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autore: Autore: Valeria Alpi

9. La pasta di Capezzaia: quando la produzione è “diversa”

di Valeria Alpi

“La pasta di Capezzaia è una pasta che sa unire bontà, etica e solidarietà”: con questo slogan si presenta il pastificio di Roma, la cui pasta prende il nome dalla “capezzaia”, cioè il margine inutilizzato del campo, a simboleggiare che quella parte di società messa ai margini può invece rendere fertile qualcosa che prima non era. Per saperne di più abbiamo contattato Gianluca Rossi, responsabile di produzione.

Raccontaci un po’ come è nato il progetto.
Il progetto è nato da un piccolo laboratorio sociale a Roma, alla Comunità di Capodarco. Qui esiste un centro riabilitativo, con una quarantina di ragazzi con handicap grave, suddivisi in due turni, a produrre pasta non destinata alla vendita ma regalata alle mense della Caritas o alla mensa di Capodarco. Da lì, da quel piccolo progetto sociale sponsorizzato dal Comune di Roma, è nata l’idea di costruire qualcosa di più grande a livello industriale. Per cui nel 2007 abbiamo partecipato a un bando di gara messo a disposizione dalla Coop e l’abbiamo vinto: grazie ai contributi del ristorno dei soci Coop abbiamo avuto a disposizione circa 170 mila euro per avviare il progetto sociale della pasta di Capezzaia e cominciare questa avventura. Abbiamo comprato i macchinari, scelto la location e abbiamo iniziato a produrre. Sulla base delle ricette che ci ha dato Coop e sui prezzi cui Coop avrebbe comprato la nostra pasta per rivenderla nei propri punti vendita.
Oggi noi lavoriamo quasi e solo esclusivamente per la Coop.
Stiamo cercando di allargare la distribuzione, cercando nuovi partner per espanderci e per assumere nuovi ragazzi. E poi stiamo mettendo in campo l’idea della pasta surgelata perché per ora produciamo solo pasta fresca.
Al momento il 99,9% dei dipendenti ha una disabilità: al pastificio lavorano cinque persone disabili, tutte assunte a tempo indeterminato, e l’unico normodotato sono io. Se a fine anno parte il discorso del surgelato potrebbero aumentare i dipendenti disabili.

Quanto è importante avere un lavoro vero, essere produttivi, essere cittadini a tutti gli effetti portando nella società sia valore sociale che valore economico?
Data la mia esperienza nell’ambito della Comunità di Capodarco, vedo che tutti i disabili che trovano un’occupazione acquisiscono una loro autonomia. Quelli che lavorano per me sono soddisfatti, vengono a lavorare con la voglia di farlo, e soprattutto riescono a far quadrare il loro bilancio mensile: c’è chi si sposa o ha in progetto di sposarsi, chi si è comprato la macchina, chi ha in progetto di ristrutturare casa o di comprarla. Vivono la loro esperienza in maniera normalissima come chiunque altro.

Cosa significa produrre in un’azienda etica?
Io provengo da un altro mondo, non dal mondo della disabilità, ma da un mondo dove l’unica cosa che contava era produrre, produrre, produrre. È stato abbastanza complicato per me riuscire a entrare nell’ottica di questi ragazzi, di quello che volevano, di quello che potevano esprimere, e soprattutto ero io a dovermi calare nel loro mondo e non loro nel mio. All’inizio ho fatto fatica, sono sincero. Ero abituato ad avere alle mie dipendenze venti persone, ed eravamo come venti galline nel pollaio che dovevano solo fare l’uovo, la cosa importante era fare l’uovo. Oggi mi rendo conto che le cose importanti sono altre e non è solo la produzione. È stare dietro ai ragazzi, vedere le loro difficoltà, vedere le loro gioie quando le superano. Devo dire la verità, mi sto trovando bene e loro mi stanno insegnando che la vita non è solo denaro e produzione.

Però producono, realizzano un profitto, la parte economica c’è.
Come no, certo! Però si fa in una maniera diversa: prima c’era l’affanno della produzione, oggi non abbiamo l’affanno, abbiamo una produzione che deve essere sicuramente realizzata però non ci sono quelle aspettative di un datore di lavoro che alla base di tutto mette solamente il profitto. È ovvio che abbiamo in mente il profitto, altrimenti nemmeno esisteremmo. Il disabile che non produce e che non può entrare nel mondo economico di una società è un concetto totalmente sbagliato. Magari lo pensa chi non conosce questo mondo ma chi c’è dentro capisce che il disabile può fare ciò che può fare un normodotato e deve avere le stesse opportunità.

Avete dei riscontri dai clienti?
Abbiamo un contatto diretto coi nostri clienti tramite la nostra pagina Facebook. Tutti quelli che mangiano la nostra pasta rimangono soddisfatti. C’è anche chi critica, ma alla fine serve perché la critica fa crescere.

Beh almeno non c’è retorica, i commenti non sono solo positivi perché la pasta è prodotta da persone disabili.
È vero, ma è anche vero che se il consumatore finale non apprezzasse la nostra pasta non la comprerebbe, perché quando la acquista è nel pieno anonimato, non la deve comprare davanti a noi. Se la compra, noi la vendiamo e la produciamo, e se sono 10 anni che stiamo sul mercato evidentemente i nostri clienti la apprezzano. I numeri ci danno ragione, perché negli anni, anche se poco e anche con questa crisi che è spaventosa, siamo cresciuti e continuiamo a crescere.

Per saperne di più:
Facebook: Pasta di Capezzaia

8. PizzAut: nutriamo l’inclusione

di Valeria Alpi

Avviare uno spazio di inclusione, un luogo “lento” per trovarsi e ritrovarsi, con prodotti di buona qualità conditi da integrazione e relazione. È PizzAut, il progetto di aprire una pizzeria gestita da persone con autismo. Ne abbiamo parlato con Nico Acampora, ideatore dell’iniziativa.
Nasce da un papà l’idea di creare PizzAut, la prima pizzeria gestita da ragazzi autistici. Nico Acampora è un papà milanese di un bimbo di otto anni affetto da una grave forma di autismo. Insieme a un gruppo di genitori “come lui” ha deciso di avviare un crowdfunding per raccogliere fondi per dare il via a PizzAut: “L’idea è nata perché se sei autistico, in Italia, appena compi 18 anni, smetti di esserlo. Tutte le attenzioni riservate, insomma, spariscono, con la conseguenza che spesso gli autistici si ritrovano a essere adulti dimenticati dalla nostra società, ed esclusi dal mondo del lavoro e delle relazioni sociali. Per realizzare questo progetto abbiamo stimato la necessità di raccogliere circa 60 mila euro, ipotizzando di integrare questa raccolta con fondi propri provenienti dalle famiglie che sostengono il progetto. I fondi serviranno per lo start up, ossia l’acquisto di tutti gli arredi, dei macchinari e delle attrezzature necessarie, i percorsi di formazione destinati ai ragazzi per l’acquisizione delle competenze necessarie, l’eventuale affitto della struttura e il costo del personale almeno nella fase di avvio”.
Il crowdfunding andava a rilento fino all’intervento di personaggi noti: il primo è stato Kekko, il cantante dei Modà, che ha pubblicato un video per esprimere vicinanza al progetto. Il video è stato visto anche dall’ex premier Matteo Renzi, che ha parlato di PizzAut come di un buon progetto. “Siamo arrivati in breve tempo a un terzo del budget preventivato: il crowdfunding non ha scadenza anche se speriamo di raggiungere l’obiettivo entro aprile/maggio del prossimo anno, quindi in 12 mesi dal suo avvio”.
I ragazzi inseriti nel progetto faranno un percorso di formazione gestito dalla cooperativa La cascina bianca. Con la psicologa Simona Ravera, esperta di autismo, i genitori hanno individuato le mansioni che si possono affidare loro in una pizzeria. Possono preparare l’impasto, condire le pizze, magari riuscire a infornare e accogliere in sala.
“Il progetto vuole avviare un laboratorio di inclusione sociale attraverso la realizzazione di un locale gestito da ragazzi con autismo affiancati da professionisti della ristorazione e della riabilitazione. I ragazzi saranno avviati a una prima fase di formazione che consentirà di studiare insieme a psicologi ed educatori la mansione più adeguata per ciascun ragazzo inserito nello staff di PizzAut e soprattutto le modali- tà attraverso le quali farlo sentire auto-efficace e in equilibrio con il mondo che in quel momento sta attraversando”.
L’idea di Nico e degli altri genitori è quella di creare un luogo apposito, in continuo contatto con il mondo. Un posto dove i ragazzi autistici siano il più possibile indipendenti. Un luogo slow, per rispettare la tranquillità di chi mangia e i tempi di chi ci lavora. “Vogliamo creare un locale per la famiglia ma anche per i giovani, un luogo dove stare bene e divertirsi con prodotti ricercati, un locale dai tempi lenti dove non bisogna andare a mangiare una pizza quando si hanno cinque minuti e poi si corre via… Ma un locale dove trovarsi e ritrovarsi in una dimensione temporale e di relazione fuori dalle frenesie che mettono in difficoltà chi è affetto da autismo ma che fanno male anche ai cosiddetti normali. Un luogo lento dicevamo, con prodotti biologici e di altissima qualità serviti con altrettanta qualità”.
Come si legge nel loro sito, la vera sfida è realizzare un luogo di grande valore sociale ma anche un posto dove non bisogna andare solo perché si fa del bene ma perché si sta bene. “Sul valore sociale del lavoro con le persone con disabilità si sono scritte e dette molte cose… Attraverso queste progettualità si generano relazioni che, da un lato, aprono spazi relazionali ed esperienziali decisivi e inclusivi per la qualità della vita delle persone con disabilità, e dall’altro, incrementano il capitale sociale dei territori. Il nostro è un progetto sociale che vuole fare un passaggio ulteriore, o almeno provarci, componendosi di tanti micro progetti individualizzati che si caratterizzano e si calano su ciascuna delle persone con disabilità, pensandole però all’interno di uno staff di lavoro, coinvolgendole attraverso una ‘transizione al lavoro’ che si compone di una personalizzazione dell’intervento: dall’analisi professionale delle capacità/potenzialità dell’individuo, alla formazione sul campo, tenendo presente caratteristiche e propensioni fino all’accompagnamento costante al lavoro e durante il lavoro, in modo da non creare una dicotomia fra il valore sociale del lavoro con la persona disabile e il valore economico di questo lavoro. O comunque ridurre al minimo questa distanza”.
Per tutti coloro che contribuiranno a sostenere PizzAut, verrà creato il “muro dei mattoni”, per ringraziare i donatori che consentiranno di posizionare concretamente mattoni solidi per sostenere il progetto: “in fin dei conti per credere in un luogo lento e gestito da persone autistiche bisogna essere dei ‘grandi matti’ e quindi il muro dei ‘mattoni’ ospiterà i nominativi o le frasi di questi importanti donatori”.
PizzAut, oltre al crowdfunding online, sta anche organizzando gli “assaggi di PizzAut”, eventi sul territorio per promuovere il progetto e far parlare di autismo anche lontano dal 2 aprile, la Giornata mondiale della consapevolezza dell’autismo. Io le foto della pizza che stanno facendo assaggiare le ho viste su Facebook, e posso dire che ha veramente un aspetto invitante!

Facebook: PizzAut nutriamo

6. Competenze in bottiglia: Vecchia Orsa, il retrogusto sociale della birra

di Valeria Alpi

Chiacchierata con Michele Clementel, presidente della cooperativa sociale FattoriaAbilità che ha dato vita al Birrificio Vecchia Orsa.
Si chiama “Utopia”, perché è un po’ “la birra che non c’è”, frutto di tante mescolanze di spezie che nel tempo si sono modificate nelle quantità e nelle scelte; un’altra si chiama “Magnitudo blonde”, nata dopo il sisma del 2012 che colpì l’Emilia e la vecchia sede del birrificio di Crevalcore; un’altra ancora si chiama “Rye Charles”, una birra nera che nel nome indica uno degli ingredienti, la segale (rye, in inglese), ma nella pronuncia è un omaggio al grande pianista cieco.
Sono solo alcune delle birre prodotte dal Birrificio Vecchia Orsa di San Giovanni in Persiceto, alle porte di Bologna. Le birre col retrogusto sociale, come si legge nel loro sito.
Tutto nacque nel 2008 dal desiderio di una cooperativa sociale, FattoriaAbilità, di creare un laboratorio per lavoratori disabili. Nel disegno iniziale c’era una fattoria didattica, ma il progetto non riusciva a partire. Poi l’incontro con due Mastri birrai, e la prima sede, una sorta di casa messa a disposizione dalla cooperativa: la cucina era la sala per la “cotta” e il soggiorno la zona imbottigliamento – oltre a uno sgabuzzino che fungeva, in pratica, da cella calda dove rifermentava la birra. Si trovava nel podere Orsetta Vecchia in via degli Orsi di Beni Comunali di Crevalcore, da cui fu tratto il nome Vecchia Orsa.
“Nella vecchia sede di Crevalcore la produzione aveva un elevato sapore di artigianalità: l’impianto era di piccole dimensioni, l’imbottigliamento e l’etichettatura venivano effettuate manualmente, tutti i lavoratori, disabili e non, attorno al tavolo.
Queste operazioni, apparentemente semplici, erano momenti di forte integrazione e di consapevolezza di essere veramente parte importante delle fasi produttive. La produzione artigianale si sposava indissolubilmente con l’attenzione alla persona e da subito è stato possibile far partire le prime borse lavoro e gli stage di lavoratori svantaggiati”.
Il terremoto del 2012 in Emilia, invece, segnò l’inizio della seconda vita di Vecchia Orsa, che nel 2013 inaugurò il nuovo impianto a San Giovanni in Persiceto, un nuovo impianto molto più grande e con la capacità di inserire più persone con disabilità come reale elemento produttivo all’interno del contesto lavorativo.
“Oggi dialoghiamo con la Asl, il Servizio handicap adulto di San Giovanni in Persicito e il Fomal, che è un ente di formazione. Loro ci propongono delle persone che ri- tengono adatte per l’inserimento lavorativo in Vecchia Orsa, dopodiché si fa un breve periodo di prova, in stage o in borsa lavoro. Prima di affidare un lavoro, cerchiamo le peculiarità delle persone e facciamo di tutto per assecondare le loro personalità. Dopodiché li inseriamo in una lavorazione specifica che gli si addice”.
L’obiettivo però non è fermarsi allo stage o alla borsa lavoro, ma offrire un “lavoro vero”, con contratto a tempo indeterminato: ad oggi su sette persone che lavorano al birrificio, tre sono dipendenti con disabilità. “Il nostro è un lavoro vero, non è un laboratorio protetto, se noi abbiamo lo stipendio a fine mese è perché la nostra birra è buona, ne produciamo molta e la vendiamo. I lavoratori disabili partecipano a tutto il processo produttivo e devono essere-compatibilmente con le loro possibilità – produttivi per l’appunto.
Nella nuova sede abbiamo tre fermentatori da 30 hl e un maturatore della stessa capacità, che ci impongono ritmi diversi: è stato possibile aumentare notevolmente la capacità produttiva, ma abbiamo deciso di dedicare particolare attenzione alla scelta di macchinari che privilegiassero il lavoro manuale rispetto all’estrema meccanizzazione con l’obiettivo di assumere nuovi lavoratori. Partiamo dalla persona e non dal prodotto, ad esempio abbiamo acquistato un’etichettatrice automatica solo dopo esserci assicurati del fatto che presumesse comunque la presenza di più persone. Abbiamo puntato molto sulle mani e sulla manualità, ogni bottiglia viene maneggiata dalla nostra squadra almeno 6-7 volte. L’artigianalità deve implicare anche una certa manualità. Certo, scegliere di non meccanizzare la produzione proprio per offrire lavoro a persone con disabilità porta a costi maggiori e far tornare i conti è un’impresa! A volte dobbiamo scendere a compromessi sulle ore di lavoro, sugli stipendi, sulle necessità lavorative, ma quello che conta è il coinvolgimento dei lavoratori, sia disabili che ‘normodotati’, in un progetto comune di appartenenza, un progetto concreto e produttivo e non creato ad hoc su uno svantaggio”.
Vecchia Orsa ha ormai un grande successo di pubblico (nella “Guida alle Birre D’Italia 2017” la Rye Charles ha ottenuto il riconoscimento di “Grande birra”) e la richiesta aumenta, al punto che si sta valutando un ampliamento del birrificio, più assunzioni di personale disabile, e una modifica al ciclo di lavaggio per ridurre lo spreco di acqua puntando sempre più su energia da fonti rinnovabili. “Tutto ciò dimostra che anche nel sociale ci può essere l’eccellenza”.
La sede di San Giovanni in Persiceto ha anche una zona degustazione e di vendita al pubblico, e se seguirete la pagina Facebook potrete trovare tutti gli appuntamenti di sagre e manifestazioni dove Vecchia Orsa sarà presente con i propri prodotti e i propri lavoratori: “partecipare ad eventi insieme ai lavoratori diventa un’occasione privilegiata per trasmettere un messaggio di equità e integrazione sociale sinergico al- la qualità del prodotto. Per i lavoratori diventa il momento per poter toccare con mano l’importanza del loro lavoro. Chi ama la nostra birra è interessato non solo alla birra artigianale ma anche a come viene fatta. Noi diciamo ‘il retrogusto sociale della birra’, ed è il messaggio che vogliamo dare”.

Per saperne di più:
www.fattoriabilita.it
Facebook: Birrificio Vecchia Orsa

5. La Casa di Toti, biografia di un sogno

Di Valeria Alpi

C’è un albergo etico in corso di costruzione a Modica, in provincia di Ragusa, nei luoghi (per gli appassionati) del Montalbano televisivo. Un grande progetto imprenditoriale, un’attività che sarà gestita da sette o otto persone con disabilità. Una forma di cohousing, anche, e un investimento per il “dopo di noi”. Ne abbiamo parlato con Muni Sigona, ideatrice del progetto, e sognatrice, come si definirebbe lei.

