“Per avere un bambino, sarebbe meglio avere regolato i conti con il proprio handicap”, ha esordito al telefono la prima mamma disabile che ho contattato.
Non avendo, infatti, trovato materiale scritto su questo argomento, se non in lingua francese o inglese, avevo pensato di partire “all’attacco”, selezionando cioè una serie di donne disabili con figli e andando a intervistarle.
Per scegliere le persone mi ero basata semplicemente sulla rete informale delle mie conoscenze: quindi amiche di amici, mogli di colleghi, mogli di colleghi di amici, ecc. Sapevo che non sarebbe stato un campione di persone significativo ai sensi del rigore metodologico di una ricerca sociale, la quale solitamente richiede numeri molto ampi e somministrazione in massa di questionari. Ma sapevo anche che il poter parlare per ore con alcune mamme disabili, seguendo giusto una traccia di intervista e lasciando, per il resto, scorrere liberamente i pensieri, avrebbe portato una grande ricchezza di contenuti.
All’inizio, però, non è andata come avevo immaginato.
Alcune mamme disabili si sono subito rifiutate di farsi intervistare; altre hanno chiesto qualche giorno di tempo per pensarci, e poi mi hanno ricontattata per dirmi di no.
Non conosco i motivi reali di questi rifiuti, però, occupandomi di comunicazione da parecchi anni, so per certo che hanno un significato. Se è vero che anche il silenzio “parla”, è eloquente, anche queste donne in qualche modo hanno parlato. Forse non volevano raccontare a me, perfetta sconosciuta, aspetti comunque intimi della loro vita. Forse non volevano riaprire cassetti ormai chiusi e questioni archiviate: alcune di loro hanno figli ormai adulti, perciò il percorso di accettazione del fatto che la propria disabilità potesse avere “ostacolato” la cura dei figli si era probabilmente concluso e non vi si voleva più rimuginare sopra. Forse persistevano sensi di colpa (molto spesso derivati non da cause reali, ma da cause percepite comunque come reali dalla persona… si sa che il senso di colpa non sempre si basa sulla razionalità…). Forse non volevano raccontarsi semplicemente perché non vedevano l’esclusività della loro situazione rispetto a quella delle mamme “tradizionali”: perché dovere per forza porre l’accento sulla disabilità?
Altre mamme, invece, si sono subito mostrate entusiaste all’idea di questa monografia, e sono state felici di potervi partecipare con i loro contributi. Non per concentrarsi solo sulla disabilità; non per affermare “Ecco, noi ce l’abbiamo fatta nonostante il deficit”; non per essere “macabre” e raccontare nel dettaglio tutte le azioni che, proprio per via del deficit, non hanno potuto fare; non per essere “vittime” o “eroine”, come di solito vengono descritte le persone disabili dai mass media. Ma per essere se stesse, per raccontare la vita reale di tutti i giorni, con la particolarità che la loro vita reale prevede anche un deficit fisico. Un deficit può diventare un handicap più o meno serio, più o meno leggero, a seconda del contesto di vita individuale, sociale, emotivo, relazionale in cui ci si trova; ma resta comunque un deficit, che fa parte della persona e che viene “imposto” anche ad altri: alla famiglia e agli eventuali figli. Raccontarsi, allora, senza veli, e scoprire che sono molti di più gli aspetti positivi di quelli negativi (senza per questo nascondere i negativi). E scoprire che si è mamme. E basta. Niente aggettivi dopo il punto, come si legge nel titolo di questa monografia.
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