortunati, perché è proprio l’empirìa a fornirci una verità certa e scientificamente osservabile e provata, grazie ai progressi delle moderne scienze biologiche e mediche e degli strumenti a nostra disposizione. Quest’ultima osservazione rende evidente il fatto che non si tratta di una discussione fra fede e ragione, fra laici e credenti, ma si tratta di una questione oggettiva.
Proprio in nome del progresso scientifico si cerca di giustificare la ricerca sugli embrioni, per ottenere cellule staminali che servano per curare determinate patologie. Ma ciò significa sacrificare la vita di alcuni uomini per tentare di salvarne altre, che hanno già avuto la possibilità di vivere. Certi uomini, quelli che non possono opporsi né protestare, vengono così ridotti a pezzi di ricambio, a essere un oggetto di studio, un mezzo, e non un fine, come ogni individuo dovrebbe essere considerato. Si rischia di portare a termine quello che era il folle sogno del nazismo, oggi demonizzato da tutti a parole, ma non nei fatti: questi embrioni possono essere selezionati e scelti per le loro caratteristiche come a un supermercato dell’uomo perfetto, che più si avvicina ai canoni della bellezza esteriore e della efficienza produttiva. Ma la varietà della specie è la sua ricchezza e la sua possibilità di sopravvivenza.
Io sono una persona disabile e molte volte vengo chiamato a parlare della sofferenza, ma la prima cosa che dico è: “Chi ha detto che io soffro?” Quando bevo un bicchiere di buon vino sono felice, quando parlo con una bella ragazza sono felice, quando vedo la mia squadra del cuore vincere sono felice. Certo che quando ho male da qualche parte soffro, ma è una sofferenza comune a tutti gli uomini. Anche questa è una questione di tempo: c’è un tempo per gioire e uno per soffrire. Anche selezionando embrioni perfetti, chi dice che saranno uomini felici? Non è certo una selezione praticata arbitrariamente in un laboratorio a stabilire cosa dia la felicità.    

I. Kant, Fondazione della metafisica dei costumi, Bari, Universale Laterza, 1980, p. 61.

Negli articoli apparsi sul “Corriere della Sera” del 1/12/2004 e del 6/01/2005.

A Roma si aggira uno Yeti che abbatte le barriere (e si rifugia in una libreria)

È decisamente lo Yeti più accogliente che si possa immaginare: libreria, bar-caffè e postazioni Internet in due locali costruiti e arredati in modo da abbattere qualsiasi tipo di barriera architettonica.
Veramente accogliente e caloroso, “lo Yeti” è un posto speciale, è un luogo dove chiunque, felice di trascorrerci ore da adulto, avrebbe voluto passare anche i suoi pomeriggi bambini, o almeno io me lo sarei augurato.
Ha caratteristiche di accessibilità che sono state pensate e progettate sin dall’inizio della ristrutturazione dei locali di un vecchio “Vini e olio” del quartiere romano del Pigneto: sportelli che si aprono completamente, spazi tra i tavoli, la cucina disposta con adeguati disimpegni, la possibilità di muoversi agevolmente davanti agli scaffali dei libri e dietro il bancone del bar rende la struttura interamente accessibile a ogni tipo di visitatore (anche ad anziani, genitori con passeggino, viaggiatori con ingombranti zaini e valige, ecc.) e al personale che si muove con una sedia a rotelle. Infatti la Cooperativa Integrata “Libera… mente”, che gestisce “lo Yeti”, ha tra i suoi soci fondatori Daniele Lauri che dal 1991 usa e si sposta con una carrozzina. Dall’esperienza comune di un collettivo di amici che nel 2001 gestisce un campeggio in Sardegna e deve inventare come rendere fruibili e accessibili tutte le sue zone (spiaggia, bar, bagni, percorsi, ecc.) nasce l’idea di costituirsi in cooperativa integrata – 5 soci con diversi ruoli e tempi d’impegno – e di sperimentare anche al proprio interno, su di sè, sul proprio deficit – potrei chiamarla una “auto-rilevazione” – come rendere uno spazio architettonicamente ideale per un’accoglienza che in qualche modo incontri lo specifico culturale e la propria vita.
Ma a questo punto si incontrano, non facili da abbattere, le barriere legislative e burocratiche.
E ce ne sono ancora tante!
Nel 2005 in Italia, a Roma, appena passato l’anno europeo del “disabile”, ci troviamo di fronte a un paradosso difficile da credere: la rampa, bellissima e discreta, che permette ai visitatori con problemi di mobilità e permette a Daniele Lauri di accedere ai locali in piena autonomia personale e lavorativa, viene bollata e considerata dagli “esperti” come “un manufatto a servizio della propria attività commerciale” e per questo deve essere abbattuta (lei!, la rampa!), multata dai Vigili Urbani ed essere sostituita con una pedana mobile da rientrare ogni sera; evidentemente non si tiene in alcun conto il valore e il significato di avere un ausilio (la rampa) indispensabile per l’autonomia lavorativa, che può essere gestito senza necessità d’aiuto da chi si muove in carrozzina. “Se devo essere aiutato e assistito a sistemare dentro e fuori ogni giorno la pedana, allora avrò sempre bisogno di una persona”, spiega cinicamente Daniele Lauri. Per fortuna ciò non è ancora successo ma certamente da questa immagine emerge la difficoltà a trovare una mediazione istituzionale che superi un’eventuale carenza legislativa, si esalta una difficoltà che nega la ricerca di un ponte tra l’impossibilità di modificare il suolo pubblico e la necessità di farlo, per garantire, e non solo a parole, anche la possibilità di un inserimento professionale e sociale.
Cosa succede se l’Ufficio Tecnico si impunta? Come scriveva Roland Barthes nei Miti d’oggi: “Vedere qualcuno non vedere è il modo migliore per vedere intensamente ciò che egli non vede: così al teatro di marionette sono i bambini che suggeriscono a Guignol quello che lui finge di non vedere”. Che fare se l’istituzione municipale non sta al passo con un quartiere che al contrario è sensibile per “istinto”? Già, il Pigneto, tra la popolare via Prenestina e l’antica via Casilina. Un quartiere particolare, a Roma, che sta diventando di tendenza anche per la sua popolazione eterogenea: universitari fuori sede, immigrazione di seconda generazione, giovani coppie e vecchi romani di e dalla lunga memoria. È in questo contesto che la libreria-caffè “lo Yeti” è diventata punto di aggregazione per tutti gli abitanti del quartiere, pulsioni vitali che si sono consolidate in questi quasi due anni di apertura, testimoniate anche dai numerosi ragazzini che la frequentano. Due sono le postazioni per l’uso del computer da cui si può, con contributo minimo, navigare sulla rete.
Nella sala lettura si possono leggere riviste, quotidiani e fumetti bevendo e mangiando comodamente a colazione o all’aperitivo, all’ora del the o al brunch. La proposta gastronomica va dalla tradizione mediterranea – salumi e formaggi, cous-cous, tapas, hommus – sino al salmone islandese, e ancora ottima pasticceria e scelta di vini. Tutti i prodotti sono di cooperative e agriturismi che ne certificano la qualità e la provenienza da agricolture biologiche.
La libreria invece dedica un’attenzione particolare alle produzioni indipendenti e alla piccola editoria, con una sezione dedicata al fumetto d’autore e un catalogo indirizzato in particolare alla letteratura per l’infanzia, la didattica e gli ausili pedagogici. Sempre in movimento la libreria propone e ospita numerose iniziative, possiamo trovare presentazioni di libri, spesso abbinate a dei dj-set dal vivo e la possibilità per piccole case editrici e per giovani, e vecchi, autori di presentare le proprie produzioni. Inoltre, insieme ad altre organizzazioni del quartiere, organizza eventi di strada che coinvolgono centinaia di persone: reading di poesie, performance teatrali, concerti, lezioni di tango che portano la festa e i libri per strada.
Accessibile in tutti gli spazi, anche in quello più misterioso e nascosto del portafoglio, dato che tutto è a prezzi bassi, c’è la possibilità per chi si muove in carrozzina di lasciare l’auto, munita di contrassegno, ai margini dell’isola pedonale del Pigneto che vi porterà direttamente a “lo Yeti”, uno Yeti di sapore nordeuropeo, unico nel suo genere mitologico che si trova improvvisamente (pieno) in surplus di calore che distribuisce a tutti noi dalle ore 10 alle 23 di tutti i giorni, tranne il lunedì che è chiuso.