Ci racconta come è nato il progetto e cosa è esattamente “La Casa di Toti”?
Io sono la mamma di Toti, che è un ragazzo autistico ad alto funzionamento. La sua problematica tocca anche la psicosi, quindi a volte ha delle crisi. Lui parla, va in moto, va in bici, ma è difficile da gestire perché ha sempre bisogno del rapporto 1 a 1 con un’altra persona. Siccome abbiamo una villa del ’700 con parco e piscina che da 25 anni è casa vacanze, ho sognato – soprattutto per pensare al futuro di Toti – di avviare una impresa nel sociale, un albergo etico, cioè un albergo gestito da ragazzi “speciali” assistiti da tutor. Quindi non sarà un albergo per disabili ma un albergo gestito da disabili, non autistici solamente, ma con varie tipologie di disabilità, con dei lievi disturbi a livello cognitivo, e ovviamente dovranno lavorare nell’impresa, dovranno pulire le camere, preparare la colazione, pensare al giardino, fare i check-in e i check-out, eccetera.
Quello che stiamo costruendo è anche una casa dove potranno vivere, perché sarà in qualche modo anche un “centro residenziale”, ma non lo voglio chiamare centro residenziale o comunità perché sarà la loro casa, in forma di cohousing. Sette o otto ragazzi “speciali” che già stiamo selezionando, dai 18 ai 25 anni, vivranno insieme e lavoreranno insieme. Vogliamo che abbiano anche una fascia di età comune perché poi dovranno crescere insieme. Intorno a questo progetto ho creato anche una Onlus, l’associazione “La Casa di Toti” e sono attorniata da genitori che condividono la nostra vita, seguono il progetto e sanno cosa significa essere genitori di ragazzi con disabilità: questo per noi è un modo per organizzarci per il “durante noi” e il “dopo di noi”.

A che punto è il progetto?
A latere della villa stiamo costruendo la Casa di Toti su 300 mq tutta su un piano; avrà solo una grande cantina al piano di sotto dove faremo una palestra e dei laboratori di meccanica perché sia a Toti che ai suoi amici piace la meccanica. In realtà l’idea è creare vari laboratori occupazionali diversificati. Avremo tre camere da letto, ognuna con bagno privato per disabili e una grande hall con tetto di vetro: stiamo facendo molta attenzione anche ai materiali e ai colori, per un discorso sensoriale di questi ragazzi. Ci sarà anche un refettorio, una cucina e una infermeria dove il tutor dormirà di notte.
Attualmente abbiamo fatto tutta l’opera in cemento armato e il tetto, siamo arrivati alle tegole. Il 26 novembre del 2016 abbiamo posato la prima pietra, e ad oggi in pochi mesi abbiamo fatto tanto, grazie soprattutto al fundraising e al crowdfunding.
L’albergo già c’è, abbiamo 16 posti letto. Certo sarà da migliorare un po’ ma contiamo di essere pronti in autunno 2018. In villa sto cercando di abbattere le barriere architettoniche e mi sto facendo consigliare da chi vive i problemi motori per migliorare la viabilità in villa, inoltre tra i ragazzi ci saranno anche una o due persone con disabilità motoria.

Ho visto che state organizzando anche tanti eventi sul territorio, per raccogliere fondi e per promuovere il progetto.
Sto cercando di diversificare le varie raccolte fondi. Quindi organizziamo eventi, soprattutto grazie alla Fondazione “I bambini delle fate” di Franco Antonello che ci sostiene. I supermercati Conad di Calabria e Sicilia hanno messo nel catalogo della raccolta punti la possibilità di contribuire alla Casa di Toti. Di recente ci siamo ag- giudicati la possibilità di avviare un crowdfunding tramite la Tim: il progetto l’abbiamo chiamato “Digitalizziamo la nostra opera nel sociale”, perché servirà per acquistare tutto quello che serve per l’informatica, il wi-fi, eccetera. È una raccolta fondi a livello nazionale e non solo al Sud e quindi per noi molto importante
Dal sito della Casa di Toti inoltre, si può acquistare la maglietta disegnata da Toti: lui ha la passione per la pittura. Oppure il mio libro Biografia di un Sogno, dove racconto il sogno del mio progetto e faccio un excursus anche di tutti gli alberghi etici esistenti al mondo. In Europa ad esempio ce ne sono già sei, di cui uno ad Asti, che però è un po’ diverso perché è gestito da ragazzi con sindrome di Down che alla sera tornano a casa, invece il nostro vuole essere un vero e proprio “dopo di noi”, dove i ragazzi vivranno e lavoreranno.
Un altro modo per sostenerci è il 5 per mille. Siamo partiti tre anni fa che non ci conosceva nessuno e quest’anno invece con il 5 per mille abbiamo guadagnato 11 mila euro, segno che il progetto circola tra sempre più persone. Anche il Presidente della Repubblica ci ha gratificati con un premio per un evento che abbiamo organizzato a Catania. La Casa di Toti sta avendo una risonanza bella, nazionale, perché è una famiglia che si sta rimboccando le maniche per il futuro del figlio e di altri ragazzi come lui.

Collaborate con l’ASL o con altri servizi del territorio?
Attualmente il centro che vogliamo costruire è privato e le persone che vivranno e lavoreranno lì le scegliamo noi, non sono inviate dai servizi sociali. Un domani chiederemo sicuramente una convenzione con l’ASL, anche per aiutare le famiglie, perché le famiglie dovranno comunque pagare un mensile. Abbiamo anche preso già dei contatti con i Sindaci dei Comuni limitrofi, perché esistono dei plafond per il sociale cui speriamo di potere accedere.

Valore sociale delle persone con disabilità, ma anche valore economico, cioè la persona disabile come cittadino capace di lavorare e di produrre: ci può fare un commento su questo aspetto spesso sottovalutato?
L’inserimento delle persone disabili nei posti di lavoro è una cosa molto importante. Noi, a parte la costruzione della Casa di Toti, abbiamo anche avviato degli stage presso le aziende che ci supportano. Tra i ragazzi che entreranno a far parte della Casa di Toti, già quattro sono stati selezionati per questi stage, quindi stanno lavorando in bar, pasticcerie, supermercati… li stiamo già abilitando al lavoro. Al momento, certo, come stage, ma la mia idea è non solo di farli rimanere a lavorare nell’albergo ma di farli entrare in queste aziende con una loro gratifica, un contratto e uno stipendio vero. Quando ci sono forme di autismo, lavorare nello stesso posto può diventare monotono, quindi mi immagino che queste persone oltre all’albergo possano gestire anche altre attività.
Mi rendo sempre più conto, però, che è vero che ci sono le leggi per l’inserimento lavorativo, ma poi la società fa ben poco.

Sogni per il futuro?
La soddisfazione più bella è che tante famiglie mi chiamano e mi chiedono come sto facendo, ed è bello dare consigli. La Casa di Toti sta diventando un progetto contagioso, e io mi auguro che non sarà solo un albergo etico ma che potranno nascere ad esempio una panetteria etica o un parrucchiere etico… Mi auguro che nasceranno altre esperienze in Italia, magari dettate da un’esigenza di una famiglia, e che potranno essere d’aiuto a questi ragazzi, perché noi genitori non siamo eterni.

Per saperne di più:
www.facebook.com/lacasaditoti.org

4. Un Bar Senza Nome

di Valeria Alpi

È nato nel 2012 il Bar Senza Nome, un locale del centro storico di Bologna, gestito da persone sorde. Un luogo che nel tempo è diventato molto apprezzato dai cittadini, con anche tanti eventi organizzati e occasioni di incontro tra non udenti e udenti. Ne abbiamo parlato con Alfonso Marrazzo e Sara Longhi, i due gestori.
Alfonso e Sara si sono incontrati quasi per caso, tramite amici comuni legati al “Gruppo Camaleonte”, associazione che promuove l’attività di artisti sordi. Il loro sogno era quello di organizzare eventi teatrali. “Per anni abbiamo organizzato eventi culturali per non udenti, ma non è affatto facile – racconta Sara. Per mettere in piedi uno spettacolo teatrale c’è bisogno di molto spazio, e non tutti i posti sono adatti, per non parlare dell’affitto, una spesa non indifferente”. Come trovare quindi i fondi per realizzare i loro progetti? “L’idea iniziale era quella di aprire un negozio con i proventi del quale finanziare le attività culturali che intendevamo creare –spiega Alfonso. Poi abbiamo capito che aprendo il bar avremmo potuto fare entrambe le cose. Abbiamo pensato che questo fosse uno spazio per fare diverse attività, per cercare appunto un luogo che avesse l’obiettivo di integrare sordi e udenti.
Un’attività lavorativa, ma anche culturale, per fare in modo che mondi diversi, situazioni diverse si incontrassero, diversi punti di vista si confrontassero, e quindi gli udenti potessero conoscere il mondo dei sordi e viceversa insomma. L’intento, infatti, era quello di far interagire i sordi con gli udenti, di metterli in qualche modo allo stesso piano in un luogo in cui l’interazione è davvero possibile”.
Difficoltà incontrate? “Siamo nell’era di Internet – dice Alfonso – quindi molti dei problemi che avremmo incontrato qualche anno fa come, ad esempio, il rapporto coi fornitori, adesso non si presentano neanche. In realtà, molte cose sono venute praticamente da sole. Le uniche difficoltà che abbiamo incontrato sono a livello istituzionale. Specialmente all’inizio avevamo bisogno sia di contributi economici, sia di sug- gerimenti pratici e di gestione, che nessuno ci ha fornito. In Italia non esistono leggi speciali per chi, affetto da disabilità, vuole aprire una sua attività”. “Un’altra difficoltà – aggiunge Sara – era per esempio come chiamarci da un punto all’altro del bancone e ci siamo inventati di muovere il lampadario quando uno di noi è di spalle e possa così comprendere che lo stanno chiamando. Questo significa che si possono creare, inventare, delle forme di comunicazione diverse. È anche stimolante e divertente. Gli udenti hanno scoperto che ci si può sforzare di diventare ‘sordi’ e noi viceversa. All’inizio chiaramente avevamo molti dubbi su come fare, quando abbiamo aperto il bar, i primi due mesi, pensavamo che gli udenti non sarebbero entrati, che si sarebbero spaventati, che avrebbero pensato che noi non li avremmo capiti, che ci sarebbe stata una forma di vergogna a bloccare la comunicazione. E invece col passare del tempo molti si sono affezionati, si sono appassionati al mondo dei sordi, e quindi ora abbiamo azzerato ogni preoccupazione”.
E quando serve c’è anche l’interprete, per le questioni commerciali e aziendali del bar stesso, ma anche soprattutto per gli eventi che organizzano. Il Senza Nome, infatti, promuove e organizza diverse iniziative culturali, come mostre, concerti, dj-set, presentazioni di libri, proiezioni di film e documentari, corsi di yoga o shiatsu, in collaborazione con Nunzia Vannuccini dell’associazione culturale Farm, che ne cura la programmazione artistica. Farm è anche l’associazione che ha dato vita a un altro bar inclusivo a Bologna, L’Altro Spazio, dove tutto è accessibile ai vari tipi di disabilità, sia motoria che sensoriale, e dove ci lavorano persone con disabilità (www.laltrospazio.com).
Noi ci siamo stati al Bar Senza Nome e vi raccontiamo come è andata.

Un pomeriggio al Bar Senza Nome
“Come si dirà mojito in lingua dei segni?” ci siamo chieste io e una mia collega all’apertura del Bar Senza Nome. Incuriosite siamo andate a provare lo spazio, e la prima impressione è stata che è davvero uno spazio da vivere. Si entra e ci si sente come a casa propria. Si può scegliere la zona preferita, tra tavolini di diverse altezze, materiali e forme, tra divani, un cortiletto interno, una sala al primo piano. Noi avevamo il pc portatile, e si può usufruire del wi-fi gratuito e occupare lo spazio per il tempo che si vuole, al costo di un caffè.
Ma è l’atmosfera che colpisce. Il bar è frequentato sia da udenti che da non udenti, per cui le forme di comunicazione convivono a volte separatamente, a volte si mescolano, a volte si integrano. Suono e silenzio vanno avanti alternati. I clienti udenti conversano fra di loro come in un qualunque locale, i non udenti conversano con la lingua dei segni; non udenti e udenti conversano fra di loro sia parlando coi segni (per chi conosce la lingua) sia parlando a voce, sia leggendo le labbra. Anche per ordinare si può scegliere la forma di comunicazione preferita, o quella con cui ci si sente maggiormente ad agio. Appesi all’ingresso ci sono tanti bigliettini con tutti i cibi e le bevande che si possono ordinare. Basta scegliere il bigliettino corrispondente a ciò che si desidera e consegnarlo al bancone. Ma è molto più bello andare direttamente al bancone e ordinare, guardando la persona dritta in faccia in modo che possa leggere le labbra. Noi abbiamo avuto fortuna: accanto al nostro tavolo c’era un insegnante di lingua dei segni che teneva una lezione privata a uno studente. Entrambi udenti. Così ne abbiamo approfittato e ci siamo fatte insegnare come ordinare un cappuccino e un caffè d’orzo con i segni giusti, e già che eravamo sedute accanto abbiamo imparato anche tante altre parole ed espressioni. Anzi, ci siamo rese conto che la lingua dei segni è molto più complessa di quanto pensano comunemente gli udenti. Non basta avere a disposizione dei segni che sostituiscono le parole.
Concordare aggettivi e sostantivi, concordare i verbi e le sequenze temporali richiede delle gestualità molto complicate e non è sufficiente conoscere la gestualità delle singole parole.
Arrivate alla cassa, abbiamo ottenuto uno sconto sul prezzo perché avevamo ordinato in lingua dei segni. Poi mi sono accorta che al piano di sopra c’era una mostra. Ho chiesto se si poteva visitare, ma il gestore mi ha risposto che stavano tenendo un corso di shiatsu e non si poteva disturbare. Al che ho esclamato: “Ma allora finora abbiamo disturbato!”. E lui: “Perché?”. E io: “Perché stavamo parlando forte [cosa di cui lui non si poteva ovviamente accorgere]”. E lui: “Ma sta andando la musica in sottofondo? Perché se sta andando non avete disturbato, la musica copre le chiacchiere”. Abbiamo riso insieme di questo dialogo un po’ surreale, è stato bello potere comunicare in maniera così spontanea le proprie reciproche difficoltà a sentire, a non sentire. Non ci sono filtri al Bar Senza Nome, non è necessario essere politically correct e trattare la disabilità in maniera retorica o pietistica.
Ho chiesto come mai hanno deciso di chiamarlo “Senza Nome”: la risposta è stata che in questo modo non ci sono barriere quando si arriva davanti alla porta, il bar non è caratterizzato dall’esterno come un bar di persone sorde.
Purtroppo però le barriere ci sono, quelle architettoniche: all’entrata il gradino è alto quasi il doppio di un gradino normale, come in molti locali del centro storico. I gestori dicono che non hanno avuto i permessi per abbattere le barriere esterne per mancanza degli spazi giusti. Peccato perché è davvero un ambiente accessibile e accogliente sotto tutti gli altri punti di vista, ed è stato molto piacevole sperimentare anche la dimensione del silenzio.

Per saperne di più:
Bar Senza Nome
via Belvedere 11/B, Bologna
Facebook: Senza Nome

14. Benvenuti alla fine del mondo

di Valeria Alpi, giornalista e viaggiatrice con disabilità

“Luogo d’eccezione che attira ogni anno un gran numero di visitatori, la Pointe du Raz è la punta più occidentale di Francia, tra ripide scogliere e mare di smeraldo. […] Bella e selvaggia, classificata come Grand site national di Francia, la Pointe du Raz s’innalza a circa 70 metri di altezza. Scolpita dal mare, battuta dai venti, per la sua magnificenza la Pointe vale da sola una visita alla regione. Di fronte ad essa si staglia il faro quadrato dell’Île de la Vieille. Acceso nel 1887, il faro fu automatizzato nel 1995; fino ad allora, intrepidi guardiani si succedevano in condizioni climatiche spesso difficili.

