di Valeria Alpi
Un paio di anni mi fu chiesto di intervenire sul tema della violenza alle donne con disabilità. Mi sono sentita subito in grande imbarazzo perché il tema mi sembrava totalmente sconosciuto e invisibile. Eppure sono una donna, sono disabile, ho tante amiche con disabilità, che a loro volta conoscono altre donne disabili; ho lavorato per un decennio, tra le varie attività, a uno sportello informahandicap dove incontravo persone disabili e le loro famiglie, ma anche gli educatori, gli assistenti domiciliari, gli operatori dei servizi socio assistenziali, gli insegnanti, i vicini di casa, insomma… qualunque persona si venisse per un qualche motivo a trovare a contatto con la disabilità. Mai una volta qualcuno mi ha segnalato un caso di violenza a una donna disabile, né per contatto diretto, né per sentito dire (“Sai che ho saputo che…”). Inoltre sono giornalista, mi sono occupata soprattutto di maternità delle donne disabili, sia di quelle che hanno figli sia di quelle che desiderano averne; mi occupo quotidianamente di temi sociali, ci scrivo sopra, cerco di veicolare una buona cultura della disabilità, ma niente: la violenza continuava per me a essere silenziosa e invisibile. Tranne ovviamente qualche caso clamoroso sbattuto in prima pagina dai mass media tradizionali, ad esempio donne con deficit intellettivi segregate in casa e abusate, oppure abusate nelle strutture residenziali.
Poi mi sono guardata intorno, e ho scoperto che alcune forme di violenza sono sempre state sotto i miei occhi, anche se si tratta di forme più subdole, meno evidenti, meno eclatanti perché non portano alle percosse, alle ferite, agli occhi neri, ai lividi, allo stupro. La violenza che intendo io è quella che nega alla donna disabile il diritto all’adultità, a essere riconosciuta come una donna adulta che possa prendere anche qualche decisione sulla propria vita, banalmente partendo dalla maglietta che si vuole indossare per uscire di casa. Ci sono genitori o operatori che vestono appositamente male la figlia o donna disabile, in modo che non possa risultare attraente per gli altri, “perché non si sa mai, un qualche male intenzionato che si voglia approfittare di lei ci può essere e dopo sono guai, soprattutto se resta incinta”. Ci sono genitori o operatori che non portano mai la figlia o donna disabile dalla parrucchiera, “perché tanto anche se le sistemo i capelli cosa cambia? Non la vorrà comunque nessuno disabile com’è”. Ci sono genitori o operatori che non depilano le gambe della figlia o donna disabile, anche se è estate e si indossano vestiti più corti, “perché tanto sono gambe disabili, sono comunque fatte diversamente, un pelo in più o in meno non fa la differenza”. Ci sono genitori o operatori che mandano al lavoro la figlia o donna disabile coi pantaloni macchiati “tanto non se ne accorge nessuno, si nota solo che è disabile mica come è vestita”. Ci sono genitori o operatori che fanno indossare il pannolone alla figlia o donna disabile “perché è più comodo, non devo portarla sempre in bagno che si fa fatica”. Ci sono genitori o operatori che non permettono alla figlia o donna disabile di avere la possibilità di decidere come utilizzare anche solo un euro della propria pensione di invalidità. Ci sono genitori o operatori che si rifiutano di comprare alla figlia o donna disabile degli ausili per migliorare la sua autonomia, “tanto autonoma non lo sarà mai fino in fondo”. Ci sono donne disabili che vestiranno con la tuta da ginnastica per tutta la vita perché la tuta facilita le operazioni di chi si deve prendere cura di lei.
Quanti casi conosciamo di questo tipo? Quanti ne abbiamo visti? Tantissimi.
Dove risiede la violenza? Proprio nel concetto di invisibilità: perché alla base di tutte le forme di violenza c’è essenzialmente la violazione di un diritto umano fondamentale, quello di essere vista come persona e come donna. Essere visibili vuol dire essere riconosciute come persone capaci e aventi diritto a esprimersi ovunque: in ambito familiare, scolastico, sociale, professionale.
E badate bene: il rischio di una violenza di questo tipo non riguarda solo le donne con disabilità gravi, che compromettono seriamente l’autonomia, il movimento, il linguaggio o la capacità intellettiva. Mi ricordo, ad esempio, che frequentavo le scuole medie e il seno mi diventò prosperoso. Chiesi a mia madre di andare insieme a comprare un reggiseno, perché senza mi sentivo in imbarazzo. E la risposta di mia madre fu “Tu non ne hai bisogno”. Fino a quel momento la mia disabilità motoria era stata un piccolo “accessorio” della mia vita: avevo comunque una buona autonomia, potevo a mio modo camminare, vestirmi da sola, andare in bagno da sola, mangiare da sola. Studiavo, andavo bene a scuola, volevo fare l’Università, sapevo che un giorno avrei lavorato come tutti gli altri, sapevo che un giorno avrei pure guidato l’automobile, con i giusti ausili al volante. Avere amici, giocare con loro, uscire con loro non era mai stato un problema. Mi sentivo destinata a una vita molto normale, con qualche difficoltà motoria in più, ma del tutto normale. Cominciai invece a capire che agli occhi dei miei famigliari la mia vita sarebbe stata normale fino a un certo punto, cioè in tutto ma non nell’essere una donna completa.
La donna con disabilità non è una donna, è una persona disabile. Punto e basta. Dovrà passare la sua vita a gestire la sua disabilità, ma non a gestire la sua femminilità. Ma se non si parte dall’educazione al proprio corpo, alla propria espressione della sessualità, come si può riconoscere la violenza? Penso alle donne citate prima: forse se un giorno qualche male intenzionato abusasse di loro, saprebbero riconoscere ciò che sta loro succedendo? Sessualità non è il sesso, sessualità è comunicazione, è la parte di se stessi che si decide di comunicare agli altri: può essere la scelta di un vestito, ma anche di una canzone, di un piatto che si cucina per l’altra persona, di un braccialetto, di una pettinatura,… Bisogna lavorare sul diritto all’accesso alla conoscenza del proprio corpo e alla comunicazione di quello che si è. Occorre un grande lavoro di informazione, sensibilizzazione e formazione, a più livelli diversi: un lavoro culturale con le famiglie, gli educatori, gli insegnanti, gli operatori, gli assistenti domiciliari, i volontari,… Perché la donna con disabilità è perfettamente legittimata a richiedere di essere vista in quanto donna.
Continua a leggere:
- La vie en rose
- 1. Diventare organismi ricettivi
- 2. Prendersi cura delle inevitabili specificità
- 3. Persone e modalità della violenza
- 4. Il Soccorso Rosa: quando le linee guida necessitano di innovazione
- 5. Disponibilità, rapidità e senso del limite: una storia di accoglienza a Cascina Biblioteca
- 6. Integrare la lotta contro la violenza e la lotta contro le discriminazioni
- 7. La violenza dell’invisibilità (Pagina attuale)
- 8. Donne con disabilità e discriminazione multipla
- 9. L’importanza delle Convenzioni per i diritti umani
- 10. Fior di Loto: le reti informali per rispondere all’emergenza
- 11. Il bisogno di essere considerate come le altre, anche nei casi di violenza
- 12. La Rete delle donne AntiViolenza Onlus (RAV) di Perugia
- 13. Ripensare le politiche pubbliche e il ruolo dei servizi
- 14. Accesso negato: un progetto europeo su donne disabili e servizi di supporto