Libreria-Caffè “lo Yeti”
Quartiere Vigneto, via Perugina 4, Roma
Tel/fax  06/702.56.33
e-mail: info@loyeti.org
sito web: www.loyeti.org

Azzurra Ciani: “La famiglia deve essere un punto d’appoggio”

È stato quasi un triangolo: Azzurra Ciani infatti la incontro sul luogo del suo secondo, grande amore, l’Accademia di Belle Arti a Bologna , ma è per ragionare soprattutto del “rivale” invincibile, ovvero della passione sportiva.

Un viso e un parlare radioso; sembra ovvio che Azzurra Ciani parta riflettendo sulla gioia.
“La mia felicità, giorno per giorno, dipende dal trovare qualcosa che posso fare (e so di avere una gamma molto ampia) o che riesco a conquistare; senza piangere su quel che non mi è concesso. Su questa strada, la mia famiglia è stato un punto di appoggio; lo sottolineo perché non è scontato. Non è facile: fino alle scuole medie ero a Modigliana, 5mila abitanti, conoscevo tutti e viceversa. Ma alle superiori è stato diverso: anche da parte mia all’inizio prevaleva la paura di far vedere i miei punti di forza e quelli deboli, insomma io non parlavo di me e i miei coetanei non chiedevano; poi ho verificato che la franchezza non fa male e che la ricerca di una mediazione è sempre possibile. Da allora, dopo 7 anni cioè, mi restano due amiche grandi, con le quali è scattata la voglia reciproca di approfondire. Ma adesso riscopro anche compagne/i: ci ritroviamo diversi da quello che si era immaginato. Avevo timori arrivando in Accademia, invece è stato semplice, da subito: forse siamo più grandi, o forse questo è un ambiente più aperto, con meno paure”.

Anche se l’Accademia è un micro-cosmo più disponibile al confronto, non credi che forse sia in corso un cambiamento graduale in tutta la società?
“Di sicuro negli ultimi anni le cose vanno meglio un po’ ovunque, si parla più delle persone disabili; anche se resta molto da fare. La elezione di Pancalli a vice-presidente del Coni è importantissima, del resto lui ha aiutato già a cambiare molto. Eppure succedono ancora cose stupide e tristi. Mi domando perché una medaglia d’oro per il Coni vale 130mila euro e quella di un disabile 12mila. Vorrei che qualcuno mi spiegasse se valiamo 90 volte di meno. Ovviamente non mi interessano i 100 mila euro, ma il riconoscere chi dedica la vita a una passione e comunque porta gloria a un Paese come altri campioni dello sport. Sono tante le cose da chiarire”.

Quando hai incontrato lo sport e come sei arrivata a scegliere una disciplina particolare come il tiro a segno?
“All’inizio delle scuole medie avevo praticato il nuoto, poi atletica, barca a vela, un po’ di volo, lo sci sia di fondo che alpino, ma alla fine ho scelto il tiro a segno. Per questo parlo sempre della gamma di possibilità che comunque si ha anche stando in carrozzina. Nel ’99 ho provato il tiro, per gioco: è diventata un’attività agonistica che mi ha portato alle Paralimpiadi di Atene. Bisogna provare, sperimentare molto prima di decidere su cosa impegnarsi. Io ci ho messo due anni per arrivare in nazionale ma poi 4 anni per preparare un’olimpiade. I risultati mi hanno dato una mano, ero contenta anche se avevo raggiunto solo due dei tre obiettivi che mi ero fissata. Pensa che agli Europei ero l’unica donna (a 18 anni, il primo viaggio senza la famiglia) e tuttora mi muovo in uno sport quasi completamente maschile. Ho conquistato la ‘carta olimpica’ eppure speravo di più [lo dice sorridendo]. È accaduto che mi hanno abbassato lo schienale, perché in Italia mi avevano dato una classificazione diversa. Penso che sia bene spiegarlo per chi non è del settore: esiste una categoria con lo schienale e un’altra (per chi ha difficoltà con gli arti superiori) nella quale si può appoggiare l’arma su una molla. Io sono in quella che si chiama sh1 ma esistono poi tre sotto-categorie e mutando l’altezza dello schienale ovviamente anche in pedana cambia tutto. Sono valutazioni tecnico-mediche che fuori d’Italia possono essere diverse; e forse qualcosa va rivisto e migliorato per non trovarsi all’ultimo minuto, magari prima di un europeo come è capitato anche a me, a sentirsi dire che bisogna cambiare. Oltretutto nel tiro a segno la concentrazione è decisiva”.

Divertimento, fatica, vittoria o sconfitta, magari imbrogli: ti va di parlarne?
“Ricordo anni fa la tristezza nel sapere di medaglie olimpiche che furono tolte perché le disabilità risultarono inesistenti o molto esagerate. Non conosco casi del genere ma ogni tanto qualcosa di strano c’è nelle classificazioni. Anche nella sconfitta comunque si può essere sereni. Mi è capitata ad Atene qualcosa del genere: nelle qualificazioni feci 600 centri (record mondiale eguagliato), in vita mia era la prima volta. Ma in finale vuoi per l’emozione e vuoi per questioni tecniche non considerate, arrivo solo sesta. Primo il solito svedese vinci-tutto (4 medaglie d’oro su 4 alla sesta partecipazione olimpica). Alla fine della gara si avvicina e dice che gli dispiace; però io gli ho detto con grande serenità: ‘Hai gareggiato lealmente dunque non devi chiedermi scusa’. Comunque il suo era stato un pensiero gentile, l’ho apprezzato”.