Benvenuti alla fine del mondo
Questo sito, un tempo temuto dai marinai, richiama oggi escursionisti e surfisti, invitando sia all’attività sportiva che alla contemplazione. I primi apprezzeranno il sentiero segnato e messo in sicurezza che costeggia il bordo delle falesie. Per i secondi, appuntamento alla Baie des Trépassés (baia dei trapassati) per scivolare sulle onde. I curiosi e i temerari potranno spingersi fino al versante Nord all’Enfer de Plogoff (inferno di Plogoff), dove, secondo la leggenda, la principessa Dahut si sbarazzava dei suoi amanti. Uno stretto sperone di roccia che domina le onde. Attenzione alle emozioni forti!”.
Con queste parole mi accoglieva il sito Tourisme Bretagne, il sito ufficiale del turismo in Bretagna, una regione a Nord-Ovest della Francia, mentre programmavo il mio viaggio da sola in Normandia e Bretagna e cercavo informazioni sulla Pointe du Raz. V’invito a cercare su Google questo nome, per vedere quanto impervia può apparire la zona dalle immagini presenti sul web. Le parole di Tourisme Bretagne confermavano che non si trattava di una passeggiata molto accessibile … “ripide scogliere”… “intrepidi guardiani”… “fine del mondo”… “trapassati”… “inferno”…
Era il mio primo viaggio vero da sola; fino a quel momento ero andata da sola nelle mie amate Dolomiti, dove avevo affrontato sentieri facili che conoscevo da anni dopo esserci andata tante volte con mia madre; oppure ero stata in grandi città come Berlino e Parigi, e girare una città può avere per me gli stessi problemi o non problemi di quando mi muovo per lavoro o per piacere a Bologna, dove abito.
Per la prima volta, invece, avevo deciso di addentrarmi da sola in un viaggio nella natura, tra le scogliere di alabastro dei pittori impressionisti a Étretat, in Normandia, le spiagge dello sbarco, sempre in Normandia, il Mont Saint-Michel, la costa di granito della Bretagna, il Finistère…
La differenza con le Dolomiti era che in queste località francesi non ci ero mai stata, dunque non avevo assolutamente idea di quanto sarei riuscita effettivamente a vedere. A essere sincera pensavo poco o niente. Al limite pensavo: “Quella costa la vedrò da lontano”. Adoro fotografare la natura, ma ero quasi certa che non sarei riuscita a portarmi a casa le stesse inquadrature che vedevo da internet. Il problema è che affrontare la natura con una disabilità motoria, come nel mio caso, può volere dire rinunciare a tanti panorami.
E invece…
Le scogliere di Étretat, da un lato, sono anche accessibili con l’auto e non solo tramite scalinate di centinaia di gradini. Quando si arriva su c’è un bel parcheggio in uno spiazzo di prato, e poi c’è questo enorme prato che copre tutte le scogliere: a quel punto si è sopra, a oltre cento metri d’altezza, a strapiombo sul mare, in un comodo prato battuto (perché ormai le tante persone che ogni giorno ci vanno hanno scavato un sentiero), senza dislivelli perché le scogliere sono tutte alla stessa altezza e creano chilometri di percorso praticamente in piano. Ovvio, c’è una parte raggiungibile solo con la scalinata, ed è anche un’inquadratura di un quadro di Monet. Però tutte le altre, e dico tutte, inquadrature sono fruibili anche da chi ha problemi di mobilità. Certo forse in questo caso la natura ha aiutato. Ma negli altri siti naturalistici famosi del Nord della Francia è l’uomo che ha attivato delle soluzioni per rendere i percorsi accessibili a tutti. In particolare sono rimasta davvero colpita dalla Pointe du Raz, perché davvero era l’unico posto in cui avevo deciso di provare ad avvicinarmi senza nessuna sicurezza di successo. “Vado lì e se me la vedo male torno indietro”. Non avevo informazioni, a parte le righe del sito. Non c’erano sezioni dedicate ai disabili, come ad esempio per il Mont Saint-Michel dove avevo trovato già sul web, prima di partire, tutte le indicazioni utili, dal parcheggio alla navetta per disabili. Per la Pointe du Raz avevo letto solo che il sito naturalistico è protetto e vietato alle auto, quindi non avevo neppure idea di dove avrei potuto parcheggiare e quanta distanza ci sarebbe stata dall’auto alle scogliere.
Arrivata alla Pointe du Raz mi accorgo subito che il parcheggio è parecchio lontano persino dal punto informazioni da dove sarebbe partito il sentiero… Ma gli addetti al parcheggio, appena accortisi del contrassegno disabili sulla mia auto, mi spiegano che il mio posto è attaccato al punto informazioni. Agli addetti alle informazioni chiedo come è il sentiero, per capire se posso farlo. Mi spiegano che da lì parte un sentiero asfaltato ma molto in salita lungo più di 800 metri, che porta al punto in cui inizia davvero il sentiero roccioso. Mi dicono che chi ha problemi di mobilità può prendere una navetta elettrica completamente accessibile ed evitarsi intanto i primi 800 metri. Poi mi mostrano una mappa con due sentieri paralleli, e mi spiegano che una volta scesa dalla navetta, prendendo il sentiero a sinistra avrei trovato tutte rocce, mentre a destra un sentiero battuto che mi avrebbe portata fino all’estremo punto panoramico possibile – possibile nel senso naturalistico del termine. Oltre quel punto le rocce continuano per altri 20 o 30 metri, e chi vuole può inerpicarsi fino all’ultimo sasso a strapiombo sul mare, ma se anche ci si ferma prima, dove finisce il sentiero battuto, si gode dello stesso identico panorama di chi arriva fino in fondo. Si vedono lo stesso tutti i fari e tutti gli speroni, e si provano le stesse “emozioni forti” che indica il sito.
Ancora oggi, che sono passati quattro anni, riguardo le foto di quella giornata e mi sembra incredibile di essere arrivata fino lì. In una maniera accessibile, senza rovinare la natura, e senza rovinare l’aspetto così selvaggio. So bene che in molti posti non è possibile arrivare per chi ha problemi motori, e che non si possono trovare soluzioni a tutto. Le famose Due Torri della mia città rimarranno per sempre inaccessibili per me, e d’altronde non mi aspetto che in torri così antiche, strette e storte venga messo un ascensore! Né mi aspetto di trovare sentieri accessibili in Perù o in Tibet, o di vedere colate di cemento sui sentieri dolomitici. Però certe volte la natura permette degli aggiustamenti, e tra il rispetto dell’ambiente e l’immaginazione umana si possono raggiungere pezzi di mondo e pezzi di se stessi. E per la cronaca, quel giorno, complice il forte vento bretone, il sentiero a speroni di sinistra era davvero poco frequentato, mentre quello comodo di destra era affollato da tutti i tipi di diversità umana.

1. Prima di partire

Non è vero. Il viaggio non finisce mai. Solo i viaggiatori finiscono. E anche loro possono prolungarsi in memoria, in ricordo, in narrazione. Quando il viaggiatore si è seduto sulla sabbia della spiaggia e ha detto “Non c’è altro da vedere”, sapeva che non era vero. La fine di un viaggio è solo l’inizio di un altro. Bisogna vedere quel che non si è visto, vedere di nuovo quel che si è già visto, vedere in primavera quel che si era visto in estate, veder di giorno quel che si era visto di notte, con il sole dove prima pioveva, vedere le messi verdi, il frutto maturo, la pietra che ha cambiato posto, l’ombra che non c’era. Bisogna ritornare sui posti già dati, per ripeterli, e per tracciarvi a fianco nuovi cammini. Bisogna ricominciare il viaggio. Sempre. Il viaggiatore ritorna subito.
(José Saramago,
Viaggio in Portogallo)

L’umanità dacché ne conosciamo l’esistenza è sempre vissuta in movimento. Spostarsi da un luogo a un altro, quello che di fatto ci indica l’etimo della parola viaggio, è per noi un bisogno originario, nato in risposta a delle esigenze evolutive a cui mano a mano abbiamo accompagnato qualcosa di molto più sottile, qualcosa che ha a che fare con ciò che l’occhio non vede, con la spinta verso l’ignoto, con la percezione di non bastare a se stessi. Viaggiare prima ancora che scoprire, conquistare, interpretare, fuggire, visitare e conoscere ha significato “essere dove non si è mai stati”, andar cercando qualcosa che ancora non c’è,  inseguire un desiderio e quindi, per definizione, provare a colmare una mancanza.
La maggior parte dei filosofi, dei poeti e dei viaggiatori orientali e occidentali ha finito in questo senso per associare il desiderio della partenza al bisogno di un ricongiungimento con il trascendente, di una riconciliazione con il divino e lo spirituale, o più semplicemente con il nostro stare nel mondo. La radice del verbo desiderare, dal latino de-sideo, in fondo traduce proprio questo: “mi mancano le stelle”.
La Storia e la Letteratura ci hanno successivamente consegnato un immaginario mitologico ricchissimo, cui continuiamo ancora ad attingere e dove alla fantasia è tutto concesso.
Ogni epoca ha infatti conservato e restituito la propria idea di viaggio, dentro cui ogni volta si sono combinate finalità e casualità diverse che oltre a condizionare mezzi e tempistiche degli spostamenti hanno contribuito a mutare il senso simbolico e il significato della partenza.
Dalle rotte mercantili medievali, ai viaggi di scoperta e conquista, fino agli imperi coloniali, alle avventure, agli esili, ai viaggi sentimentali e di formazione, o ancora a quelli mondani e di villeggiatura fino ai reportage, il viaggio ha continuato nel tempo a cambiare forma. 
Insieme alla tipologia di viaggio a cambiare è stato ovviamente anche il modo di fruirne, da necessità a scoperta, da conquista a scambio, da osservazione a esperienza in modo sempre più consapevole. Mano a mano che l’atto di spostarsi si è svincolato da ricadute di interesse politico e sociale il viaggio è diventato una questione sempre più privata, un atto di emancipazione e di crescita, un modo non solo per forgiare ma per coltivare la propria identità, rigenerata in mente e corpo nell’incontro con l’altro da sé.
Da qui, nel corso del tempo, il viaggio come svago, divertimento, cura, ristoro ma anche l’acquisizione del puro piacere del vacilar, traducibile dallo spagnolo in “viaggiare per il gusto di farlo più che per la meta”. Perché il viaggio è anche ozio, fermarsi, fare una pausa, ripetersi, bighellonare…
Oggi ci si sposta per mille ragioni, lavorative, di studio, di svago, a scopo benefico, costretti alla fuga o per rivendicare un’opposizione, si viaggia per passione, per cimentarsi in ambito sportivo, per la gioia di farlo e spesso lo si fa anche per mettersi alla prova. Si sottolinea spesso la differenza di intenti, il ruolo del turista e quello del viaggiatore, assoggettato alla logica di mercato il primo, mosso dalla curiosità il secondo. Il confine, a dire il vero, è spesso labile e a far da margine è più che altro la scelta di salvaguardare l’imprevisto e l’osservazione libera a dispetto di un pacchetto di proposte preconfezionate, così come vuole il cuore del girovago doc.
“Ogni cento metri – cita una nota frase di Roberto Bolaño – il mondo cambia”. Possiamo essere più o meno d’accordo con quest’affermazione ma quel che è certo è che il viaggio vive di andate e ritorni e che spostarsi significa pur sempre cambiare una posizione di partenza. Che a spingerci a farlo sia il bisogno di vedere le cose, il sogno di un luogo o il miraggio di un incontro prima o poi la pulce inquieta della partenza, la travel bug, così come l’hanno definita gli Inglesi, si farà sentire.
Come fare allora ad assecondarla? E che cosa significa farlo quando la nostra capacità di movimento è ostacolata?
A impedirci di intraprendere un viaggio possono esserci tanti motivi. “Non è il periodo giusto”, “Non ho i soldi”, “ Nessuno poteva venire con me” sono le tipiche frasi che pronuncia chi ha dovuto rinunciare a un viaggio. Se il viaggiatore in questione però è una persona con disabilità motoria, a queste domande se ne aggiungeranno subito a catena delle altre: “Come si arriva?”, “È accessibile? Ci sono gradini?”, “Chi si occuperà di me e dei miei bisogni?”, “C’è posto per me?”.
È proprio su queste domande e questioni aperte che il gruppo del Centro Documentazione Handicap e della Coopertiva Accaparlante ha cominciato negli ultimi tre anni a confrontarsi, mettendo al centro il ruolo e l’esperienza dei propri colleghi con disabilità, con l’aiuto degli educatori del Progetto Calamaio, di Massimo Falcone, referente dello Sportello Informahandicap di Accaparlante a San Lazzaro di Savena (BO) e di Valeria Alpi, giornalista e viaggiatrice con disabilità.
Da trent’anni il Calamaio, così come chiamiamo il nostro gruppo di educatori e animatori con disabilità, crea progetti di formazione rivolti ad adulti e bambini sulla relazione con la diversità. Centro delle attività è sempre stata la presenza della persona disabile quale conduttrice e animatrice dei percorsi stessi. Prima di arrivare a confrontarsi con il pubblico, tuttavia, chi entra a fare parte del nostro gruppo lo fa con un bagaglio di esperienze e di vissuti più o meno pesanti, che, come accade per tutti noi, condiziona il modo di relazionarsi con se stessi e con gli altri.
Entrare a far parte del gruppo del Progetto Calamaio significa perciò per ciascuno intraprendere un tratto di strada inesplorato, fatto di umorismo, di scambio e di una profonda rimessa in discussione di sé, del proprio corpo, della propria immagine ma anche dei propri desideri, in direzione di una più consapevole accettazione dei limiti oltre che delle autonomie e delle risorse.
Su questa scia è nato il laboratorio “Dove non sono stato mai. Il viaggio tra immaginario, attese e possibilità” a cura di Lucia Cominoli e Emanuela Marasca, educatrici del Progetto Calamaio, che ha visto protagonisti otto colleghi con disabilità motoria e cognitiva e tre volontari del Servizio Civile Nazionale.
Il laboratorio si è strutturato come un vero e proprio percorso a tappe che ha cominciato con l’indagare gli immaginari, le attese e i desideri che i destinatari portavano con sé intorno all’idea di viaggio, per poi arrivare più concretamente a toccare con mano che cosa significa prepararsi per una partenza, come informarsi, cosa fare e a chi rivolgersi una volta arrivati a destinazione. Tutto questo è stato accompagnato da attività di sperimentazione sensoriali, momenti di gioco e role playing, consultazione di guide e siti specializzati, insieme all’incontro reale con persone con disabilità che hanno organizzato e partecipato in prima persona a viaggi accessibili come per esempio Paola Benvenuti dell’Associazione Strabordo di Ancona.
A documentare tutto ci ha pensato un diario di viaggio artigianale, realizzato da Emanuela Marasca, che i partecipanti hanno riempito e personalizzato “lungo la via”, come direbbe il nostro collega Ermanno Morico, che oltre a una raccolta di suggestioni ci ha offerto una preziosa indicazione di metodo permettendoci di seguire più chiaramente l’intero filo logico del percorso.
Quel che ne è emerso, tra paure, divertimento, difficoltà superate e piccole autonomie raggiunte è il centro della prima parte della nostra monografia, il racconto di un’esperienza laboratoriale che speriamo possa permettere a educatori e famiglie che si occupano di persone con disabilità motorie e cognitive non solo di prepararle e affiancarle verso un’ipotetica partenza, ma anche di ascoltarle e imparare a fidarsi di loro.
Non è infatti un caso che i “Dieci consigli prima di intraprendere un viaggio” che Stefania Mimmi, animatrice con disabilità, rivolge ai suoi colleghi più giovani abbiano soprattutto a che fare con lo scontro con le reticenze familiari, reticenze dettate da legittime preoccupazioni ma anche, a volte, dal pregiudizio che per chi non si può muovere, e “tanto non capisce”, un posto vale l’altro e che, alla fine, non valga poi la pena starci a spendere troppo tempo e denaro.
Per fortuna nessuno di noi “dove lo metti sta” e il viaggio, che sempre ci spinge oltre dal punto di vista fisico e mentale, può solo aiutarci a migliorare il nostro sviluppo su entrambi i lati e, di conseguenza, migliorare la qualità della vita per noi e per gli altri.
A confermarcelo sono i racconti dei viaggiatori, disabili e non, ma anche quelli di chi si occupa di preparare e organizzare viaggi alla portata di tutti, come è il caso delle sempre più numerose associazioni, gruppi e strutture ma anche di festival, fiere e convegni attivi in Italia, in Europa e nel resto del mondo in tutti i periodi dell’anno. Tra questi abbiamo citato l’esperienza dell’Associazione Strabordo di Ancona, di Village for All di Ferrara, di Concrete Onlus di Pavia e la voce di due viaggiatori con disabilità, uno per mare, il veneto Andrea Stella, e uno per terra, il piemontese Fabrizio Marta.
Il Libro Bianco del Turismo, Accessibile è meglio. Primo libro sul Turismo per tutti in Italia, promosso nel 2013 dal Consiglio dei Ministri, ha poi ufficialmente sancito l’impegno dell’Italia in questo senso, una questione di immagine, senza dubbio, ma anche una prima analisi strutturata del mercato attuale che ci sembrava valesse la pena menzionare.
Per completare l’excursus segnaliamo inoltre la nascita di tre importanti contenitori nati negli ultimi anni, il Salone Professionale del Turismo e dell’Ospitalità Universale “Move!” di Vicenza (2015), il Festival del Turismo responsabile IT.A.CÀ di Bologna (2009) e il Festival della Letteratura di viaggio di Roma (2008), contenitori di progetti ma anche di occasioni di confronto e ricerca sul tema del viaggio in tutte le sue sfaccettature accessibili, turistiche e poetico-letterarie.
A queste testimonianze fondamentali che possono fornirci importanti spunti di riflessione e utili informazioni abbiamo scelto di dedicare la seconda parte del nostro vagabondaggio, intervallando il tragitto con alcune voci di orientamento, “le bussole”, che ancora una volta nelle vesti di Valeria Alpi e Massimo Falcone, insieme al giornalista Nicola Rabbi e alla camminatrice Darinka Montico, ci hanno regalato il loro punto di vista sul viaggio, tra aneddoti personali, narrazioni e indicazioni pratiche.
Un momento di ristoro ma anche una ventata di energia ce lo concedono invece il “Menù sulla via della seta” e il racconto di Hamed Ahmadi, regista afghano rifugiato politico che a Venezia ha dato vita a “Orient Experience”, locale frequentatissimo dai giovani veneziani ma soprattutto bellissimo e tangibile esempio di un viaggio nato su costrizione e poi trasformatosi in occasione di integrazione autogestita e lavoro sul territorio per molti ragazzi afghani, pakistani e iraniani.
Infine, per non concludere, due piccoli regali, una breve selezione bibliografica sui libri che ci hanno accompagnato e una cartolina d’eccezione, quella dallo scrittore Antonio Pascale, autore del bel Non è per cattiveria, edito da Laterza, che ci racconta in un divertente dialogo con il figlio i postumi seguiti a un percorso al buio con un gruppo di non vedenti.
Quello che vi proponiamo è un itinerario fatto di esperienze, percorsi sperimentali, spazi e persone in cui speriamo possiate trovare qualcosa di utile e soprattutto di vostro, da portare con voi verso la vostra prossima meta e da completare con i vostri occhi.
Ma prima di cominciare fermatevi. Guardatevi intorno. L’estate è alle porte, il vento soffia caldo già dal mattino e le giornate sono sempre più lunghe. La notte apre le sue finestre agli incroci delle strade. Sporgetevi fuori. Ecco, ora è tempo di partire…

