Prima di partire materialmente con le interviste, ho avuto uno scambio “epistolare” via e-mail con Delphine Siegrist, una giornalista francese, autrice del libro Osez être mère (in italiano: “Osate essere madri”), edito da AP-HP (Assistance Publique Hôpitaux de Paris) nel 2003, nel quale sono raccolte tantissime testimonianze di donne disabili francesi. Sinteticamente, abbiamo preparato una serie di punti chiave emersi dalla sua esperienza e generalizzabili:
- Bisogna sentirsi bene nella propria testa e col proprio corpo (un po’ come mi ha detto la prima mamma contattata). Aspetti psicologici a parte, la cosa non è tanto semplice. Ci si accorge, anzitutto, che l’incontro amoroso che costituisce il preambolo necessario al progetto di avere un figlio non sempre è così scontato.
- Vivere una situazione di disabilità ferisce spesso l’ego, lo punge nel vivo. Le persone disabili devono comporre o ricomporre un’immagine positiva di se stesse.
- Alcune donne, del tutto in grado di essere madri, non lo diventano semplicemente perché non si credono “degne di essere amate”.
- Altre donne, che vivono in coppia, non hanno fiducia in se stesse e ritardano un progetto di maternità poiché non si sentono in grado di assumere il ruolo di madri. Si appellano alla loro “incapacità” fisica o alla paura di “infliggere” al figlio il proprio deficit.
- Molto spesso i dubbi sono più che altro ancorati alla tradizione culturale, che vuole la donna in grado di prendersi pienamente cura del proprio piccolo.
- A questi dubbi si aggiungono a volte quelli dei genitori, dei fratelli o degli amici, che non credono nella reale “capacità” di essere madre della loro figlia, sorella, amica.
- Può però succedere che le motivazioni delle donne escano rafforzate proprio da questi dubbi. Ciò è particolarmente vero quando la coppia si è presa tutto il tempo necessario per maturare il proprio progetto di avere un figlio, quando ha già riflettuto sugli aspetti pratico-materiali e/o umani della maternità. Per molti tipi di disabilità, infatti, (è inutile nasconderlo) farsi carico di un neonato, che è totalmente dipendente da chi lo accudisce, è cosa da organizzarsi per tempo.
- Le donne disabili che desiderano avere un figlio sentono spesso la mancanza di modelli di riferimento, di donne simili a loro, divenute anch’esse madri, con cui confrontarsi e scambiarsi esperienze, nonché consigli e soluzioni concrete.
- La mancanza di modelli fa sì che manchino anche immagini sociali di riferimento.
- Per stare meglio con il proprio corpo, prima di intraprendere una gravidanza sarebbe bene fare il punto sulla propria salute e conoscere le conseguenze che la maternità potrebbe avere sulla propria patologia, e tutti i rischi correlati.
- Per certe patologie occorrerebbe una presa in carico multidisciplinare (ginecologo, urologo, cardiologo, neurologo, genetista, ecc.).
- Laddove la maternità è possibile – e questo accade nella maggioranza dei casi – bisogna prepararla e riunire tutte le condizioni necessarie alla sua riuscita.
Limiti fisici
Anche se, sulla base dei punti precedentemente elencati, risulta forse già chiaro quali possano essere i limiti fisici, psicologici e sociali rispetto al desiderio di maternità (il prima), alla realizzazione del progetto di maternità (il durante) e alla cura del figlio (il dopo), vorrei comunque soffermarmi ulteriormente su alcune questioni.
Tra i limiti fisici, potrebbero ovviamente esservi seri deficit legati alla patologia della madre, tali da impedire o rendere rischiosa una gravidanza. Così come vi possono essere evidenti limiti fisici nel periodo post partum, quando si potrebbe non essere in grado di occuparsi del figlio.
Tra i limiti fisici, però, ovvero tra quelli materiali e concreti, sono sicuramente da annoverare anche le barriere architettoniche, l’accessibilità degli ambienti ospedalieri prima, e domestici poi.