Per alcune persone lo sport è tutto, per altre è importante ma c’è dell’altro. Tu ad esempio vorresti essere una professionista e lasciare perdere tutto il resto?
“È un discorso complesso. Intanto oggi molti atleti normo-dotati sono tesserati nelle società militari, perciò lì hanno stipendio e lavoro. Oggi per noi così non è. Io anche se volessi non me lo potrei permettere. E non so se lo vorrei… Nella mia vita oggi c’è tanto: il tiro a segno è al primo posto, poi viene l’Accademia, ma c’è anche la mia vita privata oltreché l’impegno dirigenziale e promozionale per lo sport. Se dovessi optare fra europei ed esami, penso che sceglierei i primi solo perché i secondi comunque li posso spostare; nel 2002 mi capitò un dilemma del genere con la maturità. Avevo già dato gli scritti e ho chiesto semplicemente di anticipare gli orali: l’ho spuntata a fatica. Ma se non fossero stati elastici, la medaglia di bronzo a squadre chi me la ridava più? E se non sono andata a Sidney è anche per colpa della burocrazia; un professore mi disse: ‘Quattro settimane sono troppe’. Ma quanto vale un’Olimpiade lui lo capisce?”.

Stare sotto i riflettori non è facile, specie quando si incontrano giornalisti interessati solo alle tinte forti. A te è capitato?
“È un campo minato, ho dovuto imparare a gestirmi, a sapere dove mi potevo fermare, a non farmi strumentalizzare. Ci sono giornalisti che non solo fanno domande personali dopo 5 minuti, ma addirittura chiedono di cure e terapie. E con quale presunzione poi… Ma stare sotto i riflettori è importante per gli sportivi, se sanno farne un buon uso. Penso alla manifestazione che abbiamo organizzato il 26 marzo a Faenza per informare sugli sport per disabili: l’oro olimpico Aldo Montano che è venuto per incontrare Andrea Pellegrini, campione alle Paralimpiadi. Ci sono tante persone che ci credono come Sara Simeoni, e ve ne sono invece che si muovono solo per soldi. Forse per questo amo tutti gli sport tranne il calcio: mi sembra che tolga spazio a tutto il resto, per tacere del fanatismo o della violenza”.

Ma quando vai a parlare nelle scuole incontri ogni tipo di mito, di immaginario sportivo: tutto il bene e tutto il male…
“È chiaro che il business pesa o che l’intreccio calcio-pubblicità crea confusione fra i ragazzi. Capisco che se dico ‘l’importante è partecipare’ molti possono non crederci. Per chi è disabile questo è un guaio in più: perché il calcio è forse l’unico sport che non possiamo fare. Invece ci sono tante discipline ma se ne parla poco; se non si ha una famiglia determinata o un ambiente forte intorno si resta fuori. A fatica la tv lascia un po’ di spazio anche alle Paralimpiadi ma in orari da casalinghe non da ragazzini. Sì, ci vorrebbe un’informazione più intelligente”.

Giorgio Camorani: “Faticare insieme favorisce il rispetto”

Nell’ottobre 1985 Giorgio Camorani ha solo 21 anni quando un incidente in moto gli procura una lesione al midollo che fra l’altro gli blocca per sempre l’uso delle gambe.

“Giocavo a rugby fin da ragazzino, ero bravo: ho sempre avuto passione per lo sport e mi è rimasta. Ho scoperto che due ragazzi in carrozzina avevano un piccolo spazio in una palestra di Imola e ho iniziato così a giocare a basket. Poi ho saputo che a Forlì c’è una squadra e ho iniziato ad allenarmi: ovviamente avevo una buona autonomia, macchina compresa. Inizia così la mia carriera cestistica che prosegue a Savignano sul Rubicone e a Rimini”.

Il tuo passaggio all’atletica come avviene?
“Avevo seri problemi alle anche e due operazioni mi hanno bloccato per oltre un anno. Nel frattempo il Rimini-basket non c’era più. Così ho provato l’atletica: da solo però, perché a Imola non esisteva qualcosa… Mi sono preso una carrozzina da corsa e ogni domenica andavo in giro; all’epoca in tutta l’Emilia Romagna di gare c’era poco o nulla. All’inizio mi allenava quello che è l’attuale vice-sindaco di Imola. Ho indossato i colori dell’ Atletica Imola Sacmi Avis che si è affiliata alla Fisd (Federazione italiana sport disabili) proprio per farmi gareggiare. Siamo nel ’94. Mi sono specializzato nella maratona, anche se  per divertirmi faccio quasi tutte le gare, su pista e non. Ci sono tanti praticanti (soprattutto alla mezza maratona) come me. Forse ora la partecipazione è un po’ in calo a vantaggio dell’handy-byke che è più una bici. Per fare le gare indosso guanti particolari, li ho creati su consiglio di Francesca Porcellato, campionessa del mondo di maratona”.

Sei arrivato quasi ai vertici agonistici, poi hai preferito diminuire l’impegno.
“A livello europeo ho partecipato anche alla maratona di Berlino e ai campionati europei; a livello italiano sono arrivato primo nei 10mila in pista. Da un paio d’anni ho un po’ ridotto: prima mi allenavo anche per 20-30 chilometri al giorno, ora molto meno, però continuo ad allenarmi con Davide, un ragazzo che abita a Loiano al quale ho insegnato quel che so e ho dato una mia carrozzina da corsa e lui ora comincia ad andare forte. L’atletica per me resta una passione ma anche fonte di benessere. Ora ho ripreso il basket. Una volta alla settimana avevamo preso ad allenarci in 2 o 3, poi in 6 o più; ora due volte alla settimana abbiamo tutta la palestra per noi… Anche se eravamo una decina mancavano i presupposti tecnici, di impegno oltreché economici per fare un campionato; abbiamo chiesto all’ospedale di Montecatone di aiutarci per il campionato”.

Per quel che riguarda Montecatone quest’impegno sportivo è una svolta che va anche oltre il basket?
“Secondo me in passato c’era a Montecatone scarsa attenzione all’autonomia e un’esagerata fiducia negli apparati tecnici; ora la linea è cambiata e dunque lo sport ha un ruolo di rilievo anche con piscina e tennis. Penso che questa sia la strada giusta. Sto dando una mano al basket e da lì è nato il discorso del campionato: il primo anno abbiamo provato a livello regionale, con 6 partite. Qualche altra partita dimostrativa, poi l’anno scorso la serie B. Mi piace molto il basket, ma è anche un modo per far muovere le troppe persone ‘ferme’. Io credo che lo sport, oltre a far bene fisicamente, sia integrante, socializzante soprattutto per chi deve iniziare una nuova vita dopo un incidente. Faticare insieme favorisce il rispetto. Nella squadra di basket abbiamo anche persone trasferite qui per fidanzamenti; un bel gruppo e siamo gli unici che, finita la partita, restano tutti seduti sulle carrozzine… Il regolamento dice che nel quintetto potrebbe giocare un normo-dotato, per me non è giusto. Nello sport ad alto livello di paraplegici ce ne sono pochi, rispetto agli amputati”.