Bussola n.1. Direzione Nord

Una valigia sempre in macchina

di Valeria Alpi, giornalista e viaggiatrice con disabilità

“Le nostre valigie erano di nuovo ammucchiate sul marciapiede; avevamo molta strada da fare. Ma non importava, la strada è la vita”. Così scriveva Jack Kerouac nel suo On the road. Una valigia sempre pronta a essere caricata in auto caratterizza da molti anni la mia vita. Ogni volta partire è una porta da cui si esce per incontrare nuovi luoghi, nuove persone, ma anche nuovi se stessi. Nel viaggio incontro i miei limiti, ne ho conferma di alcuni o ne scopro di nuovi, e allo stesso tempo ritrovo risorse che nella vita quotidiana magari non uso, oppure scopro risorse che mai avrei pensato di avere, oppure semplicemente mi adatto. Di certo un viaggio non lo posso improvvisare. Quando si ha una disabilità motoria le valutazioni di ogni singolo minuto del tragitto vanno studiate a tavolino. Non posso prendere la famosa valigia e semplicemente partire e vedere man mano come va, cambiare percorso, cambiare mezzo di trasporto, dormire in ostello o in campeggio o in un hotel qualunque. Il concetto di qualunque non esiste. Non tutti i mezzi di trasporto sono accessibili per il mio tipo di disabilità, che mi permette di camminare e quindi – paradossalmente – di avere meno assistenza ai trasporti. Il treno ad esempio è inaccessibile, l’aereo è già più comodo. Ma una volta scesa dall’aereo, però, devo sapere con la massima precisione se mi posso spostare con mezzi accessibili, e gli autobus ad esempio, per me, non lo sono. Capire questo da internet richiede molte e molte ricerche. Anche dormire non è qualunque. Mi serve l’ascensore se ci sono più piani (quindi vengono esclusi tutti quei B&B così carini e così caratteristici, ma con scale), oppure devo chiedere se è disponibile una camera a piano terra. L’entrata dell’hotel deve essere accessibile o avere solo pochi gradini col corrimano. Non ci devono essere gradini scomodi per andare a fare colazione. Se sono in auto sarebbe meglio che ci fosse il parcheggio per non rischiare di parcheggiare lontano e fare troppa strada a piedi. Se sono in auto non posso scegliere un hotel nella zona pedonale, ad esempio, che sarebbe più comoda per spostarsi a piedi, ma scomoda per quando si arriva e si devono scaricare i bagagli. Non mi serve necessariamente il bagno per disabili, ma spesso mi sono trovata in hotel con gradini nel bagno o con un dislivello troppo alto da scavalcare per entrare nella doccia con rischio di rovinose cadute. Dormire in un posto non qualunque richiede dei costi più alti di chi può adattarsi a qualunque posto letto. Spostarsi in una città o in un luogo naturalistico non riguarda poi solo i mezzi di trasporto, ma anche la conoscenza di tutte le opportunità, che vanno anch’esse studiate a tavolino. Posso entrare in tutti i musei che mi interessano? (Nel 2016 non è ancora così scontato!). Posso raggiungere un parco naturale protetto dall’Unesco e chiuso al traffico? Ci sono dislivelli nel posto in cui sto andando? Quanto dovrei camminare tra andata e ritorno, un km, due, tre? Quante ore impiego se ho tre km e devo tornare prima che faccia buio, perché magari sono su un sentiero di montagna? E infine, anche quando si è programmato tutto a tavolino e ci si sente pronti, una volta che si arriva nel luogo desiderato ci sono altri ostacoli o inconvenienti che non si potevano prevedere da casa. Ad esempio dove mangiare: non è così scontato che i ristoranti e i bar siano accessibili, o se lo sono che abbiano un bagno comodo. Certo la logica statistica dice che qualche bar o ristorante accessibile ci sia. Ma magari in tutt’altra zona, magari fuori dal centro. E allora anche in questo caso la programmazione riguarda anche il luogo che si sceglie di visitare, e la stagione. Ad esempio a Istanbul ci sono andata in estate, quando sapevo che si poteva mangiare all’aperto e almeno non avrei dovuto lottare con i gradini di tutti i ristoranti e bar di una città che ancora non ha uno sguardo attento alle barriere architettoniche. E ci sono andata con due amiche che mi potevano aiutare nelle ripide salite e discese della città. E ci sono andata in aereo perché un mio collega esperto di disabilità mi aveva assicurato che tutti i tram erano accessibili, e anche se i tram non coprono tutta Istanbul coprono comunque le zone turistiche. Di certo so che non riuscirò a visitare il Perù, per esempio, o che in Perù troverei davvero una quantità di gradini molto complessa. Di certo prediligo il nord Europa, dove da molti più anni la diversità è entrata nella quotidianità ed è normale installare una rampa in qualunque luogo pubblico. E di certo prediligo spostarmi con la mia auto, che ha degli adattamenti appositi per me e mi garantisce più sicurezza.
Poi, ogni tanto, ci sono anche quei momenti in cui la programmazione viene soppiantata dalla follia, quando quella valigia sempre pronta a partire ti spinge a provare e vedere come va, e se proprio non va si torna indietro. Così per esempio un anno sono andata da sola in Normandia e Bretagna, in auto partendo da Bologna. Non era il mio primo viaggio in auto lungo, ma era la prima volta che mi trovavo da sola per così tanti km e così tanti giorni (due settimane). A volte mi chiedo se da quel viaggio sono mai davvero tornata, una parte di me è rimasta là per sempre. Un po’ per la bellezza dei luoghi, un po’ per le persone incontrate, un po’ per come sono riuscita a fare tutto quello che un viaggiatore normale fa in Normandia e Bretagna. Ovviamente grazie alla Francia, che anche nei luoghi più impervi aveva organizzato navette accessibili per disabili e sentieri adattati. Ma anche grazie ai consigli delle persone, che si incuriosivano dal mio essere disabile e viaggiare da sola. Avevo visto in foto tanti luoghi famosi di quelle regioni, come le scogliere dipinte da Monet. E mentre guidavo verso la Normandia mi chiedevo cosa sarei riuscita a vedere io, pensavo quasi niente in realtà. E più passavano i giorni e più vedevo tutto quello che conoscevo dalle foto, più avevo la carica di continuare a buttarmi e andare avanti. Non è una sfida ai limiti, perché quando provare a superare i limiti mette in pericolo la mia salute allora mi fermo. Non voglio andare oltre a quello che posso fare, ma è uno scoprire che posso fare – laddove l’ambiente o il contesto lo permettono – molto di più di quello che esiste nella mia vita quotidiana tra casa e ufficio.
Dopo quel viaggio ho continuato a viaggiare da sola, diciamo che alterno momenti in compagnia e momenti in cui mi piace essere tra me e me. La gente mi dice che sono coraggiosa. In realtà ho una grande fortuna: mi piace guidare e non mi stanco a guidare. Appena scendo dal mio piccolo mondo costruito dentro un’automobile, sono di nuovo disabile e non so mai cosa incontrerò e se ce la farò. Ci provo. E per riuscire, a volte, ho dovuto mentire. Perché quando sei disabile, anche se vieni educato all’autonomia, in realtà sei considerato comunque sempre piccolo, indifeso, fragile, incapace a essere veramente autonomo. Viaggiare? È complicato, dove vuoi andare? Viaggiare da solo? È impossibile. La prima volta che ho viaggiato con i miei amici senza mia madre avevo già 21 anni, e abbiamo semplicemente fatto una gita in giornata da Bologna a Urbino e ritorno, per seguire un professore che insegnava in entrambe le Università e che amavamo molto. Quando dissi a mia madre che volevo andare a Urbino in giornata non fu affatto d’accordo, disse che non dovevo guidare io (che mi sarei stancata secondo lei, mi sarei addormentata al volante e creato un incidente di proporzioni gigantesche) ma che potevo andare in auto con altri. Mi faceva ridere che si sentiva più sicura se andavo in auto con persone di cui non conosceva le capacità di guida piuttosto che lasciarmi con la mia auto. Ovviamente andammo con la mia auto e fu solo il primo di innumerevoli viaggi. D’altronde… “la strada è la vita”.

Dov’è il limite del limite?

A cura di Valeria Alpi

“Quando non si hanno i mezzi per essere handicappati, allora si resta in buona salute!”.
Questa la traduzione di una vignetta di Charb, Stéphane Charbonnier, il fu direttore di “Charlie Hebdo”, il giornale satirico irresponsabile parigino, ucciso insieme ad altre 11 persone nella strage terroristica della redazione del 7 gennaio 2015. La vignetta ritrae l’ex presidente francese Nicolas Sarközy, in un periodo storico in cui le persone disabili in Francia manifestavano per ottenere un aumento delle pensioni di invalidità.
Ne Il magico Alvermann di solito proponiamo un brano letterario, o una canzone, o nei casi più estremi una battuta di un film, ma stavolta vogliamo rendere omaggio a questi straordinari fumettisti che, al di là della collaborazione con “Charlie”, avevano una lungimirante carriera di disegnatori alle spalle ed erano noti per i loro personaggi molto di più che per le vignette di “Charlie”. Vogliamo anche rendere omaggio al fatto che negli anni si sono occupati dei più svariati temi sociali, senza avere il chiodo fisso sulla religione e sull’Islam.
Non entrerò nel merito del dibattito “Se la sono cercata… Hanno esagerato… Hanno disegnato vignette blasfeme…, ecc.”, né parlerò della libertà di espressione in Francia, paese che conosco molto bene, libertà completamente diversa dall’Italia e quindi non comparabile: quello che ci offende qua, là forse non ci avrebbe offesi. Ma dove risiede il limite dell’offesa?
In queste settimane, il dibattito sui fatti di Parigi è stato molto acceso. Sono tutti convinti che esista un senso del limite che non deve essere superato. Pure io che – ok, lo ammetto – apprezzo un giornale come “Charlie Hebdo”, mi sono domandata: “Ma se vedessi una vignetta sulla disabilità troppo offensiva, come mi sentirei in quanto persona disabile colpita nel vivo?”. 

In realtà io sono la prima a ridere spesso della disabilità, e mi piace fare battute dove mi auto-prendo in giro. Questo ha creato nelle altre persone una tranquillità di linguaggio verso di me, ed è un linguaggio che non viene più filtrato ma arriva diretto senza mediazioni. Eppure, a volte, il senso del mio limite è stato superato, ma la cosa importante è che io – fino a quel superamento – non sapevo che lì ci fosse un limite. Provo a fare un esempio. Un giorno un mio collega, terminato il suo orario di lavoro, è entrato nel mio ufficio per salutarmi prima di andare a casa. Dovevamo anche metterci d’accordo perché quella sera ci sarebbe stata un’uscita collettiva tra colleghi alla Festa dell’Unità. Entrando nella mia stanza ha detto “Tu, zoppa, ci sarai stasera?”. In quel momento mi sono resa conto che la domanda mi dava fastidio, con quella parola, “zoppa”, che non c’entrava nulla. Non c’entrava perché io ho una malattia rarissima al nucleo centrale delle cellule muscolari e quindi, anche se cammino oscillando, non sono zoppa nel senso che noi diamo alla parola. Non c’entrava nulla perché ovviamente un amico mi può chiamare in un modo che non sia il mio nome, ma di solito è un nomignolo condiviso in quanto amici. Se fosse stato un nostro modo codificato tra noi di chiamarci, allora “zoppa” sarebbe andato bene, ma in quel contesto no. Un mio amico per esempio mi chiama “nana” per via del fatto che non spicco in altezza, ma va bene perché è come se lo avessimo deciso insieme.
Allo stesso tempo, rimasi molto sorpresa di me: lì c’era un limite a quello che le persone possono dirmi, un limite che però io non potevo prevedere (pensavo di non avere limiti) fino al momento in cui è stato oltrepassato.
Probabilmente è capitato a tutti, anche a me verso gli altri, di oltrepassare dei limiti non scritti, non pensati, non immaginati neppure, non previsti. Limiti di se stessi e limiti degli altri.
Esiste un limite del limite?
“Charlie” ha sfidato, e continua a sfidare, il limite, attaccando il potere, come in questa vignetta di Charb sulla disabilità (la satira di solito attacca il potere, non i deboli, e quando attacca la religione è il potere che si fa di quella religione che viene attaccato). Questa vignetta non la trovo offensiva, ma non saprò quale vignetta sulla disabilità potrà essere offensiva finché non la vedrò.
Dovremmo proteggere la “categoria dei disabili” dalla satira, per evitare la paura dell’offesa? Non credo, noi amiamo le sfide. E poi, se ci pensiamo bene, le vignette di solito disegnano anche il livello dei nostri successi o insuccessi culturali, i nostri stereotipi e pregiudizi. Sono la nostra cartina di tornasole del limite del limite.

7. La violenza dell’invisibilità

di Valeria Alpi

Un paio di anni mi fu chiesto di intervenire sul tema della violenza alle donne con disabilità. Mi sono sentita subito in grande imbarazzo perché il tema mi sembrava totalmente sconosciuto e invisibile. Eppure sono una donna, sono disabile, ho tante amiche con disabilità, che a loro volta conoscono altre donne disabili; ho lavorato per un decennio, tra le varie attività, a uno sportello informahandicap dove incontravo persone disabili e le loro famiglie, ma anche gli educatori, gli assistenti domiciliari, gli operatori dei servizi socio assistenziali, gli insegnanti, i vicini di casa, insomma… qualunque persona si venisse per un qualche motivo a trovare a contatto con la disabilità. Mai una volta qualcuno mi ha segnalato un caso di violenza a una donna disabile, né per contatto diretto, né per sentito dire (“Sai che ho saputo che…”). Inoltre sono giornalista, mi sono occupata soprattutto di maternità delle donne disabili, sia di quelle che hanno figli sia di quelle che desiderano averne; mi occupo quotidianamente di temi sociali, ci scrivo sopra, cerco di veicolare una buona cultura della disabilità, ma niente: la violenza continuava per me a essere silenziosa e invisibile. Tranne ovviamente qualche caso clamoroso sbattuto in prima pagina dai mass media tradizionali, ad esempio donne con deficit intellettivi segregate in casa e abusate, oppure abusate nelle strutture residenziali.
Poi mi sono guardata intorno, e ho scoperto che alcune forme di violenza sono sempre state sotto i miei occhi, anche se si tratta di forme più subdole, meno evidenti, meno eclatanti perché non portano alle percosse, alle ferite, agli occhi neri, ai lividi, allo stupro. La violenza che intendo io è quella che nega alla donna disabile il diritto all’adultità, a essere riconosciuta come una donna adulta che possa prendere anche qualche decisione sulla propria vita, banalmente partendo dalla maglietta che si vuole indossare per uscire di casa. Ci sono genitori o operatori che vestono appositamente male la figlia o donna disabile, in modo che non possa risultare attraente per gli altri, “perché non si sa mai, un qualche male intenzionato che si voglia approfittare di lei ci può essere e dopo sono guai, soprattutto se resta incinta”. Ci sono genitori o operatori che non portano mai la figlia o donna disabile dalla parrucchiera, “perché tanto anche se le sistemo i capelli cosa cambia? Non la vorrà comunque nessuno disabile com’è”. Ci sono genitori o operatori che non depilano le gambe della figlia o donna disabile, anche se è estate e si indossano vestiti più corti, “perché tanto sono gambe disabili, sono comunque fatte diversamente, un pelo in più o in meno non fa la differenza”. Ci sono genitori o operatori che mandano al lavoro la figlia o donna disabile coi pantaloni macchiati “tanto non se ne accorge nessuno, si nota solo che è disabile mica come è vestita”. Ci sono genitori o operatori che fanno indossare il pannolone alla figlia o donna disabile “perché è più comodo, non devo portarla sempre in bagno che si fa fatica”. Ci sono genitori o operatori che non permettono alla figlia o donna disabile di avere la possibilità di decidere come utilizzare anche solo un euro della propria pensione di invalidità. Ci sono genitori o operatori che si rifiutano di comprare alla figlia o donna disabile degli ausili per migliorare la sua autonomia, “tanto autonoma non lo sarà mai fino in fondo”. Ci sono donne disabili che vestiranno con la tuta da ginnastica per tutta la vita perché la tuta facilita le operazioni di chi si deve prendere cura di lei.
Quanti casi conosciamo di questo tipo? Quanti ne abbiamo visti? Tantissimi.
Dove risiede la violenza? Proprio nel concetto di invisibilità: perché alla base di tutte le forme di violenza c’è essenzialmente la violazione di un diritto umano fondamentale, quello di essere vista come persona e come donna. Essere visibili vuol dire essere riconosciute come persone capaci e aventi diritto a esprimersi ovunque: in ambito familiare, scolastico, sociale, professionale.
E badate bene: il rischio di una violenza di questo tipo non riguarda solo le donne con disabilità gravi, che compromettono seriamente l’autonomia, il movimento, il linguaggio o la capacità intellettiva. Mi ricordo, ad esempio, che frequentavo le scuole medie e il seno mi diventò prosperoso. Chiesi a mia madre di andare insieme a comprare un reggiseno, perché senza mi sentivo in imbarazzo. E la risposta di mia madre fu “Tu non ne hai bisogno”. Fino a quel momento la mia disabilità motoria era stata un piccolo “accessorio” della mia vita: avevo comunque una buona autonomia, potevo a mio modo camminare, vestirmi da sola, andare in bagno da sola, mangiare da sola. Studiavo, andavo bene a scuola, volevo fare l’Università, sapevo che un giorno avrei lavorato come tutti gli altri, sapevo che un giorno avrei pure guidato l’automobile, con i giusti ausili al volante. Avere amici, giocare con loro, uscire con loro non era mai stato un problema. Mi sentivo destinata a una vita molto normale, con qualche difficoltà motoria in più, ma del tutto normale. Cominciai invece a capire che agli occhi dei miei famigliari la mia vita sarebbe stata normale fino a un certo punto, cioè in tutto ma non nell’essere una donna completa.
La donna con disabilità non è una donna, è una persona disabile. Punto e basta. Dovrà passare la sua vita a gestire la sua disabilità, ma non a gestire la sua femminilità. Ma se non si parte dall’educazione al proprio corpo, alla propria espressione della sessualità, come si può riconoscere la violenza? Penso alle donne citate prima: forse se un giorno qualche male intenzionato abusasse di loro, saprebbero riconoscere ciò che sta loro succedendo? Sessualità non è il sesso, sessualità è comunicazione, è la parte di se stessi che si decide di comunicare agli altri: può essere la scelta di un vestito, ma anche di una canzone, di un piatto che si cucina per l’altra persona, di un braccialetto, di una pettinatura,… Bisogna lavorare sul diritto all’accesso alla conoscenza del proprio corpo e alla comunicazione di quello che si è. Occorre un grande lavoro di informazione, sensibilizzazione e formazione, a più livelli diversi: un lavoro culturale con le famiglie, gli educatori, gli insegnanti, gli operatori, gli assistenti domiciliari, i volontari,… Perché la donna con disabilità è perfettamente legittimata a richiedere di essere vista in quanto donna. 