Su questo particolare aspetto vorrei riproporre alcune considerazioni di Enrica Nardi, architetto, che lavora al progetto di ricerca dal titolo Linee guida per la progettazione di case di maternità destinate a un’utenza allargata (responsabile scientifico Prof. Paolo Felli, Università degli Studi di Firenze, Facoltà di Architettura), in corso di svolgimento per conto del Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca (COFIN 2003). Nell’articolo “Essere madre disabile: paure, difficoltà, soluzioni”, pubblicato su HP-Accaparlante, n. 1, 2005, Enrica Nardi scrive: “Per le donne con problemi motori diventa fondamentale – allo scopo di prevenire situazioni problematiche – prestare una particolare attenzione ai cambiamenti fisici dovuti alla gravidanza. Ad esempio, un eccessivo aumento di peso può diminuire l’autonomia, mentre la stitichezza e i problemi di circolazione possono essere accentuati dalla posizione sempre seduta. Ancora, dover urinare di frequente può essere un problema in assenza di servizi igienici idonei. Secondo il report del seminario La sessualità tra desideri e incontro, tenutosi a Roma nell’ambito della manifestazione Handylab 2002, la dottoressa Renée Mask dell’Unità spinale di Perugia sottolinea la necessità che la gravidanza di una donna con disabilità motoria sia seguita da più specialisti – ginecologo, urologo, paraplegista, ostetrica – nonché l’importanza del precoce coinvolgimento e della preparazione del personale che l’assisterà.
Una donna con problemi motori che si accinge a diventare madre deve scontrarsi con la difficoltà di fruizione dei luoghi. Ad esempio, recarsi in un ambulatorio per una visita ginecologica può essere un problema per gli spazi e gli arredi non adeguati: basti pensare alla difficoltà di salire da sola su una poltrona ginecologica e di tenere i piedi nelle staffe, o semplicemente di doversi muovere in modo autonomo nelle salette per i colloqui, dalla superficie generalmente così ridotta da rendere non agevoli le manovre di una sedia a ruote azionata elettricamente. Da testimonianze riportate in alcune pubblicazioni a cura della ‘Mission Handicaps’ dell’Assistance Publique Hôpitaux de Paris si apprende che, pur avendo ricevuto un’adeguata assistenza durante la gravidanza, alcune donne disabili motorie hanno sperimentato, al momento del parto, l’inaccessibilità dei reparti di maternità in cui stanze, servizi igienici, spazi per la cura dei bambini generalmente non sono pensati considerando l’ingombro e gli spazi di manovra di una sedia a ruote.
L’accudimento del bambino può invece essere agevolato se si dispone di ausili tecnici. A questo proposito il centro di rieducazione funzionale ‘Lucie Bruneau’, uno dei più grandi del Québec, ha dato l’avvio a un progetto che prevede: un servizio di consulenza in ergoterapia fin dalla gravidanza; l’assistenza di operatori per individuare soluzioni a bisogni specifici; il prestito di attrezzature e mobili adattati (lettini soprelevati con porta laterale, vaschette su piccole ruote regolabili in altezza, sedie alte adattate, ecc.); la consulenza di un esperto in ergoterapia durante i primi anni di crescita del bambino”.
Limiti psicologici
Tra i limiti psicologici, come in parte già detto, vi è sicuramente l’immagine di sé e del proprio corpo come non assunta. Ciò può dipendere da molti fattori, compresa una certa regressione infantile nella dipendenza, un eccesso di protezione “castrante” da parte dell’entourage di familiari e conoscenti, o ancora la paura (da leggere anche come pregiudizi e tabù) di essere “handicappati” perfino nell’intimità sessuale. A tutto questo può aggiungersi l’ansia di non riuscire a far carico di un’altra persona (il figlio).
Gli aspetti psicologici permangono ovviamente anche nel post parto, quando può risultare difficile accettare i propri deficit, convivervi, o scoprirne addirittura di nuovi (in questo caso i deficit diventano nuovi handicap). Supponiamo che una donna disabile sia abituata ad aver acquisito una certa autonomia per se stessa: può trovare difficile accettare di scoprirsi meno autonoma nei confronti di un’altra persona, il figlio appunto. Pur avendo consapevolezza della propria ridotta autonomia, può comunque risultarle difficile convivere con essa, quando vorrebbe essere libera di fare di più per il proprio figlio: in pratica la madre accetta il deficit su di sé, ma non “in relazione a”. Nella relazione con il neonato, che è una persona “nuova”, dipendente in tutto dai genitori o da altri, possono poi emergere nuovi limiti o nuove paure che non si pensava di avere, e questo porta evidentemente a una rielaborazione dell’idea di sé, che non sarebbe stata magari necessaria in assenza di figli.