Come vedi il tuo futuro agonistico? E ti sembra che il movimento sportivo italiano si sia messo alla pari con gli altri Paesi o resti indietro?
“Io spero che attraverso la fondazione di Montecatone, con le cooperative e le società sportive di Imola a farci da sponsor, si possa continuare con il basket. È importante che il movimento non si fermi. Per quel che conosco, mi pare che all’estero, dal punto di vista sportivo, vada un po’ meglio. È chiaro che lo sport, soprattutto di squadra, ha bisogno di strutture e di aiuti. Eppure anche sulla nostra fatica c’è chi – credo pochi – vuole speculare: mi spiace dirlo ma è la mia impressione. Poi esiste troppa frantumazione: perché, ad esempio, così tante società a Bologna?”.

L’informazione gioca un ruolo positivo? E comunque esistono aspetti negativi nel vostro sport?
“Per come la vedo io qui la gente è informata. Quando giochiamo a Imola, nella palestra Cavina in via Boccaccio c’è molta gente; anche se quelli del Treviso Basket sono più bravi hanno meno tifo di noi. Cose negative? A livello dei paraplegici quasi non esiste il doping, anche perché rischieremmo molto; il nostro buco nero è il finto handicap – purtroppo a volte c’è anche quello vero – o gli imbrogli sui punteggi dati dalle commissioni mediche (che forse non ne sanno abbastanza) ma è un discorso tecnico e difficile da riassumere”.

E se questa chiacchierata finisse con le buone notizie?
“Di sicuro in questi anni sono cambiati in positivo molti degli atteggiamenti verso i disabili e di conseguenza la mentalità verso lo sport, anche se restiamo ancora un po’ indietro rispetto a Paesi tipo la Germania o l’Australia; per esempio io Berlino l’ho potuta girare davvero tutta, anche con la metropolitana e mi dicono che a Sidney è anche meglio. A livello personale non mi sento più osservato come un marziano, mentre 20 anni fa c’erano ancora giovani che neppure uscivano di casa. Vedo che a Bologna c’è il mini-basket anche per i ragazzini disabili. Nel complesso sono ottimista sull’Italia. Però ci sono ancora medici secondo i quali lo sport fa male a chi ha un deficit; io la penso all’opposto, cioè che lo sport unisca il benessere fisico all’esercizio necessario per irrobustirsi e per rafforzare l’autonomia personale”.

Silvana Valente: “lo sport incoraggia l’autonomia”

Le coppe vinte si mescolano alle conchiglie nella sua casa a Schio. È campionessa per passione e masso-fisioterapista per lavoro: il computer è appoggiato su un lettino, il telefono squilla per fissare appuntamenti, neanche l’intervista riesce a spezzare il ritmo di Silvana Valente.

Uno strepitoso curriculum sportivo, dal ’93 al 2004, eppure lei chiarisce subito: “Non amo molto parlare dei miei risultati a livello agonistico benché ho vissuto esperienze indimenticabili. Il mio obiettivo più grande è sempre stato dare il meglio di me stessa indipendentemente dai piazzamenti”.

Attualmente – cioè a 41 anni – Silvana Valente “per problemi familiari” ha ridotto notevolmente l’attività agonistica di alto livello; continua però a dedicarsi alla promozione del “Gruppo sportivo non vedenti di Vicenza”.

Dietro, una storia complessa che lei riassume così. “Dalla nascita vedo solo un po’ di luce. Penso che chi perde la vista ha più problemi rispetto a quelli che nascono così. Quando io ero piccola esistevano solo scuole speciali per i non vedenti, non c’era l’integrazione. Abitavo in un paesino e questo mi ha penalizzato: studiavo a Padova, separata dalla famiglia e queste lontananze mi hanno segnato l’infanzia e l’adolescenza. Le conoscenze e gli strumenti di oggi non erano ipotizzabili. Anche per questo forse le mamme tendono a proteggerti più che a darti l’autonomia. Non era comunque una situazione facile: anche mio fratello, più grande di tre anni, è non vedente. Ricchi non si era. Allora non esistevano neppure i corsi di mobilità come oggi”.

Quindi lo sport arrivò tardi?
“Mio padre era appassionato, ma non c’erano tradizioni sportive in famiglia; comunque fece provare i pattini a mio fratello, persino la moto, con un muro a proteggerlo di lato. Da piccola io invece ero molto concentrata sullo studio. Nella tipica solitudine della fase adolescenziale si cercano stimoli, forze, risorse: scrivevo canzoni, suonavo e cantavo in un gruppo, io alle tastiere e mio fratello alla chitarra. Poi la scelta della libera professione, quasi una scelta obbligata, ma ho capito che ero portata per essere una brava fisioterapista. Amo aggiornarmi e studiare, così come mi piace essere soddisfatta di quello che faccio e dunque lavoro, persino troppo  e a volte devo dire di no. Sì, lo sport è venuto dopo. Con gli amici dicevo: ‘Mi muovo tanto con le braccia, forse dovrei mettere in movimento anche le gambe’. Per scherzo comincio ad andare in bici: ho costruito un tandem, eravamo nel ‘90. Poi con il gruppo giovanile dell’Uic (Unione italiana ciechi) di Vicenza ho frequentato un corso per lo sci di fondo che mi appassionò tantissimo. Sentivo che mi faceva bene ma anche che mi procurava belle emozioni. Con il tempo sono diventata irriducibile, appassionatissima sino a impegnarmi tantissimo con il gruppo sportivo che ora presiedo. Non mi piace esibirmi in quello che faccio, anche nella solidarietà. Per me è ossigeno: una preghiera forse, anche se non vado a Messa credo di pregare con quel che faccio”.

Al di là dei titoli europei, olimpici o mondiali, il fare sport ti ha lasciato una sorta di felicità?
“Sì, dopo le prime esperienze sono arrivate le soddisfazioni, non mi piace la parola successi, soprattutto in bicicletta. Lo sci è più uno sfogo, infatti lì ho avuto pochi impegni agonistici. Non ho uno spirito competitivo a ogni costo ma alcune manifestazioni sportive di non vedenti mi hanno coinvolto; nel momento che dico sì a una gara allora metto tutta me stessa. Qualcuno mi chiese di arrivare alle medaglie. Risposi che non sapevo se sarei riuscita, ma ce l’avrei messa tutta. Devo comunque ringraziare di cuore chi mi ha aiutato. Per noi è essenziale avere qualcuno che vede accanto, altrimenti non potremmo allenarci neanche al livello più amatoriale. Per esempio io mi sono molto impegnata per la formazione delle guide nello sci da fondo: a oggi ci sono 50 persone solo nel vicentino a far da guide, un bel risultato. Più difficile trovare compagni nel tandem: per la responsabilità che molti temono ma forse anche per la paura di dedicare il proprio tempo ad altri. Invece secondo me è un’esperienza impagabile  per entrambi”.