9. Il cavaliere inesistente?

Concludiamo questa narrazione sui temi della sessualità e dell’affettività delle persone disabili, con un piccolo capovolgimento dello sguardo. È vero, le persone con disabilità crescono in un clima culturale in cui apprendono come la società li vede, come vede il loro corpo e le loro difficoltà, e apprendono che la società ha aspettative diverse nei loro confronti rispetto a quelle riposte nei non disabili, anche, e soprattutto, dal punto di vista erotico-emotivo. Eppure, è vero che anche la persona disabile ha il dovere (e non solo il diritto) di essere seduttiva. “Per voi disabilità fa rima con seduzione?” – domanda spesso Claudio Imprudente durante i suoi interventi in pubblico. “Nell’immaginario collettivo, uno dei frutti considerati più seduttivi è la pesca. Forse vi starete domandando perché… ebbene: la pesca è un frutto dalla superficie morbida e vellutata (non a caso per complimentarsi con una persona dell’aspetto della sua pelle si dice ‘hai una pelle di pesca’) e dai colori sfumati e brillanti, che variano dal giallo all’arancione, al rosso… Ma soprattutto, la pesca è un frutto molto succoso e dissentante. Tutte queste caratteristiche la rendono dunque molto seduttiva e appetibile! L’alter ego della pesca, ossia uno dei frutti meno seduttivi, è la noce. Già solo l’aspetto non solleva l’interesse: ha un guscio rugoso, irregolare, duro e legnoso. Per di più la noce senza uno schiaccianoci è immangiabile e, confrontandola con la pesca, è assolutamente priva di succo. Avrete già capito dove voglio andare a parare con questo discorso da agricoltore esperto: ovviamente la noce rappresenta la seduzione nel mondo della disabilità, che è chiusa in un guscio, non immediata, anzi non riconosciuta. È difficile forzare il guscio per portarla allo scoperto se non si dispone di uno strumento adeguato: questo strumento è il contesto. È questo il segreto: anche nel mondo della disabilità è necessario uno sforzo per modificare i contesti e far emergere quel potenziale seduttivo che in altre circostanze risulta oscurato o inesistente. Uno sforzo che coinvolge non solo le persone disabili ma anche tutti coloro che convivono con la disabilità e ne sono interessati a livello familiare, lavorativo, di gruppo sociale. La seduzione è un fenomeno estremamente più affascinante, che mette in primo piano la personalità in tutte le sue sfumature. Il termine ‘sedurre’ deriva dall’espressione latina ‘se ducere’, ovvero ‘condurre a sé’ quindi ‘attrarre a sé’, interessare gli altri. Ecco quindi che la capacità seduttiva, la viva curiosità che possiamo suscitare negli altri, non è una mera questione di perfezione delle forme, ma una vera e propria abilità, che deriva in primo luogo dal riconoscimento e dalla valorizzazione dei nostri punti di forza, anche se sono ‘diversi’. O forse proprio perché tali”.
Concludiamo allora con una pagina della nostra letteratura italiana, il racconto di una lunga notte di seduzione e di sessualità tra Agilulfo, il cavaliere inesistente di Italo Calvino, e Priscilla, una giovane nobildonna. Agilulfo ha un corpo appunto inesistente, visibile solo grazie alla possente armatura che lo contorna. È un corpo profondamente diverso, dunque. E anche la notte di passione con Priscilla è una notte costellata di diversità, di adattamenti, di ricerca di una sessualità che sia propria e non conforme a contesti societari normativi. Eppure – nella diversità – è anche una notte di forti emozioni, di scambi di reciproche esigenze, e di reciproche e complete soddisfazioni.

– Il cielo s’imbruna, – osservò Priscilla.
– È notte, è notte fonda, – ammise Agilulfo.
– La stanza che vi ho riservato…
– Grazie. Udite l’usignolo là nel parco.
– La stanza che vi ho riservato… è la mia…
– La vostra ospitalità è squisita… È da quella quercia che canta l’usignolo. Avviciniamoci alla finestra.
S’alzò, le porse il ferreo braccio, s’accostò al davanzale. Il gorgheggio degli usignoli gli diede lo spunto per una serie di riferimenti poetici e mitologici.
Ma Priscilla troncò netto: – Insomma l’usignolo canta per amore. E noi…
– Ah! l’amore! – gridò Agilulfo con un soprassalto di voce così brusco che Priscilla ne restò spaventata. E lui, di punto in bianco, si lanciò in una dissertazione sulla passione amorosa. Priscilla era teneramente accesa; appoggiandosi al suo braccio, lo spinse in una stanza dominata da un gran letto col baldacchino.
– Presso gli antichi, essendo l’amore considerato un dio … – continuava Agilulfo, fitto fitto.
Priscilla richiuse la porta a doppia mandata, si avvicinò a lui, chinò il capo sulla corazza e disse: – Ho un po’ freddo, il camino è spento.
– Il parere degli antichi, – disse Agilulfo, – se fosse meglio amarsi in stanze fredde oppure calde, è controverso. Ma il consiglio dei più…
– Oh, come voi conoscete tutto dell’amore… – bisbigliava Priscilla.
– Il consiglio dei più, pur escludendo gli ambienti soffocanti, propende per un certo natural tepore…
– Devo chiamare le donne ad accendere il fuoco?
– Lo accenderò io stesso -. Esaminò la legna accatastata nel camino, vantò la fiamma di questo o di quel legno, enumerò i vari modi di accender fuochi all’aperto o in luoghi chiusi. Un sospiro di Priscilla l’interruppe; come rendendosi conto che questi nuovi discorsi stavano disperdendo la trepidazione amorosa che s’era andata creando, Agilulfo prese rapidamente ad infiorare il suo discorso sui fuochi di riferimenti e paragoni e allusioni al calore dei sentimenti e dei sensi.
Priscilla ora sorrideva, a occhi socchiusi, allungava le mani verso la fiamma che cominciava a scoppiettare e diceva: – Quale grato tepore… quanto dev’essere dolce gustarlo tra le coltri, coricati…
[…]
Il letto era ora pronto, senza pecche. Agilulfo si voltò verso la vedova. Era nuda. Le vesti erano castamente scese al suolo.
– Alle dame ignude si consiglia, – dichiarò Agilulfo, – come la più sublime emozione dei sensi, l’abbracciarsi a un guerriero in armatura.
– Bravo: lo vieni a insegnare a me! – fece Priscilla. – Non sono mica nata ieri! – E in così dire, spiccò un salto e s’arrampicò ad Agilulfo, stringendo gambe e braccia attorno alla corazza.
Provò uno dopo l’altro tutti i modi in cui un’armatura può essere abbracciata, poi, languidamente, entrò nel letto.
Agilulfo s’inginocchiò al capezzale. – I capelli, – disse.
Priscilla spogliandosi non aveva disfatto l’alta acconciatura della sua bruna chioma. Agilulfo prese ad illustrare quanta parte abbia nel trasporto dei sensi la capigliatura sparsa. – Proviamo.
Con mosse decise e delicate delle sue mani di ferro, le sciolse il castello di trecce facendo ricadere la chioma sul petto e sulle spalle.
– Però, – soggiunse, – ha certamente più malizia colui che predilige la dama dal corpo ignudo ma dal capo non solo acconciato di tutto punto, ma pure addobbato di veli e diademi.
– Riproviamo?
– Sarò io a pettinarvi -. La pettinò, e dimostrò la sua valentia nell’intessere trecce, nel rigirarle e fissarle sul capo con gli spilloni. Poi preparò una fastosa acconciatura di veli e vezzi. Così passò un’ora, ma Priscilla, quando egli le porse lo specchio, non s’era mai vista così bella.
Lo invitò a coricarsi al suo fianco. – Dicono che Cleopatra ogni notte, – egli le disse, – sognasse d’avere a letto un guerriero in armatura.
– Non ho mai provato, – confessò lei. – Tutti se la tolgono assai prima.
– Ebbene, adesso proverete -. E lentamente, senza gualcire le lenzuola, entrò armato di tutto punto nel letto e si stese composto come in un sepolcro.
– E neppure vi slacciate la spada dal budriere?
– La passione amorosa non conosce vie di mezzo.
Priscilla chiuse gli occhi, estasiata.
Agilulfo si sollevò su un gomito. – Il fuoco butta fumo. M’alzo a vedere come mai il camino non tira.
Alla finestra spuntava la luna. Tornando dal camino verso il letto, Agilulfo si arrestò: – Signora, andiamo sugli spalti a godere di questa tarda luce lunare.
La avvolse nel suo mantello. Allacciati, salirono sulla torre. La luna inargentava la foresta. Cantava il chiù. […]
– Tutta la natura è amore…
Tornarono nella stanza. Il camino era quasi spento. S’accoccolarono a soffiare sulle braci. A stare lì vicini, le rosee ginocchia di Priscilla sfiorando le metalliche ginocchiere di lui, nasceva una nuova intimità, più innocente.
Quando Priscilla tornò a coricarsi la finestra era sfiorata già dal primo chiarore. – Nulla trasfigura il viso d’una donna quanto i primi raggi dell’alba, – disse Agilulfo, ma perché il viso apparisse nella luce migliore fu costretto a spostare letto e baldacchino.
– Come sono? – chiese la vedova.
– Bellissima.
Priscilla era felice. Però il sole saliva rapido e per inseguirne i raggi, Agilulfo doveva spostare continuamente il letto.
– È l’aurora, – disse. La sua voce era già mutata. – Il mio dovere di cavaliere vuole che a quest’ora io mi metta in cammino.
– Di già! – gemette Priscilla. – Proprio adesso!
– Mi duole, gentile dama, ma sono spinto da un compito più grave.
– Oh, era così bello…
Agilulfo chinò il ginocchio. – Benedicetemi, Priscilla -. S’alza, già chiama lo scudiero. Gira per tutto il castello e finalmente lo scova, sfinito, addormentato morto, in una specie di canile. – Svelto, in sella! – Ma deve caricarlo di peso. Il sole continuando la sua ascesa campisce le due figure a cavallo sull’oro delle foglie del bosco: lo scudiero come un sacco là in bilico, il cavaliere dritto e svettante come la sottile ombra d’un pioppo.
Attorno a Priscilla erano accorse dame e fantesche.
– Com’è stato, padrona, com’è stato?
– Oh, una cosa, sapeste! Un uomo, un uomo…
– Ma diteci, raccontateci, com’è?
– Un uomo… un uomo… Una notte, un continuo, un paradiso…
– Ma che ha fatto? Che ha fatto?
– Come si fa a dire? Oh, bello, bello…
– Ma con tutto che è così, eh? Eppure… dite…
– Adesso non saprei come… Tante cose… […]
Padrona, diteci di lui, del cavaliere, eh? com’era Agilulfo?
– Oh, Agilulfo!
(Italo Calvino, Il cavaliere inesistente, Milano, Oscar Mondadori, 1993, pp. 87-93)

6. “Questo corpo è mio, questo corpo mi appartiene”: il diritto al corpo

A volte si sottovaluta che siamo prima di tutto un corpo, fatto in un certo modo, con dei confini fisici ben precisi con i quali esperiamo ciò che ci circonda. Molto di ciò che siamo come persone deriva dal corpo, è il corpo il nostro primo “strumento” di conoscenza della realtà. Essere estroversi, vivaci, allegri, tristi, depressi, rinchiusi in se stessi, avere fiducia in sé e negli altri sono tutti modi di essere e di agire che ci derivano dall’avere un corpo fatto in un certo modo o dalla percezione che abbiamo del nostro corpo. Quando su un corpo intervengono dei limiti oggettivi come i deficit, la persona può avere meno fiducia in se stessa, o essere demotivata, o provare un senso di rifiuto per il proprio corpo percepito come non bello perché non simile ai corpi degli altri. La disabilità passa prima di tutto dal corpo, è un corpo diverso; e valorizzare ugualmente il proprio corpo, nel senso di dargli comunque un valore per quello che ci fa essere, può risultare un’operazione non molto semplice per una persona disabile. Lo stesso guardarsi allo specchio, e piacersi, sembra spesso impossibile. “Se pensiamo, poi, al percorso di formazione dell’identità corporea di una persona disabile – scrive Priscilla Berardi nell’articolo “Sessualmente abili” pubblicato sulla rivista “Connessioni” (n. 25, gennaio, 2011) – non possiamo non considerare che la sperimentazione del proprio corpo, dello spazio che lo circonda e dell’attività in questo spazio può essere frustrante, impedendo di coniugare emozioni e movimento; l’eventuale patologia alla base della disabilità, soprattutto se progressiva, può far esperire un senso di mancanza di controllo sugli eventi, sulla realtà circostante e su di sé, originando sentimenti di inefficacia e non-incisività; ogni esperienza che per altri avviene in modo del tutto naturale e armonico, come andare a scuola, giocare coi compagni, dedicarsi a uno sport, prendere un mezzo di trasporto, trovare amici o partners affettivi e sessuali, possono essere per la persona con disabilità un’esasperante sequenza di sfide e di micro o macro problemi, pratici e relazionali, che certamente possono temprare il carattere di alcuni e allenarli a lottare e a inventare soluzioni originali, ma possono fiaccare la volontà e l’umore di chi in generale, o in quel momento, possiede meno risorse interiori ed esterne; alcune disabilità impongono una dipendenza parziale o totale dalle cure di altri (familiari e/o operatori) che traducono i bisogni in azioni penalizzando però spesso pesantemente la privacy; ma soprattutto il corpo della persona disabile è, sin dall’esordio della disabilità, ‘trattato’ e non ‘toccato’, sottoposto a manipolazioni sgradite, iperinvestito di cure, indagini e interventi, molto diversi dalle carezze e dal contatto che dona piacere, e spesso accompagnati da sentimenti di angoscia o preoccupazione”.
Ci si ritrova, dunque, a essere trattati e maneggiati come marionette. Si può arrivare, in alcuni casi, a non avere la percezione completa e totale del proprio corpo, e questo incide molto negativamente sulla costruzione della propria identità, e del proprio ruolo, perché è il corpo l’interfaccia di ognuno di noi con l’altro, ciò che ci mette in relazione, in comunicazione, in contatto. Come si può riuscire ad avere uno spazio in cui essere uomo o donna, se non esiste privacy, perché ogni movimento è osservato e aiutato da qualcuno? Come avere percezione completa del proprio corpo, attraverso se stessi e non attraverso ciò che ci viene detto o fatto pensare dagli altri?
Al Centro Documentazione Handicap, all’interno del Progetto Calamaio, è stato realizzato un lungo percorso laboratoriale di conoscenza di sé, a cura del mio collega Tristano Redeghieri, per aiutare i giovani ragazzi disabili che lavorano con noi a costruire un’identità personale consapevole delle proprie difficoltà ma anche delle proprie risorse, per conoscere meglio la propria disabilità e anche la propria diversità rispetto agli altri, e poter trasformare – dove possibile – la diversità in originalità. I ragazzi partecipanti al laboratorio hanno disabilità molto complesse, con gravi perdite dell’autonomia fisica e deficit intellettivi lievi/medi. Sono anche molto giovani, alcuni hanno disabilità acquisite e/o degenerative.
Al primo incontro si è chiesto ai ragazzi di disegnare una persona reale o immaginaria e poi di descriverla davanti a tutti. In seguito bisognava presentare se stessi; alcuni esempi:
Sono Diego e sono in carrozzina, ma vorrei non esserci. Sono come tutti gli altri, anche se non è così. (Diego)
Io sono una ragazza di 26 anni, sono molto decisa; quando sono giù di morale e mi sento di aver bisogno di aiuto a volte rispondo e reagisco in un modo molto brutto. Ma sono anche solare e sensibile. (Tiziana)
Mi piace lavorare al pc, adoro leggere. Mi piace andare fuori a divertirmi, mi piace fare ginnastica, guardare gli sport come motociclismo e atletica. Adoro Amedeo Minghi. Mi piace il lavoro al CDH. (Lorella)
Ho 26 anni, amo la natura e gli animali e la mia famiglia. Mi piacciono gli sport che faccio al Sestriere, il mio papà è il sole e la mamma la luna. Mi piace scoprire cose nuove dell’universo, gioco al pc e Nintendo, mi piacciono i cartoni animati. (Danae)