Limiti sociali
Familiari, vicini di casa, amici, insegnanti, medici… Tutte queste persone sono davvero preparate alla maternità di una donna disabile? O rischiano di creare una “cappa” psicologica ancora più pesante dei dubbi che si vivono già individualmente?
Non sono rari, ancora oggi (ancora – lo ripeto – nel 2005), casi di medici che sconsigliano l’idea di una gravidanza, anche senza reali ostacoli di tipo genetico (la trasmissione della propria patologia al nascituro) o fisico (impedimenti concreti o rischio nel portare a termine una gravidanza). Così come non sono rari i ginecologi che si stupiscono quando entra in studio una paziente disabile, o che si stupiscono ancora di più quando la paziente disabile vuole prendere, ad esempio, la pillola. Ovviamente tutto ciò dipende dalla mancanza di quel famoso salto in avanti di cui parlavo nell’introduzione: l’accettazione della sessualità delle persone disabili.
In generale vivere a contatto con la disabilità appare ancora a molti una situazione difficile, per cui perché imporla a chi non ha scelto di nascere? I genitori di donne disabili che annunciano di volere un figlio, o che annunciano di essere già incinte, non sempre reagiscono bene. Forse perché si trovano davanti al fatto di dover accettare che la propria figlia è diventata davvero adulta (la maturità è sempre un concetto complicato per i genitori di persone disabili che sentono “in eterno” il bisogno di proteggere i propri figli). Forse perché hanno paura di dover sviluppare sensi e strumenti di protezione doppia: per la propria figlia disabile e per i suoi figli. Forse perché pensano di conoscere meglio della propria figlia i suoi stessi limiti fisici, e già si immaginano mille situazioni difficili, senza però riuscire a immaginarsi l’esistenza delle corrispondenti soluzioni.
Capita, a volte, che gli insegnanti giudichino ogni comportamento dei figli di soggetti disabili “in relazione” al deficit del genitore. Un atteggiamento di questo tipo, da parte di persone esterne alla famiglia, in particolare da parte di chi dovrebbe educare i bambini a stare nella società, porta questi ultimi, e chi sta loro intorno, a notare differenze che non solo passerebbero probabilmente inosservate, ma che soprattutto verrebbero percepite in modo esclusivamente oggettivo anziché essere caricate di giudizi morali.
Dopo aver intervistato alcune mamme disabili, mi è capitato di parlare dei risultati delle interviste con varie persone che, per un motivo o per l’altro, sono a contatto con la disabilità: per lavoro, ad esempio, o perché hanno amici disabili, o perché hanno un vicino di casa disabile, ecc. E tutte le volte in cui io parlavo entusiasta del rapporto madre-figlio che si crea comunque, anche se la madre ha difficoltà oggettive a prendersi cura del bambino, loro rispondevano: “Si vedrà quando il figlio sarà adolescente!”. Tutti, insomma, davano per scontato che durante l’adolescenza i figli di genitori disabili dovessero avere maggiori problemi degli altri. Sinceramente non lo so. Come già detto nell’introduzione, bisognerebbe dedicare una monografia anche ai figli delle persone disabili. So, però, che è pesante il meccanismo del “dare per scontato”. Quando tutta la società dà per scontate determinate situazioni, è una bella lotta dimostrare il contrario. Ma soprattutto: certe idee acquisite finiscono per strutturare la crescita e l’educazione. L’adolescenza è sempre un momento difficile (questo sì che è un dato di fatto, statisticamente provato: non un’opinione) e tanti miei amici, già adulti, figli di genitori perfettamente “normodotati”, si portano ancora dietro strascichi di disagio per tanti problemi, conflitti, diversità e oppressioni messi in atto da genitori che non avevano alcuna disabilità.
Lasciamo, dunque, alla fisica la logica di causa-effetto e diamo, invece, la parola alle mamme.
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