Da quel che racconti sei una persona che ama essere coinvolta e ancor più forse coinvolgere.
“È vero. Ho sentito il bisogno di coinvolgere ipo-vedenti, non vedenti, volontari, perché ho capito che lo sport non solo può mettere in luce potenzialità spesso inespresse ma anche dare una ricarica psico-fisica, ritemprare la mente. Per me almeno è così: il mio stile di vita è molto salutista nel cibo come nel resto. Di fondo resto una spontanea: anche quando mi chiedono di parlare nelle scuole non mi preparo mai. È nata così anche la scelta di dedicarmi, nell’ultimo anno e mezzo, alla mountain bike: soddisfa  la mia passione verso i boschi e una natura che spero ancora incontaminata. C’è anche il brivido di sperimentarsi, come quando ho provato l’arrampicata. La mountain bike richiede molto affiatamento, con il compagno bisogna essere quasi in simbiosi: anche solo alzarsi e sedersi sui pedali nello stesso istante svela questa intesa quasi telepatica. Vorrei mettermi alla prova anche nelle escursioni però mi resta poco tempo. Alcuni miei amici hanno provato anche la vela, io sperimenterei il canottaggio… se trovassi il tempo”.

Questo tuo stato d’animo è condiviso? Oppure molte persone si tengono, o magari sono tenute, lontane dagli sport?
“Per me l’importante è stimolare i giovani (e non solo) a cercare dentro di sé le tante possibilità sepolte: per una persona diversamente abile raggiungere un alto grado di autonomia è essenziale, paradossalmente dobbiamo essere in grado di cavarcela meglio dei cosiddetti normo-dotati. Per questo vorrei dire ai genitori di incoraggiare i figli a mettersi alla prova, di aiutarli a lavorare sull’autonomia, che poi è anche auto-stima. Siamo giudicati per quello che siamo, e dunque occorre mostrare che non c’è il “poverino” da aiutare ma una persona alla pari pur con diverse qualità o limiti. A me non dà fastidio che talvolta debba chiedere aiuto, mostrando dunque i miei limiti; ma lavoro finché posso per superarli. Cavarsela da soli è importante”.

In altri tempi, ma ancora di recente, nelle famiglie italiane spesso c’era un misto di paura e vergogna se un figlio era disabile; quanto è mutata la situazione?
“Molto è cambiato. Ricordo bene quanti problemi avevo da adolescente; mi imbarazzava persino avere un orologio braille. A pesarmi era anche l’ignoranza, intendo proprio la non conoscenza, sulle persone non vedenti, che ora è diminuita, però scomparsa direi no. Bisogna puntare a creare situazioni pratiche per far capire di cosa abbiamo bisogno: se io sono in un ristorante non mi serve che qualcuno mi aiuti con coltello e forchetta; se però mi serve una descrizione dell’ambiente la chiedo. Ognuno ha la sue difficoltà: a volte chi sta troppo addosso per gentilezza ottiene l’effetto contrario”.

Ti è mai capitato di scontrarti con il “cattivo giornalismo”? Che nel caso delle persone disabili può significare persino razzismo mascherato da pietismo…
“Ho conosciuto vari tipi di strumentalizzazione, anche di uomini politici che parlano di noi ma si capisce bene che non conoscono le situazioni e non sono interessati. Ho incontrato giornalisti che si vogliono calare nei nostri panni e non ci riescono: sono come ‘golosi’ di rapporti umani e vorrebbero un dialogo a ogni costo che magari non è possibile. Una volta mi fecero una domanda sul mio privato e così il giornale poté titolare su una storia d’amore. Non fu un bel modo di comportarsi. Altre volte ho sentito che chi mi intervistava era però davvero interessato, voleva capire. Io parlo sempre volentieri con tutti, anche perché voglio sfatare l’idea che vi sia un solo ‘mondo dei non vedenti’ mentre invece esistono tante e diverse persone”.

Ora che hai interrotto l’attività agonistica a livello internazionale, puoi forse gettare uno sguardo complessivo e indicare un momento nel quale lo sport ti si è mostrato nel suo aspetto più positivo.
“Per me una sorpresa e un bel segnale d’apertura fu nel ’98 quando vinsi una medaglia d’oro a cronometro negli Europei; al ritorno trovai una grande festa del tutto inaspettata. Certo era per la medaglia d’oro ma fu anche il segno di una nuova sensibilità: magari allora molti capirono quanta energia in più (e quanta fatica nel trovare i compagni) ci vuole per noi rispetto ai normo-dotati… in ogni caso per me il piacere maggiore è nel condividere un’emozione più che il successo”.

Sembra che all’estero per le persone diversamente abili le cose vadano un po’ meglio anche nello sport; puoi confermarlo? E in Italia restano atteggiamenti ostili o sono spariti quasi del tutto?
“Certamente è così, in molti Paesi c’è una mentalità più avanzata o forse un’altra storia. Girando ho avuto anche esperienze negative, non servono viaggi per non vedenti. Amo ballare anche se forse è poco compatibile con lo sport. Però in discoteca registravo un limite come in certi ambienti (che evito) dove conta solo l’apparenza, l’effimero. Muovere il corpo al ritmo della musica mi piace però mi crea disagio farlo se avverto che le persone intorno non vogliono condividere con me questo piacere”.

La gara e il suo “doppio”

Ragionando sulla normalità dello sport con atleti disabili

1. Introduzione: rovesciare l’eccezionalità

Quando i mass media (sportivi e non) trovano lo spazio per occuparsi di persone disabili che praticano sport? In casi eccezionali o che vengono considerati tali: la titolazione gioca sull’evento straordinario anche se talvolta l’articolo è ben fatto e magari rifugge dal sensazionalismo. Quattro esempi, presi a casaccio nell’ultimo decennio, aiutano a capire meglio.

  1. “L’incredibile storia di Alberto” di Corrado Sannucci (su “la Repubblica” del 5 marzo ‘93) con questo occhiello: “Non parla, non legge, non scrive: è un autistico, ha chiuso i rapporti con il mondo. Eppure scrive” e 12 righe nel sommario dove, fra l’altro, si legge: “Viveva come un albero” oppure “Se è vero che non parla, una volta disse «basta», durante un allenamento”.
  2. “Handicappato: i miei record per protesta” di Patrizia Romagnoli (su l’Unità del 18 ottobre ‘94).
  3. “Il mondo sommerso di Matteo” di Aldo Quaglierini (su l’Unità del 21 ottobre 2004): “Milano, brevetto da sub per un ragazzo Down integrato con gli altri”.
  4. “Diversamente abile, bionico e silver medal” di Francesca Longo (su il manifesto, 29 ottobre 2004): “Premiato Stefano Lippi, un ragazzo triestino di 23 anni che corre e salta con una gamba sola (e una protesi) dopo essere stato investito da un’auto. Collabora con studiosi dell’analisi biomeccanica del passo e vuole diventare ingegnere biomedico”.