Alla domanda “Come vi siete sentiti in questo primo incontro?”, le risposte sono state tra il positivo e l’imbarazzato:
Sono riuscita a tirare fuori le mie emozioni perché sono sempre da sola e non parlo con nessuno e qua qualcuno mi ascolta. (Lorella)
Parlare di me mi ha messo in imbarazzo. (Tiziana)
Non mi ero mai sentita libera di dire le cose e ho scoperto di essere spontanea. È un laboratorio dove non ci sono aspettative e le cose vengono naturali. (Francesca)
Mi è piaciuto fare il disegno, ma per parlare di me ho avuto un po’ di difficoltà a trovare le parole. (Danae)

Al secondo incontro, si è passati alla descrizione scritta di se stessi su un foglio, per verificare quale immagine si ha del proprio corpo (immagine finora costruita secondo il modello delle figure parentali). Per descriversi, occorreva anche guardarsi davanti a uno specchio. Le descrizioni sono state molto accurate, ma le sensazioni sul lavoro eseguito sono molto significative:
Ho fatto fatica perché non mi piaccio molto e non mi guardo tanto allo specchio. E non sono abituato a parlare di me. Mi devo abituare di più a come sono fatto anche se non mi piace. (Diego)
Mi è piaciuto, ma mi sono sentita imbarazzata a descrivermi perché non l’avevo mai fatto. (Lorella)
Era la prima volta che andavo davanti allo specchio e ho visto la mia immagine com’è veramente. Mi sono riscoperta come una persona nuova. (Francesca)
Mi sono sentito in difficoltà perché non sono abituato a farlo e non conosco bene il mio corpo. (Giacomo)
È stato molto difficile, ho provato imbarazzo e paura a descrivere come sono le tette e anche a parlare della mia mobilità. Adesso che l’ho detto mi sento meglio. (Danae)
Mi sono sentita in difficoltà perché sono vanitosa. Ma questa volta sono rimasta concentrata su di me fisicamente e mi sono sentita brutta. (Tiziana)

Al terzo incontro, sono stati portati tanti limoni, ognuno ha scelto il proprio e lo si è descritto. Poi i limoni sono stati mescolati e ognuno ha dovuto riconoscere il proprio limone. I limoni sono stati descritti benissimo, nei minimi dettagli. Qualunque segno, scanalatura, macchia è stato descritto e riconosciuto. Riconosciuta perfettamente anche la forma corporea del limone, e le sensazioni al tatto, alla vista e all’olfatto.
È stato difficile perché vedo solo le apparenze senza andare nei particolari. (Francesca)
Non ho fatto fatica a dire tutti i particolari. Ho fatto più fatica a descrivere me stesso. (Diego)
Mi sono sentito bene a descrivere il limone, molto meglio che a descrivere me stesso perché non pensavo al mio corpo. (Giacomo)
Faccio fatica a descrivere me stessa, più che a descrivere il limone. (Tiziana)
È stato più facile descrivere il limone che me stessa, perché anche davanti allo specchio il mio corpo non lo vedo tutto. Perdo dei pezzi della descrizione. (Lorella)
Evitiamo di descrivere le parti del corpo che non accettiamo. (Francesca)
Una parte che non usiamo non la descriviamo. (Stefania)

Al quarto incontro si è deciso di disegnare l’impronta corporea su un foglio gigante, sdraiati a terra. Infatti la visione di se stessi davanti allo specchio era stata comunque “parziale”: ad esempio chi è seduto su una carrozzina, allo specchio si vede comunque seduto, non “in piedi”, non un intero.
È la prima volta che lo faccio. Non sono neanche abituata a sdraiarmi per terra. Ho avuto un po’ di paura. È stata una piccola conquista e devo lavorare sulla paura di cadere. Non avevo mai visto il mio corpo per intero e alcune parti che non conosco. Mi ha incuriosito, ma ho paura. Penso sempre che gli altri siano migliori di me. (Francesca)
Io non conoscevo tutto il corpo. Ho scoperto che ho le gambe. Di solito ho bisogno di aiuto, quindi mi dimentico di avere le gambe. (Diego)
Mi ha reso più consapevole di cosa possono fare le mie gambe e mi ha dato la possibilità di accettarle un pochino più di prima. (Tiziana)
Ho scoperto che senza il busto il mio braccio sinistro si muove un po’ di più. (Stefania)
Non mi sono mai vista sdraiata. Ho avuto paura. (Danae)

Sono seguiti anche altri incontri, con attività di ginnastica e di miglioramento dell’autostima, per scoprire cosa si sa fare o non fare, confrontandosi anche con gli altri. Per prendere coscienza delle proprie competenze, riconoscendo le proprie qualità e acquisendo una maggiore consapevolezza del proprio corpo. Si è chiesto di nuovo ai ragazzi di disegnarsi e di descriversi, e si è toccato, anche se solo marginalmente, il tema della sessualità e dell’affettività, con le proprie esigenze e i propri sentimenti.
Paradossalmente, i pensieri su quest’ultima tematica, al momento, non li riportiamo. Quello che interessa – e dovrebbe interessare – è proprio il tema della percezione corporea di se stessi.
Nel film americano The sessions, noto al grande pubblico per avere portato sullo schermo la realtà delle figure degli assistenti sessuali per persone disabili, c’è un piccolo ma significativo dialogo proprio sul tema del corpo: a 38 anni, il protagonista Mark O’Brien, un poeta e giornalista che ha trascorso parte della sua esistenza all’interno di un polmone d’acciaio a causa della poliomielite che lo ha reso tetraplegico, decide che è arrivato il momento di perdere la verginità; la sua nuova assistente domiciliare, con mentalità più aperta delle precedenti, lo porta da una sessuologa, che però risponde di non poter far nulla, perché lei aiuta persone con problemi sessuali già manifestati, ma non può aiutare lui che non conosce il suo corpo, non ha mai avuto la possibilità di toccarsi o di vedersi a uno specchio perché completamente immobilizzato e rinchiuso in un polmone d’acciaio.
Si parla ormai “solo” di diritto alla sessualità e all’affettività delle persone disabili, ma questo diritto lo possono allora esigere anche le persone normodotate. Non tutti i “normali”, infatti, sono poi così fortunati o così avventurosi nelle storie sentimentali o sessuali. Per questo – si diceva all’inizio – non bisogna essere frettolosi con le parole e con ciò che si esige a livello normativo. Soprattutto nei casi di disabilità complesse e gravi, occorre prima di tutto un lungo accompagnamento alla scoperta di se stessi. Un’educazione, in qualche modo anche sessuale, al proprio corpo.
Il diritto principale di cui dobbiamo occuparci e prenderci cura è il diritto al proprio corpo. Anche quando il corpo è “un corpo con problemi” o “un corpo difettoso”. Il corpo non è un “vestito” dell’individuo, ma è l’individuo nella sua globalità. Il corpo non è solo un nostro strumento, come se fosse un oggetto aggiunto alla nostra mente che ci permette di svolgere alcune azioni (o non svolgerle in caso di deficit). Il corpo è la nostra appartenenza a noi stessi, nella nostra interezza e totalità di tutto il nostro essere. I ragazzi del Progetto Calamaio conoscono benissimo il concetto di corporeità, di cosa vuol dire occupare un volume solido nello spazio, avere una determinata forma, un colore, un sapore, un odore, ma solo se questa corporeità non li riguarda direttamente. L’esempio dei limoni è lampante: non si hanno problemi con il “corpo” del limone, ma con il proprio corpo sì.
La vera sfida, oggi, per parlare di sessualità e affettività delle persone disabili è affidare al corpo una pienezza di senso e di valore. Perché non abbiamo un corpo, ma siamo un corpo. 

5. “Chiudi gli occhi e guardami”: gli sguardi degli altri e gli sguardi delle famiglie sul corpo

Il tema delle immagini culturali ci porta per parallelismo al tema degli sguardi. I limiti delle altre persone ci fanno scoprire i nostri limiti. Cosa guardiamo allora? Come? Perché se frequentiamo una persona disabile rischiamo di vedere solo la fragilità, la dipendenza, e non il suo essere uomo o donna? Perché abbiamo bisogno di consenso e approvazione da parte degli sguardi degli altri per sentire legittimata la relazione di coppia con una persona che ha una diversità? Cosa succede se sono gli stessi genitori a vedere il figlio o la figlia come diversi, e a ritenere impossibile che un altro o un’altra possano desiderarli? Se lo sguardo dei familiari sul corpo è squalificante? Ne abbiamo parlato con Giorgio Rifelli, medico, specialista in psicologia clinica, direttore del Servizio di Sessuologia del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna, dove insegna.

Perché si fa fatica a parlare di sessualità, nonostante il mondo mediatico sia sovraccarico di immagini afferenti la sessualità (e i suoi aspetti commerciali)?
La sessualità è un territorio a elevato rischio, è un argomento particolarmente coinvolgente. In genere si colpevolizza molto l’assetto religioso di uno Stato. In Italia si colpevolizza la Chiesa, in realtà la Chiesa è solo un falso bersaglio. La sessualità è in sé un argomento difficile e potenzialmente disordinante. E siccome sulla sessualità si fondano le relazioni sociali, allora la ragione sostanziale per cui c’è sempre un atteggiamento di cautela nei confronti della sessualità nasce proprio dal timore – seppure inconsapevole – di mettere a rischio le basi strutturanti della società. 

Perché si fa fatica a inserire la persona disabile dentro al tema della sessualità, e quali sono le difficoltà delle persone disabili a trovare un partner?
Il problema non riguarda solo la disabilità in sé, ma è più generale. Innanzitutto siamo una cultura che privilegia la vista come organo di scambio relazionale, contrariamente ad altre culture, per esempio quella ebraica che privilegia la parola. Nel momento in cui noi tendiamo a privilegiare la vista, e quindi l’immagine, il primo impatto relazionale è quello che io vedo. Quindi quello visivo è il primo momento in cui si è o no interessati all’altro. Che poi da qui nasca o non nasca un interesse affettivo o sessuale può essere secondario. Per cui ci ritroviamo ad avere non solo l’emarginazione che il disabile tendenzialmente subisce, ma anche questa emarginazione estetica. E quindi prima di accedere alla persona, perché poi ovviamente i legami affettivi e le relazioni non crescono esclusivamente sull’aspetto fisico, il più delle volte in realtà possono partire da lì ma poi continuano a crescere sugli aspetti della personalità, del carattere, delle ideologie, delle scelte, ecc., occorre avere una certa frequentazione del mondo della disabilità, per poter capire cosa c’è oltre la disabilità. E questo rende più difficili i rapporti e i possibili affetti che possono nascere. C’è anche un altro equivoco, cioè che la sessualità viene interpretata più facilmente come attività sessuale, mentre nella sessualità c’è anche una componente affettiva, una componente emotiva, c’è la propria identità di uomo, di donna. 

Una volta però che le persone si sono conosciute, al di là della disabilità, cosa ulteriormente ostacola la vita di coppia?
Nella relazione c’è di fatto un inganno sostanziale, cioè noi non relazioniamo con le persone ma con quello che le persone secondo noi rappresentano. Quindi alla partenza di un rapporto noi abbiamo a che fare con i nostri fantasmi, non con quello che è l’altra persona. Per cui la difficoltà è andare oltre le proprie immagini o quello che io attribuisco all’altro. Questo è un altro degli elementi che rendono più difficile una relazione con una persona disabile, perché si fa fatica a mettere addosso i propri fantasmi, le proprie fantasie o parte di sé, nella figura di una persona che porta una disabilità. In qualche maniera ci si cerca abbastanza simili e ci si esclude a priori. E quindi il disabile diventa persona senza sesso, asessuata, che poi è anche il problema del rapporto genitoriale ed educativo. Come mai, ci si chiede, una persona che non ha disabilità visibili si interessa a una persona con disabilità visibili? Se questo interesse non è motivato da ragioni infermieristiche, dal bisogno esclusivo di proteggere e di curare, allora si può cominciare a costruire insieme qualcosa, una relazione paritetica. 

Quali sono le paure delle persone disabili?
Le paure delle persone con disabilità di costruire una coppia o realizzare un’esperienza anche semplicemente sessuale nascono soprattutto dalla difficoltà che spesso sono proprio gli stessi disabili i primi a non accettare la propria disabilità. Il primo a essere cauto e ad autoescludersi in queste situazioni è proprio il disabile, ovviamente favorito poi da tutta una serie di dati del contesto e da esperienze frustranti. 

Come reagiscono i genitori quando emerge la sessualità dei loro figli?
In genere la sessualità dei figli mette in gioco la sessualità dei genitori. Quindi la maggiore attenzione quando lavoriamo con i genitori è quella di far capire loro che non si devono preoccupare della sessualità dei loro figli, ma di quanto quella sessualità metta in discussione il loro modo di vedere le cose. Ma questo vale anche per gli educatori che ad esempio lavorano nei centri: soprattutto là dove ci si confronta con la disabilità psichica è facile che la sessualità emerga, ad esempio col fatto che un ragazzo si masturba in mezzo agli altri. Davanti a questo evento non abbiamo particolari strumenti se non quelli tipici dell’educazione, cioè insegnare che certe cose si fanno in un posto e non in un altro. Ma di fatto è il corpo degli educatori che entra in crisi o in panico, perché non ha strumenti, e non ha strumenti soprattutto perché non è in prima persona abituato ad affrontare la cosa. Il problema nasce proprio dalla difficoltà a organizzare la propria sessualità e il proprio rapporto con la sessualità. Per cui si è messi totalmente in gioco, è il caso in cui il re è nudo.
Ufficialmente le famiglie tendono a infantilizzare molto il figlio, e quindi a ignorare il problema. Purtroppo a volte in alcune famiglie si interviene al contrario. Ci sono mamme che masturbano i propri figli. Questo da un punto di vista umano è comprensibile, è un prendersi in qualche modo cura, però da un punto di vista educativo è totalmente scorretto. 

Quanto incide lo sguardo delle famiglie sul corpo con disabilità?
Penso per esempio a delle osservazioni sociologiche sui ruoli, per cui nelle famiglie si costruiscono delle immagini stereotipate per ciascuno dei componenti, che finiscono per essere delle identità imposte e ricercate da chi le ha subite: ci sono ad esempio i figli che sono maldestri e saranno sempre maldestri, ci sono i figli che si sporcano a tavola, per cui saranno sempre quelli che si sporcano a tavola. Per cui c’è un identikit che la famiglia costruisce e verso cui i componenti tendono ad andare. Addirittura questo meccanismo lo si usa anche per spiegare la genesi dei criminali, cioè l’ultimo della classe deve essere l’ultimo della classe per tutta la vita e quindi cercherà sempre di identificarsi in una figura negativa. Una famiglia che è squalificante verso un corpo, o addirittura rimuove la presenza di un corpo, favorisce anche nel figlio la rimozione del corpo e questo vale per tutti, non solo per le persone disabili. Di fatto, soprattutto nella patologia sessuale, il rapporto col proprio corpo è un rapporto spesso conflittuale e nasce da un atteggiamento distanziante della famiglia rispetto al corpo. Abbiamo, ad esempio, degli adulti trentenni che non si lavano i genitali o che arrivano a trent’anni con una fimosi perché non si sono mai guardati. Quindi lo sguardo della famiglia sul corpo vale sia ovviamente per chi ha una disabilità sia per chi non ce l’ha. È vero che i figli sono tutti belli a mamma sua, ma in cuor suo la madre sa che sono come sono. A volte è un atteggiamento che ipertrofizza la negatività, è squalificante.
Inoltre, come dicevo prima, nella nostra cultura occidentale lo sguardo è il senso privilegiato, rispetto alla parola, ed è lo sguardo per noi la via attraverso cui si strutturano le relazioni. Quindi parlare di sguardo delle famiglie non è solo una metafora, è un dato molto reale. 

Paradossalmente la famiglia è quella che in qualche modo è sempre sul corpo della persona disabile, per l’igiene quotidiana o per gli spostamenti, quindi quel corpo lo percepisce molto bene eppure nello stesso tempo lo rimuove…
C’è questa grande contraddizione: ce l’ho sempre davanti al naso ma non lo vedo. Ho bisogno di rielaborarlo. D’altra parte credo che sia il problema maggiore di tutte le persone che non hanno pratica di disabilità, perché la prima cosa che si fa è proprio quella di far finta che non ci sia. A volte anche gli stessi disabili tendono a fare così, ad esempio le persone non vedenti usano moltissimo la parola vedere.
Lo sguardo dei familiari è quello che costruisce l’identità corporea, o ne favorisce la costruzione.
Proprio attraverso lo sguardo noi rileviamo, questo per un problema di percezione, le incongruenze, cioè siamo alla ricerca di una sorta di armonia che ci tranquillizzi. Per cui l’occhio cade facilmente su quello che non è nell’ordine delle cose. Abbiamo il “vizio” percettivo per cui possiamo fare a meno di notare una persona che fisicamente si presenta come apparentemente normale, ma basta una cosa anche piccolissima e la notiamo.
Una mia collaboratrice una volta, per un concorso, scrisse questo verso: “Chiudi gli occhi e guardami”. Credo che in questa frase ci sia la chiave di tutto: per poter realizzare veramente un rapporto con l’altro, devo andare oltre quello che vedo, perché quello che vedo mi tradisce perché si riempie dei miei fantasmi. In qualche maniera nelle famiglie succede che non si va oltre, e quindi si rimane bloccati intorno a quella che può essere l’immagine immediata. Subentrano anche tante dinamiche, ad esempio il fatto che il figlio possa rappresentare una produzione non ideale, quindi i sensi di colpa che si riversano su questo aspetto; e le rimozioni sul corpo diventano anche più facili, senza rendersi conto che poi si fa peggio di quello che si potrebbe fare. 

