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5. “Chiudi gli occhi e guardami”: gli sguardi degli altri e gli sguardi delle famiglie sul corpo

Il tema delle immagini culturali ci porta per parallelismo al tema degli sguardi. I limiti delle altre persone ci fanno scoprire i nostri limiti. Cosa guardiamo allora? Come? Perché se frequentiamo una persona disabile rischiamo di vedere solo la fragilità, la dipendenza, e non il suo essere uomo o donna? Perché abbiamo bisogno di consenso e approvazione da parte degli sguardi degli altri per sentire legittimata la relazione di coppia con una persona che ha una diversità? Cosa succede se sono gli stessi genitori a vedere il figlio o la figlia come diversi, e a ritenere impossibile che un altro o un’altra possano desiderarli? Se lo sguardo dei familiari sul corpo è squalificante? Ne abbiamo parlato con Giorgio Rifelli, medico, specialista in psicologia clinica, direttore del Servizio di Sessuologia del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Bologna, dove insegna. 

Perché si fa fatica a parlare di sessualità, nonostante il mondo mediatico sia sovraccarico di immagini afferenti la sessualità (e i suoi aspetti commerciali)?
La sessualità è un territorio a elevato rischio, è un argomento particolarmente coinvolgente. In genere si colpevolizza molto l’assetto religioso di uno Stato. In Italia si colpevolizza la Chiesa, in realtà la Chiesa è solo un falso bersaglio. La sessualità è in sé un argomento difficile e potenzialmente disordinante. E siccome sulla sessualità si fondano le relazioni sociali, allora la ragione sostanziale per cui c’è sempre un atteggiamento di cautela nei confronti della sessualità nasce proprio dal timore – seppure inconsapevole – di mettere a rischio le basi strutturanti della società. 

Perché si fa fatica a inserire la persona disabile dentro al tema della sessualità, e quali sono le difficoltà delle persone disabili a trovare un partner?
Il problema non riguarda solo la disabilità in sé, ma è più generale. Innanzitutto siamo una cultura che privilegia la vista come organo di scambio relazionale, contrariamente ad altre culture, per esempio quella ebraica che privilegia la parola. Nel momento in cui noi tendiamo a privilegiare la vista, e quindi l’immagine, il primo impatto relazionale è quello che io vedo. Quindi quello visivo è il primo momento in cui si è o no interessati all’altro. Che poi da qui nasca o non nasca un interesse affettivo o sessuale può essere secondario. Per cui ci ritroviamo ad avere non solo l’emarginazione che il disabile tendenzialmente subisce, ma anche questa emarginazione estetica. E quindi prima di accedere alla persona, perché poi ovviamente i legami affettivi e le relazioni non crescono esclusivamente sull’aspetto fisico, il più delle volte in realtà possono partire da lì ma poi continuano a crescere sugli aspetti della personalità, del carattere, delle ideologie, delle scelte, ecc., occorre avere una certa frequentazione del mondo della disabilità, per poter capire cosa c’è oltre la disabilità. E questo rende più difficili i rapporti e i possibili affetti che possono nascere. C’è anche un altro equivoco, cioè che la sessualità viene interpretata più facilmente come attività sessuale, mentre nella sessualità c’è anche una componente affettiva, una componente emotiva, c’è la propria identità di uomo, di donna. 

Una volta però che le persone si sono conosciute, al di là della disabilità, cosa ulteriormente ostacola la vita di coppia?
Nella relazione c’è di fatto un inganno sostanziale, cioè noi non relazioniamo con le persone ma con quello che le persone secondo noi rappresentano. Quindi alla partenza di un rapporto noi abbiamo a che fare con i nostri fantasmi, non con quello che è l’altra persona. Per cui la difficoltà è andare oltre le proprie immagini o quello che io attribuisco all’altro. Questo è un altro degli elementi che rendono più difficile una relazione con una persona disabile, perché si fa fatica a mettere addosso i propri fantasmi, le proprie fantasie o parte di sé, nella figura di una persona che porta una disabilità. In qualche maniera ci si cerca abbastanza simili e ci si esclude a priori. E quindi il disabile diventa persona senza sesso, asessuata, che poi è anche il problema del rapporto genitoriale ed educativo. Come mai, ci si chiede, una persona che non ha disabilità visibili si interessa a una persona con disabilità visibili? Se questo interesse non è motivato da ragioni infermieristiche, dal bisogno esclusivo di proteggere e di curare, allora si può cominciare a costruire insieme qualcosa, una relazione paritetica. 

Quali sono le paure delle persone disabili?
Le paure delle persone con disabilità di costruire una coppia o realizzare un’esperienza anche semplicemente sessuale nascono soprattutto dalla difficoltà che spesso sono proprio gli stessi disabili i primi a non accettare la propria disabilità. Il primo a essere cauto e ad autoescludersi in queste situazioni è proprio il disabile, ovviamente favorito poi da tutta una serie di dati del contesto e da esperienze frustranti. 