Ovviamente ci sono eccezioni. E negli ultimi anni i mass media hanno dato un certo rilievo alla cronaca quotidiana delle Paralimpiadi anche se talvolta con logiche “sensazionaliste” (del resto, come osservano gli esperti, si tratta di un difetto ormai comune a ogni argomento, dall’economia alla ricerca storiografica, perciò stupisce sino a un certo punto). Di sicuro molto è cambiato da quando un telecronista sportivo, e neppure fra i peggiori, commentò le immagini di persone diversamente abili con una frase che suonava: “E dopo questa penosa esibizione torniamo allo sport vero”.

Cambiamenti culturali che, anche in Italia, sembrano finalmente arrivati in profondità, ma lasciando comunque molte zone scoperte persino nella scuola, là dove cioè i nuovi cittadini e le nuove cittadine dovrebbero formarsi. Una storia aiuta a capire. Di recente nella civilissima Emilia Romagna alcuni genitori scoprono, parlando con i figli, che un professore della scuola media nel porta-chiavi tiene una grande lettera H e che di continuo la mostra agli studenti più lenti o più discoli minacciando “sei in gara per l’handicap d’oro”. Per la cronaca, questa triste vicenda si è conclusa con la scelta (della preside e dei genitori) di un richiamo interno al professore, il quale ha poi mutato atteggiamento; è necessario ancora “insegnare agli insegnanti” che questi atteggiamenti sono diseducativi e razzisti, e ciò la dice lunga sui ritardi della scuola. Ritardi ovviamente anche della società, se è vero, tanto per restare sull’episodio, che in passato molte famiglie erano venute a sapere della “H d’oro”  ma avevano ritenuto la cosa poco grave o comunque avevano preferito lasciar perdere.

L’idea di questo dossier è rovesciare la logica della eccezionalità per ragionare della quotidianità nel fare sport per le persone disabili. Protagonisti e interlocutori-interlocutrici sono 4 atleti (con storie molto diverse e a livelli molto differenti di pratica agonistica) e un’insegnante – ma anche formatrice, allenatrice, volontaria – che mostrano il rovescio della medaglia… rispetto alla odiosa “H d’oro” di cui sopra.

L’intento era partire dalle storie personali per poi calarsi nel bello e anche nel brutto dello sport: giocare, sudare, competere, ma ovviamente anche fare i conti con un immaginario individuale e collettivo che si alimenta di sport e a sua volta lo alimenta. Sport che fa bene e che forse fa male. Ancora: il piacere del risultato o del solo gareggiare; la fatica; la “vendetta” del vincere; il riscatto; il successo; la sconfitta; il crollo; giovani e vecchi; talenti e polli da allevamento; le regole e lo scarto; il doping; il personale e la privacy; il tifo; l’imbroglio; la lealtà; individualismo o invece sentirsi parte di una squadra; limiti di partenza e di arrivo; maschile e femminile; uso pubblico, strumentalizzazioni, simboli; dai belli e campioni, fisicamente “perfetti”, ai brutti e bloccati con le infinite varianti e combinazioni in mezzo; l’epica e l’economia; la violenza dentro e intorno gli sport; la bellezza del gesto; le Olimpiadi e le Paralimpiadi; il voyerismo di quel giornalismo che ancora parla di sportivi disabili come 150 anni fa della “donna barbuta”; trovarsi mutilati nel corpo o esserlo nel pensiero; cinema e/o letteratura e/o musica che narrano campioni e campionesse o il loro doppio; come nasce (o si smonta) la leggenda sportiva… E tanti eccetera. L’idea, preventivamente discussa con gli/le intervistati/e, era che le loro storie fossero al centro ma che si provasse a scavallare sulla galassia sport – con annessi & connessi – e su tutto quel che “ruota intorno” (canterebbe Battiato) o su quel quotidiano dove, per citare un ironico Dalla, “l’impresa eccezionale, dammi retta, è di essere normale”.

Idea piuttosto ambiziosa. Difficile da realizzare al punto che, alla fine del lavoro, sembrava di aver mosso solo i primi passi in questa direzione. Del resto anche cronache o fiction dello sport classico si riempiono di epica più che di incroci dialettici; ed è piuttosto curioso che le suggestioni più affascinanti vengano dall’esterno del mondo sportivo tradizionale (Edoardo Galeano, tanto per citare un nome).

Un sito web con giochi davvero speciali

Anche se i bambini hanno una creatività innata, e una fantasia tutta loro, quante volte gli adulti (genitori, insegnanti, educatori, animatori, ecc.) devono inventare un gioco, o cercare dei giochi, per coinvolgere i più piccoli? Il sito web “I giochi di Elio” (www.igiochidielio.it) può essere un’ottima base di partenza per trovare tanti spunti interessanti, come i giochi da tutto il mondo, i giochi delle regioni italiane, i giochi per i viaggi, i giochi per i giorni di pioggia, i giochi di espressione, di movimento, di memoria, da tavolo, a squadre, i giochi per una festa…
La sezione che più ha attirato la mia attenzione riguarda, però, i “Giochi per bambini speciali”, sezione presentata con queste parole dallo stesso Elio Giacone, ideatore e curatore del sito: “In queste pagine potrai trovare giochi per bambini speciali (non vedenti, non udenti, con limitazioni motorie…), bambini in grado di giocare con tutti gli altri purché il gioco abbia determinate caratteristiche. Queste pagine non hanno la pretesa di presentare attività specifiche legate alle differenti limitazioni, ma vogliono semplicemente proporre una serie di giochi realizzabili tutti insieme, giochi in cui le differenze tra i bambini non costituiscano uno svantaggio”. Incuriosita, ho fatto una breve chiacchierata con Elio Giacone. Ecco il risultato.
Come è nata l’idea di una sezione di giochi per “bambini speciali”? Avevi o hai esperienza con bambini disabili?
Dopo il diploma ho frequentato la scuola per educatori specializzati e ho iniziato a lavorare nelle scuole con bambini con diverse tipologie di deficit. Già allora il gioco mi interessava moltissimo (la tesi l’ho fatta sulla scoperta della Natura attraverso il gioco…), e così ho usato proprio il gioco per entrare in contatto coi bimbi e per aiutarli a comunicare con me e con gli altri. Poi, a poco a poco, il gioco ha preso il sopravvento e così il mio lavoro mi ha portato a lavorare non più solo con bimbi speciali, ma un po’ dappertutto, nelle situazioni più disparate. L’esperienza fatta in quei primi anni di lavoro mi è servita, ben mescolata con tutto ciò che ho imparato dopo, a gettare le basi della sezione di giochi per bimbi speciali.