4. Persone e immagini

Il tema delle immagini per la nostra cultura è di fondamentale importanza. Sono le immagini che abbiamo in mente che creano la cultura collettiva. Mi spiego meglio con un esempio. Da molti anni ormai mi occupo di ricerche sulla maternità delle donne disabili, che per ora hanno prodotto due monografie di “HP-Accaparlante” (cfr. Mamme. Nessun aggettivo dopo il punto. Madri disabili: percorsi di adeguamento di sé tra difficoltà e soluzioni del 2005 e Ti sento, ti tocco, ti “vedo”, tu lo sai. Percorsi di maternità per le donne non vedenti del 2010). Durante le ricerche mi sono confrontata con molte donne con disabilità e con molte persone che lavorano nel mondo della disabilità. L’elemento chiave che emergeva era che mancavano le immagini mentali di riferimento, sia alle persone “normodotate” sia alle stesse donne disabili. Se pensiamo alla parola “madre”, infatti, ci emerge subito il fotogramma della donna abile a prendersi cura dei figli, magari una donna che tiene il figlio con un braccio e con l’altro braccio sorregge le borse della spesa. Ovviamente un’immagine del genere non riusciamo ad adattarla sull’immagine di una donna disabile, e subito ci chiediamo “Ma come farà una donna disabile a gestire un figlio e le attività quotidiane?”. Le stesse donne con disabilità, quando desiderano un figlio oppure già hanno un figlio, si devono confrontare con questa immagine collettiva. Si generano dunque tante paure e tanti equivoci. Occorre costruire delle immagini di riferimento sul tema della sessualità e dell’affettività, costruire veri e propri fotogrammi di pensieri e parole e magari anche volti, sia per le persone disabili che possono così confrontarsi con altre persone disabili che vivono la stessa situazione, sia per tutte le altre persone, comprese le famiglie, che possono così arrivare a pensare a situazioni di possibilità e non solo di negazione. Il racconto che seguirà è proprio organizzato per “istantanee”: le frasi sono riprese dal lungo lavoro di interviste, a cura di Priscilla Berardi e Adriano Silanus, realizzate per costruire Sesso, amore & disabilità. Ovviamente la parola scritta è forse meno potente dell’immagine visiva del documentario, ma anche la parola scritta riesce a creare immagini mentali e – ci auguriamo – immagini culturali.

Gabriele
Sono Gabriele Viti*, ho 35 anni anche se di testa ho forse 10-12 anni. Ho una spasticità molto interessante, che mi ha condizionato la vita, però devo dire che mi ha anche consentito delle esperienze particolari che formalmente, se non avessi avuto questo handicap, non avrei mai vissuto. 
[*Gabriele Viti è anche autore del testo Il Kama Sutra dei Disabili e protagonista del documentario Il Kamasutra del Disabile, di Alberto D’Onofrio (inserito nella serie “Erotika italiana” prodotta da Cult/Fox).

Qual è l’atteggiamento generale delle persone verso l’affettività e la sessualità delle persone disabili?
Non vorrei essere drastico ma credo che questa domanda se la pongano in pochi. In Italia c’è la consuetudine di associare la persona disabile al malato, ma il disabile è solo una persona che vive in condizioni fisiche diverse. Penso che la maggioranza della popolazione italiana veda quindi la disabilità come qualcosa da curare, come un oggetto di pietà, e alle persone disabili si garantiscono i diritti fondamentali: salute, forse lo studio, forse il lavoro. Però poi basta, perché “vi si dà lo studio, la salute, il lavoro, volete anche il sesso? Cominciate a esagerare!”.
La disabilità fa anche paura: quando io vado in giro da solo vedo la gente che non si avvicina; quando chiedo un indirizzo dieci persone fanno finta di non capire; in treno, il vicino di sedile si sposta perché pensa che gli attacchi qualcosa.
Però bisogna anche dire che la responsabilità non si può dare tutta agli altri, anche noi disabili dobbiamo prenderci la nostra dose di colpa, perché dobbiamo smettere di nasconderci e uscire dai recinti. 

Quali sono le paure sia delle persone non disabili che delle persone disabili di instaurare una relazione di coppia?
Io credo che da parte del disabile ci sia la paura di non essere all’altezza di soddisfare o di dare una qualità di vita soddisfacente al partner. E credo che le persone cosiddette normali, dal canto loro, se instaurano un rapporto sentimentale con un disabile devono fare una bella battaglia, con gli amici, con i genitori e con tutto il mondo più prossimo a loro, perché sicuramente non è visto come naturale che una ragazza o un ragazzo attraente decidano di avere una relazione vera con una persona che non è nelle stesse condizioni.
L’ultima storia che ho avuto si è conclusa un po’ perché lei non era sicura al 100%, ma soprattutto perché c’erano i genitori di lei molto, molto ostili. Addirittura la madre mi ha chiesto se sapevo far l’amore… Poi nell’anno che siamo stati insieme, i genitori hanno apprezzato il mio grado di intelletto, ma non digerivano che la loro figlia stesse con uno storpio.
La sicurezza nella relazione viene prendendo coscienza ad esempio del fatto che quando si va al ristorante io bevo con la cannuccia, o che lei mi deve tagliare la pizza. Sono tutte cose piccole, però devono essere accettate.
La mia prima storia è stata quando avevo 20 anni e lei 25, ma è stata colpa mia se è finita, perché mi vergognavo a uscire con i suoi amici. Il processo di accettazione di sé e della consapevolezza di sé sono molto lunghi e io mi vergognavo a farmi vedere davanti ai suoi amici a bere con la cannuccia, mi vergognavo di non essere come loro. Ora questo non mi interessa, ma a 20 anni non avevo questi strumenti culturali e psicologici per dire “Gabriele, è così, o ti adatti o stai a casa”.
Quando ero adolescente chiedevo molto spesso a mia sorella se sarei stato in grado di pomiciare, perché nel mio essere adolescente baciare con la lingua voleva dire essere accettato. Infatti, le persone con la mia disabilità di solito a volte perdono la saliva e onestamente non è che sia molto bello, per cui l’idea che una ragazza accettasse la mia saliva per me era più importante dell’atto sessuale in sé, voleva dire che mi aveva accettato in tutto.
Una volta mi è capitata una situazione in cui una ragazza voleva stare con me, ma io l’ho rifiutata. Mi vergogno molto a dirlo, l’ho rifiutata perché era grassa. Quindi ho discriminato: anch’io sono dentro questo giro della discriminazione, e quindi l’ho vissuta come una doppia sconfitta: tu che lotti contro la tua discriminazione sei quello che subito discrimina.
Un disabile come me che ha difficoltà del linguaggio ha difficoltà a trovare una escort disponibile, perché si associano subito le difficoltà di linguaggio a instabilità mentali. Per cui quando telefono mi riattaccano. Un mio amico non vedente mi ha chiesto se gli potevo cercare su internet qualche ragazza, quindi prima mi sono dovuto far spiegare i suoi gusti. Questo fa capire la difficoltà che ha un disabile a raggiungere anche semplicemente un rapporto sessuale a pagamento. Se noi tentiamo poi di aprire la tenda della disabilità al femminile, lì siamo all’età della pietra. Ringrazio di essere un uomo perché se fossi stato una donna avrei avuto molte difficoltà in più. Ogni volta che partecipo a convegni sulla sessualità e disabilità, i tre quarti della mia relazione sono rivolti a questo argomento, su come fare per dare questo diritto a tutti. Io lo definisco un diritto, non un diritto legale, ma un diritto sociale.
Credo che prima di dare consigli agli adolescenti disabili, si dovrebbe dare un consiglio ai genitori: io ho avuto alle spalle genitori che hanno creduto nelle mie possibilità e che, anche se con paura, mi hanno permesso di sbattere la testa in terra, sia in senso metaforico, ma anche in senso reale. I genitori tendono a mettere una palla di vetro sopra il figlio pensando di proteggerlo, in realtà creano una disabilità maggiore. Io credo che ogni disabilità può essere migliorata a livello di autonomia. 

In che modo si superano le difficoltà a letto?
Conoscendosi e rispettandosi. 
Secondo me nell’atto sessuale l’essere disabili ha un peso relativo, perché a letto l’handicap sparisce. Nel senso che se tu vai a letto con una persona vuol dire che già tante barriere sono cadute, quindi entra in gioco il vero essere dei due. 

Valentina
Sono Valentina, ho 26 anni, la mia disabilità è dovuta a un’asfissia cerebrale che mi ha portato a non poter camminare e ad avere un parziale uso degli arti superiori.
I miei compagni di classe alle scuole medie non mi consideravano come un’ipotetica fidanzatina, ero l’amica in carrozzina e punto. Le altre ragazze erano corteggiate, considerate, ma nel mio caso non era così. È stato forse il periodo più brutto della mia vita perché mi vedevo cambiare fisicamente, non accettavo il fatto di non poter fare determinate cose. Magari qualche ragazzino era più interessato, ma i suoi amici non dovevano saperlo, perché si vergognava a farsi vedere con me.
Alcuni ragazzi sarebbero tentati di conoscerti dal punto di vista affettivo ma sono frenati dai problemi che tu hai. Altri non si fanno problemi, ma pensano che una persona disabile voglia per forza una storia seria. Sono frenati perché pensano “tu magari ti affezioni, io passo per quello che ti fa stare male”… C’è sempre l’occhio di riguardo verso la donna disabile, “poverina la faccio soffrire, sicuramente lei vuole l’amore romantico, con il lieto fine”. La persona disabile, come qualsiasi altra persona, può essere romantica e vivere il sesso con sentimento e soltanto con sentimento, come può cercare invece solo l’avventura. Il fatto di avere una disabilità non significa avere un’idea diversa del sesso. Personalmente la vivo in maniera più romantica e non nego che vorrei una bella storia d’amore.
Parlo di sessualità solo con la mia migliore amica. Le volte che provo a farlo con gli altri amici della compagnia mi guardano come se stessi parlando di una cosa che non conosco, sono imbarazzati. Probabilmente non credono che io abbia avuto esperienze sessuali e sentimentali. Pensano che non avrò un compagno, che io mi debba accontentare della mia vita da single o che al massimo potrò trovare un compagno con disabilità.
Quando nasci disabile e tutti intorno a te pensano che i disabili siano asessuati, ti viene inculcato questo concetto ed è più difficile emanciparsi.
Il mio corpo adesso lo vivo discretamente, mi piaccio a giorni, e a giorni non mi piaccio per niente. E mi sento più carina e più desiderabile grazie ad alcune esperienze che ho avuto, però non mi sono mai tanto piaciuta, non ho mai avuto una grossa autostima, ci sto provando piano piano.
Vedere che un ragazzo ti può desiderare fisicamente e ti trova carina e desiderabile come le altre donne, ti fa pensare di non essere poi quel mostro che credevi. Ma forse qualsiasi ragazzina di 15 anni si trova brutta e inadeguata e magari a 25 si trova più carina, è un discorso di maturità e di conoscenza del proprio corpo.
Ho un istinto materno molto forte però mi sto rassegnando al fatto che non avrò dei figli, anche se non ho una patologia trasmissibile geneticamente, però non ho un compagno stabile e varie altre difficoltà. Forse i miei genitori non vivrebbero questa scelta molto serenamente, perché mi dicono che avere un figlio è una responsabilità molto grande, mi chiedono se sarei in grado, e mi fanno notare che è già difficile trovare qualcuno che mia dia una mano, figuriamoci trovare qualcuno disposto ad aiutarmi anche con un figlio nei primi anni di vita.
Lui è stato il primo che non ha dato peso alla mia disabilità, non mi vedeva come un’amica, non mi vedeva come una ragazza sfortunata, non mi vedeva come l’oggetto curioso del desiderio, ma mi vedeva come una ragazza carina. Mi faceva sentire normale, desiderabile, bella. E anche lui rispecchiava i miei canoni estetici e caratteriali. Però non era interessato ad avere una storia seria, per cui è finita. La stessa cosa può capitare in realtà anche alle altre ragazze “normodotate”, nel modo in cui sentiamo una relazione non c’è differenza. Adesso non continuerei una storia se mi rendessi conto che lui sta solo giocando, perché in quel periodo mi rendevo conto che stava giocando però mi andava bene così. Sicuramente ora non mi innamorerei più così facilmente di un uomo solo perché rispecchia quello che ho sempre aspettato.
Le persone disabili dovrebbero cominciare a uscire di più, a pensare che si possono fare varie cose compatibilmente con le proprie limitazioni, perché se iniziamo noi ad avere dei preconcetti sulla disabilità automaticamente li avranno anche gli altri. Dobbiamo smettere di dire “non ci provo con quel ragazzo perché mi dirà di no perché sono disabile”, magari ti dirà di sì…

Nino
Sono Nino, ho 30 anni, e ho la SMA 2, l’atrofia muscolo spinale. Si chiamava così, ora ci danno una sigla.
Magari in chat o con gli sms le ragazze si lasciavano andare, ad esempio con frasi “Tu sei l’uomo giusto”, “Fossero tutti come te”, poi però quando c’era da avvicinarsi, quando dal mentale, dal poetico, si doveva passare al piano fisico, si tiravano totalmente indietro.
Nessuno mi ha mai chiesto che tipo di rapporto io avessi con la sessualità, e questo un po’ mi dispiace perché mi piace far conoscere le mie problematiche, e non perché voglio farmi commiserare ma perché vorrei che la gente avesse una mentalità più aperta e si potesse rendere conto della realtà. E la realtà è che abbiamo una sessualità.
L’assistenza sessuale, la proverei? Forse sì, ma c’è sempre il fatto che mi ci devono accompagnare. A volte sarebbe più complicato farmi accompagnare e farmi venire a riprendere che la cosa in sé. Un altro aspetto che mi frena tanto è il busto, il corsetto, che me lo può togliere chiunque, ma per metterlo fino all’anno scorso lo sapeva mettere soltanto mia madre. Magari ora che lo sa fare anche mio padre, sarebbe forse più facile dire a un genitore uomo che a mia mamma di accompagnarmi da eventuali assistenti sessuali.
Quello che mi capitava con la mia ragazza era che per la gente non era mai la mia ragazza: poteva essere mia sorella, mia cugina, mia zia, l’infermiera di notte, l’infermiera di giorno, l’escort, ma non poteva mai essere la mia ragazza. Lei era in imbarazzo.
A volte invece mi è capitato che lei magari mi frequentava, eravamo un po’ più intimi, però davanti agli altri non voleva che questo si vedesse, cosa che io non riuscivo ad accettare. Ho avuto una storia di quasi un anno con una ragazza con cui ho voluto mettere da subito le cose in chiaro su quello che potevo fare e non fare. Lei ha avuto la volontà di informarsi anche con il mio fisioterapista.  

Antonio
Mi chiamo Antonio, ho quasi 33 anni. La mia disabilità è dovuta a una mielolesione, ho avuto un incidente sportivo quando avevo 16 anni e ho riportato la frattura di due vertebre cervicali e la lesione del midollo spinale.
Magari quello che posso dare adesso in un rapporto con una persona rispetto a quello che potevo dare prima è molto di meno. Questa cosa mi fa partire un po’ scoraggiato e mi sento sconfitto in partenza, il dubbio che mi rimane sempre è se quello che ho adesso da offrire può essere abbastanza per la persona che ho di fronte, è questo che mi frena nell’avere coraggio di conoscere qualcuno.
Quando ci siamo conosciuti è la stata la sua voglia di conoscermi a tutti i costi che mi ha lasciato spiazzato. Era una mia insicurezza pensare di non interessare alla persona che ho di fronte. Questo mi ha dato più fiducia in me stesso. Lui non conosceva la disabilità quindi ha imparato. Ho dovuto spiegargli come funziona la quotidianità, con le mie esigenze fisiche e fisiologiche, i miei tempi, come si va in bagno, come ci si veste. Era aggiungere a quello che emotivamente e intellettualmente gli davo un tassello in più per conoscermi completamente.
La bellezza estetica è strettamente correlata a una relazione. Non dico bellezza fisica in generale perché dipende da chi hai di fronte e da quello che cerca la persona che hai di fronte. Io, essendo limitato a livello fisico, nella bellezza mi sento inferiore. Penso di poter piacere per alcuni aspetti per altri no, però non ho la sicurezza di poter piacere al primo impatto, perché la mia sicurezza è minata dal fatto di credere di non poter arrivare fino in fondo a una relazione al 100%. A livello affettivo mi sento pronto, ma a livello fisico mi sento di mancare in qualcosa. Il rapporto con lui è iniziato che io ero già in carrozzina, quindi evidentemente questo gap della bellezza estetica associata alla disabilità lui l’aveva già superato, avendo voluto conoscermi a tutti i costi, quindi aveva superato l’impatto visivo o forse per lui non c’era neanche l’impatto visivo. Magari poi nel quotidiano io gli ho messo “i puntini sulle i” perché vedesse cosa c’era oltre la carrozzina, però il problema era già stato superato da lui a monte. Io sono passato dal movimento in assoluto al non movimento. Come aspetto estetico avevo un fisico invidiabile, ora il corpo è completamente cambiato. Ho avuto all’inizio grandi difficoltà ad accettare il nuovo corpo, sia a livello estetico sia a livello funzionale. Ho avuto anche problemi alimentari perché la non accettazione del nuovo corpo mi provocava rifiuto del cibo. Però poi sono riuscito ad accettare… anzi forse accettare non è il termine giusto… sono riuscito a viverlo questo nuovo corpo come va vissuto. Ho imparato a farlo giorno per giorno, e continuo a farlo giorno per giorno. Conosco il mio corpo ma mi dà fastidio non averne il controllo come prima. Il mio corpo lo vivo pur non potendone disporre al 100%. Lo percepisco e ne ho anche cura, perché devo preservarlo da altri tipi di decadimenti, devo stare attento a non stare troppo seduto, a idratarlo per evitare le piaghe, insomma devo farmi bello anche io. Qualcuno ogni tanto negli incontri via chat mi dice “Peccato, se non avessi questi problemi saresti un bel ragazzo”.
La cosa che mi fa un po’ sorridere è che i miei genitori vedono la figura mia, del disabile, dissociata completamente da un’ipotetica storia a livello sessuale. Per esempio una volta in discoteca ho avuto un contatto intimo con una persona che mi ha lasciato evidenti segni sul collo, ma i miei genitori hanno pensato che qualcuno mi avesse picchiato.
Mi è capitato che i miei colleghi facessero spesso battute sull’omosessualità non pensando che chi lavora con loro fianco a fianco anche se è in sedia a rotelle può avere quei gusti sessuali.