Come reagiscono i genitori quando emerge la sessualità dei loro figli?
In genere la sessualità dei figli mette in gioco la sessualità dei genitori. Quindi la maggiore attenzione quando lavoriamo con i genitori è quella di far capire loro che non si devono preoccupare della sessualità dei loro figli, ma di quanto quella sessualità metta in discussione il loro modo di vedere le cose. Ma questo vale anche per gli educatori che ad esempio lavorano nei centri: soprattutto là dove ci si confronta con la disabilità psichica è facile che la sessualità emerga, ad esempio col fatto che un ragazzo si masturba in mezzo agli altri. Davanti a questo evento non abbiamo particolari strumenti se non quelli tipici dell’educazione, cioè insegnare che certe cose si fanno in un posto e non in un altro. Ma di fatto è il corpo degli educatori che entra in crisi o in panico, perché non ha strumenti, e non ha strumenti soprattutto perché non è in prima persona abituato ad affrontare la cosa. Il problema nasce proprio dalla difficoltà a organizzare la propria sessualità e il proprio rapporto con la sessualità. Per cui si è messi totalmente in gioco, è il caso in cui il re è nudo.
Ufficialmente le famiglie tendono a infantilizzare molto il figlio, e quindi a ignorare il problema. Purtroppo a volte in alcune famiglie si interviene al contrario. Ci sono mamme che masturbano i propri figli. Questo da un punto di vista umano è comprensibile, è un prendersi in qualche modo cura, però da un punto di vista educativo è totalmente scorretto. 

Quanto incide lo sguardo delle famiglie sul corpo con disabilità?
Penso per esempio a delle osservazioni sociologiche sui ruoli, per cui nelle famiglie si costruiscono delle immagini stereotipate per ciascuno dei componenti, che finiscono per essere delle identità imposte e ricercate da chi le ha subite: ci sono ad esempio i figli che sono maldestri e saranno sempre maldestri, ci sono i figli che si sporcano a tavola, per cui saranno sempre quelli che si sporcano a tavola. Per cui c’è un identikit che la famiglia costruisce e verso cui i componenti tendono ad andare. Addirittura questo meccanismo lo si usa anche per spiegare la genesi dei criminali, cioè l’ultimo della classe deve essere l’ultimo della classe per tutta la vita e quindi cercherà sempre di identificarsi in una figura negativa. Una famiglia che è squalificante verso un corpo, o addirittura rimuove la presenza di un corpo, favorisce anche nel figlio la rimozione del corpo e questo vale per tutti, non solo per le persone disabili. Di fatto, soprattutto nella patologia sessuale, il rapporto col proprio corpo è un rapporto spesso conflittuale e nasce da un atteggiamento distanziante della famiglia rispetto al corpo. Abbiamo, ad esempio, degli adulti trentenni che non si lavano i genitali o che arrivano a trent’anni con una fimosi perché non si sono mai guardati. Quindi lo sguardo della famiglia sul corpo vale sia ovviamente per chi ha una disabilità sia per chi non ce l’ha. È vero che i figli sono tutti belli a mamma sua, ma in cuor suo la madre sa che sono come sono. A volte è un atteggiamento che ipertrofizza la negatività, è squalificante.
Inoltre, come dicevo prima, nella nostra cultura occidentale lo sguardo è il senso privilegiato, rispetto alla parola, ed è lo sguardo per noi la via attraverso cui si strutturano le relazioni. Quindi parlare di sguardo delle famiglie non è solo una metafora, è un dato molto reale. 

Paradossalmente la famiglia è quella che in qualche modo è sempre sul corpo della persona disabile, per l’igiene quotidiana o per gli spostamenti, quindi quel corpo lo percepisce molto bene eppure nello stesso tempo lo rimuove…
C’è questa grande contraddizione: ce l’ho sempre davanti al naso ma non lo vedo. Ho bisogno di rielaborarlo. D’altra parte credo che sia il problema maggiore di tutte le persone che non hanno pratica di disabilità, perché la prima cosa che si fa è proprio quella di far finta che non ci sia. A volte anche gli stessi disabili tendono a fare così, ad esempio le persone non vedenti usano moltissimo la parola vedere.
Lo sguardo dei familiari è quello che costruisce l’identità corporea, o ne favorisce la costruzione.
Proprio attraverso lo sguardo noi rileviamo, questo per un problema di percezione, le incongruenze, cioè siamo alla ricerca di una sorta di armonia che ci tranquillizzi. Per cui l’occhio cade facilmente su quello che non è nell’ordine delle cose. Abbiamo il “vizio” percettivo per cui possiamo fare a meno di notare una persona che fisicamente si presenta come apparentemente normale, ma basta una cosa anche piccolissima e la notiamo.
Una mia collaboratrice una volta, per un concorso, scrisse questo verso: “Chiudi gli occhi e guardami”. Credo che in questa frase ci sia la chiave di tutto: per poter realizzare veramente un rapporto con l’altro, devo andare oltre quello che vedo, perché quello che vedo mi tradisce perché si riempie dei miei fantasmi. In qualche maniera nelle famiglie succede che non si va oltre, e quindi si rimane bloccati intorno a quella che può essere l’immagine immediata. Subentrano anche tante dinamiche, ad esempio il fatto che il figlio possa rappresentare una produzione non ideale, quindi i sensi di colpa che si riversano su questo aspetto; e le rimozioni sul corpo diventano anche più facili, senza rendersi conto che poi si fa peggio di quello che si potrebbe fare. 



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