Hai provato,  o fatto provare, effettivamente questi giochi con i bambini? Hai visto se “funzionano” davvero, se i bambini – speciali e non – si divertono tutti insieme?
Gran parte dei giochi li ho collaudati direttamente in questi anni: quelli che mi lasciavano qualche dubbio non li ho inseriti nel sito o, in pochi casi, li ho tolti. La buona riuscita di un gioco dipende da tantissimi fattori diversi, legati al gruppo di bimbi, alle dinamiche che ci sono tra loro, al modo di presentare il gioco e così via…. Il discorso vale anche, ovviamente, per i giochi proposti a bimbi disabili inseriti tra gli altri. I giochi sul sito sono scelti tra quelli che “funzionano” meglio, cercando di evitare i giochi molto semplici o molto conosciuti.

Per inventare o adattare i giochi hai consultato qualche associazione di categoria?
Prima di mettere i giochi sul sito ho cercato la collaborazione o la supervisione di associazioni di categoria reperite su Internet, ma finora non ho ricevuto molto aiuto. Tanti complimenti, tanto interesse per ciò che sto facendo, tante recensioni buone… ma niente di più. Lo stesso vale,
ad esempio, per i giochi provenienti da altri Paesi o per i giochi regionali. Forse è proprio il meccanismo di Internet, il modo consueto di usare la Rete che porta a questo poco scambio. Sto cercando di mettere nel sito le esperienze che ho fatto finora, e che sto facendo, proprio in modo da
poterle condividere con gli altri. Sono sempre molto graditi i consigli, i suggerimenti e i commenti.

Per saperne di più:
www.igiochidielio.it
elio@igiochidielio.it

2 giugno 2005: Prima Festa di Accaparlante

Farsi conoscere divertendosi. Raccogliere amici e sostenitori a suon di musica celtica. Trasmettere un messaggio accompagnato da crescentine, ciacci e pignoletto. Con questo spirito la Cooperativa Sociale Accaparlante Onlus ha celebrato il 2giugno scorso la sua Pima Fsta ufficiale nella scenografia del parco di Villa Pallavicini, a Bologna, con la fondamentale collaborazione della Polisportiva Antal Pallavicini e dei suoi volontari. L’intento della Cooperativa, nata nel 2004 su iniziativa dello “storico” gruppo di lavoro dell’associazione Centro Documentazione Handicap (CDH), è stato proprio quello di rinnovare, in modo coinvolgente, diretto e, perché no, ludico, il suo ventennale impegno nel sociale; un impegno rivolto in particolare a favorire l’emergere e il consolidarsi di una cultura della diversità in grado di valorizzare e dare adeguata visibilità alle abilità differenti di tutte le persone svantaggiate. Durante la festa si sono susseguiti infatti vari momenti di sport (inseriti nell’ambito delle Bologniadi) con atleti diversamente abili: tennis, basket, lotta-danza…Un momento clou è stato la partita di pallastrada: il gioco, ideato da Stefano Benni, è una sorta di calcetto in cui le regole sono continuamente modificate a fantasia dell’arbitro, o meglio il “Grande Bastardo”, per l’occasione rappresentato da Claudio Imprudente, presidente del CDH. Così tra un “toglietevi le scarpe” e un “giocate con le mani sulla testa”, fino a “chi colpisce un musicista della banda guadagna tre goal”, il divertimento è stato assicurato e non ha importanza chi vince e chi perde. Anche la banda, arrivata niente meno che da Lucito, ridente paesino in provincia di Campobasso, ha dato il via alla festa e compiuto allegre “incursioni” per tutta la giornata. Quel giusto tocco da sagra paesana che annulla le distanze. I momenti di intrattenimento non sono davvero mancati, complici la creatività e la voglia di divertirsi di tutti i partecipanti: clown, giocolieri, maghi e spettacoli di danza hip hop per i più giovani, “sperimentazioni” di “giochi dimenticati” con Giorgio Reali, come il gioco dei tappi in carrozzina, per poi proseguire con le affabulazioni del contafrottole bolognese Gualtiero Via e il suggestivo spettacolo dei ballerini diversabili della compagnia Lavori In Corso, in collaborazione con il CEPS – Associazione Genitori, Amici e Persone Down. Ma, come ogni festa che si rispetti, non poteva mancare l’estrazione dei biglietti vincenti della sottoscrizione interna a premi: così mentre il primo fortunato si prepara a volare a Parigi, qualcun altro volerà sull’Appennino Tosco-Emiliano ma… in mongolfiera! Altri riceveranno cesti ricchi di prodotti equo-solidali o libri della casa editrice Erickson, che si occupa della stampa della rivista della Cooperativa, “HP-Accaparlante”. Il ricavato della vendita dei biglietti supporterà il laboratorio di creatività ludico-sportiva A. Fazzioli e il Progetto Calamaio per incontri di formazione e sensibilizzazione nelle scuole condotti da animatori diversabili. Una menzione merita anche l’enogastronomia della festa, in particolare l’angolo degli assaggi, che ha proposto dolci tipici e aperitivi sfiziosi accompagnati da un buon bicchiere di vino e quello dedicato ai sapori montanari con ciacci (piadine fatte di farina di castagne con ripieno di ricotta) e frittelle di castagne.
La serata si è conclusa con due concerti: i Fiddler’s Elbow  con la loro vibrante musica irlandese hanno calamitato l’attenzione di tutti e spinto anche i più restii ad accennare qualche passo di danza. È seguito il repertorio coinvolgente e intensamente interpretato dal gruppo Ma Dai, collegato all’associazione musicale Pokart.
Soddisfatti gli organizzatori e le molte realtà del Terzo settore presenti con i loro banchetti (AIFO, Borgomondo, CEPS, EMI, Campi d’arte, AITA) nella speranza che questa festa, patrocinata da Quartiere, Comune, Provincia e CSI, diventi un appuntamento annuale per tutti gli amici di Accaparlante e un ponte verso la creazione di sinergie sempre più forti tra le varie associazioni che operano nel sociale, non solo a Bologna.
Al prossimo anno!

Una Costituzione poco robusta? La disabilità nella Costituzione Europea

Dopo la batosta subita nei referendum ravvicinati in Francia (29 maggio) e Olanda (1° giugno), sulla Costituzione Europea si è accentrata un’attenzione anche superiore a quella dedicata in occasione della firma, avvenuta a Roma il 29 ottobre 2004. Le bocciature popolari hanno fatto rallentare i tempi previsti di ratifica ben oltre il termine iniziale del novembre 2006, sollevando molte perplessità sul futuro dell’integrazione europea. Il voto sulla Costituzione, come ormai acclarato specie per il caso francese, è infatti rimasto schiacciato tra le opposte tenaglie dell’anti-liberismo e del neo-conservatorismo, dell’europeismo “spinto” e del nazionalismo tradizionale, insomma tra il “troppo” e il “troppo poco”. Inevitabilmente, questo esito fa venire i nodi al pettine anche per quanto riguarda le politiche sulla disabilità proposte sinora dall’Unione, con tutta la loro evoluzione nei decenni.