Un fenomeno a parte: i devotees
Le persone disabili, soprattutto in chat, possono venire contattate dai cosiddetti devotees.
“Il devotismo (in italiano) – spiega Giorgio Rifelli, medico, specialista in psicologia clinica – è una forma di perversione, o parafilia come si dice oggi, dove si mescolano le carte di due dimensioni diverse, quella del feticismo – perché nel devotismo c’è una particolare passione per una cosa, ad esempio per un arto mutilato o per una protesi – ma anche quella del sadismo, perché la persona disabile porta già delle mutilazioni, incarna la persona danneggiata, quindi alle fantasie del sadico porta già la soluzione. Cioè il devoto non ha bisogno di produrre una fantasia dove aggredisce e danneggia la persona, perché c’è già la persona danneggiata.
La persona disabile che è oggetto di attenzioni di un devoto, se all’inizio può essere anche contenta, nel tempo finisce per sentirsi ancora più disabile e non considerata come persona”.
“I devotees – racconta Valentina – sono secondo me la croce e la delizia delle donne con disabilità. Alcune donne disabili vedono nei devotees l’ultima spiaggia, però quasi mai queste storie diventano storie d’amore. È sicuramente un feticismo, in alcuni casi diventa una patologia psichiatrica, perché alcuni cercano solo donne amputate, sono attratti dall’amputazione o dalla menomazione o dalla paralisi, ma non dalla persona in sé. Alcuni me l’hanno detto espressamente di essere dei devoti nelle chat per disabili. Altri invece, quando avevo 16 anni, non sono stata in grado di riconoscerli perché non sapevo che esistessero.
Poi ci sono anche i caster (da to cast, ‘prendere lo stampo’), che sono attratti dalle protesi ortopediche e le indossano nel privato e girano con la carrozzina pur non essendo disabili. Ci sono anche molte donne caster.
Ci sono anche i wannabe (contrazione di want to be, ‘voler essere’) che sono coloro che vorrebbero essere disabili.
Infine ci sono i pretender che si fingono disabili non nel quotidiano ma solo nella vita privata.
C’è un po’ di tutto, e le persone dovrebbero essere informate”. 

3. Sesso, amore & disabilità

Sesso, amore & disabilità è stato presentato in anteprima nazionale al pubblico il 30 ottobre 2012 all’Auditorium Biagi di Sala Borsa a Bologna, all’interno della programmazione del Festival “Gender Bender”. Da allora si sono succedute varie proiezioni sul territorio nazionale, non ultima quella al Festival “Nati per vincere?” di Carpi, ad aprile 2013. Il documentario è stato richiesto anche per corsi all’Università di Bologna, e per corsi di formazione a esperti del settore, ed è disponibile per chiunque ne faccia richiesta.

“Salute, forse lo studio, forse il lavoro, però basta, non ci chiedete altro, perché che cosa volete? Vi si dà lo studio, la salute e il lavoro, volete anche il sesso? Cominciate a esagerare!”. Esordisce così Gabriele Viti, uno degli intervistati di Sesso, amore & disabilità, il film-documentario alla cui realizzazione ho collaborato, insieme ad Adriano Silanus, Priscilla Berardi, Raffaele Lelleri e Jonathan Mastellari, che mostra la storia di circa trenta uomini e donne, eterosessuali e omosessuali, di ogni età e stato relazionale, che si raccontano in prima persona davanti alla telecamera.
Il documentario porta per la prima volta sul grande schermo le tematiche della vita sessuale e affettiva delle persone disabili fisiche e sensoriali. All’inizio non sapevamo dove ci avrebbe condotto il progetto, non eravamo sicuri di poter trovare persone da intervistare che volessero rendersi così visibili, con nome, cognome, città di provenienza. Abbiamo lanciato un comunicato stampa per cercare intervistati, e le richieste sono state oltre le aspettative. Tre anni di lavoro, 50 ore di registrazioni video-filmate, e più di 9.000 chilometri percorsi in tutta Italia, sono diventati un docu-film di 105 minuti, che cerca di sfatare tabù, imbarazzi, silenzi, equivoci e pregiudizi. La forza del documentario è proprio il “metterci la faccia”, raccontarsi in un aspetto della propria vita intimo e riservato, per dare visibilità a un tema che passa sempre in secondo piano. Le persone disabili, le famiglie, gli insegnanti, gli educatori, gli amici, i volontari sono sempre impegnati tutti i giorni a risolvere alcune questioni pratiche: trovare ad esempio degli accompagnatori per gli spostamenti, o degli assistenti domiciliari, o non vedersi ridotte le ore dell’insegnante di sostegno… Ci si trova di fronte a barriere architettoniche, a barriere culturali, a diritti che vengono meno. Si è impegnati nella ricerca di una propria autonomia e vita indipendente, o si è preoccupati per il “dopo di noi”. Ci sono sempre questioni che sembrano avere la precedenza, e alla sessualità e all’affettività si riserva uno spazio e un tempo residuo. Invece anche le persone disabili, come tutti, vogliono e possono vivere la propria sessualità. L’essere umano tende naturalmente al piacere, al benessere fisico e affettivo, e l’idea che le persone disabili siano asessuate è stata finora un comodo alibi per risposte che la nostra società e la nostra cultura non sono pronte a dare.
Le narrazioni e le emozioni degli intervistati di Sesso, amore & disabilità sono uno strumento di informazione sia per chi non ha frequentazioni particolari con la disabilità, sia per chi la disabilità la vive quotidianamente. Spesso le persone disabili hanno assorbito dall’ambiente socio-culturale in cui sono immerse tanto pietismo e tanto distacco che finiscono per essere le prime a discriminare se stesse e a non mettersi in gioco. A volte non è neppure l’ambiente in cui vivono ad affievolire le speranze e l’idea di proporsi come partners, ma il bombardamento di immagini, commenti, opinioni che mostrano come ideale una bellezza, una perfezione e uno stile di vita che nel paragone con se stessi sembrano irraggiungibili.
Sesso, amore & disabilità tocca anche tanti temi ricorrenti nel mondo della disabilità: ad esempio la famiglia, l’autonomia, l’autodeterminazione di sé, la diversità dei corpi, la bellezza, le professioni educative. Non dimentichiamo che per trovare un/a partner servono occasioni, bisogna uscire, incontrare gente sempre nuova, anche più volte, per consolidare i rapporti e farsi conoscere. Ma molte persone che hanno serie limitazioni della mobilità di occasioni per uscire ne hanno poche, non hanno tanti accompagnatori e vivono in una notevole mancanza di privacy. Di solito si pensa la persona disabile inserita in un contesto assistenziale e riabilitativo, con dei Servizi e delle associazioni ad hoc, con degli spazi dedicati, degli adattamenti, dei bisogni speciali. Si fa fatica a immaginarla in un contesto del tutto normale. Il documentario porta in scena invece proprio l’aspetto della normalità, quei lati della vita e dei sentimenti che appartengono a tutti. O forse potremmo dire che porta in scena la diversità come un aspetto che riguarda tutti.
La conoscenza è la chiave di tutto. La visibilità. Ad esempio quando una coppia in cui c’è una persona con disabilità gira a passeggio con il partner, nessuno pensa che quello sia il partner: per tutti è la badante o al massimo un amico. Katia, una ragazza sorda, lamenta invece l’“audismo” delle persone udenti, che per comunicare vogliono sempre solo sentire, anche quando a parlare sono persone sorde, e non accettano di fare quel piccolo sforzo che sarebbe necessario per socializzare e unire i due mondi. Sulle persone non vedenti invece si possono avere timori di trovarsi con una persona totalmente dipendente da altri. Ci sono tanti dubbi, tante paure, tante distanze. Occorre conoscere e farsi conoscere, abituarsi alla e nella diversità. Sesso, amore & disabilità permette questa conoscenza, con volti, storie, sguardi, sorrisi, risate. La voce intima e non interpretata dei protagonisti è accompagnata da quella dei loro amici, familiari e partner e da quella di esperti e il video è montato come un collage in cui le interviste sono proposte lungo un percorso che tocca diversi temi, introdotti da brevi riflessioni fuori campo, dall’innamoramento alle difficoltà fisiche, dalla vita di coppia alle possibilità tecnologiche e mediche, dalla maternità agli stereotipi della società.
Sesso, amore & disabilità è promosso e realizzato dall’Associazione Biblioteca Vivente di Bologna, in collaborazione con le associazioni Centro Documentazione Handicap di Bologna ed Equality Italia, e con il patrocinio istituzionale della Regione Toscana, della Regione Veneto, della Provincia di Ferrara, della Provincia di Genova, della Provincia di Gorizia, della Provincia di Macerata, della Provincia di Milano, del Comune di Felizzano (AL), del Comune di Bologna, del Comune di Napoli, del Comune di Sassari, del Comune di Udine, del Comune di Venezia e dell’Ospedale Riabilitativo di Montecatone (Imola, BO).
Il documentario è stato realizzato completamente attraverso il volontariato e il crowdfunding, cioè il finanziamento dal basso da parte di persone che hanno creduto al progetto e hanno voluto versare una quota per contribuire. Il DVD ha sottotitoli in italiano per le persone non udenti, e in inglese, francese, spagnolo per una distribuzione europea. Inoltre è accompagnato da una traccia di audiodescrizione per le persone non vedenti.
L’Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali (UNAR) della Presidenza del Consiglio dei Ministri ha riconosciuto il progetto come “iniziativa di rilievo nell’ambito delle attività di prevenzione e contrasto delle discriminazioni”.

Per saperne di più:
valeria@accaparlante.it 

1. Un filo conduttore di trent’anni


A cura di Valeria Alpi

“Sesso e handicap: a quanti si rizzano i capelli sentendo un simile accostamento? Quanti si vestono di teorie e moralismi per non ammettere che le relazioni affettive e sessuali fanno parte integrante delle persone disabili come di qualsiasi individuo? […] Salvo iniziative sporadiche però, il tema delle relazioni affettive e sessuali delle persone handicappate è tutt’oggi tabù e chi trasgredisce questa regola desta ancora grande scalpore […] Con queste premesse abbiamo iniziato il lavoro di raccolta di materiale riguardante la sessualità a cui è seguita la formazione di un gruppo di studio come risposta all’esigenza di conoscere e approfondire un tema così sentito da ciascuno di noi.
E così abbiamo scoperto che sul problema dei rapporti interpersonali, sui problemi della tenerezza, dell’amore, della sessualità, tutti hanno difficoltà a entrare nella mischia, ma che è anche comodo utilizzare queste difficoltà per insabbiare ancora una volta la sessualità dei ‘diversi’. La ricerca del gruppo non coinvolge soltanto le persone handicappate, vogliamo arrivare dentro la cosiddetta ‘norma’ non soltanto per mettere in discussione la relatività di questo termine, ma sopratutto per comprendere le vere motivazioni che spingono tanti ‘normali’ a reazioni così diverse di fronte alla vita sessuale e affettiva di chi non rientra nei canoni. Capire i perché di chi nega, prima di tutto a se stesso, l’esistenza di un corpo vivo e teso verso gli altri; chi invece, per contro, coglie di questa persona solo l’oggetto di cure riabilitative; chi ha orrore di pensare il proprio figlio handicappato mentre fa l’amore; […] e l’impossibilità di compiere l’atto sessuale, come se l’amore avesse un solo binario in cui poter correre, e i soliti modelli da ricalcare: ‘lui’ forte e conquistatore, ‘lei’ bella e oca, pronta a essere rapita”.
Ammettiamolo: a parte la parola “handicappato” che forse ai nostri giorni stona un po’, queste righe avrebbero potuto benissimo essere state scritte solo qualche settimana fa. Invece sono estratte dall’articolo intitolato “Sesso negato” di Maria Cristina Pesci, medico, psicoterapeuta e sessuologa, che inaugurava il numero “uno” (così era scritto sulla copertina dell’epoca) del primo numero della rivista “HP-Accaparlante” del 1983. La rivista compie quest’anno trent’anni di vita, e devo dire mi emoziona avere questo filo conduttore con il 1983: proprio per il compleanno, riproponiamo il tema della vita affettiva e sessuale delle persone disabili, tema che ha contraddistinto la storia del Centro Documentazione Handicap e della rivista fin dai suoi esordi. Allo stesso tempo, questo parallelismo è preoccupante. Dopo trent’anni possiamo ancora ripetere gli stessi concetti: la sessualità delle persone disabili come un tabù, come un qualcosa che disorienta, fa paura, crea dubbi, ansie, aspettative…; e la diversità dei corpi, ancora “recintati” in tempi, modalità e luoghi “non normali”…
Sono passati trent’anni e questi contenuti sono ancora di potente attualità, anzi necessitano di tornare prepotentemente di attualità. Eppure, potreste obiettare, se ne parla, se ne parla molto, mai come in quest’ultimo anno se ne è parlato così tanto. È vero, il tema della vita affettiva e sessuale delle persone disabili è tornato di moda: innanzitutto con www.loveability.it, un sito internet che raccoglie le storie d’amore, o il desiderio di storie di amore, delle persone disabili o di chi ruota intorno alla vita di una persona disabile; e poi con la campagna sull’assistenza sessuale, al fine di introdurre anche in Italia alcune figure professionali esistenti già in altri Paesi europei. Entrambi gli argomenti sono rimbalzati su tutti i massmedia, con un tam tam ininterrotto sul fatto che le persone disabili non sono angeli o bambini, non sono persone asessuate, ma hanno – come tutti – il diritto a una vita affettiva e sessuale. La parola “diritto”, anzi “diritto di scelta”, è arrivata sui giornali, nelle trasmissioni televisive, nei siti internet, nei blog, on air sulle frequenze radiofoniche, come se prima non ci fosse stato nulla e ora invece si dovesse pretendere un diritto a tutti i costi. Ma parlare di sessualità tocca corde profonde in chi ascolta, perché la sessualità dell’altro coinvolge anche noi stessi, ci mette in discussione, risveglia domande su chi ci sta di fronte e le riflette su di noi. Siamo pronti a rispondere a noi stessi, alle persone disabili e ai loro familiari? Siamo pronti a superare e ad aiutare a superare i pregiudizi, le paure, le difficoltà, i silenzi? Occorre tornare, allora, al nostro filo conduttore, che per trent’anni ha costruito cultura e formazione sui temi dell’affettività e della sessualità delle persone disabili. Occorre accompagnare i nuovi temi emergenti e la voglia delle persone disabili di uscire allo scoperto con le loro storie e le loro emozioni, con un percorso culturale che permetta di soffermarsi su alcuni nodi cruciali della questione: esiste una sessualità normale e una disabile, o esiste solo la sessualità? Quali emozioni e sentimenti le ruotano intorno, quali desideri, paure, condizionamenti? Quale creatività possiamo mettere nei rapporti? Come aiutare un corpo “recintato” e “sminuzzato” in più parti a conoscersi e a esprimersi come un intero? Se non riusciamo a portare avanti un accompagnamento culturale insieme alle proposte di nuove tematiche emergenti, rischiamo paradossalmente di rimanere indietro, e di avere dei vuoti di senso. È vero, i temi sono urgenti, ma già la saggezza popolare fa notare che la fretta è una cattiva consigliera. Come Centro di Documentazione Handicap in tutti questi anni non ci siamo mai stancati di fare informazione, di raccogliere documentazione, e di attivare formazione e consulenza per persone disabili, famigliari, educatori e operatori, sui temi dell’affettività e della sessualità delle persone disabili. Il lungo e approfondito lavoro monografico Le passeggiate sono inutili. Suggerimenti possibili e impossibili nel confronto tra sessualità e handicap, di Donata Lenzi e Maria Cristina Pesci (“HP-Accaparlante”, 2001) ne è la prova. Ed eccoci ancora una volta qui, a riflettere su queste tematiche, proponendo risposte o suggerendo altre domande su cui ri-partire e lavorare. Questa monografia si rivolge a tutti, agli esperti del settore, agli educatori, agli insegnanti, agli operatori, ai volontari, alle famiglie, alle stesse persone disabili, ma anche a chi non ha particolari conoscenze del mondo della disabilità. È una voce narrante – proprio a partire dalle parole delle persone con disabilità – che vuole suggerire immagini, come delle vere e proprie istantanee fotografiche, per poter ripensare i nostri schemi mentali e guardare con nuovi occhi chi ci sta di fronte. La monografia si sviluppa idealmente in tre parti, a cominciare dalle storie di  Sesso, amore & disabilità, un lungo lavoro di documentazione video filmata cui ha collaborato anche il Centro Documentazione Handicap. Il film-documentario, con la regia di Adriano Silanus e il coordinamento scientifico di Priscilla Berardi, porta per la prima volta sul grande schermo le tematiche della vita sessuale e affettiva delle persone disabili, senza pietismi né retorica, e senza avere paura delle parole e dei pensieri. La seconda parte della monografia pone, invece, al centro dell’attenzione il corpo con disabilità, attraverso il racconto di alcune esperienze laboratoriali condotte all’interno del Progetto Calamaio. L’ultima parte della monografia affronta infine le differenze di genere, l’importanza dell’educazione sessuale, e i nuovi temi emergenti, come l’assistenza sessuale, attraverso la voce di chi lavora fuori dall’Italia.