La difficile conquista di visibilità
Nei trattati di Roma, siglati nel 1957, non si parla mai espressamente di disabilità. Comprensibile, nel contesto socio-politico degli anni ’50, ma 35 anni dopo nemmeno il trattato di Maastricht fa menzione del tema. Per quattro decenni la disabilità è rimasta solo una possibile declinazione delle competenze comunitarie in materia di politiche sociali, per di più sussidiarie a quelle economiche. Solo nel 1997, con il trattato di Amsterdam, viene prevista una competenza del Consiglio nella lotta alle “discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”. Il trattato di Nizza del 2001 conferma questa formulazione, estendendo alle relative azioni di incentivazione la procedura di voto a maggioranza qualificata del Consiglio, senza richiedere più l’unanimità.
Il trattato di Amsterdam contiene anche la dichiarazione finale n. 22, secondo cui si conviene che “nell’elaborazione di misure a norma dell’articolo 95 del trattato che istituisce la Comunità europea [relative all’armonizzazione del mercato interno], le istituzioni della Comunità tengano conto delle esigenze dei portatori di handicap”. Ma una piena considerazione delle esigenze delle persone disabili nei documenti fondativi dell’Unione si ha solo nella Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, sottoscritta a Nizza il 7 dicembre 2000. L’articolo 26, esplicitamente intitolato “Inserimento dei disabili”, proclama: “L’Unione riconosce e rispetta il diritto dei disabili di beneficiare di misure intese a garantirne l’autonomia, l’inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità”. Tale articolo, insieme al 21 sulla non-discriminazione, viene riportato tale e quale nella parte seconda della nuova Costituzione, che però lo tramuta da mera indicazione politica a norma con valore legale, contro le cui violazioni sarà possibile ricorrere alla Corte Europea di Giustizia.

Verso una promozione diretta dei diritti
L’articolo appena citato ha una formulazione piuttosto debole: l’UE “riconosce e rispetta” un diritto all’integrazione che non promuove direttamente, e che dunque si presume sia da altri garantito. Per vedere le istituzioni europee protagoniste occorre passare alla parte terza della Costituzione, dove l’art. 124 stabilisce che “una legge o una legge quadro europea del Consiglio può stabilire le misure necessarie per combattere le discriminazioni fondate sul sesso, la razza o l’origine etnica, la religione o le convinzioni personali, la disabilità, l’età o l’orientamento sessuale”. Null’altro che l’articolo anti-discriminazione del trattato di Amsterdam, in cui però si parlava vagamente di “provvedimenti opportuni” e non di una normativa organica. Su questi temi, tuttavia, “il Consiglio delibera all’unanimità”, restando al palo rispetto al sistema di maggioranza qualificata che proprio la nuova Costituzione propone ed estende a molti ambiti. Questo pare comunque il primo riferimento esplicito a una politica attiva dell’Unione contro la discriminazione, in un quadro di documenti fondamentali in cui lo specifico della disabilità ha molto stentato a entrare.
La Costituzione non prevede molto di più in materia di disabilità, e un riferimento fondamentale per capire le politiche della nuova Unione rimane la Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, adottata nell’ormai lontano 1989 (con la vistosa defezione del Regno Unito). Il punto 26 della cosiddetta Carta Sociale proclama: “Ogni persona handicappata, a prescindere dall’origine e dalla natura dell’handicap, deve poter beneficiare di concrete misure aggiuntive intese a favorire l’inserimento sociale e professionale. Tali misure devono riguardare la formazione professionale, l’ergonomia, l’accessibilità, la mobilità, i mezzi di trasporto e l’alloggio, e devono essere in funzione delle capacità degli interessati”. Anche da qui deriva la connessione strettissima tra condizione di disabilità e orientamento al lavoro che spesso è possibile notare nei documenti europei.

L’ambiguo pensiero del mondo sociale
Come viene valutata la Costituzione del 2004 dalle associazioni che si occupano di disabilità e più in generale di sociale? Una risposta univoca è difficile. L’European Disability Forum ha aperto sul proprio sito web una sezione specificamente dedicata al nuovo trattato, in cui sostiene che “tutte le proposte fatte dall’EDF non sono state integrate nella bozza di trattato costituzionale, ciononostante questo testo contiene una quantità di provvedimenti che possono essere considerati un progresso da una prospettiva legata alla disabilità”. Di conseguenza, viene proposta alle associazioni nazionali una campagna per mettere le persone disabili al centro delle discussioni nazionali e dei referendum laddove previsti, lasciando intravedere un orientamento positivo dietro la richiesta di maggiore consapevolezza popolare.
Una posizione più controversa è invece riscontrabile in Social Platform, piattaforma di ONG del sociale (tra cui la stessa EDF) che si propone di “lavorare insieme per costruire un’Europa per tutti”. Le analisi della Costituzione redatte da alcuni membri sono favorevoli: Autism Europe promuove il testo, per l’inclusione della Carta dei Diritti Fondamentali e i progressi in tema di democrazia partecipativa. Ma di fronte a una commissione del Parlamento Europeo, il 25 novembre 2004, i rappresentanti del coordinamento affermano che “Social Platform non prende posizione sulla totalità della Costituzione. Non farà campagna a favore della ratifica, ma piuttosto promuoverà un dibattito informato tra i suoi membri sulle questioni di interesse per le ONG sociali”.
Il 30 maggio 2005, poi, commentando a caldo il voto francese, la presidente di Social Platform, Anne-Sophie Parent, lo definisce “un No alla direzione della costruzione europea, ai trattati esistenti (che sono stati largamente riprodotti nel nuovo testo) e alle esistenti modalità di decision-making dell’UE”, e invita l’Unione a “reagire a questo voto non minimizzandone l’impatto, ma riconoscendo i fallimenti del processo politico”. Se il voto francese fosse considerato frutto di un “dibattito informato” pienamente efficace, ne emergerebbe un’opinione di Social Platform assai negativa sulla proposta di Costituzione! L’impressione è che le associazioni siano strette tra il riconoscimento delle debolezze del nuovo Trattato e il timore di una pericolosa battuta d’arresto in un processo comunque positivo – ossia, di nuovo, tra il volere “troppo” e il portare a casa “troppo poco”.

L’incerto futuro
Con tutti i suoi difetti, la Costituzione Europea rimane il tentativo finora più avanzato (e più democratico, in quanto proposta da una Convenzione che non rappresentava i soli governi nazionali) di dare basi più solide all’integrazione continentale. Un rallentamento di questa integrazione avrebbe certo un impatto negativo sui numerosi progetti a finanziamento comunitario che, in questi decenni, hanno contribuito a miglioramenti nella condizione dei cittadini con disabilità – spesso ben oltre quanto previsto dalle carte fondamentali dell’Unione. Né va dimenticato che in conclusione, come afferma il documento finale del briefing SOLIDAR tra i membri di Social Platform, “un trattato costituzionale può solo tracciare i principi dei futuri sviluppi politici. Come questi principi siano riempiti con più contenuto liberale o sociale è una questione di volontà politica”.